Archive pour septembre, 2014

DOBBIAMO RIVESTIRCI DELLA GIOIA CRISTIANA – (anche Paolo)

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LA GIOIA CRISTIANA

(Pedron Lino)

DOBBIAMO RIVESTIRCI DELLA GIOIA CRISTIANA

La gioia è il dono che il cristianesimo ha fatto al mondo. Tutto il nostro essere è fatto per la gioia. « Non si può trovare uno che non voglia essere felice » (s. Agostino). « Norma suprema di condotta, criterio discriminante del bene e del male è la felicità: uno fa bene quando tende alla felicità, fa male quando tende a metterla in pericolo; ha diritto a tutto ciò che è necessario per arrivare alla felicità ed ha il dovere di fare tutto quello che occorre a tale scopo » (G. B. Guzzetti). Ma c’è anche un falso modo di intendere la gioia. « Non è certo che tutti vogliano essere felici; poiché chi non vuole avere gioia di Te, che sei la sola felicità, non vuole la felicità » (s. Agostino).
Nonostante le deviazioni possibili e facili per l’uomo storico, la gioia è richiesta dalla natura stessa dell’uomo, è un suo bisogno, è un suo diritto.
Quel che è vero per ogni uomo lo è a maggior ragione per il cristiano. Egli deve avere la sua tipica gioia, ed essa è per lui un dovere. Deve cercarla con impegno senza darsi per vinto finché non l’abbia trovata.
Il dovere della gioia nelle Scritture
« Possa tu avere molta gioia! » è il saluto rivolto dall’angelo a Tobia (Tb 5,11). E il Siracide aggiunge: « Non abbandonarti alla tristezza, non tormentarti con i tuoi pensieri. La gioia del cuore è la vita per l’uomo, l’allegria di un uomo è lunga vita! (Sir 30,22-23). « Dio ama chi dona con gioia » (Sir 35,11; 2Cor 9,7).
Gesù insiste molto sulla gioia: « Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena » (Gv 15,11). Prega per i suoi discepoli « perché abbiano in se stessi la pienezza della sua gioia » (Gv 17,13). Si premura di assicurarli che la loro tristezza per la sua passione e morte si cambierà in gioia quando lo vedranno risuscitato e glorioso: « Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia… Voi ora siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia » (Gv 16,20-23). Li esorta a pregare il Padre per provare la gioia di essere esauditi: « Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena » (Gv 16,24). Gesù si esprime con tenerezza e con forza perché chi lo segue comprenda che la proposta di vita cristiana, che passa attraverso la croce, ha come sfondo e traguardo la gioia. È terribilmente falsa la presentazione del cristianesimo come « nemico della gioia » (Anatole France) o « maledizione della vita » (Nietzsche). San Paolo esorta i cristiani a conservare sempre e ovunque la gioia: « Fratelli miei, state lieti nel Signore » (Fil 3,1); « Rallegratevi nel Signore; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini » (Fil 4,4-5); « Il regno di Dio… è giustizia, pace, e gioia nello Spirito Santo » (Rm 14,17), E l’apostolo giustifica questa sua insistenza sulla gioia del cristiano appellandosi proprio alla volontà di Dio: « State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie: questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi » (1Ts 5,18).
Il cristiano deve essere gioioso perché lo Spirito di Dio produce in lui la gioia: « Il frutto dello Spirito è amore, gioia… » (Gal 5,22). Illuminata dalla parola di Dio e dalla sua grazia, la vita dei cristiani diventa una festa: essi sono davvero la Pasqua del mondo.

La tradizione del pensiero cristiano
Gli Atti degli apostoli descrivono così i primi cristiani: « Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo » (At 2,46-47).
Tra i primi testi cristiani, il Pastore di Erma ci regala questa stupenda pagina: « Caccia da te la tristezza perché è sorella del dubbio e dell’ira. Tu sei un uomo senza discernimento se non giungi a capire che la tristezza è la più malvagia di tutte le passioni e dannosissima ai servi di Dio: essa rovina l’uomo e caccia da lui lo Spirito Santo… Armati di gioia, che è sempre grata ed accetta a Dio, e deliziati in essa. L’uomo allegro fa il bene, pensa il bene ed evita più che può la tristezza. L’uomo triste, invece, opera sempre il male, prima di tutto perché contrista lo Spirito Santo, fonte all’uomo non di mestizia ma di gioia: in secondo luogo perché tralasciando di pregare e di lodare il Signore, commette una colpa… Purificati, dunque da questa nefanda tristezza e vivrai in Dio. E vivranno in Dio quanti allontanano la tristezza e si rivestono di ogni gioia » (Pastore di Erma. Decimo precetto).
San’Ignazio di Antiochia in viaggio verso Roma dove morì martire nel 107 d. C. scrive ai Romani: « È bello tramontare al mondo per il Signore e risorgere in Lui… Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio… Potessi gioire delle bestie per me preparate e mi auguro che mi si avventino subito ».
Il vescovo san Policarpo (+155) nell’affrontare il martirio « era pieno di coraggio e allegrezza e il suo volto splendeva di gioia » (Martirio di Policarpo. XII, 1).
I Padri del deserto e i dottori della Chiesa d’Oriente ponevano come ottavo vizio capitale la tristezza peccaminosa che è l’opposto della gioia cristiana.
San Nilo l’Antico scriveva: « La dolcezza dello spirito nasce dalla gioia mentre la tristezza è come la bocca del leone che divora l’uomo malinconico » (Detti dei padri del deserto).
La gioia è dunque un dovere per il cristiano: « È necessario che chiunque voglia progredire abbia la gioia spirituale » (s. Tommaso d’Aquino). Perciò è certo che il cristiano deve cercare la sua gioia, deve possederla. Nel fare questo non solo non pecca, ma compie giustamente la volontà di Dio. E appare nel mondo come l’uomo veramente realizzato mentre egli stesso si accorge quanto sia beata la sua condizione paragonata a quella di coloro che si dibattono disperatamente nella condizione del non-senso della vita.

DOV’È E CHE COS’È LA GIOIA CRISTIANA
La gioia dell’amore di Dio
« La gioia è causata dall’amore » (s. Tommaso d’Aquino). Gioia e amore camminano insieme. Chi non ama non può essere gioioso. La gioia è assente dove sono presenti l’egoismo e l’odio. La disperazione nasce dall’assenza dell’amore.
La gioia cristiana è una ridondanza dell’amore di Dio: non è una virtù distinta dall’amore, ma è un’effetto dell’amore. Questa precisazione non è inutile, ma indispensabile e fondamentale perché ci svela il motivo del fatto che molti cercano la gioia e non la trovano. Essi la cercano invano perché pensano che essa sia reperibile per se stessa. La gioia non ha consistenza in se stessa: ha la sua sorgente nell’amore, è un raggio dell’amore. E la sorgente dell’amore è Dio: « Dio è amore » (1Gv 4,8).
La gioia spirituale
« La gioia piena non è carnale, ma spirituale » (s. Agostino). Tutto ciò è verissimo perché la gioia cristiana è una gioia di Dio, una gioia che è frutto dello Spirito di Dio che abita in noi (Gal 5,22). Tuttavia la gioia cristiana afferra, promuove, illumina e intensifica le diverse gioie dell’uomo. Così si hanno le gioie della verità, del cuore, della bellezza, dei ricordi, delle attese, ecc. La gioia spirituale ha un riverbero esteriore che illumina tutto l’essere umano, lo rende amabile e affascinante. Fa del cristiano un bagliore visibile della Bellezza invisibile, una manifestazione concreta dell’uomo risolto in positiva armonia, e una attrazione sicura per tutti coloro che ancora camminano nel buio della tristezza e dell’inquietudine.

