Archive pour septembre, 2014

SAN PAOLO (E I BAMBINI)

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SAN PAOLO (E I BAMBINI)

Basta aprire una Bibbia e guardare l’indice per rendersi conto che sui 27 libri che compongono il Nuovo Testamento, 13, portano il nome di Paolo. Paolo è stato al contempo missionario, fondatore di comunità, autore di scritti, teologo, mistico nella sua unione profonda con Gesù Cristo ed è stato martire, ha dato la sua vita per Gesù.

Sabato scorso ero nella grande basilica di S. Paolo, dove mi avevano chiesto di celebrare una messa per i bambini delle elementari. Non è facile predicare ai bambini, e per raccontare loro qualcosa su S.Paolo ho detto: “Voi capite che senza i vostri genitori, senza papà e mamma non sareste qui. Allo stesso modo, senza S. Paolo, noi non saremmo cristiani!”. Sembra una frase esagerata e sicuramente in parte lo è, ma almeno non saremmo cristiani come lo siamo ora, non sappiamo come lo saremmo stati senza di lui. Questo ci può già introdurre alla figura di Paolo, alla sua grandezza straordinaria nell’ambito del cristianesimo delle origini. Basta aprire una Bibbia e guardare l’indice per rendersi conto che sui 27 libri che compongono il Nuovo Testamento, 13, portano il nome di Paolo. Paolo è stato al contempo missionario, fondatore di comunità, autore di scritti, teologo, mistico nella sua unione profonda con Gesù Cristo ed è stato martire, ha dato la sua vita per Gesù. In lui incontriamo una persona che è stata a contatto con tre diverse culture: nato a Tarso, in Turchia, un territorio che faceva parte dell’impero romano e nel quale si parlava greco, però da famiglia ebraica della diaspora, e in possesso dela cittadinanza romana che era un grande privilegio. Sicuramente viene istruito già da bambino alla religione dei Padri. Scrive Luca- ma anche Paolo stesso- che era stato educato secondo la dottrina dei farisei, una delle correnti religiose interne all’ebraismo che avevano un grande rispetto verso la Legge e le tradizioni dei Padri. Sempre Luca negli Atti ci racconta che S.Paolo è stato formato alla scuola di Gamaliele (At 22,3), uno dei più grandi rabbini del tempo. Ma c’è un incontro che gli sconvolge la vita, per cui oltre a essere erede delle culture ebraica, greca e romana, soprattutto quello che feconda il suo pensiero e il suo agire è l’incontro con la persona di Gesù Cristo.
Ma quali sono le fonti su Paolo? Sono essenzialmente due: i suoi scritti, sette lettere da tutti comunemente ritenute paoline (protopaoline), 1Ts, 1Cor, 2Cor, Fil, Gal, Rom, Fm. Le altre, dette deutero-paoline, Ef, Col, 2Ts, sono paoline per pensiero, tono, contenuti teologici, ma molto probabilmente sono di suoi discepoli, che portano avanti il suo pensiero. Anche queste ci permettono di conoscere Paolo e l’influsso del suo pensiero su queste prime comunità da lui fondate. L’altra fonte per conoscere Paolo è opera di un biografo d’eccezione, l’evangelista Luca, che ha scritto anche gli Atti degli Apostoli. Dal titolo potremmo pensare che gli Atti raccontino le vicende dei dodici Apostoli, invece se lo sfogliamo, ed è raccomandabile farlo almeno una volta dall’inizio alla fine, perché è un bellissimo libro, avvincente, avventuroso, ci rendiamo conto che non vi è descritta la storia dei Dodici, ma di fatto soltanto di due, cioè almeno fino al cap. 15 si parla prevalentemente di Pietro, e poi di Paolo, prima con un primo accenno nel capitolo 6, per continuare con il cap. 9 nel quale viene raccontata la cosiddetta conversione di Paolo, fino a quando diviene lui il protagonista principale. È interessante notare che Luca non usa mai l’appellativo di Apostolo per designare Paolo, ma solo per Pietro, perché nella Chiesa degli inizi gran parte dei credenti in Cristo ritenevano Apostoli soltanto coloro che avevano vissuto accanto a Gesù la sua attività pubblica e avevano assistito alla sua morte e resurrezione. Paolo non aveva queste caratteristiche, non aveva conosciuto il Gesù terreno, non era stato suo discepolo durante l’attività pubblica di Gesù.
Le due grandi fonti sono dunque gli Atti degli Apostoli e l’epistolario paolino, poi ci sono gli apocrifi che possono raccontarci qualche particolare, come gli Atti di Paolo e gli Atti di Tecla, una sua discepola. Per esempio le fonti che ci raccontano del martirio di Paolo alle Tre Fontane risalgono alla fine del V, inizio del VI secolo, mentre abbiamo fonti del III secolo sulla sepoltura di Paolo sulla via Ostiense.
Luca racconta per ben tre volte l’incontro di Paolo con Gesù sulla via di Damasco. La prima volta in At 9, poi in At 22 e infine in At 26, quando Paolo ne parla di fronte al governatore, dopo essere stato arrestato. Se questo evento viene raccontato tre volte, vuol dire che Luca gli riconosce un’importanza decisiva per il cristianesimo degli inizi.
Vorrei leggervi la fine degli Atti degli Apostoli, il cap. 28. Dopo aver raccontato tutte le vicende di Paolo, dopo aver raccontato nel capitolo 27 il viaggio da Cesarea, dove era prigioniero, fino all’Italia, passando per il Mediterraneo, facendo naufragio, poi l’approdo a Malta, poi Pozzuoli, l’arrivo alle Tre Taverne e infine a Roma, l’ultimo capitolo così continua:
At 28, 16-31
16Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per suo conto con un soldato di guardia. 17Dopo tre giorni, egli convocò a sé i più in vista tra i Giudei e venuti che furono, disse loro: «Fratelli, senza aver fatto nulla contro il mio popolo e contro le usanze dei padri, sono stato arrestato a Gerusalemme e consegnato in mano dei Romani. 18Questi, dopo avermi interrogato, volevano rilasciarmi, non avendo trovato in me alcuna colpa degna di morte. 19Ma continuando i Giudei ad opporsi, sono stato costretto ad appellarmi a Cesare, senza intendere con questo muovere accuse contro il mio popolo. 20Ecco perché vi ho chiamati, per vedervi e parlarvi, poiché è a causa della speranza d’Israele che io sono legato da questa catena». 21Essi gli risposero: «Noi non abbiamo ricevuto nessuna lettera sul tuo conto dalla Giudea né alcuno dei fratelli è venuto a riferire o a parlar male di te. 22Ci sembra bene tuttavia ascoltare da te quello che pensi; di questa setta infatti sappiamo che trova dovunque opposizione».
La setta di cui si parla sono i cristiani. All’interno del giudaismo del tempo i giudei che avevano riconosciuto in Gesù il Messia venivano chiamati Nazorei, cioè i seguaci del Nazareno, era considerata una setta all’interno del giudaismo, e non era l’unica,
23E fissatogli un giorno, vennero in molti da lui nel suo alloggio;
Paolo era agli arresti domiciliari
egli dal mattino alla sera espose loro accuratamente, rendendo la sua testimonianza, il regno di Dio, cercando di convincerli riguardo a Gesù, in base alla Legge di Mosè e ai Profeti. 24Alcuni aderirono alle cose da lui dette, ma altri non vollero credere 25e se ne andavano discordi tra loro, mentre Paolo diceva questa sola frase: «Ha detto bene lo Spirito Santo, per bocca del profeta Isaia, ai nostri padri:
26Và da questo popolo e dì loro:
Udrete con i vostri orecchi, ma non comprenderete;
guarderete con i vostri occhi, ma non vedrete.
27Perché il cuore di questo popolo si è indurito:
e hanno ascoltato di mala voglia con gli orecchi;
hanno chiuso i loro occhi
per non vedere con gli occhi
non ascoltare con gli orecchi,
non comprendere nel loro cuore e non convertirsi,
perché io li risani.
28Sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani ed essi l’ascolteranno!». 29.
Questo rispecchia tutta la prassi paolina, l’annuncio nell’Asia Minore era rivolto in prima istanza ai giudei, dove Paolo andava a predicare di sabato nella sinagoga, essendo lui stesso giudeo, e predicando loro la venuta del Messia, Gesù Cristo. Solo dopo che, quasi dappertutto, veniva opposto un rifiuto a questa predicazione, Paolo si rivolgeva ai pagani, così farà anche a Roma.
30Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, 31annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento.
Franchezza è qui la traduzione del termine greco parresia che esprime anche coraggio, verità, trasparenza.
Così finisce la storia di Paolo, non finisce con la sua morte, non finisce con il racconto del suo martirio. Sicuramente gli Atti degli Apostoli sono stati scritti intorno agli anni 80, molto probabilmente il martirio di Paolo è avvenuto a Roma intorno al 60, quindi quando Luca scrive sono passati almeno venti anni dall’evento. Tutti sapevano che Paolo era morto martire a Roma. Perché Luca finisce così gli Atti? Perché questo finale tronco, senza una vera conclusione? Queste domande hanno incuriosito gli studiosi e molte ipotesi sono state fatte per tentare di dare una risposta. Il libro finisce così probabilmente per un intento letterario, è un’opera che finisce, ma in modo aperto, senza realmente finire. Luca che ha raccontato continuamente la corsa di questa parola in tutti i luoghi nei quali veniva annunciata, dopo aver detto all’inizio degli Atti:

