7 SETTEMBRE 2014 – 23a T. ORDINARIO – OMELIA DI APPROFONDIMENTO
7 SETTEMBRE 2014 | 23A DOMENICA A | T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO
« SE IL TUO FRATELLO COMMETTE UNA COLPA, VA’ E AMMONISCILO FRA TE E LUI SOLO »
In questa Domenica e in quella che segue la Liturgia ci fa leggere alcuni brani del discorso così detto « ecclesiale » (18,1-35), in cui Matteo raccoglie molti detti sparsi e anche alcune parabole del Signore (quella della pecorella smarrita e del servo spietato) per presentare ai suoi lettori un quadro « ideale », sia pur realistico, di vita concreta all’interno della comunità credente.
Dietro a questo discorso è facile intravedere un chiaro contesto di vita cristiana, proprio della comunità a cui l’Evangelista si rivolge. Essa non è per niente una comunità di puri e di santi, e neppure di cristiani tutti « adulti » nella fede. Al contrario, vi alligna l’arrivismo e alcuni dei suoi membri nutrono ambizioni di predominio sugli altri; si tengono in poco conto i « piccoli », cioè i credenti più fragili e più esposti ai pericoli o alle tentazioni di scoraggiamento e di diserzione. Non mancano neppure dei peccatori notori, che suscitano gravi problemi di convivenza per tutta intera la comunità, e soprattutto per i suoi capi. La fraternità ecclesiale è scossa da offese personali e da inevitabili risentimenti.
Come comportarsi in una situazione del genere? San Matteo, riallacciandosi all’insegnamento del Signore, dà alcuni consigli pratici alla sua comunità in veste di catechista e di pastore, insistendo specialmente su due punti: la disponibilità alla comprensione, e soprattutto la capacità di « perdonare », che poi non sono altro che due aspetti dell’amore, il quale deve essere l’unica « regola » che guida la comunità cristiana.
È facile capire come tutto questo vale anche oggi per tutte le comunità cristiane, piccole o grandi che siano, sparse per il mondo, oltre che per la Chiesa in generale, che ne è come la sintesi e il respiro corale.
« E se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te un pagano e un pubblicano »
Il brano evangelico, propostoci per oggi, segue gli ammonimenti riguardanti il rispetto verso i « piccoli » (18,5-11), che non sono i « bambini », ma le persone più deboli nella fede, come abbiamo appena ricordato, e la premura verso chi ha abbandonato la stessa comunità cristiana o si sia, in qualche maniera, da essa allontanato (la pecorella « smarrita »: vv. 12-14).
Esso considera il caso di chi abbia mancato in maniera piuttosto grave, fino al punto di « scandalizzare » gli altri o, comunque, di creare disagio e anche discredito alla Chiesa, che dovrebbe essere la comunità dei « santi ». Che cosa fare in tale situazione? Abbandonare il « peccatore » al suo destino, oppure intervenire?
Ecco quanto suggerisce il Signore: « Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea; e se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te un pagano e un pubblicano » (vv. 15-17).
Alcuni codici autorevoli (B, S, ecc.) e anche la Volgata hanno all’inizio: « Se commette una colpa contro di te », quasi si trattasse di una qualche mancanza di carità verso un altro membro della comunità. In realtà, di questo si parlerà più tardi (vv. 21-22). Qui, invece, si tratta di qualche peccato grave, di cui non si può identificare la natura e che mette in pericolo la sanità spirituale e la coesione interna di tutta la comunità. Da ciò l’invito a ricorrere ad una serie di accorgimenti e di procedure per « guadagnare » di nuovo il fratello: è stato notato dagli studiosi che il verbo kerdáinein (= guadagnare), in ambiente rabbinico, ha significato comunitario. Del resto, la prassi qui suggerita era proprio quella che si seguiva anche nella comunità di Qumran.1
Il primo tentativo da fare è quello più delicato e fraterno: « Va’ e ammoniscilo fra te e lui solo » (v. 15). Non si tratta di umiliare o mortificare il fratello, ma di riconquistarlo all’affetto comune, di fargli sentire la solidarietà, sofferta, degli altri. In questa fase qualsiasi passo sbagliato, o meno accorto, potrebbe indurlo all’indurimento del cuore, scatenando il suo orgoglio o il suo risentimento.