DIO È LA NOSTRA GIOIA
La gioia di Dio nell’Antico Testamento
L’AT è un preludio alla gioia cristiana. « Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio » (Is 61,10). Il pio israelita ha motivi molteplici per esultare nel suo Dio.
1 – Il primo motivo viene dall’alleanza per cui Israele è popolo eletto, scelto per un amore singolare, sicché sente Dio come il « suo Dio » e si sente popolo appartenente a Lui: « Tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri » (Dt 7,6-8). « Stabilirò la mia dimora in mezzo a voi, e non vi respingerò. Camminerò in mezzo a voi, sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo. Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto; ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto camminare a testa alta » (Lv 26,11-13). Dio ama il suo popolo « di un amore eterno » (Ger 31,3) di un amore « forte come la morte » (Ct 8,6), di un amore tenerissimo come quello di una madre per il suo bambino (Is 49,15) e come quello di un padre verso il proprio figlio primogenito (Es 4,22). Da questa alleanza e da questo rapporto d’amore scaturisce la gioia. « Esultino e gioiscano in te quanti ti cercano » (Sal 40,17). « Acclamate al Signore, voi tutti della terra, servite il Signore nella gioia, presentatevi a lui con esultanza… Varcate le sue porte con inni di grazie, e i suoi atri con canti di lode, lodatelo, benedite il suo nome; poiché buono è il Signore, eterna la sua misericordia, la sua fedeltà per ogni generazione » (Sal 100). Dio stesso chiede al suo popolo di essere gioioso: « Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza » (Ne 8,10). Il pio Israelita sente di conseguenza l’enorme gioia che gli viene dal suo Signore e prova un’estatica allegrezza, frutto della gioia di sentirsi amato.
2 – Un secondo motivo della gioia d’Israele è la potenza del suo Dio: « Tu sei il Signore, il Dio d’ogni potere e d’ogni forza e non c’è altri fuori di te, che possa proteggere la stirpe d’Israele » (Gdt 9,14). Questa potenza si manifesta in tutta la storia del popolo eletto ed esso vi si abbandona, liberato da ogni paura e sicuro dell’aiuto divino. Perciò ne gioisce (Es 15; Sal 126).
La potenza di Dio creatore fa esultare di gioia le sue creature: « Mi rallegri, Signore, con le tue meraviglie, esulto per l’opera delle tue mani. Come sono grandi le tue opere, Signore, quanto profondi i tuoi pensieri! » (Sal 92,5-6). I cantori ispirati del popolo eletto invitano tutta la creazione a partecipare al loro stato d’animo: « Gioiscano i cieli, esulti la terra, frema il mare e quanto racchiude; esultino i campi e quanto contengono, si rallegrino gli alberi della foresta davanti al Signore che viene » (Sal 96,11-13).
La potenza del Signore è anche potenza che protegge il suo popolo e provvede alle sue necessità: « Egli lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le sue ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. Il Signore lo guidò da solo, non c’era con lui alcun dio straniero. Lo fece montare sulle alture della terra e lo nutrì con i prodotti della campagna; gli fece succhiare miele dalla rupe e olio dai ciottoli della roccia; crema di mucca e latte di pecora insieme al grasso di agnelli, arieti di Basan e capri, fior di farina di frumento e sangue di uva, che bevvero spumeggiante » (Dt 32,10-14). Per questo motivo Israele deve avere la gioia che Dio esige come segno dell’amore corrisposto; altrimenti Dio metterà il suo popolo alla prova: « Poiché non avrai servito il Signore tuo Dio con gioia e di buon cuore in mezzo all’abbondanza di ogni cosa, servirai i tuoi nemici che il Signore manderà contro di te, in mezzo alla fame, alla sete, alla nudità e alla mancanza di ogni cosa » (Dt 28,47-48).
La potenza di Dio è anche una potenza che salva dalla schiavitù d’Egitto e in tutti i momenti della storia successiva. L’amore salvante diviene un nuovo incitamento a gioire: « Io gioirò nel Signore, esulterò in Dio mio salvatore » (Ab 3,18). Una salvezza che non solo afferra la storia, ma il cuore dell’uomo. Dio trasforma il loro cuore di pietra in un cuore di carne (Ez 36,26) e così una nuova gioia nascerà in loro: « Hai messo più gioia nel mio cuore di quando abbondano vino e frumento » (Sal 4,8).
Infine la potenza di Dio è una potenza che perdona con innamorata longanimità: « Egli perdona tutte le tue colpe… Non ci tratta secondo i nostri peccati… Come dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe. Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di chi lo teme. Perché egli sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere » (Sal 103,3-14).
E la commozione di questa misericordia che perdona è nuovo motivo di gioia per Israele: « Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato. Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato… Purificami con issopo e sarò mondo; lavami e sarò più bianco della neve. Fammi sentire gioia e letizia, esulteranno le ossa che hai spezzato… Rendimi la gioia di essere salvato » (Sal 51,1-14).
3 – Un terzo motivo di gioia per Israele è la presenza di Dio nel tempio e la sua legge. Dio stesso dice a Isaia: « Si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare, e farò di Gerusalemme una gioia, e del suo popolo un gaudio » (Is 65,18). Gerusalemme infatti « è la gioia di tutta la terra » (Sal 48,3), è la città dell’arca dell’alleanza e del tempio, casa dell’Eterno, santa dimora di Dio che fa trasalire di gioia quanti la amano: « Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa quanti la amate. Sfavillate di gioia con essa voi tutti che avete partecipato al suo lutto. Così succhierete al suo petto e vi sazierete delle sue consolazioni; succhierete, deliziandovi, all’abbondanza del suo seno. Poiché così dice il Signore: « Ecco io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la prosperità; come un torrente in piena la ricchezza dei popoli; i suoi bimbi saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno accarezzati. Come una madre consola un figlio così io vi consolerò; in Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come erba fresca » (Is 66,10-14). Per gli ebrei non ci sarà più gioia senza Gerusalemme. E la tristezza della lontananza da essa è espressa meravigliosamente nel salmo 137.
Insieme con la gioia della città santa di Dio, scaturisce la gioia delle feste che in essa si celebrano (Sal 100). La festività religiosa che mette il popolo eletto in comunicazione particolare col suo Dio, sarà sempre tripudio di gioia: « Gioirai davanti al Signore tuo Dio tu, tuo figlio, tua figlia, il levita che sarà nelle tue città e l’orfano e la vedova che saranno in mezzo a te » (Dt 16,11).
Israele canta la sua gioia per la legge del Signore: « Beato l’uomo… che si compiace della legge del Signore e la sua legge medita giorno e notte » (Sal 1,2). Il salmo 119 è un grandioso elogio della legge divina: « Nel seguire i tuoi ordini è la mia gioia più che in ogni altro bene » (v. 14); « Mia eredità per sempre i tuoi comandamenti, sono essi la gioia del mio cuore » (v. 111); « Io gioisco per la tua promessa, come uno che trova un grande tesoro » (v. 162); « Desidero la tua salvezza, Signore, e la tua legge è tutta la mia gioia » (v. 174).
Abbiamo accennati alcuni temi della gioia di Dio nell’AT. Giustamente il salmista parla del « Dio della mia gioia e del mio giubilo » (Sal 43,4) e canta: « Con voci di gioia ti loderà la mia bocca… Esulto di gioia all’ombra delle tue ali » (Sal 63,6-8). Veramente davanti al volto di questo Dio il nostro gaudio deve risuonare costantemente: « Beato il popolo che ti sa acclamare e cammina, o Signore, alla luce del tuo volto: esulta tutto il giorno nel tuo nome, nella tua giustizia trova la sua gloria » (Sal 89,16-17). È il Signore che ci indica la via della gioia piena e della dolcezza senza fine: « Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra » (Sal 16,11). Il timorato amante di Dio esorta tutti a lanciare grida di gioia all’Eterno: « Acclami al Signore tutta la terra, gridate, esultate con canti di gioia. Cantate inni al Signore con l’arpa, con l’arpa e con suono del corno acclamate davanti al re, il Signore. Frema il mare e quanto racchiude, il mondo e i suoi abitanti. I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne davanti al Signore che viene » (Sal 98,4-9).
Mirabile estasi di tutto Israele, del mondo e dei suoi abitanti per il Dio della gioia!
La gioia di Dio nel Nuovo Testamento
Quello che abbiamo contemplato nella storia d’Israele riguardo alla gioia, non è che l’ombra di ciò che è la gioia di Dio nella vita cristiana.
Questa nuova gioia di Dio ha questi luminosi capisaldi:
1 – L’alleanza dell’AT cede il posto alla nuova alleanza nel sangue di Cristo per cui Dio non stringe con noi solo un patto esterno, ma viene ad abitare dentro di noi. E questo Dio è ormai, con esplicita e piena rivelazione, il Padre, il Figlio e lo Spirito santo, la Trinità che inabita nel cristiano. « Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui » (Gv 14,23). « Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di Dio è perfetto in noi. Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito… Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio… Chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui » (1Gv 4,12-16). « Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? » (1Cor 6,19). « Noi siamo il tempio del Dio vivente » (2Cor 6,16).
La nuova alleanza raggiunge così il più mirabile scambio dell’amore fra Dio e noi sulla terra, la più intensa presenza di Colui che amiamo in noi. In questa singolare presenza del nostro Bene infinito, l’esperienza dell’amore raggiunge termini meravigliosi e la gioia nuova che ne scaturisce è inesprimibile. A maggior ragione per il cristiano, rispetto al pio israelita, Dio è più decisamente il « suo Dio ». L’amore di Dio raggiunge la sua pienezza nel farci « partecipi della natura divina » (2Pt 1,4) e suoi figli adottivi (Gal 4,5) così che siamo chiamati e siamo veramente figli di Dio (1Gv 3,1). Nessuno più di noi ha conosciuto il cuore del Padre chino amorevolmente su di noi. Nessuno più di noi può conoscere la gioia profonda che nasce da un simile patto nuovo per cui Dio è in noi e noi in Dio. Perciò molto più a ragione che tutti i profeti e gli amici del Dio dell’AT, san Paolo può dirci: « Rallegratevi nel Signore sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi » (Fil 4,4).
L’immagine gioiosa del matrimonio usata nell’AT per esprimere la delicatezza e l’intimità d’amore fra Israele e Dio, acquista nel NT un valore più significativo e più consistente e introduce in forme impensate di intimità che fanno scaturire gioie inimmaginabili. Così si esprimono i mistici feriti dalla piaga d’amore del loro Dio che li abita e li trasforma. Quell’alleanza inaugurata nell’AT che dava tanta gioia a Israele, approda, nel NT, al suo termine definitivo. « Lo sposalizio di Dio con il genere umano si realizza nello stesso essere di Gesù allorché, incarnandosi, il Verbo si fa capo dell’umanità redenta… Il mistero dell’alleanza entrato nella storia imperfettamente attraverso l’AT, diventa perfetto con l’Incarnazione e la sua ultima conseguenza, la Croce » (Grelot).
2 – La gioia cristiana è ancora appoggiata alla potenza di Dio che nel NT manifesta le sue opere più meravigliose. La potenza divina, che ha assistito tutta la storia d’Israele, si manifesta maggiormente « nella pienezza dei tempi » quando la « liberazione » acquisisce il senso interiore e soprannaturale della redenzione attuata. Qui la nostra gioia scaturisce dal senso della trasformazione operata in noi da Dio per Cristo, con Cristo e in Cristo. Con tale trasformazione acquistiamo un modo nuovo di intendere e di sperimentare la potenza di Dio. Siamo diventati in Cristo una nuova creatura (2Cor 5,17), abbiamo rivestito l’uomo nuovo (Col 3,10): Dio che ci aveva così mirabilmente creati, ci ha « ricreati » ancora più mirabilmente. Di conseguenza abbiamo anche una nuova visione di tutta la creazione: « La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio… e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio » (Rm 8,19-21). In tale visione delle cose c’è una nuova ragione per essere sempre pieni di gioia. La potenza di Dio attua il disegno di salvezza in Cristo e così il cristiano ha la gioia di sperimentare un amore che si piega verso di lui fino a risolvere il dramma doloroso e triste della solitudine dell’uomo: « È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati » (Col 1,13). Dio non ci libera solo da schiavitù esterne e da nemici esteriori, ma dal Maligno e dal peccato. E il Padre compie tutto questo mandando il Figlio, espressione massima dell’amore di Dio per noi: « Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui » (Gv 3,16-17). Non c’è motivo più grande di questo per la nostra gioia: scoprire la tenerezza dell’amore di Dio rivelatosi a noi in Cristo.
Dio manifesta la sua onnipotenza soprattutto nel perdonare e nell’usare misericordia. L’incarnazione del Verbo è la misura più impensabile della volontà di perdono da parte di Dio. Il nome Gesù è un programma; significa « Dio salva »: « Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati » (Mt 1,21).
3 – La gioia del NT ha infine la sua beatificante novità nella nuova presenza di Dio-Amore in noi. Il tempio di Dio non è più Gerusalemme, ma l’uomo dove Egli abita, in comunione di amore con lui. La nostra gioia è più reale, più intima, più estasiante: « Noi siamo il tempio del Dio vivente » (2Cor 6,16). La prova più alta dell’amore di Dio sulla terra sta in questa misteriosa, ma reale inabitazione. Dice s. Agostino, commentando la Scrittura: « Siate giocondi, o giusti. Già, forse, i fedeli udendo: siate giocondi, pensando ai conviti, preparano i bicchieri, aspettano il momento di coronarsi di rose… Stai attento a quel che segue: nel Signore… Tu aspetti la primavera per far allegria; la tua gioia è nel Signore, egli è sempre con te, e non in una sola stagione; lo hai di notte, lo hai di giorno… da lui ti verrà sempre la gioia ». E ancora: « E la nostra società sia con Dio Padre, e in Gesù Cristo Figlio di Lui. E questo, dice san Giovanni, ve lo scriviamo, affinché la vostra gioia sia piena. Dice che la gioia sia piena in quella società, in quella carità, in quella unità ». E infine: La vita beata è proprio questa: godere tendendo a Te, godere di Te, godere a causa di Te; questo e non altro. Quelli che credono che ce ne sia un’altra, vanno dietro ad un’altra gioia e non a quella vera. Ed anche allora la loro volontà sta attaccata ad una certa immagine di gioia ».
Sull’antica legge perfezionata, spunta come culmine della novità cristiana, il comandamento nuovo: « Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri » (Gv 13,34). Il NT è tutto investito dall’amore, respira nell’amore e nell’amore si risolve. Il frutto immediato della presenza di Dio nei giusti è, insieme all’amore, la gioia (Gal 5,22). Di conseguenza si capisce la novità della gioia della festa nel nuovo culto di Dio dopo la redenzione. La gioia non nasce più da un tempio di pietre, ma nel comunicare con l’innamorante mistero della morte e risurrezione di Cristo, con la Pasqua eucaristica, con il giubilo universale per la salvezza, con Dio Trinità, tutto amore, beatitudine e sollecitudine per l’uomo, contemplato in terra attraverso la fede. Dio è veramente « il Dio della mia gioia e del mio giubilo » (Sal 43,4). Lo cercheremo allora, costantemente, con l’atteggiamento dei salmi: « Gioisco in te ed esulto, canto inni al tuo nome, o Altissimo » (Sal 9,3). « Esulterò di gioia per la tua grazia » (Sal 31,8).