At 1,8
8ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra

alla fine del libro è come se ci mostrasse che Roma rappresenta i confini della terra, quindi l’intento iniziale del racconto è raggiunto, la parola ha compiuto la sua corsa fino al centro dell’impero, ma non viene arrestata, impedita. In qualche modo, e questa è l’interpretazione che danno diversi autori, e che mi sento di condividere, Luca vuol mostrare che questa parola non ha terminato la sua corsa, che in qualche modo Paolo è ancora vivo, che continua a predicare.
Luca negli Atti non nomina mai gli scritti di Paolo e se avessimo solo gli Atti non sapremmo nemmeno che Paolo ha scritto delle lettere. Questa è un’altra domanda alla quale non si è ancora data risposta: perché Luca non accenna mai agli scritti di Paolo? Questo messaggio molto bello, molto forte, è però che questa parola portata da Paolo continua a correre per annunciare il Regno di Dio, e questo Regno di Dio ha il suo centro in Gesù Cristo. Luca è il grande, entusiasta biografo, che racconta le vicende di Paolo, i suoi tre viaggi missionari, il primo negli anni 36-48, il secondo negli anni 50-52 e il terzo nel 52-55. Soltanto in base al racconto di Luca conosciamo questi viaggi, che attraverso le lettere di Paolo non potremmo mai ricostruire. L’ultimo viaggio verso Roma avviene negli anni 58-60. Le lettere di Paolo sono tutte state scritte negli anni 50. Tra la prima lettera scritta alla comunità di Tessalonica (Salonicco) e quella scritta ai Romani sono intercorsi meno di dieci anni. Sicuramente Paolo ha scritto altre lettere oltre a quelle che conosciamo, per esempio due lettere alla comunità di Corinto che sono andate perdute, a cui lui fa riferimento sia nella prima lettera ai Corinzi (che sarebbe in realtà la seconda) che nella seconda lettera ai Corinzi (che in realtà è la quarta).
È vero che il grande biografo di Paolo è Luca, ma se vogliamo conoscere ciò che Paolo dice di se stesso dobbiamo ricorrere ai suoi scritti. L’evento principale della sua storia è raccontato da Luca in tre brani come vi ho già detto, ma è raccontato da Paolo in Gal 1,11-2,14 e in Fil 3,1-11. Si parla spesso di conversione di Paolo, tra l’altro questo è l’evento simbolico per esprimere ogni conversione, quasi diventa il simbolo di ogni uomo che nel suo cammino cambia idea, si ricrede e abbraccia una nuova via che lo trasforma. Ebbene, Paolo non usa mai questo termine per descrivere quello che gli è successo sulla strada di Damasco, non usa la parola conversione in nessuna delle accezioni che abbiamo nel NT, per esempio quando Gesù dice: convertitevi e credete al vangelo (Mc 1,15), nel vangelo troviamo una parola greca, metànoia, che significa cambiate mentalità, ricredetevi. Questa parola o altre che vogliono dire volgersi da una vita di peccato ad una vita virtuosa, non c’è in Paolo. Quando lui racconta quello che gli è successo usa la parola rivelazione o illuminazione o, soprattutto, chiamata. In Gal 1,15-16 troviamo:
15Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque 16di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo
questo è il linguaggio che usa Paolo per descrivere questo evento. Lo stesso vocabolario che incontriamo nella chiamata di Geremia (Ger 1) oppure nel canto del servo di Yahveh in Is 42,6
6Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano;
Quando Paolo scrive la lettera ai Galati (54 d.C.), sono passati venti anni dall’evento di Damasco (32-33), ma lui mantiene tutta la freschezza nel raccontare l’episodio che gli ha cambiato la vita, come se fosse appena successo, usa il tono che ci potremmo aspettare da un neoconvertito e nei termini con cui i profeti dell’AT avevano ricevuto la loro chiamata. Paolo rilegge la sua chiamata alla luce della storia della rivelazione, della salvezza nell’AT. Come questi profeti erano stati chiamati e avevano fatto obiezione alla chiamata di Dio, come vediamo per esempio in Is 6, 4-7
4Vibravano gli stipiti delle porte alla voce di colui che gridava, mentre il tempio si riempiva di fumo. 5E dissi:
«Ohimè! Io sono perduto,
perché un uomo dalle labbra impure io sono
e in mezzo a un popolo
dalle labbra impure io abito;
eppure i miei occhi hanno visto
il re, il Signore degli eserciti».
6Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. 7Egli mi toccò la bocca e mi disse:
«Ecco, questo ha toccato le tue labbra,
perciò è scomparsa la tua iniquità
e il tuo peccato è espiato».
o in Ger 1,6:
6Risposi: «Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare,
perché sono giovane».
anche Paolo si sente in questa condizione, di colui al quale Dio affida una grande missione malgrado sia uno strumento debole ed incapace. Tutto il pensiero paolino si sviluppa a partire da questo evento fondamentale. Anche se lui lo racconta pochissime volte, non racconta i dettagli ma solo in cosa è consistito questo evento. Il brano forse più forte è nella lettera ai Filippesi
1Per il resto, fratelli miei, state lieti nel Signore.
Questa comunità di Filippi era quella alla quale lo legava anche un affetto molto forte. Paolo nelle comunità che ha fondato non ha mai accettato dei compensi, non ha mai chiesto di essere mantenuto, per togliere ogni sospetto che la sua attività avesse come scopo l’interesse personale, l’unica comunità dalla quale ha avuto degli aiuti è questa di Filippi.
A me non pesa e a voi è utile che vi scriva le stesse cose:
Segue uno dei versetti più duri di tutte le lettere:
2guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno circoncidere!
Qui entriamo nel tema cruciale per cui ho detto all’inizio che senza Paolo noi non saremmo cristiani così come lo siamo adesso, perché la grande questione che agitava la Chiesa degli inizi era questa, la questione della Legge, della circoncisione, delle pratiche alimentari. In una parola per diventare cristiani, per entrare a far parte della comunità dei seguaci di Gesù bisognava o no passare attraverso l’ebraismo? Il primo concilio della storia, anche se non viene usata questa parola, si è svolto proprio su questa questione cruciale. Viene raccontato in At 15 ed è interessante mettere a confronto il punto di vista di Luca, che scrive a trenta anni da quell’evento e ciò che Paolo racconta di quello stesso evento, di questo confronto con gli Apostoli:
Gal 2,1-10
1Dopo quattordici anni, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Barnaba, portando con me anche Tito: 2vi andai però in seguito ad una rivelazione. Esposi loro il vangelo che io predico tra i pagani, ma lo esposi privatamente alle persone più ragguardevoli, per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano.
Qui vediamo il legame che Paolo ha con coloro che erano apostoli prima di lui ed il rispetto che ha nei loro confronti. A Gerusalemme c’erano Pietro, Giacomo e Giovanni, e Paolo si rivolge a loro per essere confermato nel Vangelo che lui va predicando.
3Ora neppure Tito, che era con me, sebbene fosse greco, fu obbligato a farsi circoncidere.
Questo vuol dire che una nuova comprensione si era già impiantata nella Chiesa
4E questo proprio a causa dei falsi fratelli che si erano intromessi a spiare la libertà che abbiamo in Cristo Gesù, allo scopo di renderci schiavi. 5Ad essi però non cedemmo, per riguardo, neppure un istante, perché la verità del vangelo continuasse a rimanere salda tra di voi.
6Da parte dunque delle persone più ragguardevoli – quali fossero allora non m’interessa, perché Dio non bada a persona alcuna – a me, da quelle persone ragguardevoli, non fu imposto nulla di più. 7Anzi, visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi – 8poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per i pagani – 9e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi. 10Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di fare.
Questa è la questione cruciale: bisognava chiedere ai pagani che si convertissero e passassero attraverso la Legge di Mosè sulla circoncisione, l’osservanza dei precetti alimentari, l’osservanza del sabato, oppure c’era un’altra via? Luca racconta la soluzione di questo grande problema ponendo in At 10 Pietro come primo tra gli apostoli che assiste alla conversione di un pagano, Cornelio, e lo battezza. Cornelio viene battezzato non da Paolo, ma da Pietro. Pietro deve infatti difendersi dall’accusa dei suoi confratelli giudeo-cristiani che lo accusavano di aver ammesso nella comunità dei seguaci di Gesù, dei salvati, dei pagani non circoncisi. Pietro racconta che neanche per lui è stato facile accettare questa idea, che ha avuto la visione di una tovaglia che scendeva dal cielo,
At 10,11-15
11Vide il cielo aperto e un oggetto che discendeva come una tovaglia grande, calata a terra per i quattro capi. 12In essa c’era ogni sorta di quadrupedi e rettili della terra e uccelli del cielo. 13Allora risuonò una voce che gli diceva: «Alzati, Pietro, uccidi e mangia!». 14Ma Pietro rispose: «No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo». 15E la voce di nuovo a lui: «Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano».
Luca strategicamente racconta che è Pietro il primo a battezzare i pagani, a mostrare come lo Spirito Santo era sceso anche sui pagani.
Questo era il problema principale, ma c’erano altri problemi di questa Chiesa nascente che Gesù non aveva affrontato nel suo apostolato, Gesù non aveva predicato tante cose che si potevano applicare ai pagani, anzi di per sé lui non è mai uscito dalla terra di Israele, non ha parlato quasi mai con i pagani, tanto è vero che il mandato ai Dodici era di andare prima alle pecore perdute della casa di Israele. La Chiesa nascente si trova di fronte a cose nuove, delle quali Gesù non aveva parlato, a cui non aveva offerto soluzione, e che però la Chiesa nascente affronta ispirata dallo Spirito di Gesù. La questione principale è proprio questa, che i credenti in Gesù non devono passare per l’ebraismo in questo senso, e Paolo è il primo che fa questa esperienza su di sé. Se Paolo è così duro da chiamare cani quelli che spingono questi pagani di Filippi a osservare la legge mosaica e a farsi circoncidere, è proprio perché ne va del messaggio centrale del vangelo, è questione di vita e di morte per Paolo. Proseguiamo la lettura di Fil 2,3
