CERCO I MIEI FIGLI NELLA BIBBIA ED ESULTO QUANDO LI TROVO
CERCO I MIEI FIGLI NELLA BIBBIA ED ESULTO QUANDO LI TROVO
Luigi Accattoli
Da Il Regno 18/2009
C’è una piccola donna in Atti 12 che va alla porta, riconosce la voce di Pietro – che tutti sapevano in carcere – e “per la gioia” invece di aprirgli corre a darne l’annuncio mentre Cefa là fuori continua a bussare. Chi non ha negli occhi una ragazzina che per la gioia corre dalla parte sbagliata? E la prontezza della “servetta ebrea” della moglie di Naamàn il siro, malato di lebbra, nel Secondo libro dei Re? E la concentrazione della sorella di Mosè che in Esodo 2 osserva “da lontano” che cosa accadrà al cestello di papiro in cui la mamma ha sistemato il fratellino? Io vedo i suoi occhi che guizzano di qua e di là sull’acqua del Nilo.
Cerco le somiglianze tra la nostra umanità più genuina – che traspare dai ragazzi – e quella che anima i libri della Scrittura. Esse mi aiutano a intuire il gesto di Gesù che si “mette vicino” un bambino per spiegare chi sia “il più grande”, o il suo cuore che non si trattiene quando gli portano un ragazzo che ha cinque pani e due pesci. Ci interesseremo anche a un giovanissimo nipote dell’apostolo Paolo che ha una parte breve ma brillante in Atti 23: è sveglio come i nostri ragazzi che partono con le borse Erasmus.
Mi incanto a guardare
le figure dei piccoli
Avendo avuto figli una volta bambini e ora giovanissimi, e ricominciando il giro di giostra con i nipoti, quando leggo la Scrittura mi incanto a guardare le figure dei piccoli. “Che ne può venire”, si chiederà il lettore. Una più sveglia attenzione ai minori, intanto. E al fatto che i nostri sono gli stessi che si affollavano intorno a Gesù. Ma forse anche qualcos’altro. Io da questa ricerca ho cavato più di un profitto.
Questo è il brano che amo di più: “Appena ebbe bussato alla porta esterna, una fanciulla di nome Rode si avvicinò per sentire chi era. Riconosciuta la voce di Pietro, per la gioia non aprì la porta, ma corse ad annunziare che fuori c’era Pietro. ‘Tu vaneggi!’ le dissero. Ma essa insisteva che la cosa stava così” (Atti 12). La vedo ferma sui piedi che gesticola con tutta se stessa, piegata in avanti.
Sempre negli Atti, al capitolo 23 troviamo un sagace nipote di Paolo – è l’unico luogo dove si dica qualcosa dei suoi parenti – che fa la spola tra l’apostolo imprigionato nella fortezza Antonia di Gerusalemme e il tribuno Claudio Lisia che comanda la coorte lì acquartierata. E’ solo un ragazzo ma è introdotto in ambienti che contano e sa tenere le orecchie aperte. Forse la mamma l’ha mandato qua e là per aiutare il fratello che di nuovo si è cacciato nei guai ed egli scopre una congiura per uccidere lo zio: “Ma il figlio della sorella di Paolo venne a sapere del complotto; si recò alla fortezza, entrò e ne informò Paolo”.
E’ bello questo ragazzo che va e viene e parla e tace secondo convenienza: “Paolo chiamò uno dei centurioni e gli disse: conduci questo giovanetto dal tribuno, perché ha qualche cosa da riferirgli”. Il ragazzo svela la trama al comandante della coorte e gli suggerisce confidenzialmente di non “lasciarsi convincere” dai congiurati: “Il tribuno congedò il giovanetto con questa raccomandazione: non dire a nessuno che mi hai dato queste informazioni”. Se parla con tanta scioltezza al comandante, sarà anch’egli, come lo zio, “cittadino romano dalla nascita” (Atti 22, 28).
Quanto vorrei sapere di più su questo ragazzo: che cosa pensava della predicazione di Paolo, se anch’egli restava sulla difensiva come i nostri giovani e se la sua mamma – e sorella dell’apostolo – già credeva in Gesù.
Quel ragazzo che dorme
durante la lectio
Ma negli Atti accanto ai giovani sveglissimi ce ne sono altri che si addormentano durante le lectio di Paolo, come credo succeda persino a Enzo Bianchi quando parla nella nuova chiesa di Bose: “Un ragazzo chiamato Eutico, che stava seduto sulla finestra, fu preso da un sonno profondo mentre Paolo continuava a conversare e, sopraffatto dal sonno, cadde dal terzo piano e venne raccolto morto. Paolo allora scese giù, si gettò su di lui, lo abbracciò e disse: ‘Non vi turbate, è ancora in vita!’” (Atti 20).
Le ragazze più vispe del primo Testamento – la sorella di Mosè e la servetta della moglie di Naamàn – si presentano a noi mentre parlano a donne straniere, lontano dalla patria. Penso alle nostre figlie che vanno ospiti all’estero per “scambi culturali” e si inseriscono con naturalezza in famiglie mai viste prima.