LA GIOIA CRISTIANA
La gioia attraverso Cristo
La gioia cristiana, per essere tale, deve passare attraverso Gesù Cristo. La gioia di Dio si ottiene per la mediazione del Verbo incarnato: egli è la strada della nostra gioia. È lui che ci fa conoscere più pienamente Dio; è lui che ci permette di gioire della verità; è lui che ci comunica la vita divina. L’incarnazione è la più grande rivelazione del mistero di Dio nascosto e invisibile. Così la gioia dell’invisibile Dio passa per la gioia di Cristo, Dio fatto uomo e visibile ai nostri occhi. « Noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità » (Gv 1,14); « Noi abbiamo udito, noi abbiamo veduto con i nostri occhi, noi abbiamo contemplato e le nostre mani hanno toccato il Verbo della vita, » (1Gv 1,1). È attraverso l’umanità del Verbo incarnato che proviamo il giubilo della gloria divina manifestata a noi. Per arrivare alla contemplazione di Dio-Trinità dobbiamo passare attraverso la contemplazione insistente dell’umanità di Gesù salvatore e delle sue santissime piaghe.
Gesù Cristo è veramente la strada obbligata della gioia cristiana.
La nostra gioia da Cristo
È veramente meraviglioso vedere come Cristo genera in noi la sua gioia e come questa si espande dentro di noi: essa è immediatamente sentita come qualcosa che promana da Lui. Ricordiamo alcune testimonianze esplicite per capirlo. La prima epifania gioiosa del Cristo la si ha quando il saluto di Maria, che porta il Salvatore nel suo seno, raggiunge Elisabetta: Giovanni Battista esulta di gioia nel seno di lei (Lc 1,44).
Alla natività di Cristo l’angelo annunzia ai pastori « una grande gioia » (Lc 2,10). Quando i Magi vedono nuovamente la stella che li conduce a Cristo « provano una grandissima gioia » (Mt 2,10). Zaccheo riceve Gesù nella sua casa « pieno di gioia » (Lc 19,6). Nel giorno dell’ingresso messianico in Gerusalemme « tutta la folla dei discepoli, esultando, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto » (Lc 19,37). E questi sono solamente alcuni degli episodi di gioia suscitata dalla presenza di Cristo nel vangelo. Ma vogliamo segnalare distintamente le principali ragioni che costituiscono la trama essenziale della nostra gioia riguardo al Redentore divino, seguendo i misteri della sua vita sul dettato della rivelazione.
1 – C’è la gioia dell’attesa. Gli annunzi profetici del Salvatore sono carichi di parole gioiose e di trasalimenti di felicità. « Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si gioisce quando si spartisce la preda… Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine » (Is 9,1-6; cfr. Mt 4,14-15 e liturgia del Natale). « Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro di asina. Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra » (Zc 9,9-10; cfr Mt 21,1-7).
Ma la gioia profetica è stata preceduta già dalla gioia dei patriarchi. E lo dirà Gesù stesso: « Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò » (Gv 8,56).
2 – C’è la gioia dell’Incarnazione e del Natale. Annunziata dall’angelo (Lc 2,10), scoperta dai pastori (Lc 2, 20) e dai magi (Mt 2,10), manifestata dal vecchio Simeone e dalla profetessa Anna (Lc 2,25-38). La gioia per la venuta di Cristo ha una molteplice motivazione. È innanzitutto la gioia per l’opera più grande compiuta da Dio: l’unione della natura divina e della natura umana nell’unica persona del Figlio di Dio. Per questo mirabile mistero san Giovanni Crisostomo ha detto: « Colui che è, viene nel mondo, colui che è, diventa ciò che non era: essendo Dio, infatti, ecco che si fa uomo, ma non cessa per questo di essere Dio, si fa uomo senza che la divinità subisca mutamento, né è da credere che egli essendo uomo, sia diventato Dio per successive approssimazioni. Si è fatto carne restando ciò che era: il Verbo, e senza che la sua propria natura si sia modificata ». Come non essere nella gioia profonda considerando questo singolarissimo avvenimento a cui ha preso parte tutta la santissima Trinità, mostrando un amore infinito? Questo avvenimento è il centro di tutta l’opera di Dio, ci fa vedere Dio con noi, che diventa uno di noi; rende visibile l’Amore e la Verità; esso realizza le nozze del Verbo con la natura umana, con l’umanità. Dice sant’Agostino: « Nel seno della Vergine si sono uniti lo sposo e la sposa, il Verbo e la carne, perché il Verbo è lo sposo e la carne umana la sposa, e queste nature formano un solo Figlio di Dio, un solo e medesimo figlio dell’uomo… Quando il Figlio di Dio è uscito come uno sposo dal letto nuziale, ossia dal seno verginale di Maria, era già unito con una ineffabile alleanza alla natura umana ». Per questo i Padri della Chiesa dicono che nell’incarnazione « c’era in Cristo Gesù tutta l’umanità » (s. Cirillo di Alessandria) e che egli « assume in sé tutta la natura umana » (s. Ilario) per portarla tutta al Calvario (s. Cipriano), risuscitarla (s. Gregorio di Nissa) e salvarla. L’incarnazione del Verbo è una specie di concorporazione di tutti gli uomini in Cristo (s. Ilario): l’inizio del corpo mistico di Cristo nel quale tutti gli uomini sono invitati ad entrare come membra vive. Il tema dello sposalizio, già espresso nell’AT tra Dio-sposo e Israele-sposa, nell’Incarnazione diventa una realtà piena e definitiva: Dio si unisce in modo indissolubile ed eterno all’umanità. Dio e gli uomini si uniscono per sempre nella buona e nella cattiva sorte, nella morte e nella vita. È avvenuto un mirabile scambio: « Dio si è fatto uomo affinché l’uomo diventasse Dio » (s. Agostino). In questo ammirabile scambio avvenuto nell’incarnazione noi vi troviamo l’enorme nostro bene realizzato nella esaltazione della natura umana. La gioia del Natale scaturisce dalla contemplazione dell’inizio del nostro stupendo destino di redenti e del nostro ritorno al paradiso. « In questo giorno è stata piantata sulla terra la condizione dei cittadini celesti, gli angeli entrano in comunione con gli uomini, i quali si intrattengono senza timore con gli angeli. Ciò perché Dio è sceso sulla terra e l’uomo è salito al cielo. Ormai non c’è più separazione fra cielo e terra, tra angeli ed esseri umani » (s. Giovanni Crisostomo). La liturgia bizantina esclama: « O mondo, alla notizia (del parto verginale di Maria) canta e danza: con gli angeli e i pastori glorifica Colui che ha voluto mostrarsi bambino, il Dio di prima dei secoli ».
Gioia dell’amore, gioia dell’unione, altissime tenerezze del gaudio sovrabbondante e luminosissimo!
3 – C’è la gioia pasquale. Essa tocca i vertici più alti e scoppia definitivamente nella risurrezione, completamento indispensabile alla morte del Signore e alla nostra salvezza. I vangeli sprizzano il fuoco beatificante della gioia che passa dagli angeli a Maria Maddalena, agli apostoli, ai discepoli di Emmaus. Sulla fede sconcertata di tutti i suoi, Gesù getta la luce della sua vita gloriosa, li illumina e li rallegra. « Abbandonato in fretta il sepolcro, con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annunzio ai suoi discepoli » (Mt 28,8). « I discepoli gioirono al vedere il Signore » (Gv 20,20).
La risurrezione dimostra la divinità di Cristo ed è spiegazione luminosa e fondamento incrollabile della nostra fede in lui e della nostra novità cristiana. Questo è il Cristo di cui siamo testimoni nel nostro tempo.
Nella notte di pasqua la chiesa esprime la sua gioia con il canto dell’ « Exultet », dove cielo e terra, angeli e uomini, sono chiamati ad esultare per la vittoria del re: « Esultino i cori degli angeli del cielo; si celebrino nel gaudio i misteri divini e la tromba della salvezza annunci la vittoria del re. Si rallegri anche la terra… goda pure la madre Chiesa… » È l’impeto del gaudio pasquale.
4 – C’è la gioia dell’Ascensione e della Pentecoste. Dopo il fatto dell’ascensione « essi tornarono a Gerusalemme con grande gioia » (Lc 24,52). Salendo al cielo e sedendo alla destra del Padre, Cristo è costituito Signore degli angeli, degli uomini e dell’universo intero. Un uomo, uno di noi è assiso alla destra del Padre, in piena uguaglianza con lui ed è Signore come lui. Gesù prima di lasciarci ci ha fatto una promessa: « Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi porterò con me, perché siate anche voi dove sono io » (Gv 14,2-3). Scrive Paolo: « Dio ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù » (Ef 2,4-7).
A quale altezza e perfezione Dio ha condotto l’uomo e il mondo intero! Quanto è avvenuto al Redentore è modello e premessa di quanto accadrà a noi e all’universo.
La gioia dell’Ascensione si fa preludio della gioia della Pentecoste. Gesù aveva detto: « È bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò » (Gv 16,7). Ci soffermeremo subito nelle pagine seguenti a parlare più diffusamente della gioia cristiana, dono dello Spirito. Qui ci basta ricordare che la Pentecoste, che è la pienezza della pasqua, inaugura nella chiesa e in noi, la gioia dello Spirito Santo.
La gioia cristiana
La radice della gioia di Cristo è entrata in noi col battesimo e la confermazione e cresce quanto più viviamo del suo amore e cresciamo in Lui. L’apostolo Paolo ci ammaestra a fare tutto con Gesù: « Tutto quello che fate in parole e opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre » (Col 3,17). Dobbiamo compenetrarci in Lui fino a poter dire con tutta verità: « Sono stato crocefisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Gal 2,20); « Per me vivere è Cristo e morire un guadagno » (Fil 1,21). Perché questo accada bisogna fare le scelte coraggiose dell’apostolo: « Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocefisso » (1Cor 2,2); « Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Gesù Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui… E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti » (Fil 3,7-11).
E quando né tribolazione, né angoscia, né fame, né nudità, né spada, né morte, né vita, né alcunché di creato ci separeranno dall’amore di Cristo (Rm 8,35-38), allora la gioia sarà perfetta.
Così il cristiano si espande in Gesù e canta la tenerezza gioiosa di sentirsi posseduto da lui.
Di conseguenza si comprende come il motivo più profondo della tristezza dell’uomo è non conoscere Cristo, e soprattutto separarsi da lui e combatterlo. Nel vangelo c’è una dimostrazione violenta della tenebra amara di chi non vuole riconoscere il Redentore. È quella dei farisei che sono una terra d’ombra, un punto di oscurità, un cumulo di livore, di amarezza, di disperato affanno. Come per essi, così per tutti i contraddittori di Gesù, uscire da Lui « Luce vera che illumina ogni uomo » (Gv 1,9) è trovare sempre tristissima notte, senza alba e senza sole.