3Siamo infatti noi i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Cristo Gesù, senza avere fiducia nella carne,
Carne non è il corpo fisico, ma aver fiducia nelle prerogative umane, in quello che siamo, nella nostra discendenza, nei titoli di studio, nell’intelligenza umana. Tutto questo significa “fiducia nella carne”.
4sebbene io possa vantarmi anche nella carne. Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: 5circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; 6quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge.
Quello che Paolo descrive qui era tutta la gloria di un ebreo, fiero, consapevole di se stesso, con un grande attaccamento alla Legge e alla tradizione dei padri, tutte queste cose erano preziosissime agli occhi degli ebrei, e tutte queste cose facevano la gloria di Paolo, e aggiunge che lui non solo era un fariseo zelante, ma era talmente zelante che questo zelo lo aveva spinto ad opporsi e a fronteggiare qualsiasi minaccia. Una delle minacce era rappresentata per lui da questa nuova setta che metteva in dubbio il valore della Legge e il luogo più sacro per l’ebraismo, cioè il Tempio. Stefano, il primo martire, viene accusato proprio di questo:
12E così sollevarono il popolo, gli anziani e gli scribi, gli piombarono addosso, lo catturarono e lo trascinarono davanti al sinedrio. 13Presentarono quindi dei falsi testimoni, che dissero: «Costui non cessa di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la legge. (At 6,12-13)
Per lo stesso motivo Paolo si trova ad avversare questa setta. Tra l’altro si racconta che coloro che lapidano Stefano depongono i loro mantelli ai piedi di un giovane che si chiama Saulo. Quindi lui ha assistito alla lapidazione e l’ha approvata interiormente. Paolo dice quindi di aver perseguitato la Chiesa, e se voi leggete il primo racconto che Luca fa al capitolo 9 degli Atti degli Apostoli, la voce che sente Paolo, caduto a terra, gli dice: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. È una frase strana perché Paolo avrebbe potuto rispondere che non stava perseguitando Gesù, ma i suoi seguaci, ma l’identificazione forte tra Gesù e i suoi seguaci è già un valore ecclesiologico, che poi troveremo molto forte nelle lettere di Paolo, la Chiesa è il corpo di Cristo. Lui ricorda che ha perseguitato Cristo e la sua Chiesa e per questo, ancor più, fa esperienza della Grazia, del dono immeritato di Dio, un dono che non è condizionato da nessun merito, da nessuna opera buona, anzi, visto che lui è stato persecutore della Chiesa e di Cristo stesso, Paolo aveva solo dei demeriti, delle colpe. Non era uno neutro, che per la prima volta conosceva Cristo, ma lo aveva perseguitato. In Gal 2,7 abbiamo la svolta:
7Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. 8Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura,
Il termine spazzatura è abbastanza nobile nella traduzione italiana, ma in greco la parola peripsema significa quello che rimane attaccato nelle pentole dopo aver cucinato.
al fine di guadagnare Cristo 9e di essere trovato in lui,
Questa è un’espressione tipica paolina. Essere cristiani per Paolo è essere in Cristo, oppure essere trovati in Lui. Dove sei? Dove ti trovi? Vi ricordate la domanda di Dio ad Adamo nel Paradiso terrestre?
non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. 10E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, 11con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti.
Tutto il mondo valoriale che Paolo aveva prima, il suo essere totalmente orientato, zelante, religioso, il suo obbedire alla Legge, tutte queste prerogative che erano preziose e in qualche modo restano tali, perché non è che queste cose in sé siano spazzatura, che non abbiano valore, ma tutte queste cose, con tutta la loro preziosità, se vengono messe a paragone con Cristo, diventano spazzatura. Non sono spazzatura in sé, ma lo divengono in questo caso, se messe a confronto con Cristo. Allora si capisce perché quando Paolo scrive le sue lettere, per affrontare i problemi concreti delle sue comunità, con i drammi, le disgrazie, ma anche gli errori e le eresie, Paolo non parte mai dal problema per arrivare alla soluzione, ma, come felicemente ha detto un suo studioso, Paolo parte sempre dalla soluzione per poi arrivare al problema. La soluzione che si staglia nettamente davanti ai suoi occhi è Cristo. Prima di tutto c’è Cristo, la sua morte e resurrezione, è il centro, per questo si dice che il pensiero di Paolo è cristocentrico.
Qui si accenna al grande tema della giustificazione in base solo alla fede, senza le opere della legge. Paolo è il grande teologo della Grazia, questo dono immeritato da parte di Dio si esplica soprattutto nella giustificazione del peccatore. C’è una frase in Rom 4,5
5a chi invece non lavora, ma crede in colui che giustifica l’empio, la sua fede gli viene accreditata come giustizia,
che non si era mai sentita, nemmeno nell’Antico Testamento. Non si era mai detto che Dio giustifica l’empio, semmai che Dio giudica l’empio, fino a condannarlo, qui si dice che l’amore di Dio precede ogni merito umano. Questo per Paolo è il vangelo più puro, e non è una sua invenzione, qualcosa che Gesù non ha detto, corrisponde al nucleo della bella notizia tramandataci da Gesù. Sarebbe una buona notizia se noi avessimo una religione per la quale, come in altre religioni, l’uomo viene amato e salvato da Dio solo se inizia a comportarsi bene, a rispettare i comandamenti? Non solo non sarebbe una buona notizia, non sarebbe nemmeno una notizia, nel senso di novità. La buona notizia è che Dio prende l’iniziativa, come vediamo in Rom 5,6
6Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito,
non quando siamo stati bravi, quando abbiamo iniziato una vita virtuosa, ma quando siamo peccatori. E qui capite quanto l’esperienza di Paolo sia stata decisiva per elaborare questo pensiero. Dio ha iniziato a volerci bene prima, anzi proprio il suo volerci bene, il suo venirci incontro ha reso possibile che noi potessimo fare esperienza della Grazia. Quindi giustificazione in base alla fede, che non è un’opera, ma un grande dono per accogliere il quale si possono soltanto aprire le braccia e, in base a questa esperienza, sentirsi in debito con tutti come fa Paolo, il suo debito è quello di proclamare questa bella notizia a tutti.
Domande:
Mi colpisce il rapporto di Paolo con la povertà. Il Cristo povero che posto ha?
In 2Cor 8 e 9, si tratta il tema della colletta e Paolo dà tutte le motivazioni, tocca tutti i registri rivolgendosi a questi destinatari di Corinto, perché capiscano il senso spirituale e teologico del fare elemosina. Non è semplicemente privarsi di qualcosa per aiutare gli altri, ma è motivato dall’agire di Cristo. Cristo nella sua incarnazione assume la condizione di servo (Fil 2,5-9 “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, 6il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; 7ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, 8umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. 9Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome”) . Oppure in Gal 4,4 quando si dice che si è fatto uomo (4Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge), dove si nomina l’origine umana di Gesù, come quella di tutti gli altri. In Fil si dice che il figlio di Dio si è fatto schiavo, un grande paradosso. Paolo non dice che questo avviene per amore, ma lo fa capire. Ancora in Gal 3,13 si dice che:
Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno o in 2Cor 5,21 Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio.
Un’espressione quasi scandalosa: Dio ha reso suo Figlio peccato perché noi ricevessimo la giustizia di Dio. I termini diventano paradossali proprio per esprimere quasi l’indicibile, per far capire che dietro questa azione di Dio in Gesù Cristo c’è un grandissimo amore. Tutto questo a favore dei meno meritevoli, tra cui i poveri, nel senso che sono coloro che hanno più bisogno. C’è poi un passo che potremmo paragonare alle Beatitudini, 1Cor 1,26-29
26Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. 27Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, 28Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, 29perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio.
Dio non è rimasto al di sopra delle parti, senza scegliere. Dio ha scelto da quale parte stare, è quello che è stato chiamato “opzione preferenziale” per i poveri, per i deboli, per gli emarginati. Preferenziale che non significa esclusiva, ma appunto che c’è un amore speciale di Dio per chi ha più bisogno e questo corrisponde esattamente alle Beatitudini: Beati i poveri. Dio ha scelto da quale parte stare, questo è un suggerimento per noi come Chiesa nel mondo di oggi, quale parte scegliere? Chi sono oggi i più svantaggiati, emarginati, messi da parte?
Un chiarimento sul titolo di Apostolo
Luca non chiama mai Paolo apostolo, ma Paolo quando si presenta nelle sue lettere si presenta come tale. Le lettere nell’antichità non erano come quelle di oggi, dove si inizia rivolgendosi al destinatario, si continua con il contenuto, i saluti e infine si scrive il mittente. Nell’antichità le lettere iniziano sempre con il mittente: Paolo, al quale segue la qualifica: apostolo di Cristo Gesù (appartenente a Lui, al suo servizio), per Grazia, per volontà di Dio, e poi troviamo i destinatari. Paolo non è un battitore libero, non è uno che ha avuto una rivelazione privata di Gesù ed è andato per conto suo. Lui riteneva indispensabile avere l’approvazione delle colonne della Chiesa, ma soprattutto Paolo trasmette e predica ciò che ha ricevuto, non solo da Cristo, ma dalle comunità nelle quali lui è stato anche educato, formato. La prima comunità che incontra è quella di Damasco, tramite Anania, e lì viene battezzato. O la comunità di Antiochia dove Paolo apprende il catechismo, cioè quello che ha ricevuto come intuizione iniziale lo ha poi appreso:

1Cor 15,1-9
1Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, 2e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano!
3Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati
Questo è il nucleo dell’annuncio cristiano, il kerygma, il riassunto principale delle cose da credere
secondo le Scritture, 4fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, 5e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. 6In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. 7Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. 8Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. 9Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio.
Lui si mette per ultimo, ma si colloca in questa lista di apostoli. Tra l’altro questo titolo di apostolo Paolo non lo riserva soltanto a sé, ma anche ai suoi collaboratori, addirittura lo applica ad una donna, in Rom 16,7 7Salutate Andronìco e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia; sono degli apostoli insigni che erano in Cristo gia prima di me. Capite che questo è scandaloso, perché Paolo stesso quando fa l’elenco dei carismi, mette l’apostolato al primo posto.
Perché Paolo lo conosciamo poco?
Uno studioso di S.Paolo, Daniel Marguerat, lo definisce l’enfant terrible, in italiano potremmo tradurre con pestifero, perché in qualche modo Paolo è stato sempre uno che ha scombussolato, ha detto cose scomode. Già nel Concilio di Gerusalemme non è che sia stato applaudito, in Gal 2,11 racconta di aver criticato Pietro
11Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto.
Albert Schweitzer ha affermato che “Paolo ha assicurato per sempre nel cristianesimo il diritto di pensare ». L’altro argomento è che le lettere di Paolo non sono facili da leggere, ma vale la pena faticarci un po’ perché ci permettono di andare alla freschezza del Vangelo. L’anno paolino avrà raggiunto il suo scopo se ciascuno di noi leggerà, mediterà e pregherà sulle lettere di Paolo.
La giustificazione per fede. Ci sono passi nei quali Paolo mostra il suo impegno come cristiano nella carità? Quale il rapporto tra Paolo e Giacomo che dice che la fede senza le opere è morta?
Giacomo probabilmente è già a conoscenza della dottrina paolina sulla giustificazione per fede e quindi esprime una visione del cristianesimo diversa su questo punto, difficilmente conciliabile. Innanzitutto emergono delle sfumature diverse sulla concezione di cristianesimo. Già il fatto che i vangeli siano quattro e non siano identici, ci fa capire che come il cristianesimo nasca già plurale, non monolitico, né uniforme, non tutti dicono la stessa cosa. Tutti riconoscono in Gesù l’essenziale, come Colui che è morto e risorto per la nostra salvezza, ma il modo di vivere e concepire questo ha delle sfumature diverse, per esempio il vangelo di Giovanni, così come esprime la presenza di Gesù, è diverso dagli altri vangeli, ma non possiamo dire che uno è giusto e l’altro sbagliato, esprime una fede della comunità nascente in cui sono nati questi scritti, che aveva delle sfumature diverse, non che fossero in contrasto o in tensione fra loro, l’immagine che meglio descrive questa diversità è quella di un concerto di una grande orchestra, dove ognuno suona il suo strumento e l’insieme di queste diverse partiture alla fine compone un’armonia.
Per quanto riguarda la fede e le opere, Paolo non esclude le opere, soprattutto non esclude l’amore fraterno, fattivo. In Gal 5,6 Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità si sintetizza tutto questo. Paolo non dice mai che le opere non sono importanti, dice che non vengono mai prima, ma dopo. Qui possono conciliarsi la sua posizione e quella di Giacomo, come già aveva notato Sant’Agostino Paolo dice che la giustificazione, il perdono, la riconciliazione avvengono per fede, senza le opere della Legge, però dopo ci sarà anche il giudizio sulle opere, ed è a questo che si riferisce Giacomo. Sono due momenti distinti, uno è costituito dalla fede che ci giustifica, che ci inserisce in Gesù Cristo, che ci fa persone nuove, e comunque è rispondere ad una chiamata, ma non è che poi non ci sia nulla da fare, c’è da fare, c’è da vivere l’unità, l’amore fraterno, il perdono, la colletta, tutte opere concrete sulle quali saremo giudicati. La giustificazione è dono gratuito, ma poi il cristiano è chiamato a compiere le opere dell’amore.
Karl Barth, grandissimo teologo protestante, scrive: “Ci secca sentire che siamo salvati dalla grazia, e solo dalla grazia. Non apprezziamo il fatto che Dio non ci debba nulla, che la nostra vita dipenda solo dalla sua bontà, che non ci resta che una grande umiltà e gratitudine di un bambino a cui hanno fatto un mucchio di regali. In realtà non ci piace affatto distogliere lo sguardo da noi stessi, preferiremmo molto ritirarci nel nostro circolo chiuso e stare con noi stessi. Per dirla schiettamente: non ci piace credere”. Se voi prendete il messaggio di Gesù vi rendete conto di quanto questo sia vero. Pensate alla parabola degli operai dell’ultima ora, io non so che effetto vi faccia sentirla, se vi lascia tranquilli o vi suscita la sensazione che quello che vi si racconta sia ingiusto. È esattamente questo. All’ultimo arrivato che non ha faticato, viene dato lo stesso compenso ricevuto da quelli che hanno faticato dal mattino. Gesù risponde: “Forse il tuo occhio è cattivo? Mi rimproveri perché io sono buono?” Queste domande rimangono senza risposta. E se una cosa nel testo rimane senza risposta, vuol dire che dobbiamo rispondere noi, ognuno di noi deve dare la sua risposta.