Anche la sorella di Mosè che si sporge dal canneto lungo il Nilo mi pare d’averla vista più volte nella realtà. Eccola in Esodo 2 dopo aver aiutato la mamma a sistemare il fratellino in un cestello e a deporlo “fra i giunchi sulla riva del Nilo”: “La sorella del bambino si pose ad osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto. La figlia del faraone (…) vide il cestello fra i giunchi e mandò la sua schiava a prenderlo. L’aprì e vide il bambino: ecco, era un fanciullino che piangeva. Ne ebbe compassione e disse: ‘È un bambino degli Ebrei’. La sorella del bambino disse allora alla figlia del faraone: ‘Devo andarti a chiamare una nutrice tra le donne ebree, perché allatti per te il bambino?’ ‘Và’, le disse la figlia del faraone. La fanciulla andò a chiamare la madre del bambino”. Trovo coinvolgente questo giro di donne a salvezza di un bimbo. Mi richiamano le infermiere dei reparti Maternità indaffarate intorno ai neonati che le mamme non vogliono tenere.
“Talità kum” dice Gesù
a una pinocchia affamata
Mi dispiace staccarmi dalla vispa figura di Miriam bambina, ma guardate come è pronta e sicura la sua gemella che è stata rapita da una banda aramea ed è “finita al servizio della moglie di Naamàn”. Secondo Libro dei Re 5: “Essa disse alla padrona: ‘Se il mio signore si rivolgesse al profeta che è in Samaria, certo lo libererebbe dalla lebbra’. Nàaman andò a riferire al suo signore: ‘La giovane che proviene dal paese di Israele ha detto così e così’”.
“Ha detto così e così”: che felici queste creature che riescono sempre a dire tutto senza intrecciarsi. Ma veniamo ai Vangeli e a Gesù nel mirabile racconto di Marco 5: “Presa la mano della bambina, le disse: Talità kum, che significa: ‘Fanciulla, io ti dico, alzati!’ Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare; aveva dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e ordinò di darle da mangiare”. Vedo quella tenera sonnambula che se ne va traballando come una pinocchia per la stanza e mormora: “Che fame”.
“C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci” dice Andrea in Giovanni 6 a Gesù che insiste sulla singolare idea di offrire una cena alla moltitudine. Vedo il ragazzo e il cestino e quella merenda per sé e per i suoi che ancora non ha raggiunto. Teme per un momento d’averla persa e subito la ritrova moltiplicata per sé e per tutti.
Donne incinte
che parlano tra loro
Ancora più calamitante mi appare il gesto di Gesù in Luca 9: “Frattanto sorse una discussione tra loro, chi di essi fosse il più grande. Allora Gesù (…) prese un fanciullo, se lo mise vicino e disse: ‘Chi accoglie questo fanciullo nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Poiché chi è il più piccolo tra tutti voi, questi è grande’”.
Questo Gesù catecheta mi ricorda papa Luciani che chiama sul palco un chierichetto per svolgere in dialogo con lui il proprio magistero. Da vaticanista dirò che ho sempre lodato i papi con i bimbi, mai trovando fuori luogo i loro atti, ma sempre guardandoli in chiave evangelica, avendo a mente Luca 18: “Gli presentavano anche i bambini perché li accarezzasse (…)‘Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio”.
Così come – e ancora di più – mi piacciono le donne incinte che parlano tra loro e delle loro pance, come tante volte si vede nelle icone e nelle pale che raffigurano la visita di Maria a Elisabetta, che è nel primo capitolo del Vangelo di Luca: “Appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo”.
Ma accanto all’innocenza la giovinezza conosce anche il male e non solo oggi, quando le nostre adolescenti sembrano anticipare vertiginosamente i tempi del trucco e delle occhiate. Salomè fu la loro corifea, come ci viene narrato in Marco 6: “Danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla ragazza: ‘Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò’. La ragazza uscì e disse alla madre: ‘Che cosa devo chiedere?’ (…) Ed entrata di corsa dal re fece la richiesta dicendo: ‘Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni il Battista’ ”.
Salomè entra di corsa
e fa la sua richiesta
“Entrata di corsa fece la richiesta”: è la rapidità di Salomè che mi ammalia. Ho nella retina l’immagine di questa fanciulla danzante nei secoli com’è resa in una formella della porta in bronzo di San Zeno, a Verona: ella vortica su se stessa come un neuma musicale. Alle volte ci chiediamo da dove venga alle nostre figlie la scioltezza con cui passano da un ambiente a un altro, da una storia all’altra. Apparentemente immuni di tutto. Felici della loro noncuranza. Salomè non era diversa.
Salomè ha una parente nel primo Testamento: la figlia di Jefte che va incontro al padre vittorioso “con tamburelli e danze” in Giudici 11. Danza il suo entusiasmo di figlia che ha avvertito per prima il ritorno del padre e non sa che quel severo combattente per assicurarsi la vittoria sugli Ammoniti ha promesso di offrire in olocausto “chiunque uscirà per primo dalle porte di casa mia”. Egli vede uscire quella gioia danzante e sprofonda con la sua inconsulta promessa.
Danza l’unica figlia di Jefte e danzando va a morire, come Salomè danzando procura la morte del profeta. Pensate a quello che fate, piccole figlie di Eva, quando vi accompagnate danzando all’umana ventura.
Laisser un commentaire
Vous devez être connecté pour rédiger un commentaire.