LA GIOIA CRISTIANA DONO DELLO SPIRITO
Gioia e amore sono due termini che si richiamano sempre. Ed è perciò che nella gioia cristiana ha parte determinante lo Spirito Santo, lo Spirito dell’Amore. Essa è un dono di Lui: « Frutto dello Spirito è… la gioia » (Gal 5,22). Per questo gli Atti dicono che « i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo » (At 13,52), e san Paolo scrive che i Tessalonicesi « avevano accolto la parola con la gioia dello Spirito Santo anche in mezzo a grande tribolazione » (1Ts 1,6), perché « il regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo » (Rm 14,17). Tutto questo non è parola sonante, ma esatta realtà. « Lo Spirito Santo non è oscuro o mesto: Egli è la gioia dell’amore. L’esistenza stessa dello Spirito Santo proclama la forza della gioia d’amore e l’inesauribile eternità di questa gioia » (Galot). Lo Spirito Santo Amore ha in sé la fonte della gioia. E siccome ci è stato dato come dono supremo dell’amore del Padre e del Figlio, è sempre attraverso di lui che, in definitiva, passa la gioia di Cristo e di Dio.
Lo Spirito d’amore e di santificazione
L’AT ci annunzia la promessa di Dio che vuole espandere il suo Spirito: « Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno Spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio » (Ez 36,26-28).
« L’ equivalenza che la profezia mette tra Spirito e cuore ci fa capire meglio ciò che è l’effusione dello Spirito divino. Quando Dio vuol mettere il suo Spirito negli uomini, si può dire che Egli vuol donare loro il suo proprio cuore, rimpiazzare il loro cuore con il Suo, o rifare loro un cuore ad immagine del Suo. Lo Spirito Santo è il cuore di Dio. Il cuore divino del Padre e del Figlio che comunicandosi agli uomini forma in essi un cuore nuovo » (Galot). Lo Spirito Santo è il cuore di Dio che diventa il cuore dell’uomo. È l’Amore che ci investe, ci trasforma e ci fa amare come Lui ama: da questa sinfonia di amore nasce la gioia. Lo Spirito Santo è l’anello di congiunzione dello straordinario scambio d’amore fra Dio e noi. La gioia cristiana dell’amore è perciò marcata dall’azione dello Spirito Santo. « L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (Rm 5,5). Di conseguenza lo Spirito Santo ci rende « spirituali » e « santi ». È l’ospite divino che opera in noi affinché « Dio sia tutto in tutti » (1Cor 15,28). È l’ospite dolce dell’anima che la unisce sempre più a Cristo. È Lui « che attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio » (Rm 8,16) perché « tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio » (Rm 8, 14). Noi siamo il tempio di Dio, e lo Spirito di Dio abita in noi (1Cor 3,17). Dio ci ha scelti per la salvezza attraverso l’opera santificatrice dello Spirito e la fede nella verità (2Ts 2,13). Lo Spirito è il principio della nostra vita divina: siamo stati generati da Dio (Gv 1,13) nascendo dall’acqua e dallo Spirito (Gv 3,5). Siamo stati lavati, santificati e giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio (1Cor 6,11). È infatti lo Spirito che trasforma le nostre persone e produce in noi la risurrezione e la vita eterna. « Se lo Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, Colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo dello Spirito che abita in voi » (Rm 8,11). È Lui « che viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili; e Colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio » (Rm 8,26-27).
Diceva Origene: « Se chi crede è munito della forza dello Spirito Santo, è certo che ha sempre la pienezza della gioia e della pace ».

Conclusione
« State sempre lieti…: questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi » (1Ts 5,18).
La gioia è un nostro dovere di uomini e di cristiani.
È la testimonianza più credibile e avvincente. La gioia che emana dal cristiano non può essere un fatto eccezionale, come un abito che si indossa nelle feste solenni: deve essere un fatto quotidiano, feriale, perché Dio, nostra gioia, è con noi e dentro di noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,20).

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San Matteo (sito interessante)

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PIETRO E PAOLO

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PIETRO E PAOLO

29 giugno 2014 Bussole per la fede

di Don Giuseppe Liberto

Il Prefazio ci fa cantare: «Tu hai voluto unire in gioiosa fraternità i due santi apostoli: Pietro, che per primo confessò la fede nel Cristo, Paolo, che illuminò le profondità del mistero; il pescatore di Galilea, che costituì la prima comunità con i giusti di Israele, il maestro e dottore, che annunziò la salvezza a tutte le genti. Così, con diversi doni, hanno edificato l’unica Chiesa».
Il 29 giugno è festa dell’apostolicità della Chiesa di Cristo: Pietro, fondamento della fede cristiana, è forza e speranza nella missione dell’apostolo/chiesa. Paolo, annunziatore del vangelo nella missione salvifica universale, è fondamento e fiducia nella fede dell’apostolo/chiesa.
Pietro e Paolo, messaggeri del vangelo, testimoni e martiri del Signore, sono «i santi apostoli che nella vita terrena hanno fecondato la Chiesa, con il loro sangue, hanno bevuto il calice del Signore e sono diventati gli amici di Dio» (Antifona d’ingresso). La loro vita e missione si sono configurate al mistero supremo di Cristo, crocifisso-risorto. Il loro martirio è il sigillo ultimo di un amore senza limiti.
Con l’azione dello Spirito, trasformati dalla luce del Risorto, liberi nella libertà di Cristo che ha vinto la morte, i due Apostoli sono costituiti testimoni della Pasqua di morte e risurrezione di Gesù. Diventano instancabili annunciatori con le loro lettere, i loro viaggi e soprattutto con l’offerta della loro vita coronata dalla testimonianza del martirio. Testimoni nel sangue del mistero di Cristo, Pietro e Paolo sono diventati i padri della fede per tutta la chiesa.
In Pietro e Paolo, istituzione e carisma convivono in armonioso dialogo, perché la Chiesa, luogo della presenza di Cristo, non si sclerotizzi, ma cammini nella verità sinfonica e nella concorde carità, in modo che appaia al mondo come autentico e fecondo “sacramento di salvezza”. Pur con diverso carattere, vocazione e carisma, attraverso di loro la Chiesa riceve «il primo annunzio della fede» (colletta), compiendo la stessa missione in tempi e in luoghi diversi.
La celebrazione della festa di Pietro e Paolo ci fa tornare alla sorgente della nostra fede cattolica, riscoprendo il fondamento del mistero di quel Corpo mistico di cui siamo membra. La fede cristiana è essenzialmente fede apostolica perché si riferisce all’esperienza degli apostoli. La Chiesa non conosce e non annunzia altro Cristo se non quello visto, accolto, testimoniato e annunziato dagli apostoli.
La Pasqua di Cristo, evento originario e fondante della fede, è mediato soltanto dalla testimonianza degli apostoli. Nel giorno della Pentecoste, è Pietro che annunzia: Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni (At 2,32). Il concilio Vaticano II afferma con decisione che la Chiesa è stata fondata sugli apostoli i quali «predicarono la parola della verità e generarono le chiese» (AG 1). Agostino ci esorta: «Amiamone, dunque, la fede, la vita, le fatiche, le sofferenze, le testimonianze e la predicazione» (Sermo 295,7-8).