(Testimoni della Fede) I 12 Apostoli e i 4 Evangelisti – autore: don Giuseppe Pulcinelli

21 GIUGNO 2013: 50 ANNI FA L’ELEZIONE DI PAOLO VI, UN PONTIFICATO NEL SEGNO DELL’APOSTOLO DELLE GENTI

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21 GIUGNO 2013: 50 ANNI FA L’ELEZIONE DI PAOLO VI, UN PONTIFICATO NEL SEGNO DELL’APOSTOLO DELLE GENTI

Il 21 giugno 1963, venne eletto al Soglio Pontificio Paolo VI. Papa Montini, in precedenza arcivescovo di Milano, guidò la Chiesa per 15 anni in un periodo storico, fino al 1978, costellato da molti cambiamenti e tensioni sociali che Paolo VI però affrontò radicando in Cristo tutto il suo Magistero. Ce ne parla Benedetta Capelli:
21/06/2013
« Annuntio vobis gaudium magnum; habemus Papam (applausi) Eminentissimum et Reverendissimum Dominum, Dominum Joannes Baptista… ».

E’ il primo giorno di estate del 1963. Il sole illumina Piazza San Pietro e migliaia di persone accolgono con un lungo applauso e con uno sventolio di fazzoletti l’allora arcivescovo di Milano, il cardinale Giovanni Battista Montini, bresciano di Concesio, che sceglie il nome di Paolo VI. Era un devoto dell’Apostolo delle Genti, nei suoi appunti, lo definì il “primo teologo di Gesù Cristo”, colui che “portò il Vangelo al mondo con criteri di universalità, prototipo della cattolicità”. Una scelta che anticipava un tratto del suo Pontificato: l’evangelizzazione; fu infatti il primo Papa a prendere un aereo, nei suoi 15 anni sul soglio di Pietro visitò tutti e 5 i continenti. Ai fedeli presenti impartì la Benedizione Apostolica:
« Sit nomen Domini benedictum… »
E otto giorni dopo l’inizio del suo magistero, nella Solennità dei Santi Pietro e Paolo, così parlava del compito che lo attendeva:
“Il Signore ha voluto mettere sulle mie povere spalle, forse perché erano le più deboli e le più idonee a mostrare che non è Lui che vuole qualcosa da me. Ma è Lui che vuole dare a me la sua assistenza e la sua presenza e vuole agire su di me – strumento più debole – per mostrare la sua potenza, la sua libertà e la sua bontà”.
Nel corso della stessa celebrazione, Paolo VI non mancò di sottolineare l’affetto e il legame con i suoi paesani di Concesio, i fedeli dell’arcidiocesi di Milano e tutto il popolo di Dio al quale si rivolse chiedendo preghiere:
“Non so che sarà di me, ma io dico una cosa: in quel giorno – e potrebbe essere ogni giorno del mio calendario – io mi troverò stanco, oppresso e sentirò di essere come Simone debole e vacillante, capace di ogni infedeltà. Allora penserò che voi mi siete vicini con la vostra preghiera e voi fatemi un regalo: la vostra affezione e la vostra preghiera”. (applausi)
Innamorato di Cristo e radicato nel Vangelo, nella sua lunga carriera diplomatica Paolo VI fu anche un pastore appassionato. Al microfono di Benedetta Capelli, mons. Ettore Malnati, autore del libro “I gesti profetici di Paolo VI”, edito da Ancora:
R. – Bisogna entrare nell’animo, nella sensibilità di questo Pontefice: è la sua grande attenzione nei confronti dell’uomo coinvolto nella modernità, nelle dimensioni positive, nelle dimensioni negative. Il gesto fondamentale è la vicinanza della Chiesa al mondo nell’ascolto del mondo, perché anche il mondo può dare alla Chiesa un insegnamento. Questo sarà poi recepito nella Costituzione pastorale della Gaudium et Spes. Quindi, leggendo questo criterio montiniano noi comprendiamo tutti i vari gesti – piccoli e grandi – il suo voler ripartire dalla Terra Santa, la sua offerta della tiara per i poveri, la sua attenzione per i lavoratori. Poi, soprattutto, il grande gesto: non far perdere la profezia di Giovanni XXIII che ha voluto il Concilio.
D. – Quindi, dentro al mondo ma non del mondo…
R. – Non del mondo ma amando il mondo. Non significa essere controversi con il mondo, ma accompagnarlo come “buon samaritano” perché il mondo possa dare alla Chiesa l’opportunità di svolgere la sua missione di speranza e se vogliamo anche di “medico”. Ma anche cogliere dal mondo quelle che sono le urgenze, le necessità che il mondo ha nei confronti dell’evangelizzazione e di Dio. Bisogna dare al mondo la verità: Dio e Cristo. Ma anche alla Chiesa bisogna dare la verità: non un uomo stereotipato, ma l’uomo nella sua dimensione storica, nella sua fatica ed anche nelle sue imprese.
D. – Le cronache del tempo, però, lo hanno spesso lo hanno dipinto come un uomo “schiacciato” dal proprio tempo…
R. – Sì, certo, l’uomo “amletico”… Ma di amletico c’è poco o niente nella vita di Paolo VI. Era un uomo molto sereno, ma soprattutto molto responsabile. Siamo nel ’68, ferve il mondo della contestazione: ricordo quando ero a Roma a studiare, nei primi anni Settanta, ogni mercoledì c’era un corteo, c’era una manifestazione, c’era uno sciopero e si impediva in tutti i modi che il messaggio del mercoledì di Paolo VI potesse raggiungere con serenità coloro che volevano cogliere il Magistero petrino. Paolo VI fu un uomo con un grande senso di responsabilità del ruolo al quale lo Spirito Santo e i cardinali lo avevano chiamato.
D. – La radicalità evangelica e questo proporsi sempre come Vescovo di Roma lo fanno assomigliare in alcuni tratti a Papa Francesco?
R. – Basterebbe prendere le registrazioni delle omelie a braccio che Paolo VI ha fatto alle parrocchie romane: richiamando il suo ministero da sacerdote nelle periferie, Papa Francesco ci richiama e ci dice che bisogna andare nelle periferie e Paolo VI amava andare nelle periferie, lo amava già da arcivescovo di Milano. Lui pensa di fare delle periferie il centro della comunità: non solo la Chiesa, ma anche l’oratorio, la casa parrocchiale, il suo andare costantemente nelle fabbriche. Venne messa una bomba nell’arcivescovado di Milano, perché lui era chiamato “l’arcivescovo rosso”, quasi che il suo andare verso gli operai, le persone più in difficoltà, fosse una scelta ideologica. No, era una scelta da pastore, era una scelta cristiana, e per questo Giovanni XXIII fa di lui il primo dei suoi cardinali, facendo sì che tutto il mondo cattolico conoscesse questo vescovo così attento alla modernità. Proprio questa attenzione di Papa Giovanni farà sì che i conclavisti lo scelgano poi come successorie di Papa Roncalli.
Saranno quasi cinquemila i pellegrini della diocesi di Brescia che domani saranno ricevuti dal Papa, nel 50.mo anniversario dell’elezione di Papa Paolo VI. Un’iniziativa che rientra nell’Anno della Fede. Ma quanto ha inciso la figura di Papa Montini nella vita della diocesi di Brescia? Benedetta Capelli lo ha chiesto al vescovo. mons. Luciano Monari:
R. – La mia impressione è che la presenza viva cresca: mano che andiamo avanti, il ricordo di Papa Montini venga sentito intensamente per tutto quello che ha significato per la Chiesa. A me sembra che il suo ricordo cresca.
D. – Domani, avrete questo importante pellegrinaggio dal Papa: come vi siete preparati all’incontro con Papa Francesco?
R. – Abbiamo vissuto quest’Anno della Fede riprendendo il filone di quella professione di fede che fece, ai suoi tempi, Paolo VI come proposta a tutta la Chiesa. Questo ci ha aiutato un pochino a riprendere il cammino nostro, a rivedere lo stesso cammino che abbiamo fatto in questi anni e verificare le difficoltà che abbiamo incontrato, che sono state notevoli, però lo abbiamo fatto con quello spirito con cui le ha affrontate Papa Montini. Paolo VI aveva una percezione importante delle incoerenze del mondo, ma anche una specie di stima profonda per l’uomo, in tutto quello che l’uomo ha fatto, e quindi anche nella dimensione della cultura, della società, della scienza. A noi piacerebbe riprendere questo spirito per affrontare le situazioni che sono già nuove, rispetto a quelle che ha dovuto affrontare lui, ma che hanno bisogno dello stesso spirito, credo, per essere affrontate in modo costruttivo.
D. – Personalmente, lei che ricordo ha di Paolo VI?
R. – Il ricordo di Paolo VI è di quando era arcivescovo di Milano: io ero studente al Seminario lombardo e quindi ogni tanto veniva, passava, celebrava con noi. Ricordo il saluto che ci diede prima di entrare in Conclave: ci aveva esortato a non dare troppo retta a quello che stavano scrivendo i giornali sul Conclave, ma di cercare invece di leggere quell’avvenimento alla luce della fede, nella prospettiva dell’azione che il Signore, con il suo Spirito, continua a operare nella Chiesa. Questo me lo ricordo benissimo: perché eravamo davanti al Seminario e venne a salutarci proprio prima di entrare.