Nell’eventualità che la cosa non riesca, si suggerisce di prendere con sé « una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni » (v. 16). È una procedura, questa, prevista dalla stessa Legge mosaica per i dibattimenti giudiziari (cf Dt 19,15). Qui, però, non si tratta tanto di un processo, quanto di un tentativo ampliato di chiarificazione e di rappacificazione: lo scopo è sempre quello di « guadagnare il fratello » (v. 16).
Nel caso che anche questa seconda istanza non abbia esito, è « tutta » la comunità che viene investita del problema: « Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea » (v. 17). Il termine greco qui adoperato è ekklesía, che certamente sta a significare la comunità locale con tutti i suoi componenti, e specialmente con i suoi capi, incaricati di parlare come rappresentanti autorevoli del gruppo. È l’estremo tentativo per ricuperare il fratello.
Di nuovo, tutto questo non va concepito come un atto di accusa, quanto piuttosto come l’ultimo, accorato appello perché colui che ha mancato riconosca la sua colpa e si reinserisca come membro vivo nella comunità.
Soltanto dopo il fallimento di questo estremo tentativo si giungerà alla scomunica del colpevole, espressa con una formula di tipico stampo giudaico: « Sia per te un pagano e un pubblicano » (v. 17). I « pagani », infatti, erano considerati estranei alla comunità israelitica. Più che di scomunica vera e propria, però, si tratta del riconoscimento di una dolorosa situazione di fatto, cioè del distacco effettivo dalla « chiesa », già consumato da parte di colui che non vuol riconoscere nel suo peccato una violazione non tanto di certe norme, quanto della stessa sostanza di vita della comunità.
« Tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo »
La frase che segue intende giustificare il « potere » che ha la comunità di esprimere autoritativamente un giudizio di appartenenza o di distacco dalla sua compagine vitale e dalla ricchezza di grazia che Cristo le ha conferito: « In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra, sarà sciolto anche in cielo » (v. 18).
Queste parole le abbiamo già sentite rivolte precedentemente a Pietro (16,19); ora Cristo non vuole di certo togliergli ciò che prima gli ha dato, offrendolo invece a tutti. Si vuol semplicemente dire che la Chiesa ha davvero il potere di « autoregolamentarsi »; evidentemente per quelle vie che Gesù ha stabilito e che ci è dato cogliere in altre pagine del Vangelo: come, ad esempio, il potere di Pietro e dei Dodici.
Il quadro di Chiesa che qui emerge è tutto di « comunione », in cui ognuno dei suoi membri è corresponsabilizzato al bene di tutti. È interessante notare quel « tu », che Matteo rivolge costantemente ai lettori del suo Vangelo (« Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo…; se non ti ascolterà, prendi con te… »), prima di parlare al plurale: « Tutto quello che legherete… ».
Se la Chiesa, infatti, è una comunità di fede e di amore, non si vede come possa essere diversamente: sono io ad essere interpellato in prima persona anche per ciò che riguarda i fratelli. Le loro colpe le debbo sentire come mie proprie, perché di fatto deturpano il volto della stessa e identica comunità e non la rendono attraente per quelli che stanno di fuori. L’autorità ha solo il compito di promuovere e di coordinare questo senso di « comune » responsabilità.
Come sarebbe più bella una Chiesa in cui tutti i battezzati, insieme a Pietro e agli altri Apostoli, « legano » e « sciolgono », cioè si sforzano di decifrare quello che Dio vuole o non vuole in determinate circostanze storiche, e poi, in piena concordia, cercano di attuarlo!
È quanto ci ricordava il papa Giovanni Paolo I nel primo radiomessaggio al mondo, il giorno dopo la sua elezione al sommo pontificato (26 agosto 1978), consumatosi così rapidamente: « La Chiesa, in quanto sforzo comune di responsabilizzazione e di risposta ai problemi lancinanti del momento, è chiamata a dare al mondo quel « supplemento d’anima » che da tante parti si invoca e che solo può assicurare la salvezza ».
« Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro »
Questo rimando alla Chiesa come « comunione » lo abbiamo anche più esplicito e più interiorizzato nei due versetti che seguono e che non sono estranei a quanto fin qui detto, come ritengono alcuni, ma ne rappresentano, a nostro parere, la sintesi e l’espressione più alta: « In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Poiché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro » (vv. 19-20).
« Due o tre » è il numero più piccolo per costituire una comunità: Cristo non pensa in termini trionfalistici o di massa! Solo Dio convoca e raduna la sua Chiesa: perciò il numero appartiene alla sua discrezione. Quello che importa, invece, è essere riuniti « nel nome di Cristo », fusi nella stessa fede e nello stesso amore, fino al punto di esprimere nella « preghiera » gli stessi desideri, gli stessi bisogni. Allora anche una comunità piccolissima avrà il potere di piegare a sé l’onnipotenza di Dio: « Qualunque cosa gli domandiate, il Padre mio ve la concederà » (v. 19)
La « potenza » della Chiesa non sta nel numero e neppure nella sua struttura organizzativa e gerarchica, ma nella sua capacità di « pregare », sentendosi unicamente legata e dipendente dall’amore e dalla fedeltà del suo Signore. Se questo è vero, come è vero, probabilmente è tutta la nostra prassi pastorale che deve essere capovolta!
L’ultima espressione poi è anche più sconvolgente, perché ci dice la radice ultima da cui nasce la Chiesa: « Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro ».
Cristo costituisce la sua Chiesa insediandosi « in mezzo » ai credenti, ammaestrandoli, esortandoli, pregando in loro e per loro. Non è, quello qui considerato, un momento « liturgico » particolarmente solenne, ma piuttosto l’essenza stessa della Chiesa in ogni momento della sua esistenza: un sentirsi costantemente « alla presenza » di Cristo per ascoltare la sua Parola e fare la sua volontà. Questo e soltanto questo costituisce la Chiesa.
Di nuovo ci possiamo rendere conto di come sia difficile non solo vivere, ma anche comprendere quello che realmente è la Chiesa!
Essa sta sempre al di là degli schemi che ce ne possiamo fare, perché è una realtà più interiore che esteriore, proprio come avviene di Cristo. A ragione, perciò, il primo capitolo della Costituzione sulla Chiesa del Concilio Vaticano II è intitolato: « Il mistero della Chiesa ».
« Figlio dell’uomo, io ti ho costituito sentinella per gli Israeliti »
Le altre due letture possono fare da facile contrappunto alle considerazioni fin qui svolte.
La prima, ripresa da Ezechiele, ricorda al Profeta la sua responsabilità di « sentinella » per tutta la casa d’Israele. Se egli non darà il segnale di allarme e l’empio non si convertirà, « morirà per la sua iniquità; ma della sua morte chiederò conto a te. Ma se tu avrai ammonito l’empio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte, egli morirà per la sua iniquità, tu invece sarai salvo » (Ez 33,8-9).
Il Profeta, dunque, è a servizio di tutti i fratelli: da lui si richiede che annunzi senza timore e con fedeltà la volontà di Dio; per il resto, rimane intatta la responsabilità dei singoli credenti davanti alla Parola del Signore. Il fatto di essere « comunità », abbiamo già detto, corresponsabilizza tutti nella misura del « servizio » che Dio offre e anche richiede da « ognuno » di noi.
« Non abbiate alcun debito se non quello dell’amore! »
La seconda lettura poi ci riporta in pieno clima ecclesiale, ricordandoci che la regola di vita dei cristiani, nei rapporti sia con quelli che stanno al di fuori (Rm 13,1-7) sia con quelli che stanno al di dentro della Chiesa, deve essere dettata dall’amore.
È un « debito », quello dell’amore, che non basta tutta la vita a pagarlo come si deve! « Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole, perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge… L’amore non fa male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore » (Rm 13,8-10).
La Chiesa dovrebbe essere il « luogo » privilegiato, dove unica « legge » per tutti, pastori e semplici fedeli, è l’amore. Allora soltanto si verificherà quello che il Signore ci ha promesso: « Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro » (Mt 18,20).
Da: CIPRIANI S.
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