Le tre metafore del primato di Pietro
La Chiesa di Cristo non è massa indistinta di fedeli anonimi, isolati e dispersi, ma comunità ecclesiale fondata sulla “roccia Cristo” che è sempre presente in mezzo ai suoi, contemporaneamente sceglie Pietro col compito di unificare e sostenere la Chiesa di Cristo. L’autorità di Pietro è vicaria; egli è immagine di Cristo, che è il vero Signore della Chiesa. L’evangelista Matteo ci offre tre illuminanti metafore che mettono in risalto il primato di Pietro: la roccia, le chiavi, il legare-sciogliere (cf Mt 16,13-20).
La roccia, dal nome aramaico kefa, è il termine con cui Cristo rinomina Simone chiamandolo Pietro e gli affida la sua missione. Nel mondo semitico, cambiare nome significa orientare la persona verso un altro destino. Pietro è la roccia che tiene salda la Chiesa. Su questa roccia il Cristo, “pietra angolare” insostituibile, getta le basi dell’edificio-Chiesa, segno visibile di Cristo che è la vera roccia. A fondare la competenza pastorale di Pietro non è la sua personale fedeltà a Cristo ma la fedeltà di Cristo all’amore per i suoi: questa è la roccia su cui è fondata la Chiesa. L’unico mediatore è Cristo, Egli costruisce la sua Chiesa. Pietro e gli apostoli sono le “fondamenta” (cf Ef 2,20). Neanche la morte potrà esercitare il suo dominio sui credenti riuniti nella Chiesa.
Le chiavi sono il segno del governo e della responsabilità di una casa. Pietro diventa, non il fondatore o il proprietario, ma il vicario e il fiduciario della Chiesa. Egli è segno di Cristo vero capo e unico pastore della comunità messianica.
Legare e sciogliere, proibire e permettere, separare e perdonare: Pietro ha tutte le prerogative che si leggono nella Bibbia e che sono attribuite al Messia. Gesù stabilisce nella Chiesa un’autorità che ha origine e destino divino. Pietro, insieme agli altri apostoli, all’interno della Chiesa è costituito interprete autorizzato della legge divina, guida all’amore e alla giustizia nelle decisioni storiche. La missione che riceve da Cristo, Pietro non la eserciterà come monarca o despota di un potere-dominio ma come fedele servizio alla fede e all’amore per l’unità della stessa Chiesa. Questo servizio, fondato su Cristo e sulla fede in lui, Pietro dovrà renderlo alla comunità.
Alle due domande d’amore e di fede che Gesù rivolge a Simone, seguono, da parte dell’Apostolo, due risposte di amore e di fede, da cui scaturisce il mandato.

Domanda: Mi ami tu?
Risposta: Tu sai che io ti amo.
Consegna: Pasci le mie pecorelle.
Domanda: Chi dice la gente chi io sia?
Risposta: Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivo.
Consegna: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa.

Pasci le mie pecorelle
Gesù è il Pastore per eccellenza. Innanzi tutto perché le pecore gli appartengono, poi perché le conosce singolarmente. Questa conoscenza è reciproca ed è così intima che Gesù la paragona a quella che unisce Lui al Padre. Il motivo profondo sta nel fatto che egli offre la vita per il suo gregge. Gesù è il vero Pastore che conduce e riunisce il suo gregge per fare un solo ovile sotto un solo pastore (cf Gv 10,11-18). La prospettiva di unità di Gesù è uno spalancare gli orizzonti alle dimensioni del mondo e della storia. Nella vita della Chiesa, Pietro diventa il responsabile visibile dell’unità del gregge. Questa carica pastorale la riceve dopo aver affermato solennemente il suo amore personale per Gesù. La triplice domanda d’amore rimanda al triplice rinnegamento in quella notte del tradimento.

Tu sei Pietro
Il fondamento per cui Pietro è la “roccia” sulla quale è costruita la Chiesa di Cristo, poggia sulla confessione di fede che l’Apostolo ha fatto per primo a nome del gruppo degli apostoli: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. (Mt 16,16). Pietro, da solo, sarebbe stato incapace di percepire e riconosce con assoluta chiarezza la messianità e la filiazione del Cristo e questa percezione non viene da “sangue e carne” ma è dono del Padre. L’atto di fede, che scaturisce dalla rivelazione del Padre, s’incarna nell’amore e dall’amore germoglia come fede piena totale in Cristo: Signore, tu sai tutto: tu sai che io ti amo (Gv 21,17). L’amore fedele e la fede ricolma d’amore condurranno al martirio. Nel mandato e nel martirio, Pietro manifesta l’amore di Gesù verso i discepoli e verso quelli che, attraverso la loro parola, crederanno in lui. Il cammino della Chiesa e l’unità dei cristiani nel tempo e nella storia non possono prescindere dall’amore e dalla fede di Pietro. Sant’Ignazio d’Antiochia, nella sua Lettera ai Romani, afferma che a Pietro, cioè al Vescovo di Roma, spetta «presiedere alla comunione universale della carità» (4,3). La Lumen Gentium conferma: «Gesù Cristo prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione» (n. 18).

Le quattro metafore della vocazione di Paolo
Giunto al termine della sua vita, Paolo, scrive al suo fedele Timoteo, responsabile delle comunità ecclesiali dell’Asia minore, sullo stile di vita che devono avere le comunità cristiane. Nel discorso d’addio, Paolo si presenta come modello di apostolo e di pastore. Alla luce del dono ricevuto illumina il suo passato, il presente e il futuro. La sua opera è realizzata grazie alla presenza efficace del Signore che lo ha reso apostolo predicatore del vangelo a tutte le genti, liberandolo da ogni pericolo di morte.

Per dipingere il suo itinerario apostolico, Paolo usa quattro metafore.
La prima richiama l’immagine della libagione: come il vino, che versato sul braciere, esala verso l’alto tutta la sua fragranza, così tutta la sua vita deve salire verso il suo Signore.
La seconda, la navigazione di cui Paolo si servì come mezzo di evangelizzazione: E’ giunto il momento di sciogliere le vele. È il momento in cui si chiude la sua vita terrena.
La terza, quella militare, allude alle tante battaglie combattute nel corso del suo ministero. Dopo le aspre lotte, le terribili persecuzioni e i vivaci confronti, Paolo ora raggiunge la serenità dell’incontro col suo Signore.
La quarta è metafora sportiva. Terminata la corsa, come ogni atleta giunto alla vittoria, anche lui raggiunge la corona di giustizia. Paolo contempla il suo domani con la ferma speranza che Gesù lo libererà per sempre dal potere delle tenebre.
La gioia di essere Chiesa apostolica, una, santa e cattolica, è quella di costruire una comunità di credenti capace di cantare la fede radicata nella speranza e vissuta nell’infaticabile spirito di carità. Il mistero della Chiesa può essere compreso soltanto se si entra nella stessa esperienza degli apostoli. Essi furono testimoni della morte e risurrezione di Cristo perché veri discepoli del Maestro: nel condividere il dramma della croce vissero la fecondità della risurrezione.

Publié dans:SAN PAOLO APOSTOLO, SAN PIETRO |on 22 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

VITA DELL’APOSTOLO MATTEO – 21 SETTEMBRE

http://www.alessandrotorti.it/testi/matteo.php

VITA DELL’APOSTOLO MATTEO – 21 SETTEMBRE

« Non è la molteplicità delle parole, ma l’integrità della ragione e la purezza della mente che generano la fede inviolata. »
Gregorio vescovo di Tours

La vita da pubblicano
Matteo il cui nome significa « dono di Dio », esercitava il mestiere d’esattore fiscale nella città di Cafarnao quando regnava su quelle terre il tetrarca Erode Antipa. A causa del suo lavoro aveva anche un secondo nome, maggiormente comprensibile agli stranieri, ossia Levi.
Era uno degli addetti alla riscossione delle tasse per conto di chi aveva ottenuto l’appalto dallo Stato versando in anticipo, come di consueto, la cifra che sarebbe poi stata raccolta. Lavorava quindi per far rientrare dell’investimento il suo padrone.
Carovane ininterrotte di uomini, cammelli e carri, che provenivano dalla Siria, giungevano fino a questa florida città posta sulle sponde del Mediterraneo: era la via maris. Da queste carovane, quando arrivavano al porto, Matteo e i suoi colleghi riscuotevano i pedaggi, e già per questo non erano visti di buon occhio. La loro continua frequentazione con gli stranieri, inoltre, li rendeva « impuri »: erano sempre in un perpetuo stato di contaminazione peccaminosa allo stesso livello delle prostitute. Erano socialmente isolati e allontanati dalla vita quotidiana e religiosa del paese.
Erano giovani di una certa cultura, siccome per lavoro scrivevano resoconti e contavano i pedaggi, ma a volte per rabbia si lasciavano andare ai soprusi e taglieggiavano i mercanti oppure frugavano con eccessivo zelo i bagagli di chi transitava.

La chiamata
Da qualche mese era giunto in città Gesù di Nazareth con il suo seguito. Matteo ne aveva sentito parlare e rimase immediatamente affascinato dal suo carisma e dalla sua predicazione. Quando poteva si allontanava dal lavoro per raggiungerli e ascoltare le loro discussioni.
Un giorno se li vide passare davanti al banco dov’era al lavoro con gli altri esattori. Gesù lo vide e, riconosciutolo, decise di chiamarlo a far parte del suo seguito: « Seguimi ».
Per un istante Matteo pose la mano destra sul petto, incredulo che ci si potesse rivolgere ad un paria come lui, quasi a chiedere conferma; un istante dopo, di slancio, si alzò e lo seguì facendo cadere dal banco della gabella alcune monete, causando quindi la preoccupazione dei suoi colleghi e la gioia dei bambini che le inseguirono mentre rotolavano in mezzo alla polvere.
Gesù prese a frequentare anche la sua casa e cenò spesso con lui e i suoi amici, assieme ai suoi discepoli. Spesso a tavola giungevano altri esattori, suoi vecchi amici, assetati di nuovi contatti sociali. Questa frequentazione fece mormorare spesso gli ambienti più conservatori della comunità fino a quando una mattina, venutolo a sapere, Gesù fornì ai suoi ascoltatori l’irreprensibile motivo del suo comportamento.
« Io mangio e bevo con gli esattori e con i peccatori perché non sono le persone sane ad aver bisogno di un medico, ma gli ammalati. Allo stesso modo, quindi, io sono venuto a chiamare i peccatori, e non i santi, affinché cambino vita. Bisogna rispettare il volere di Dio che dice nelle Sacre Scritture Voglio la misericordia nei cuori e non cerimonie al tempio ».
Giunto il momento di partire da Cafarnao, Matteo diede un memorabile banchetto di congedo e decise di seguire il suo maestro perciò aveva già abbandonato il suo lavoro.