Publié dans:PAPA PAOLO VI |on 25 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

Rav Alberto Funaro suona lo Shofar al Tempio Maggiore di Roma

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Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO: LE FESTIVITÀ |on 24 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

IN ARRIVO ROSH HASHANAH, IL CAPODANNO EBRAICO

http://www.evangelici.net/notizie/1411382376.html

IN ARRIVO ROSH HASHANAH, IL CAPODANNO EBRAICO

Notizia inserita il 22/9/2014

Al tramonto del 24 settembre in tutte le comunità ebraiche prenderanno il via le celebrazioni dello Rosh Hashanah, il capodanno ebraico: la festa dura due giorni ed è anche occasione di introspezione, bilancio e propositi di miglioramento nel rapporto con il prossimo
La celebrazione di Rosh Hashanah, assieme a Yom Kippur, è parte di uno dei due giorni solenni del calendario biblico. Il termine letteralmente significa « capo dell’anno » e avviene tra il primo ed il secondo giorno del mese di tishrì (settembre-ottobre). Quest’anno esso viene celebrato tra il 24 e il 26 settembre.
Secondo la tradizione ebraica, questo giorno coincide con l’anniversario della creazione di Adamo ed Eva e viene chiamato, perciò, anche Giorno del Ricordo, enfatizzando la particolare relazione tra il Dio Creatore e l’umanità.
Nel Talmud è scritto che «a Rosh Ha-Shanà tutte le creature sono esaminate davanti al Signore». Non a caso tale giorno, nella tradizione ebraica, è chiamato anche « Yom Ha Din », il giorno del giudizio. Il giudizio divino verrà sigillato nel giorno di Kippur, il giorno dell’espiazione. Tra queste due date corrono sette giorni che sommati ai due di Rosh Ha-Shanà e a quello di Kippur vengono detti i « dieci giorni penitenziali ».
Il giorno di Rosh Hashanah pone una certa attenzione sul rapporto di ogni uomo con il proprio prossimo e con Dio, come anche sui propositi di miglioramento.
LO SHOFAR – L’osservanza centrale di Rosh Hashanah è il suono dello shofar, il corno di montone, che rappresenta il suono di tromba eseguito in occasione dell’incoronazione di un re da parte del suo popolo. Il suono dello Shofar rappresenta una chiamata al pentimento (teshuvà), che è altresì connessa al peccato del primo uomo e al pentimento per esso. Lo shofar rammenta, inoltre, il dono della Torah nel Sinai, che fu proprio accompagnato da questo suono e allude anche al passaggio escatologico di Isaia 27:13, che annuncia i tempi messianici e descrive un grande shofar, una « grande tromba ».
Il corno di montone è anche un simbolo connesso al sacrificio di Isacco e alla prontezza di Abrahamo nell’ubbidire al proprio Dio.
Israele, per Rosh Hashanah, supplica Dio che «il merito di Abrahamo possa stare sopra l’intero popolo» sicché Dio, nella sua compassione e misericordia, provveda un anno di vita, salute e prosperità. Durante il servizio del Capodanno, il popolo assiste al suono congiunto di cento shofar. Questo suono, biblicamente, serviva da segno per l’annuncio della santa convocazione, per cui Rosh Hashanah è detta anche la Festa delle Trombe.
I passaggi della Bibbia che descrivono questa celebrazione sono Levitico 23:23-25 e Numeri 29:1-6.

LA CELEBRAZIONE – Per Rosh Hashanah vengono consumati alcuni cibi dolci come una fetta di mela immersa nel miele (simbolo del desiderio di un anno dolce), i chicchi di un melograno (simbolo della richiesta che il popolo possa essere numeroso proprio come i chicchi di questo frutto) e altre pietanze tipiche. Inoltre, vengono recitate delle benedizioni vicendevoli utilizzando le parole Leshanah tovah tikateiv veteichateim (« che tu possa essere iscritto e sigillato per un buon anno ») e ha luogo l’enunciazione del Tashlich, una particolare preghiera recitata in prossimità di una fonte d’acqua (mare, fiume, stagno ecc.), dopo essersi svuotati le tasche, a simboleggiare il disfarsi delle colpe commesse e un impegno simbolico a rigettare ogni cattivo comportamento, evocando il versetto biblico di Michea 7:19 («Getterai i nostri peccati nelle profondità del mare»).
In questo giorno vengono altresì svolte le consuete azioni dei giorni festivi che includono il Kiddush e la benedizione sulla Challah (pane intrecciato tipico del sabato ebraico, lo shabbat).

