LA GIORNATA VISSUTA IN SOLITUDINE – Dietrich Bonhoeffer

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LA GIORNATA VISSUTA IN SOLITUDINE

Dietrich Bonhoeffer, Vita comune – autore: Dietrich Bonhoeffer

Il momento della meditazione personale non è un momento di naufragio nel vuoto e nell’abisso della solitudine, ma è un momento in cui siamo soli con la Parola. In tal modo essa ci offre una solida base su cui poggiare, e chiare indicazioni sui passi da compiere…

«A Te conviene la lode nel silenzio in Sion, o Dio» (Sal 65,2)[1]. Molti cercano la comunione per paura della solitudine. Non essendo più capaci di stare da soli, cercano di vivere tra gli altri. Ci sono anche dei cristiani, che non riuscendo da soli a risolvere i propri problemi, o essendosi trovati male soli con se stessi, sperano di trovare aiuto nella comunione con altri uomini. Per lo più ne restano delusi, e di conseguenza imputano alla comunità quella che è la loro vera colpa. La comunità cristiana non è un sanatorio dello spirito. Chi vi entra per fuggire da se stesso, la utilizza abusivamente per distrarsi con vani discorsi, per quanto camuffati da intenti religiosi. In effetti la sua ricerca non ha come oggetto la comunione, ma quell’effetto di stordimento che gli fa dimenticare per breve tempo la sua condizione di solitudine, e proprio per questo procura l’isolamento mortale dell’uomo. Il risultato di simili tentativi di guarigione è il dissolversi della parola e di ogni esperienza autentica, e in ultimo la rassegnazione e la morte spirituale.
Chi non sa stare da solo, si guardi dal cercare la comunione. Non farà altro che male a se stesso e alla comunione. Eri solo davanti a Dio, quando ti ha chiamato, eri solo quando hai dovuto seguire il suo appello, eri solo quando hai dovuto prendere la tua croce, quando hai dovuto pregare e combattere, da solo morirai e rende­rai conto a Dio. Non puoi sfuggire a te stesso, poiché Dio stesso ti ha messo da parte, scegliendoti. Se non vuoi stare da solo, respingi la chiamata di Cristo e non puoi partecipare alla comunione dei chiamati. «Tutti siamo posti di fronte alla morte e nessuno può mo­rire per l’altro, ma spetta ad ognuno da solo l’affrontare il combatti­mento con la morte … Allora io non potrò aiutare te, né tu me» (Lu­tero)[2].
Ma viceversa è vero anche che chi non si trova in comunione, si guardi dallo star da solo. Nella comunità sei uno dei chiamati, e non il solo; tu porti la tua croce, combatti e preghi nella comunità dei chiamati. Non sei solo, e anche nella morte e nel giorno del giudizio sarai solo un membro della grande comunità di Gesù Cri­sto. Se disprezzi la comunione con i fratelli, rifiuti la chiamata di Gesù Cristo, e il tuo star da solo può essere per te solo perdizione. «Se anche devo morire, nella morte non sono però solo; nella soffe­renza, essa (la comunità) soffre con me» (Lutero)[3].
Sappiamo dunque che esclusivamente nella comunione riuscia­mo ad essere soli, ed esclusivamente chi è solo è in grado di vivere nella comunione. Sono due cose interdipendenti. Esclusivamente nella comunione impariamo ad essere soli nel modo giusto, ed esclusivamente nella solitudine impariamo ad essere nella comu­nione in modo giusto. Non si ha la precedenza di una condizione sull’altra, ma esse si determinano contemporaneamente, con la chiamata di Gesù Cristo.
Ognuna delle due isolatamente presa presenta pericoli di cadute vertiginose. Chi vuole la comunione senza la solitudine, è risucchia­to nel vuoto delle parole e dei sentimenti, chi cerca la solitudine senza la comunione, sprofonda nella vanità, nell’autoinfatuazione, nella disperazione.
Chi non sa stare da solo, si guardi dalla comunione. Chi non si trova in comunione, si guardi dallo star da solo.
La giornata vissuta nella comunità dei cristiani che vivono insie­me si accompagna alla giornata che ogni individuo vive da solo. Deve essere così. È sterile per la comunione e per il singolo la giornata vissuta in comune senza la giornata da soli.
Il carattere distintivo della solitudine è il tacere, mentre quello della comunione è la parola. Silenzio e parola sono intimamente legati e distinti, come la solitudine e la comunione. Non c’è l’uno senza l’altro. La parola giusta viene dal silenzio, e il giusto silenzio dalla parola.