Miracolo del Gallo
Alcuni anni dopo, nella sera in cui si celebrava la Pasqua durante la quale il maestro prese congedo dai suoi apostoli, accadde che Matteo fosse molto turbato mentre portava in tavola il piatto con un gallo arrosto. Lo depose sul tavolo, ma subito dopo confidò a Gesù il suo cruccio: « Maestro, vedi questo gallo? Quando i farisei mi videro mentre l’uccidevo mi schernirono dicendo Il tuo maestro sarà ucciso come questo gallo » Allora Gesù sorrise e gli parlò come per rassicurarlo: « Matteo, sicuramente porteranno a compimento quello che hanno detto e, prima dell’alba, questo stesso gallo ne darà il segnale ».
Matteo rimase alquanto perplesso dalle parole ma vide che allo stesso tempo Gesù allungava il braccio, toccò il gallo e rivolgendoglisi disse: « Torna a vivere come prima, ti rispuntino le piume e vola via libero per divulgare il momento in cui sarò consegnato ». Il gallo tirò quindi su la testa e fuggì via dal piatto.
Colpito dal miracolo cui aveva assistito rimase senza parole e non riuscì più ad esprimere le proprie emozioni; ma Gesù lo rassicurò con queste parole: « Così com’è resuscitato l’uccello che tu hai macellato quattro ore fa, così anch’io, come questo gallo, risorgerò dai morti. Non ti preoccupare quindi delle vane parole dei farisei ».
Nei giorni successivi Gesù fu messo a morte, punito come un malfattore sulla croce, ma risorse mostrando a tutti la correttezza della profezia di quella sera.
Matteo, dopo quei fatti, rimase presso la comunità di Gerusalemme per una dozzina d’anni e poi, mentre era prossimo a partire per recarsi presso la comunità ebraica dell’Etiopia, con cui aveva già frequenti contatti, decise di assecondare chi gli chiedeva di scrivere la sua testimonianza sulla vita e le opere di Gesù Cristo. Preparò quindi un testo che aiutasse ad appianare le difficoltà che potessero sorgere nella nuova comunità e partì.

Prigioniero degli antropofagi
Durante il suo viaggio verso la comunità copta fece tappa temporanea a Mirmidone, una città di feroci cannibali. Gli abitanti di questa città erano malvagi oltre ogni dire e frequentemente accecavano i nuovi venuti e ne annullavano ogni senso d’umanità facendo loro bere a tradimento una pozione magica. Dopo una prigionia di un mese, in una cerimonia rituale, ne mangiavano le carni e ne bevevano il sangue.
Matteo, una volta giunto in città fu imprigionato, per futili motivi, assieme ai suoi compagni di viaggio. Mentre in carcere aspettava il compimento della sorte riservatagli da Dio, giunse in suo aiuto l’apostolo Andrea. Questi sbarcò in quella città perché Gesù stesso divenne nocchiero della sua nave e liberò l’amico Matteo addormentando i sette guardiani che erano di fronte alla porta della sua cella. Matteo lasciò quindi la città per proseguire il suo viaggio mentre l’apostolo Andrea continuò la sua opera di predicazione e conversione in quei luoghi, fino al raggiungimento del martirio.

Il miracolo dei draghi
Matteo giunse alfine nella grande città commerciale di Naddaver dove era stato invitato da un eunuco che era giunto anni prima a Gerusalemme come plenipotenziario della regina Candace. In quell’occasione Filippo, uno dei sette diaconi, l’aveva battezzato con l’approvazione dei fedeli più progressisti ed ora era un attivo membro della comunità ebraica locale.
In città vi erano due sacerdoti pagani, di nome Zaroên e Arfaxat, che avevano un notevole potere ipnotico e suggestionavano gli uomini tanto da immobilizzarli, accecarli o assordarli; spesso pareva che comandassero ai serpenti e li costringessero a mordere le persone. Erano molto considerati, anche se più per il timore che incutevano che per la stima che avrebbero potuto suscitare; e molti giungevano fin dalle regioni più lontane del paese per venerarli poiché si era diffusa la loro fama.
L’eunuco, anch’egli di nome Candace, accolse Matteo in casa sua e l’ospitò mentre insegnava e radunava attorno a se l’opposizione a questi due sacerdoti. In questo periodo, molti furono battezzati e credettero alle parole dell’apostolo liberandosi così dal giogo suggestivo dei due sacerdoti. Matteo li contrastò sempre più energicamente, liberò molti dall’errore in cui cadevano e addormentava i serpenti che questi usavano e ne guariva le morsicature nel nome di Gesù.
Un giorno, mentre parlava in sinagoga, giunse trafelato un giovane il quale riferì che i due maghi avanzavano accompagnati ciascuno da un drago che gettava dalle fauci fiamme e miasmi sulfurei irrespirabili e con questi appestavano i dintorni fino a far cadere morti gli abitanti. Matteo volle uscire per andargli incontro ma Candace, che era con lui, lo tratteneva e chiuse la porta dicendo: « Se proprio lo ritieni necessario, parla loro dalla finestra, ma non li avvicinare che è pericoloso »; ma l’apostolo replicò: « Aprimi! Se proprio vuoi alla finestra starai tu per vedere quanto osano questi due maghi ».
Aperta la porta e fattosi il segno della croce, uscì quindi incontro ai due sacerdoti e, non appena li ebbe raggiunti, i due draghi che li accompagnavano caddero addormentati. Si rivolse ai due sacerdoti e li incitò a risvegliare i due draghi se ne fossero stati capaci. Zaroên e Arfaxat tentarono con tutte le loro arti ma non riuscivano in alcun modo a far loro aprire gli occhi e a questo punto Matteo disse « Poiché tutto il popolo mi scongiura affinché liberi la città da queste bestie immonde farò in modo che si sveglino e se ne vadano mansuete nel nome del mio signore Gesù Cristo. » Si rivolse quindi a loro ordinando di far ritorno al loro luogo d’origine senz’arrecare danni ad alcuno i due draghi sollevarono quindi la testa e, aperte le porte della città, si allontanarono senza più fare ritorno.

La resurrezione del figlio del re
Mentre ancora la gente mormorava a proposito della cacciata dei draghi, giunse notizia dalla capitale, Aksum, che era morto il figlio del negus Aglebul; i due maghi Zaroên e Arfaxat provarono inutilmente a rianimarlo ma non riuscendovi cercarono di convincere il re, suo padre, che il figlio era stato ormai rapito in cielo dagli Dei e che si trovava tra loro come una divinità e che perciò bisognava ormai costruire una statua e un tempio in suo onore.
Udito ciò l’eunuco Candace pregò la regina Eufenissa, madre del giovane moribondo, affinché facesse intervenire l’apostolo Matteo onde rianimare il principe. Matteo fu invitato a corte dove, non appena entrato, la regina Eufenissa gli si inginocchiò davanti dicendo: « Riconosco che tu sei l’apostolo inviato da Dio per la nostra salvezza e che sei discepolo di chi resuscita i morti dal sepolcro; invoca dunque il suo nome su mio figlio che così sono certa che rivivrà. » L’apostolo rispose meravigliato da tanta certezza: « Finora non hai udito la mia predicazione, come puoi essere certa? Sappi comunque che grazie alla tua fede tuo figlio Eufranore rivivrà. » Quindi presolo per mano e invocato il nome del Signore lo fece risorgere dai morti e con questa opera convertì loro e tutto il popolo etiopico.
Il re riempì quindi Matteo di tali doni ed onori da acconsentire che innalzasse un tempio, che prese il nome di Chiesa della resurrezione, cui lavorarono undicimila uomini per più di trenta giorni.
Matteo rimase a presiedere quella comunità per ventitré anni e distribuì presbiteri e diaconi in diverse comunità dei dintorni facendo lunga ed intensa opera d’apostolato tanto che la figlia del re, Efigenia, rimase « vergine di Cristo ». I due Maghi invece si allontanarono quasi immediatamente dirigendosi verso la Persia, poiché in questo paese avevano ormai perso ogni credito. Laggiù però furono affrontati e sconfitti dagli apostoli Simone e Giuda.

Il martirio
Morto il re Aglebul, gli succedette il fratello Hirtaco che cercava di sposare incestuosamente Efigenia, figlia del defunto re, onde consolidare il suo potere politico. Hirtaco tentò di convincere Matteo a intercedere per lui presso Efigenia; Matteo, dopo averci riflettuto, gli consigliò di venire ad ascoltare la sua predica il sabato successivo al tempio, dove avrebbe espresso ciò che pensava del matrimonio.
Quel sabato erano presenti tutti: Hirtaco, Efigenia e la popolazione al completo. Nel più totale silenzio l’apostolo iniziò il suo sermone: « Dio ha benedetto le nozze ed ha permesso che l’amore domini la carne ed i sensi affinché il marito ami la moglie e viceversa. Cosa mai avverrebbe se nella carne non vi fosse lo stimolo dell’amore? Se quindi questo stimolo svolge la sua funzione per volere di Dio, e l’uomo si sposa per desiderio di prole, il matrimonio è buono e non è contro il precetto di Dio. »
Mentre diceva questo Hirtaco e il suo seguito gioivano visibilmente e in maniera smodata perché pareva che finalmente l’apostolo avesse deciso di appoggiare il re nelle sue richieste. Fattosi di nuovo silenzio l’apostolo proseguì il suo discorso: « Ma se un servo osasse insidiare la sposa del suo re è evidente che incorrerebbe in una gravissima colpa. Come mai quindi tu, Hirtaco, cerchi di usurpare la sposa del re celeste? Un re terreno domina per poco tempo ma il re celeste regna eternamente. »
Il re ed il suo seguito, a questo punto, si allontanarono sdegnati mentre Efigenia, onde mettersi al sicuro definitivamente dal re suo zio, fece consacrare a Dio la sua verginità con formula solenne; e con lei si fecero consacrare tutte le fanciulle del suo seguito, dando così origine ad un monastero che raggiunse rapidamente una popolazione di duecento converse.
Matteo proseguì poi celebrando i misteri eucaristici.
Subito dopo aver congedato i fedeli, mentre era ancora presso l’altare, giunse alle sue spalle un sicario inviato dal re che con un rapido colpo di spada lo trafisse senza lasciargli alcuna possibilità di scampo; chi era ancora nel tempio osservò con incredulità il martirio del proprio pastore e una gran parte fuggì fuori disordinatamente in preda all’orrore per questo fatto inaspettato e brutale.
Quando la notizia della morte di Matteo si diffuse, la folla infuriata si diresse verso il palazzo reale vociando di dargli fuoco per vendetta ma i diaconi, i presbiteri e i discepoli del santo la fermarono in mezzo alla strada e le ricordarono le parole che Gesù rivolse all’apostolo Pietro quando questi lo difese impugnando la spada.