(a cura di Ambra Marchese)

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO: LE FESTIVITÀ |on 24 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

ALLE RADICI DI UNA SPIRITUALITÀ SAPIENZIALE

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=114

ALLE RADICI DI UNA SPIRITUALITÀ SAPIENZIALE

sintesi della relazione di Armido Rizzi
Verbania Pallanza, 18 gennaio 1997

In una prima parte sarà presentato un itinerario fenomenologico (dai sapori alla sapienza). In un secondo momento saranno indicate alcune figure della sapienza. Più che di radici si parlerà di ambientazioni, di contestualizzazioni della sapienza.

un itinerario fenomenologico: dai sapori alla sapienza
il sapore
« Sapienza » come « sapore » viene dal latino sàpere, che corrisponde al nostro « aver sapore ». La prima accezione di sàpere è dalla parte dell’oggetto, dei sapori.
In italiano c’è un verbo che fa da ponte tra oggetto e soggetto ed è « gustare » (oltre al raffinato « assaporare »), che indica sia il sapore (il gusto) che il sentire il sapore.
Questa facilità a migrare dal soggetto all’oggetto sta ad indicare una forma di conoscenza in cui soggetto e oggetto sono profondamente uniti, una forma di conoscenza diversa da quella più comunemente intesa, quella cioè del soggetto « di fronte » all’oggetto. La prima riguarda il dato originario, il campo sorgivo del conoscere, rispetto al quale la seconda (quella che si rifà al senso del vedere) è un momento successivo.
Il gustare, l’avere buon gusto, riguarda non solo i sapori, ma tutto ciò che è bello e buono, come le tinte, i suoni, ecc.. Il gusto, nella sua accezione più generale, è il senso più soggettivo (non si può gustare a distanza, mentre si può vedere e sentire) ed è il meno strumentale, il cui valore è fine a se stesso.
Mentre la maggior parte dei sensi ha un valore strumentale, il gusto ha sempre una dimensione fruitiva, ha il massimo di carattere fruitivo. Ecco perché il gusto indica quella forma di conoscenza in cui il cuore delle cose e il cuore del soggetto sono più vicini.
il gusto del bello (la connaturalità estetica)
Il « buongustaio » non è semplicemente « chi gusta », ma chi sa valutare i gusti, chi sa riconoscere come buone, belle, valide le cose che lo sono davvero.
Si tratta qui di un sapere veritativo, in grado di dare dei giudizi di valore, non solo di fatto.
Tutto il mondo dell’estetica rientra in questo sapere veritativo. Quando dico di un qualche cosa che « è bello », intendo dire che è come deve essere, che è conforme ad un canone ideale, al tipo ideale di quella cosa. Chi ha buon gusto va oltre la superficie delle cose, per coglierne la forma, l’essenza.
Se è vero che qui abbiamo a che fare con giudizi di valore che presumono di dire ciò che è bello, buono, ecc., è anche vero che questi giudizi sono indimostrabili. Non esiste la dimostrazione scientifica del bello, del buono, del valido. Possiamo solo affidarci alla capacità di mettersi in sintonia tra soggetto e oggetto, alla quale uno può essere maggiormente predisposto e che comunque deve coltivare.
Questa disposizione di base e la successiva acclimatazione sono la connaturalità.
la sapienza
Oltre alla connaturalità estetica (che riguarda gli oggetti da contemplare) esiste anche una connaturalità operativa (che riguarda il saper fare), che, come la precedente, necessita sia di predisposizioni naturali che di apprendimento.
La sapienza è la convergenza di queste due connaturalità, è l’intelligenza insieme contemplativa e operativa, è la capacità di vedere che cosa è giusto fare.
È la prudentia dei latini, che indica non solo ciò che è bene evitare, ma che cosa è giusto fare.
« Giusto » è qui inteso non in senso strumentale, né nel senso estetico (la misura giusta), ma come il giusto della giustizia, che riguarda l’azione vista dal di dentro. È il giusto come canone dell’agire umano, che qualifica il soggetto umano come persona. La persona è vista come giusta o non giusta a seconda di ciò che fa. È la dimensione più profonda della persona ed è l’istanza ultima.
Non è la qualità dell’altro (di bellezza, di intelligenza, di giustizia) a definire l’esigenza dell’agire giusto, che mi definisce come persona giusta. Proprio il cogliere che devo comportarmi giustamente con l’altro mi fa percepire il suo valore incommensurabile, il suo carattere « sacro », il mio essere sempre in una posizione di debito.
È questo sapere indimostrabile ad indicare ciò che è la sapienza: il cogliere, al di dentro dell’esigenza di agire giustamente, il valore dell’altro in quanto colui nei confronti del quale devo agire giustamente indipendentemente da quello che ha o è.

alcune figure della sapienza
il cosmo umano
Il cosmo umano è quell’ordine globale, all’interno del quale i singoli tipi di azione e di comportamento si qualificano come giusti, proprio in quanto parti del tutto ordinato.
Se la sapienza è l’intelligenza che coglie ciò che è giusto, in questa figura lo coglie come parte di un « cosmo ordinato ».
Nelle religioni naturalistiche il cosmo umano è visto come inserito nel cosmo naturale. Le leggi del cosmo diventano le leggi della condotta umana.
Nell’ebraismo classico il cosmo umano è visto come comunità con cui Dio fa alleanza, a cui Dio dà la legge. Non è più il cosmo naturale, sdivinizzato, fonte di valore per l’agire umano.
Nel pensiero cristiano convergeranno la visione ebraica della comunità a cui Dio dà la legge e la riflessione della filosofia greca secondo cui la legge umana tende ad essere inserita nella legge cosmica. Le leggi della comunità umana acquistano un carattere ambiguo di « leggi naturali ».
Le tre sottofigure esposte si muovono all’interno del « principio-tradizione ». La sapienza, come modo giusto di guardare il mondo, è trasmessa di generazione in generazione ed è fatta risalire agli dei a Dio, come nell’ebraismo. La trasmissione, e l’origine divina, legittima ciò che viene trasmesso.
La modernità rompe con questo sapere sapienziale tramandato. « Sàpere aude! » Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza (Kant).
La fonte di legittimazione non è più la tradizione, ma la ragione adulta o il futuro, l’utopia. L’ideale del mondo giusto di domani diventa fonte di legittimazione di ciò che è giusto fare nel presente (es.: il marxismo).
Ma oggi anche il « principio-ragione » è entrato in crisi e si cerca di recuperare un sapere sapienziale
o rifacendosi alle tradizioni del passato (fondamentalismi);
o creando tradizioni nuove (New Age);
o affermando una « nuova laicità », la consapevolezza cioè che esiste, diffusa in tutta l’umanità in quanto dotata di coscienza etica, una sapienza, che può essere terreno comune tra uomini religiosi e non religiosi e che può favorire la nascita dell’uomo planetario (Balducci), consapevole insieme della propria universalità (« io sono soltanto un uomo ») e della propria parzialità (appartenenza ad una precisa tradizione e fede).
la sapienza celeste
È una figura che fa parte della tradizione cristiana cattolica. La costruzione di un mondo buono e giusto, la sapienza del cosmo umano, è vista come piattaforma per muoversi sin da ora in direzione della patria celeste (la sapienza celeste). Questa visione è rintracciabile nella teologia monastica.
cogliere i « segni dei tempi »
I segni dei tempi, il « kairòs », sono, in una prima accezione, i segni di un certo periodo storico, che bisogna cogliere per poter intervenire. Il profeta ha questo fiuto di saper cogliere dove sta andando la storia per potervi operare. I segni dei tempi sono qui visti nel loro risvolto culturale e storico.
Il fiuto dei processi storico-culturali, unito alla luce o fede a cui uno aderisce, è una forma di sapienza come capacità di leggere i segni dei tempi, che possiamo chiamare profezia.
la sapienza del tempo escatologico come sapienza dell’istante
Il « kairòs » è qui visto non in relazione ai fatti storici, ma all’istante, all’oggi continuo.
Con Gesù sono giunti i tempi ultimi, perché tutto il tempo, in ogni suo istante, è tempo di decisione come se fosse l’ultima. Ogni istante è un « kairòs » come senso che Dio ci dona e che ci sollecita ad una risposta. Ogni istante è una occasione irripetibile di diventare un po’ noi stessi, un’occasione quindi non semplicemente in base ai nostri interessi o gusti.
Nella parabola del fattore disonesto e scaltro (Lc 16,1-9), Gesù ci invita ad avere l’intelligenza (la scaltrezza) di capire che si è nel tempo escatologico, nel tempo che va sfruttato per diventare ciò che dobbiamo essere, non in base ai nostri progetti, opzioni o desideri, ma in base al progetto che Dio ha inscritto dentro di noi e per noi.
Il progetto che Dio ha su di noi è ultimativamente la disposizione ad amare, a farci amici i poveri diavoli che ci ospiteranno « nelle dimore eterne ».
L’ultima parola della sapienza evangelica è la sapienza dell’amore.

