OMELIA DOMENICA 25A, 21 OTTOBRE : « AMICO, IO NON TI FACCIO TORTO… »

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21 SETTEMBRE 2014 | 25A DOMENICA A | T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

« AMICO, IO NON TI FACCIO TORTO…NON POSSO FARE DELLE MIE COSE QUELLO CHE VOGLIO? »

I conti con il Signore non tornano mai! Non appena ci sembra di averlo afferrato nel suo mistero o nei suoi atteggiamenti, ci sfugge di mano, ci pone problemi nuovi, diventa ancora indefinibile: egli sta sempre al di là e al di sopra dell’immagine, anche più alta, che possiamo farci di lui.

« I miei pensieri non sono i vostri pensieri »
È quanto ci ricorda il Secondo Isaia quando esortava i suoi contemporanei, che forse nell’euforia del ritorno imminente dall’esilio facevano progetti di ricostruzione, di prestigio politico, magari anche di vendetta sul nemico babilonese, a correggere i loro calcoli e i loro sentimenti:
« Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri,
le vostre vie non sono le mie vie…
Quanto il cielo sovrasta la terra,
tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,
i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri » (Is 55,8-9).

Le « vie » e i « pensieri » di Dio stanno a rappresentare i suoi comportamenti e i suoi progetti salvifici, che eccedono all’infinito, come il cielo « sovrasta » la terra, i miopi progetti umani.
Così, nel caso concreto, nel ritorno degli Ebrei dall’esilio Iddio voleva che si vedesse il « segno » del suo amore verso il suo popolo, esigendo però da lui la « conversione » del cuore: il « ritorno » nella propria terra doveva esprimere soprattutto un « ritorno » a Dio. Non si trattava tanto di un evento politico, quanto di un evento religioso, che doveva trovare la sua manifestazione concreta nella « ricerca » faticosa, ma costante, di ciò che piace a Dio: « Cercate il Signore, mentre si fa trovare, / invocatelo mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via / e l’uomo iniquo i suoi pensieri; / ritorni al Signore che avrà misericordia di lui / e al nostro Dio che largamente perdona » (Is 55,6-7).
La « conversione » viene qui descritta nel suo duplice aspetto: positivo, che è quello di « cercare il Signore » (v. 6);1 e negativo, che è quello di « abbandonare » il peccato (v. 7).
Israele però sembra non aver capito il piano di Dio: gli stava sfuggendo la dimensione « spirituale » dell’evento storico che viveva. In tal modo l’esperienza dell’esilio non gli avrebbe insegnato niente per l’avvenire: sarebbe rimasto sempre il popolo dal « cuore incirconciso »! Ecco perché il Signore, per mezzo del Profeta, lo invita a « capovolgere » il suo modo di pensare e di vivere: « Le vostre vie non sono le mie vie » (v. 8).
« Il regno dei cieli è simile a un padrone che uscì a prendere a giornata lavoratori per la sua vigna »
Che Dio « capovolga » i nostri più comuni modi di giudicare, di valutare e anche di comportarci è dimostrato, in forma assai pittoresca, dalla vivacissima parabola degli operai invitati, a ore diverse, a lavorare nella vigna, e che è esclusiva di Matteo: segno evidente, questo, che essa si inseriva molto bene nella sua prospettiva teologica, come diremo tra poco. Contravvenendo a tutte le attese degli operai che avevano lavorato di più e anche alle norme di « giustizia » corrente, il padrone dà a tutti lo stesso stipendio, provocando disagio e « mormorazione » tra quelli che avevano lavorato più a lungo e più duramente degli altri.
La prima parte della parabola ci descrive l’invito, ad ore diverse, per andare a lavorare nella vigna (Mt 20,1-4). Lo stesso fece verso mezzogiorno, verso le tre, e anche verso le cinque (vv. 5-7), cioè quando mancava appena un’ora alla fine del lavoro.
Fin qui niente di strano nel comportamento del padrone, salvo questo invito fatto all’ultimo momento della giornata. Ma anche questo poteva avere una sua spiegazione, nel senso che il lavoro era urgente (si pensi alla vendemmia) e bisognava utilizzare tutte le energie disponibili. In ogni modo, è chiara l’intenzione del parabolista di rilevare la notevole differenza di tempo nelle prestazioni dei lavoratori: c’è chi ha lavorato appena « un’ora », e c’è chi ha davvero « sopportato il peso della giornata e il caldo » (v. 12).
In tal modo egli prepara, molto abilmente, la reazione e la sorpresa che ci coglie tutti davanti allo strano comportamento del « padrone » descrittoci nella seconda parte della parabola (vv. 8-16).
