OMELIA 20 DOMENICA DEL T.O. : « NON È BENE PRENDERE IL PANE DEI FIGLI PER GETTARLO AI CAGNOLINI

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17 AGOSTO 2014|20A DOMENICA A | T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

« NON È BENE PRENDERE IL PANE DEI FIGLI PER GETTARLO AI CAGNOLINI »

La prima impressione che ricaviamo, leggendo il vivace racconto della Cananea, è quello di un pressante invito alla « fede ». Gesù stesso lo mette in evidenza ai presenti quando, al termine, acconsente di guarirle la figlia crudelmente tormentata da un demonio: « Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri » (Mt 15,28).

La centralità della « fede »
In realtà, pur celebrando la fede e mettendola al centro dell’opera di salvezza compiuta da Gesù, l’intero episodio si colloca nello sfondo di una problematica molto più vasta, che ha agitato la vita della prima comunità cristiana e, del resto, impegna anche oggi sia la riflessione sia lo stile di azione della Chiesa: l’annuncio del Vangelo è destinato solo a pochi eletti, quali si ritenevano allora gli Ebrei, o è da portare anche ai pagani e ai « lontani » in genere? E nel caso che il Vangelo debba essere predicato a « tutte le genti », come ci dirà Matteo al termine del suo Vangelo (28,18), quali sono le tappe di questo passaggio ai pagani e quali anche le « metodologie » più adatte?
San Paolo si troverà proprio al centro di questa polemica violentissima, che riguardava non un aspetto marginale ma l’essenza stessa del Vangelo: è la « fede » che salva, come quella che dimostrava di avere la Cananea e può avere qualsiasi pagano, oppure la osservanza delle antiche tradizioni mosaiche, come sostenevano i suoi avversari?
Per risolvere questo problema bisognava riguardare indietro e vedere se, per caso, Gesù avesse dato indicazioni al riguardo. L’episodio della Cananea è da rileggere nello sfondo di questa problematica e di queste difficoltà pratiche, in cui si sono imbattuti i primi cristiani; e allora diventerà anche più significativo.

« Gli stranieri, che hanno aderito al Signore, li condurrò sul mio monte santo »
Del resto, mi sembra che anche la Liturgia ci orienti in questa direzione proponendoci due letture che, da posizioni diverse, illustrano lo stesso problema.
La prima è ripresa dal Terzo Isaia il quale, scrivendo molto probabilmente dopo l’esilio e carico di quella esperienza, invita i suoi contemporanei a superare le angustie del nazionalismo e del legalismo per aprirsi all’universalismo della salvezza: Dio è più grande se, oltre che salvare gli Ebrei, salva anche gli « stranieri », qualora « aderiscano » alla sua rivelazione e alla sua legge. In tal modo Gerusalemme diventerà davvero la « patria » di tutti i popoli (cf Sal 87) e il suo tempio la « casa di preghiera » per tutti. « Gli stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore, e per essere suoi servi, quanti si guardano dal profanare il sabato e restano fermi nella mia alleanza, li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera per tutti i popoli » (Is 56,6-7).
Oltre all’universalismo della salvezza, estesa anche agli « stranieri » e a quelli che la legge mosaica escludeva come impuri, o menomati, dalle assemblee liturgiche, quali gli « eunuchi », espressamente ricordati poco prima dal Profeta (Is 56,4-5; cf Dt 23,2), il brano sottolinea il convergere di tutti nell’unica « casa di preghiera » che è il tempio (v. 7). Questo sta a significare che l’unità di tutti i popoli potrà farsi solo a condizione di riconoscere e « adorare » Dio come Padre comune degli uomini: al di fuori di questo unico punto di polarizzazione, essi avranno sempre fra di loro motivi di sospetto e di contesa, e l’unità del genere umano rimarrà sempre un bellissimo sogno, e niente più. È facile intravedere da tutto questo la dimensione anche « politica » della fede.
Sulla linea di questo universalismo salvifico, che trova il suo punto di unificazione nel riconoscimento dell’unico Dio d’Israele, si muove anche il Salmo responsoriale (Sal 66,2-3.5-6.8).

Ebrei e pagani:

« Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia »
La seconda lettura, però, sembra creare come un intoppo e come uno « scandalo » in questo movimento di espansione universalistica del messaggio salvifico, già abbastanza chiaro nell’Antico Testamento: è lo « scandalo » d’Israele che, dopo aver atteso ansiosamente il Messia e dopo averlo donato al mondo, non lo ha riconosciuto in Gesù di Nazaret. Paolo, come abbiamo già accennato la Domenica scorsa (cf Rm 9,1-5), ha sentito in maniera cocente questo dramma del suo popolo, che ancora oggi è sotto i nostri occhi, e cerca di darne una spiegazione.
Pur sapendo di muoversi nella « zona » del mistero, che Dio solo conosce (cf Rm 11,33-36), egli è tuttavia convinto che questo « temporaneo » rifiuto d’Israele, mentre per un verso ha giovato ai pagani che sono così entrati nella salvezza, per un altro finirà per giovare agli stessi Ebrei, nel senso che alla fine saranno come presi da « gelosia » per l’ingresso dei pagani e anche loro si decideranno ad entrare nel « regno ». E allora ci sarà gioia grande per tutti, come per una misteriosa « risurrezione » dai morti.
Nel suo servizio di annunzio ai pagani, perciò, l’Apostolo intende aiutare anche i suoi fratelli di un tempo, eccitandoli a « gelosia » dei Gentili: « Come apostolo dei Gentili, io faccio onore al mio ministero, nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni. Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non una risurrezione dai morti? Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! » (Rm 11,13-15).
Il destino d’Israele diventa così « emblematico » per tutti: pur essendo la salvezza offerta a tutti gli uomini, ognuno corre il rischio di perderla, se si rifiuta alle iniziative sempre nuove di Dio. È quanto l’Apostolo scrive verso la fine (vv. 30-32).
Davanti a Dio non valgono, dunque, né privilegi di razza né, direi, privilegi di fede: vale solo la umiltà di riconoscersi « peccatori », rinchiusi appunto « nella disobbedienza » (v. 32), e perciò bisognosi del suo perdono e del suo amore. A questa condizione egli è disposto a salvare tutti, Ebrei e pagani, giusti (se mai ce ne sono!) e peccatori.

« Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d’Israele »
In ultima analisi, è proprio questo il messaggio che intende affidarci l’episodio della Cananea che Matteo, pur riprendendolo da Marco (7,24-30), arricchisce, soprattutto a livello di dialogo, allo scopo di far vedere come Gesù vuole effettivamente infrangere le barriere del « particolarismo » religioso degli Ebrei (e indubbiamente anche dei primi cristiani provenienti dall’ebraismo!), per offrire la sua salvezza a tutti, sia pure con intelligente « gradualità ».
L’appellativo di « Cananea », dato alla donna, è di carattere religioso e non etnico: si vuol semplicemente dire che era pagana. Marco è anche più preciso: « Ora, quella donna che lo pregava di scacciare il demonio dalla figlia era greca, di origine siro-fenicia » (7,26).
In tutto il racconto, in cui prevale il dialogo con una precisa finalità didattica, mi sembra che l’Evangelista tenda a mettere in luce due atteggiamenti, solo in apparenza contrastanti, ma in realtà convergenti.
Il primo è l’atteggiamento di Gesù, che sa quasi di estraneità, se non di disprezzo, verso la donna pagana, che pur lo prega così accoratamente. Dapprima egli « non le rivolse neppure una parola » (v. 23): tanto che gli Apostoli si sentirono quasi in dovere di intervenire in aiuto della povera donna.
È a questo punto che egli giustifica il suo atteggiamento di chiusura: « Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d’Israele » (v. 24). Questa frase manca del tutto in Marco: essa avrebbe scandalizzato i suoi lettori ex-pagani, mentre non scandalizza, anzi sembra accarezzare, i lettori ex-giudei di Matteo che si sentono così ancora dei preferiti. Già precedentemente, inviando i suoi Apostoli in missione, egli aveva loro ordinato: « Non andate fra i pagani e non entrate nelle città di Samaria; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele » (10,5-6).
Dinanzi all’insistenza della donna, che continua a supplicarlo, Gesù usa una frase anche più dura: « Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini » (v. 26), che nell’allusione parabolica sono certamente i pagani. « Il carattere tradizionale di questa immagine e la forma diminutiva impiegata (kynária) attenuano sulla bocca di Gesù ciò che l’epiteto aveva di spregiativo ».1

« Donna, davvero grande è la tua fede! »
Però Gesù, alla fine, si lascia vincere dalla insistenza della donna Cananea, che dà prove sempre più convincenti di fede. Già il fatto che lei, pagana, si rivolge a Gesù per chiedergli di guarirle la figlia, dimostra che ha fiducia in lui. Anche i titoli con cui lo interpella, in un continuo crescendo, testimoniano la sua fede: « Pietà di me, Signore, figlio di Davide » (v. 22); « Signore, aiutami! » (v. 25). È chiaro però che qui interviene anche l’opera di redazione dell’Evangelista.
L’ultima replica poi della donna, così abile nel tirare dalla sua le affermazioni piuttosto scostanti di Gesù, dice in forma commossa la profondità del suo dolore e della sua fede: « È vero, Signore, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni » (v. 27). L’importante per lei è di essere accettata nella « casa » del suo « padrone »; lì potrà star bene, anche accucciata ai suoi piedi!
È a questo punto che Gesù, preso da meraviglia per la sua « grande » fede (v. 28), le concede la grazia richiesta. D’altra parte, è stato lui che positivamente ha contribuito sia a provocare che a far crescere quella fede. In queste condizioni anche il più rigoroso giudaizzante non poteva più meravigliarsi se la salvezza passava anche ai pagani: una fede come quella della Cananea non poteva non introdurre di pieno diritto nel « regno »!
Ma ammessa una eccezione, era affermato anche un principio nuovo, rivoluzionario: quello che salva non è più l’appartenenza fisica alla razza di Abramo, ma la capacità di « credere » in Gesù come « Signore » ed erede della « promessa » fatta a Davide.
Riguardando a questo comportamento di Gesù, solo apparentemente contraddittorio, gli Apostoli e Paolo, in modo particolare, troveranno più tardi la forza per lanciarsi alla conquista del mondo pagano, dando il primato « decisionale » della salvezza all’unico valore universale annunciato da Cristo: il valore della « fede », che poi si basa su un valore anche più grande, quello della « parola », che Dio in Cristo ha detto per tutti gli uomini.

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola.

Publié dans : OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |le 16 août, 2014 |Pas de Commentaires »

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