The Mother of God « Joy of All Who Sorrow »

The Mother of God

http://www.firebirdvideos.com/stinnocentchurch.htm

Publié dans:immagini sacre |on 23 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI: LA CONCEZIONE PAOLINA DELL’APOSTOLATO (COLLABORATORI DELLA GIOIA)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080910_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 10 settembre 2008

San Paolo (4)

LA CONCEZIONE PAOLINA DELL’APOSTOLATO (COLLABORATORI DELLA GIOIA)

Cari fratelli e sorelle,

mercoledì scorso ho parlato della grande svolta che si ebbe nella vita di san Paolo a seguito dell’incontro con il Cristo risorto. Gesù entrò nella sua vita e lo trasformò da persecutore in apostolo. Quell’incontro segnò l’inizio della sua missione: Paolo non poteva continuare a vivere come prima, adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di apostolo. E’ proprio di questa sua nuova condizione di vita, cioè dell’essere egli apostolo di Cristo, che vorrei parlare oggi. Noi normalmente, seguendo i Vangeli, identifichiamo i Dodici col titolo di apostoli, intendendo così indicare coloro che erano compagni di vita e ascoltatori dell’insegnamento di Gesù. Ma anche Paolo si sente vero apostolo e appare chiaro, pertanto, che il concetto paolino di apostolato non si restringe al gruppo dei Dodici. Ovviamente, Paolo sa distinguere bene il proprio caso da quello di coloro “che erano stati apostoli prima” di lui (Gal 1,17): ad essi riconosce un posto del tutto speciale nella vita della Chiesa. Eppure, come tutti sanno, anche san Paolo interpreta se stesso come Apostolo in senso stretto. Certo è che, al tempo delle origini cristiane, nessuno percorse tanti chilometri quanti lui, per terra e per mare, con il solo scopo di annunciare il Vangelo.
Quindi, egli aveva un concetto di apostolato che andava oltre quello legato soltanto al gruppo dei Dodici e tramandato soprattutto da san Luca negli Atti (cfr At 1,2.26; 6,2). Infatti, nella prima Lettera ai Corinzi Paolo opera una chiara distinzione tra “i Dodici” e “tutti gli apostoli”, menzionati come due diversi gruppi di beneficiari delle apparizioni del Risorto (cfr 14,5.7). In quello stesso testo egli passa poi a nominare umilmente se stesso come “l’infimo degli apostoli”, paragonandosi persino a un aborto e affermando testualmente: “Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,9-10). La metafora dell’aborto esprime un’estrema umiltà; la si troverà anche nella Lettera ai Romani di sant’Ignazio di Antiochia: “Sono l’ultimo di tutti, sono un aborto; ma mi sarà concesso di essere qualcosa, se raggiungerò Dio” (9,2). Ciò che il Vescovo di Antiochia dirà in rapporto al suo imminente martirio, prevedendo che esso capovolgerà la sua condizione di indegnità, san Paolo lo dice in relazione al proprio impegno apostolico: è in esso che si manifesta la fecondità della grazia di Dio, che sa appunto trasformare un uomo mal riuscito in uno splendido apostolo. Da persecutore a fondatore di Chiese: questo ha fatto Dio in uno che, dal punto di vista evangelico, avrebbe potuto essere considerato uno scarto!
Cos’è, dunque, secondo la concezione di san Paolo, ciò che fa di lui e di altri degli apostoli? Nelle sue Lettere appaiono tre caratteristiche principali, che costituiscono l’apostolo. La prima è di avere “visto il Signore” (cfr 1 Cor 9,1), cioè di avere avuto con lui un incontro determinante per la propria vita. Analogamente nella Lettera ai Galati (cfr 1,15-16) dirà di essere stato chiamato, quasi selezionato, per grazia di Dio con la rivelazione del Figlio suo in vista del lieto annuncio ai pagani. In definitiva, è il Signore che costituisce nell’apostolato, non la propria presunzione. L’apostolo non si fa da sé, ma tale è fatto dal Signore; quindi l’apostolo ha bisogno di rapportarsi costantemente al Signore. Non per nulla Paolo dice di essere “apostolo per vocazione” (Rm 1,1), cioè “non da parte di uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre” (Gal 1,1). Questa è la prima caratteristica: aver visto il Signore, essere stato chiamato da Lui.
La seconda caratteristica è di “essere stati inviati”. Lo stesso termine greco apóstolos significa appunto “inviato, mandato”, cioè ambasciatore e portatore di un messaggio; egli deve quindi agire come incaricato e rappresentante di un mandante. È per questo che Paolo si definisce “apostolo di Gesù Cristo” (1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1), cioè suo delegato, posto totalmente al suo servizio, tanto da chiamarsi anche “servo di Gesù Cristo” (Rm 1,1). Ancora una volta emerge in primo piano l’idea di una iniziativa altrui, quella di Dio in Cristo Gesù, a cui si è pienamente obbligati; ma soprattutto si sottolinea il fatto che da Lui si è ricevuta una missione da compiere in suo nome, mettendo assolutamente in secondo piano ogni interesse personale.
Il terzo requisito è l’esercizio dell’“annuncio del Vangelo”, con la conseguente fondazione di Chiese. Quello di “apostolo”, infatti, non è e non può essere un titolo onorifico. Esso impegna concretamente e anche drammaticamente tutta l’esistenza del soggetto interessato. Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo esclama: “Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore?” (9,1). Analogamente nella seconda Lettera ai Corinzi afferma: “La nostra lettera siete voi…, una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente” (3,2-3).
Non ci si stupisce, dunque, se il Crisostomo parla di Paolo come di “un’anima di diamante” (Panegirici, 1,8), e continua dicendo: “Allo stesso modo che il fuoco appiccandosi a materiali diversi si rafforza ancor di più…, così la parola di Paolo guadagnava alla propria causa tutti coloro con cui entrava in relazione, e coloro che gli facevano guerra, catturati dai suoi discorsi, diventavano un alimento per questo fuoco spirituale” (ibid., 7,11). Questo spiega perché Paolo definisca gli apostoli come “collaboratori di Dio” (1 Cor 3,9; 2 Cor 6,1), la cui grazia agisce con loro. Un elemento tipico del vero apostolo, messo bene in luce da san Paolo, è una sorta di identificazione tra Vangelo ed evangelizzatore, entrambi destinati alla medesima sorte. Nessuno come Paolo, infatti, ha evidenziato come l’annuncio della croce di Cristo appaia “scandalo e stoltezza” (1 Cor 1,23), a cui molti reagiscono con l’incomprensione ed il rifiuto. Ciò avveniva a quel tempo, e non deve stupire che altrettanto avvenga anche oggi. A questa sorte, di apparire “scandalo e stoltezza”, partecipa quindi l’apostolo e Paolo lo sa: è questa l’esperienza della sua vita. Ai Corinzi scrive, non senza una venatura di ironia: “Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino a oggi” (1 Cor 4,9-13). E’ un autoritratto della vita apostolica di san Paolo: in tutte queste sofferenze prevale la gioia di essere portatore della benedizione di Dio e della grazia del Vangelo.
Paolo, peraltro, condivide con la filosofia stoica del suo tempo l’idea di una tenace costanza in tutte le difficoltà che gli si presentano; ma egli supera la prospettiva meramente umanistica, richiamando la componente dell’amore di Dio e di Cristo: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8,35-39). Questa è la certezza, la gioia profonda che guida l’apostolo Paolo in tutte queste vicende: niente può separarci dall’amore di Dio. E questo amore è la vera ricchezza della vita umana.
Come si vede, san Paolo si era donato al Vangelo con tutta la sua esistenza; potremmo dire ventiquattr’ore su ventiquattro! E compiva il suo ministero con fedeltà e con gioia, “per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22). E nei confronti delle Chiese, pur sapendo di avere con esse un rapporto di paternità (cfr 1 Cor 4,15), se non addirittura di maternità (cfr Gal 4,19), si poneva in atteggiamento di completo servizio, dichiarando ammirevolmente: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1,24). Questa rimane la missione di tutti gli apostoli di Cristo in tutti i tempi: essere collaboratori della vera gioia.

 

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