Letterariamente, anche qui c’è da notare l’accorgimento di far incominciare la riscossione proprio dagli « ultimi »: si prepara così il terreno sia al crescere del desiderio dei « primi » di aver di più del pattuito, sia alla loro delusione e alla aperta contestazione quando si vedono trattati alla stessa maniera degli altri.
Determinanti, per capire il senso della parabola, rimangono le parole del padrone, con cui egli si giustifica davanti ai contestatori: « Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro?… Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? » (vv. 13.15). Per un verso, dunque, il padrone è « giusto », perché osserva le condizioni del contratto; per un altro verso, invece, va « al di là » della giustizia, dando a qualcuno di più e attingendo solo alla sua « bontà » e « generosità ».
Una « bontà » però, quella del padrone, che suscita la « gelosia » di quelli che avevano lavorato di più, i quali, ovviamente, si lamentano perché non viene offerta anche a loro che, oltre tutto, hanno qualche merito più degli altri. Una « bontà » che discrimina non è forse, in qualche modo, anch’essa una forma di « ingiustizia »? Dove va allora a finire la stessa decantata « giustizia » del padrone, che dichiara di non volere « far torto » a nessuno, pur usando particolare benevolenza verso alcuni?
Uno squarcio di « autobiografia » di Gesù
Certo è che la parabola non è facile a spiegarsi, se la interpretiamo in forma rigida e al di fuori dei vari « livelli » di significato in cui è stata collocata da Gesù quando l’ha detta la prima volta, e poi dall’Evangelista quando l’ha riadattata per i suoi lettori.
Al di là dei rigidi schematismi di « giustizia », o anche di « bontà » che sembrerebbe non estendersi in eguale misura a tutti, mi sembra che l’idea di fondo è che l’agire di Dio è imprevedibile, rompe tutti gli argini, è completamente gratuito; più che esigere, offre sempre qualcosa. Anche con gli operai della prima ora, in realtà, è stata solamente sua l’iniziativa dell’invito: se essi hanno lavorato di più, è già sua « grazia », è già sua benevolenza. Non ha senso, perciò, la loro recriminazione.
Situata in questa prospettiva, la parabola diventa uno squarcio di « autobiografia » da parte di Gesù. Andando controcorrente, egli aveva accolto tutti i reietti e gli emarginati del suo tempo: pubblicani come Matteo e Zaccheo, peccatori e peccatrici, malati, lebbrosi, storpi, gente umile e semplice. I farisei, che per la loro rigorosa osservanza della Legge pensavano di dover essere privilegiati, si erano visti invece mettere da parte. Di qui la loro reazione e le accuse contro Gesù, il quale si difende dimostrando come in lui si riveli il volto nuovo di Dio: un Dio che « accetta » tutti, anche gli « ultimi », perché non vuole discriminare nessuno e vuole offrire davvero la salvezza a tutti, facendo tutti entrare nella sua « vigna » a qualsiasi « ora » della giornata.
Accettando però gli ultimi, non escludeva i primi: soltanto voleva togliere loro la presunzione di particolari meriti o privilegi davanti a lui.
Se un privilegio ci dev’essere, è quello dell’amore più grande che va riservato a chi più ne ha bisogno, come è appunto chi viene da lontano, o ha sofferto o soffre di più. È l’attenzione delicatissima che il padre ha verso il figlio prodigo e che non sottrae nulla all’amore che egli continua ad avere verso il maggiore, che però pensa, anche lui, di essere fatto oggetto di ingiustizia: « Figlio, tu sei sempre con me, e tutto quello che io ho è tuo. Era ben giusto far festa e darsi alla gioia, perché questo tuo fratello era morto ed è ritornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato » (Lc 15,31-32).
Perché rattristarsi o ingelosirsi, se l’amore di Dio si dona con eguale generosità a tutti? Gesù ci insegna con questa parabola ad avere il cuore grande, ad accettare gli altri, anche se essi ridimensionano i nostri privilegi o i nostri vantaggi, a non contare sui nostri « diritti » davanti a Dio (perché nessuno ce li ha!), ma solo sulla sua benevolenza e sul suo amore.
« Così gli ultimi saranno i primi… »
Quando poi Matteo ha messo per iscritto il suo Vangelo, c’era nella Chiesa primitiva il grosso dibattito dell’ammissione dei pagani alla fede cristiana: dovevano essi passare per le pratiche giudaiche, come sostenevano quelli della fazione più rigorista; o era sufficiente la fede in Cristo, espressa nel Battesimo, come insegnava e praticava Paolo nelle comunità da lui fondate fuori della Palestina? La Lettera ai Galati e il cap. 15 degli Atti degli Apostoli sono una testimonianza del durissimo confronto sorto all’interno della Chiesa e risolto in favore della « libertà » dalla Legge mosaica: « In Cristo Gesù né la circoncisione vale alcunché né la incirconcisione, ma la nuova creatura » (Gal 6,15).