Cosa avvenne dopo il martirio
Frattanto Efigenia destinò tutti i propri beni per costruire una basilica in ricordo dell’apostolo Matteo e quello che ne rimaneva dispose che fosse distribuito ai poveri.
Hirtaco, rimosso l’ostacolo rappresentato da Matteo, persistette nella sua richiesta e, per convincere la giovane Efigenia, inviò presso di lei le principali matrone del suo regno affinché con le loro parole cariche di saggezza ed esperienza giungessero a convincerla ad accondiscendere al matrimonio.
Poiché non ottenne nulla in questo modo, provò ad invocare, tramite l’intercessione di sacerdoti pagani, l’aiuto di alcuni demoni: chiese loro di rapire la principessa e di ridurla in suo potere.
Visto che anche quest’ultimo tentativo fallì miseramente, ridotto alla disperazione, fece dare fuoco al monastero in cui Efigenia si era chiusa ma, nonostante le fiamme ormai ardessero già intorno al cortile interno dove si era rifugiata la giovane, subito sorse un vento fortissimo che invertì la direzione dell’incendio e che lo rediresse verso il palazzo di Hirtaco. Il palazzo reale fu distrutto fino alle fondamenta dalla violenza delle fiamme e a stento il re e suo figlio si salvarono precipitandosi in strada.
Immediatamente dopo un demone penetrò nel figlio del re e lo fece impazzire. Si mise a correre, invasato, fino al sepolcro dell’apostolo Matteo. Giunto al sarcofago, con le mani come fossero legate dietro alla schiena, confessò tutti i crimini del padre a tutti quelli che, stupiti, erano presenti e lo stavano ad ascoltare. Oltre a ciò, nel giro di poco tempo, al re suo padre venne una disgustosa e dolorosissima elefantiasi; poiché i medici dichiararono, concordi, di non poter alleviare le sue pene insopportabili, Hirtaco volse disperato contro di se la spada e si uccise trapassandosi il ventre.
Alla sua morte divenne negus il fratello venticinquenne di Efigenia, di nome Beor, che al momento era comandante dell’esercito. Egli, sincero fedele dell’apostolo Matteo, mantenne il regno con giustizia per sessantatrè anni facendo rimanere il paese in pace sia con i Persiani che con i Romani e lo riempì di chiese diffondendo la fede e la concordia.

Bibliografia
« Bibbia interattiva » Garamond Editoria Elettronica, 1993, Roma
« Biblioteca Sanctorum » [volume IX] Istituto Giovanni XXIII, 1967, Roma
Daniélou, J.; Marrou, H. (a cura di) « Nuova Storia della Chiesa » [volume I] Marietti, 1984 (II ed.), Casale
« Enciclopedia Italiana Treccani » [volume XXII] Istituto della Enciclopedia Italiana, 1934, Roma
« Enciclopedia della Bibbia » [IV volume] Elle Di Ci, 1970, Torino
Iacopo da Varazze « Leggenda aurea » Einaudi, 1995, Torino
Morali, L. (a cura di) « Apocrifi del nuovo testamento » Piemme, 1994, Casale

Publié dans:SANTI, SANTI APOSTOLI, SANTI EVANGELISTI |on 22 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

Matthew 20:1-16 The Parable of the Workers in the Vineyard

Matthew 20:1-16 The Parable of the Workers in the Vineyard dans immagini sacre laborers-in-the-field-11thcentbyzantine

http://amoralegria.com/2013/01/06/matthew-201-16-the-parable-of-the-workers-in-the-vineyard/

Publié dans:immagini sacre |on 19 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI ANGELUS – FILIPPESI 1SS

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/angelus/2011/documents/hf_ben-xvi_ang_20110918_it.html

BENEDETTO XVI

ANGELUS – FILIPPESI 1SS

Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo

Domenica, 18 settembre 2011

Cari fratelli e sorelle!

Nella liturgia di oggi inizia la lettura della Lettera di San Paolo ai Filippesi, cioè ai membri della comunità che l’Apostolo stesso fondò nella città di Filippi, importante colonia romana in Macedonia, oggi Grecia settentrionale. Paolo giunse a Filippi durante il suo secondo viaggio missionario, provenendo dalla costa dell’Anatolia e attraversando il Mare Egeo. Fu quella la prima volta in cui il Vangelo giunse in Europa. Siamo intorno all’anno 50, dunque circa vent’anni dopo la morte e la risurrezione di Gesù. Eppure, nella Lettera ai Filippesi, è contenuto un inno a Cristo che già presenta una sintesi completa del suo mistero: incarnazione, chenosi, cioè umiliazione fino alla morte di croce, e glorificazione. Questo stesso mistero è diventato un tutt’uno con la vita dell’apostolo Paolo, che scrive questa lettera mentre si trova in prigione, in attesa di una sentenza di vita o di morte. Egli afferma: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21). E’ un nuovo senso della vita, dell’esistenza umana, che consiste nella comunione con Gesù Cristo vivente; non solo con un personaggio storico, un maestro di saggezza, un leader religioso, ma con un uomo in cui abita personalmente Dio. La sua morte e risurrezione è la Buona Notizia che, partendo da Gerusalemme, è destinata a raggiungere tutti gli uomini e tutti i popoli, e a trasformare dall’interno tutte le culture, aprendole alla verità fondamentale: Dio è amore, si è fatto uomo in Gesù e con il suo sacrificio ha riscattato l’umanità dalla schiavitù del male donandole una speranza affidabile.
San Paolo era un uomo che riassumeva in sé tre mondi: quello ebraico, quello greco e quello romano. Non a caso Dio affidò a lui la missione di portare il Vangelo dall’Asia Minore alla Grecia e poi a Roma, gettando un ponte che avrebbe proiettato il Cristianesimo fino agli estremi confini della terra. Oggi viviamo in un’epoca di nuova evangelizzazione. Vasti orizzonti si aprono all’annuncio del Vangelo, mentre regioni di antica tradizione cristiana sono chiamate a riscoprire la bellezza della fede. Protagonisti di questa missione sono uomini e donne che, come san Paolo, possono dire: “Per me vivere è Cristo”. Persone, famiglie, comunità che accettano di lavorare nella vigna del Signore, secondo l’immagine del Vangelo di questa domenica (cfr Mt 20,1-16). Operai umili e generosi, che non chiedono altra ricompensa se non quella di partecipare alla missione di Gesù e della sua Chiesa. “Se il vivere nel corpo – scrive ancora san Paolo – significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere” (Fil 1,22): se l’unione piena con Cristo al di là della morte, o il servizio al suo corpo mistico in questa terra.
Cari amici, il Vangelo ha trasformato il mondo, e ancora lo sta trasformando, come un fiume che irriga un immenso campo. Rivolgiamoci in preghiera alla Vergine Maria, perché in tutta la Chiesa maturino vocazioni sacerdotali, religiose e laicali per il servizio della nuova evangelizzazione.

OMELIA DOMENICA 25A, 21 OTTOBRE : « AMICO, IO NON TI FACCIO TORTO… »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/5-Ordinario-A-2014/Omelie/25a-Domenica-A/12-25a-Domenica-A-2014-SC.htm

21 SETTEMBRE 2014 | 25A DOMENICA A | T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

« AMICO, IO NON TI FACCIO TORTO…NON POSSO FARE DELLE MIE COSE QUELLO CHE VOGLIO? »

I conti con il Signore non tornano mai! Non appena ci sembra di averlo afferrato nel suo mistero o nei suoi atteggiamenti, ci sfugge di mano, ci pone problemi nuovi, diventa ancora indefinibile: egli sta sempre al di là e al di sopra dell’immagine, anche più alta, che possiamo farci di lui.

« I miei pensieri non sono i vostri pensieri »
È quanto ci ricorda il Secondo Isaia quando esortava i suoi contemporanei, che forse nell’euforia del ritorno imminente dall’esilio facevano progetti di ricostruzione, di prestigio politico, magari anche di vendetta sul nemico babilonese, a correggere i loro calcoli e i loro sentimenti:
« Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri,
le vostre vie non sono le mie vie…
Quanto il cielo sovrasta la terra,
tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,
i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri » (Is 55,8-9).

Le « vie » e i « pensieri » di Dio stanno a rappresentare i suoi comportamenti e i suoi progetti salvifici, che eccedono all’infinito, come il cielo « sovrasta » la terra, i miopi progetti umani.
Così, nel caso concreto, nel ritorno degli Ebrei dall’esilio Iddio voleva che si vedesse il « segno » del suo amore verso il suo popolo, esigendo però da lui la « conversione » del cuore: il « ritorno » nella propria terra doveva esprimere soprattutto un « ritorno » a Dio. Non si trattava tanto di un evento politico, quanto di un evento religioso, che doveva trovare la sua manifestazione concreta nella « ricerca » faticosa, ma costante, di ciò che piace a Dio: « Cercate il Signore, mentre si fa trovare, / invocatelo mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via / e l’uomo iniquo i suoi pensieri; / ritorni al Signore che avrà misericordia di lui / e al nostro Dio che largamente perdona » (Is 55,6-7).
La « conversione » viene qui descritta nel suo duplice aspetto: positivo, che è quello di « cercare il Signore » (v. 6);1 e negativo, che è quello di « abbandonare » il peccato (v. 7).
Israele però sembra non aver capito il piano di Dio: gli stava sfuggendo la dimensione « spirituale » dell’evento storico che viveva. In tal modo l’esperienza dell’esilio non gli avrebbe insegnato niente per l’avvenire: sarebbe rimasto sempre il popolo dal « cuore incirconciso »! Ecco perché il Signore, per mezzo del Profeta, lo invita a « capovolgere » il suo modo di pensare e di vivere: « Le vostre vie non sono le mie vie » (v. 8).
« Il regno dei cieli è simile a un padrone che uscì a prendere a giornata lavoratori per la sua vigna »
Che Dio « capovolga » i nostri più comuni modi di giudicare, di valutare e anche di comportarci è dimostrato, in forma assai pittoresca, dalla vivacissima parabola degli operai invitati, a ore diverse, a lavorare nella vigna, e che è esclusiva di Matteo: segno evidente, questo, che essa si inseriva molto bene nella sua prospettiva teologica, come diremo tra poco. Contravvenendo a tutte le attese degli operai che avevano lavorato di più e anche alle norme di « giustizia » corrente, il padrone dà a tutti lo stesso stipendio, provocando disagio e « mormorazione » tra quelli che avevano lavorato più a lungo e più duramente degli altri.
La prima parte della parabola ci descrive l’invito, ad ore diverse, per andare a lavorare nella vigna (Mt 20,1-4). Lo stesso fece verso mezzogiorno, verso le tre, e anche verso le cinque (vv. 5-7), cioè quando mancava appena un’ora alla fine del lavoro.
Fin qui niente di strano nel comportamento del padrone, salvo questo invito fatto all’ultimo momento della giornata. Ma anche questo poteva avere una sua spiegazione, nel senso che il lavoro era urgente (si pensi alla vendemmia) e bisognava utilizzare tutte le energie disponibili. In ogni modo, è chiara l’intenzione del parabolista di rilevare la notevole differenza di tempo nelle prestazioni dei lavoratori: c’è chi ha lavorato appena « un’ora », e c’è chi ha davvero « sopportato il peso della giornata e il caldo » (v. 12).
In tal modo egli prepara, molto abilmente, la reazione e la sorpresa che ci coglie tutti davanti allo strano comportamento del « padrone » descrittoci nella seconda parte della parabola (vv. 8-16).
Letterariamente, anche qui c’è da notare l’accorgimento di far incominciare la riscossione proprio dagli « ultimi »: si prepara così il terreno sia al crescere del desiderio dei « primi » di aver di più del pattuito, sia alla loro delusione e alla aperta contestazione quando si vedono trattati alla stessa maniera degli altri.
Determinanti, per capire il senso della parabola, rimangono le parole del padrone, con cui egli si giustifica davanti ai contestatori: « Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro?… Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? » (vv. 13.15). Per un verso, dunque, il padrone è « giusto », perché osserva le condizioni del contratto; per un altro verso, invece, va « al di là » della giustizia, dando a qualcuno di più e attingendo solo alla sua « bontà » e « generosità ».
Una « bontà » però, quella del padrone, che suscita la « gelosia » di quelli che avevano lavorato di più, i quali, ovviamente, si lamentano perché non viene offerta anche a loro che, oltre tutto, hanno qualche merito più degli altri. Una « bontà » che discrimina non è forse, in qualche modo, anch’essa una forma di « ingiustizia »? Dove va allora a finire la stessa decantata « giustizia » del padrone, che dichiara di non volere « far torto » a nessuno, pur usando particolare benevolenza verso alcuni?
Uno squarcio di « autobiografia » di Gesù
Certo è che la parabola non è facile a spiegarsi, se la interpretiamo in forma rigida e al di fuori dei vari « livelli » di significato in cui è stata collocata da Gesù quando l’ha detta la prima volta, e poi dall’Evangelista quando l’ha riadattata per i suoi lettori.
Al di là dei rigidi schematismi di « giustizia », o anche di « bontà » che sembrerebbe non estendersi in eguale misura a tutti, mi sembra che l’idea di fondo è che l’agire di Dio è imprevedibile, rompe tutti gli argini, è completamente gratuito; più che esigere, offre sempre qualcosa. Anche con gli operai della prima ora, in realtà, è stata solamente sua l’iniziativa dell’invito: se essi hanno lavorato di più, è già sua « grazia », è già sua benevolenza. Non ha senso, perciò, la loro recriminazione.
Situata in questa prospettiva, la parabola diventa uno squarcio di « autobiografia » da parte di Gesù. Andando controcorrente, egli aveva accolto tutti i reietti e gli emarginati del suo tempo: pubblicani come Matteo e Zaccheo, peccatori e peccatrici, malati, lebbrosi, storpi, gente umile e semplice. I farisei, che per la loro rigorosa osservanza della Legge pensavano di dover essere privilegiati, si erano visti invece mettere da parte. Di qui la loro reazione e le accuse contro Gesù, il quale si difende dimostrando come in lui si riveli il volto nuovo di Dio: un Dio che « accetta » tutti, anche gli « ultimi », perché non vuole discriminare nessuno e vuole offrire davvero la salvezza a tutti, facendo tutti entrare nella sua « vigna » a qualsiasi « ora » della giornata.
Accettando però gli ultimi, non escludeva i primi: soltanto voleva togliere loro la presunzione di particolari meriti o privilegi davanti a lui.
Se un privilegio ci dev’essere, è quello dell’amore più grande che va riservato a chi più ne ha bisogno, come è appunto chi viene da lontano, o ha sofferto o soffre di più. È l’attenzione delicatissima che il padre ha verso il figlio prodigo e che non sottrae nulla all’amore che egli continua ad avere verso il maggiore, che però pensa, anche lui, di essere fatto oggetto di ingiustizia: « Figlio, tu sei sempre con me, e tutto quello che io ho è tuo. Era ben giusto far festa e darsi alla gioia, perché questo tuo fratello era morto ed è ritornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato » (Lc 15,31-32).
Perché rattristarsi o ingelosirsi, se l’amore di Dio si dona con eguale generosità a tutti? Gesù ci insegna con questa parabola ad avere il cuore grande, ad accettare gli altri, anche se essi ridimensionano i nostri privilegi o i nostri vantaggi, a non contare sui nostri « diritti » davanti a Dio (perché nessuno ce li ha!), ma solo sulla sua benevolenza e sul suo amore.
« Così gli ultimi saranno i primi… »
Quando poi Matteo ha messo per iscritto il suo Vangelo, c’era nella Chiesa primitiva il grosso dibattito dell’ammissione dei pagani alla fede cristiana: dovevano essi passare per le pratiche giudaiche, come sostenevano quelli della fazione più rigorista; o era sufficiente la fede in Cristo, espressa nel Battesimo, come insegnava e praticava Paolo nelle comunità da lui fondate fuori della Palestina? La Lettera ai Galati e il cap. 15 degli Atti degli Apostoli sono una testimonianza del durissimo confronto sorto all’interno della Chiesa e risolto in favore della « libertà » dalla Legge mosaica: « In Cristo Gesù né la circoncisione vale alcunché né la incirconcisione, ma la nuova creatura » (Gal 6,15).
La nostra parabola si pone al centro di questa controversia. Rivolta non più agli avversari storici di Gesù ma ai credenti, essa prende un significato accentuatamente « ecclesiologico ». Non si tratta più, ora, di giustificare l’atteggiamento del Maestro, bensì la condotta della Chiesa di fronte al mondo pagano: i lavoratori dell’ultima « ora » sono appunto gli incirconcisi, mentre i Giudei rappresentano quelli della prima ora, che rivendicano per sé qualche cosa « di più », privilegi appunto.
L’Evangelista intende demolire queste pretese, e anzi afferma un capovolgimento anche più radicale nei rapporti di Dio con gli uomini: non soltanto egli non fa distinzione o preferenze tra pagani e Giudei, perché tutti hanno bisogno di essere salvati; ma quelli che avanzano pretese davanti a lui, come facevano appunto i Giudei, saranno collocati all’ultimo posto. È il senso drammatico della sentenza che chiude la parabola: « Così gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi » (v. 16).
Anche nella Chiesa tutto è gratuito: è gratuita l’innocenza e la verginità di Lucia o di santa Teresa di Lisieux, la testimonianza fino al martirio di Pietro o di Paolo, la conversione di Agostino o di Charles de Foucauld, la scienza teologica di Tommaso d’Aquino o di Antonio Rosmini, la carità immensa di Madre Teresa di Calcutta, proprio perché nessuno avanzi meriti o pretese davanti a Dio. È lui soltanto che ci invita a « lavorare » nella sua vigna: non è il più o meno di lavoro o di prestazioni che conta, ma l’amore e la fiducia che egli dimostra verso ognuno di noi in « ogni » momento della nostra esistenza.
Se avremo messo a frutto il suo « amore » gratuito, avremo espresso anche il massimo del nostro rendimento, che però lasciamo solo a lui, in piena umiltà e fiducia, di giudicare e valutare: nella misura, infatti, in cui pretendessimo qualche riconoscimento al nostro lavoro, diventeremmo « mercenari » e cesseremmo di essere « figli »! Fuggiremmo dal Vangelo, che è grazia, per ritornare sotto il giogo della Legge, che Cristo ha condannato perché incapace di riscattare l’uomo dalla sua « autosufficienza ».
« Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno »
La seconda lettura ci apre uno spiraglio sulla fisionomia spirituale dell’apostolo Paolo: arrivato anche lui in ritardo a « lavorare » nella vigna del Signore, ha sperimentato più di qualsiasi altro che la salvezza « non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia » (Rm 9,16).
Immerso fino al collo nel suo lavoro apostolico e posto davanti al problema della morte, che doveva apparirgli molto probabile da qualche segno premonitore (la prigionia, qualche acuta sofferenza fisica, ecc.), egli si dichiara completamente disponibile a fare la volontà del Signore, qualunque essa sia. Se continuerà a « vivere », è il Cristo che egli dilaterà nell’annunzio evangelico e nella esperienza della propria vita; se « morirà », sarà anche « meglio », perché incontrerà più pienamente il Signore.
L’importante è che si faccia in lui ciò che piace a Dio, perché è lui che l’ha chiamato ad essere Apostolo. Il cristiano, infatti, si realizza soltanto nella misura in cui si lascia possedere da Cristo, cioè si lascia « gratificare » dall’amore sovrabbondante del suo Signore. Non ha senso l’essere primo o essere l’ultimo, continuare a vivere o morire: ha senso solamente sentirsi oggetto dell’amore di Dio, che non è limitato da alcuna barriera, neppure da quella della morte.
Dovendo però esprimere un desiderio, l’Apostolo chiede che si faccia di lui quello che è più « utile » ai fratelli, magari anche il rimanere in vita per essere di « aiuto » e di conforto agli altri (Fil 1,20-27).
La gratuità dell’amore di Cristo spinge l’Apostolo a spendersi totalmente per i fratelli. Non c’è bisogno di chiedere un premio speciale anche per chi, come Paolo, ha lavorato « più abbondantemente » di tutti gli altri (cf 1 Cor 15,10): il premio è già nella stessa possibilità di amare, che ci viene concessa solo da Dio.

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche, Editrice Elle

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 19 septembre, 2014 |Pas de commentaires »
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