La nostra parabola si pone al centro di questa controversia. Rivolta non più agli avversari storici di Gesù ma ai credenti, essa prende un significato accentuatamente « ecclesiologico ». Non si tratta più, ora, di giustificare l’atteggiamento del Maestro, bensì la condotta della Chiesa di fronte al mondo pagano: i lavoratori dell’ultima « ora » sono appunto gli incirconcisi, mentre i Giudei rappresentano quelli della prima ora, che rivendicano per sé qualche cosa « di più », privilegi appunto.
L’Evangelista intende demolire queste pretese, e anzi afferma un capovolgimento anche più radicale nei rapporti di Dio con gli uomini: non soltanto egli non fa distinzione o preferenze tra pagani e Giudei, perché tutti hanno bisogno di essere salvati; ma quelli che avanzano pretese davanti a lui, come facevano appunto i Giudei, saranno collocati all’ultimo posto. È il senso drammatico della sentenza che chiude la parabola: « Così gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi » (v. 16).
Anche nella Chiesa tutto è gratuito: è gratuita l’innocenza e la verginità di Lucia o di santa Teresa di Lisieux, la testimonianza fino al martirio di Pietro o di Paolo, la conversione di Agostino o di Charles de Foucauld, la scienza teologica di Tommaso d’Aquino o di Antonio Rosmini, la carità immensa di Madre Teresa di Calcutta, proprio perché nessuno avanzi meriti o pretese davanti a Dio. È lui soltanto che ci invita a « lavorare » nella sua vigna: non è il più o meno di lavoro o di prestazioni che conta, ma l’amore e la fiducia che egli dimostra verso ognuno di noi in « ogni » momento della nostra esistenza.
Se avremo messo a frutto il suo « amore » gratuito, avremo espresso anche il massimo del nostro rendimento, che però lasciamo solo a lui, in piena umiltà e fiducia, di giudicare e valutare: nella misura, infatti, in cui pretendessimo qualche riconoscimento al nostro lavoro, diventeremmo « mercenari » e cesseremmo di essere « figli »! Fuggiremmo dal Vangelo, che è grazia, per ritornare sotto il giogo della Legge, che Cristo ha condannato perché incapace di riscattare l’uomo dalla sua « autosufficienza ».
« Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno »
La seconda lettura ci apre uno spiraglio sulla fisionomia spirituale dell’apostolo Paolo: arrivato anche lui in ritardo a « lavorare » nella vigna del Signore, ha sperimentato più di qualsiasi altro che la salvezza « non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia » (Rm 9,16).
Immerso fino al collo nel suo lavoro apostolico e posto davanti al problema della morte, che doveva apparirgli molto probabile da qualche segno premonitore (la prigionia, qualche acuta sofferenza fisica, ecc.), egli si dichiara completamente disponibile a fare la volontà del Signore, qualunque essa sia. Se continuerà a « vivere », è il Cristo che egli dilaterà nell’annunzio evangelico e nella esperienza della propria vita; se « morirà », sarà anche « meglio », perché incontrerà più pienamente il Signore.
L’importante è che si faccia in lui ciò che piace a Dio, perché è lui che l’ha chiamato ad essere Apostolo. Il cristiano, infatti, si realizza soltanto nella misura in cui si lascia possedere da Cristo, cioè si lascia « gratificare » dall’amore sovrabbondante del suo Signore. Non ha senso l’essere primo o essere l’ultimo, continuare a vivere o morire: ha senso solamente sentirsi oggetto dell’amore di Dio, che non è limitato da alcuna barriera, neppure da quella della morte.
Dovendo però esprimere un desiderio, l’Apostolo chiede che si faccia di lui quello che è più « utile » ai fratelli, magari anche il rimanere in vita per essere di « aiuto » e di conforto agli altri (Fil 1,20-27).
La gratuità dell’amore di Cristo spinge l’Apostolo a spendersi totalmente per i fratelli. Non c’è bisogno di chiedere un premio speciale anche per chi, come Paolo, ha lavorato « più abbondantemente » di tutti gli altri (cf 1 Cor 15,10): il premio è già nella stessa possibilità di amare, che ci viene concessa solo da Dio.

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche, Editrice Elle

Publié dans : OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |le 19 septembre, 2014 |Pas de Commentaires »

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