Tacere non è lo stesso che esser muti, così come la parola non equivale alla loquacità, il mutismo non procura la solitudine, né l’es­ser loquaci la comunione. «Il silenzio è l’eccesso, l’ebbrezza, il sacri­ficio della parola. E il mutismo è insano, come se si mutilasse qualco­sa senza sacrificarlo… Zaccaria era muto, anziché silenzioso. Se avesse accettato la rivelazione, forse all’uscita dal tempio non sareb­be stato muto, ma silenzioso» (Ernest Hello)[4]. La parola in grado di ricostituire e di rafforzare la comunione si accompagna al silenzio. «C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare» (Qo 3,7). Come nella giornata del cristiano ci sono ore determinate per la parola, in particolare quelle della meditazione e della preghiera in comune, così è bene che ci siano anche tempi stabiliti per il silenzio, che vanno trascorsi sotto il segno della Parola, e che sono richiesti da essa. Si tratterà soprattutto dei momenti che precedono e seguono l’ascolto della Parola. Essa non giunge alle persone chiassose, ma a chi è raccolto in silenzio. Il silenzio del tempio è il segno della pre­senza santa di Dio nella sua Parola.
Solo da un atteggiamento di indifferenza, o addirittura di rifiuto, il silenzio può venir giudicato come disprezzo della rivelazione di Dio nella Parola. Qui il silenzio è frainteso, come se fosse un conte­gno ieratico, un misticismo che pretenda di trascendere la Parola. Nel tacere non si riconosce più il rapporto essenziale alla Parola, semplicemente l’ammutolire in presenza della Parola di Dio. Stiamo in silenzio prima dell’ascolto della Parola, perché i nostri pensieri sono già rivolti alla Parola, ci mettiamo in silenzio come il bambino, quando entra nella stanza del padre[5]. Stiamo in silenzio dopo aver udito la Parola, perché la Parola ci parla ancora, vive e si sta inse­diando in noi. Stiamo in silenzio di primo mattino, perché è Dio che deve avere la prima parola; stiamo in silenzio prima di addor­mentarci, perché anche l’ultima parola spetta a Dio. Stiamo in silen­zio solo per amore della Parola, non dunque perché la disprezziamo, ma perché vogliamo rendere ad essa il giusto onore ed accoglierla. Infine tacere non significa altro che aspettare la Parola di Dio e raccoglierne la benedizione, quando sia venuta. Ma è necessario im­parare a farlo, in un tempo in cui, come ognuno sa per esperienza, la loquacità prende la mano a tutti; in ultima analisi solo come con­seguenza rigorosa del silenzio spirituale si giungerà veramente al si­lenzio, al raccoglimento, a frenare la lingua.
E il silenzio in presenza della Parola avrà un effetto su tutta la giornata. Se abbiamo imparato a tacere in presenza della Parola, impareremo anche a dosare giustamente silenzio e parole durante la giornata. C’è un silenzio inopportuno, presuntuoso, un silenzio superbo, offensivo. Si vede dunque subito che non sarà mai questio­ne del silenzio genericamente inteso. Il silenzio del cristiano è un silenzio in ascolto, un silenzio umile, che per umiltà è anche disponi­bile a lasciarsi interrompere in ogni momento. È il silenzio che si mantiene legato alla Parola. È questo il pensiero di Tomaso da Kem­pis, quando dice: «Nessuno si esprime con maggior sicurezza di co­lui che preferisce tacere»[6]. Nel raccoglimento silenzioso c’è una straordinaria forza di chiarificazione, di purificazione, di concentra­zione sull’essenziale. Questo è vero già in campo profano. E il tacere prima della Parola porta, giunto il momento, ad ascoltare nel modo giusto la Parola di Dio e permette, quindi, che anch’essa ci parli nel modo giusto. Si tacciono molte cose inutili, in poche parole si è capaci di dire ciò che è utile ed essenziale.
Se una comunità di persone che vivono insieme ha a disposizione solo spazi ristretti, e non può dare ad ognuno le condizioni esteriori necessarie per il raccoglimento, è assolutamente necessario stabilire dei momenti precisi di silenzio. Dopo un periodo di silenzio, l’incon­tro con l’altro si presenta diverso e rinnovato. Parecchie comunità riescono a garantire ad ognuno dei momenti di solitudine solo con un ordinamento rigido dei tempi, e in tal modo riescono a salvare la comunione stessa.
Non parleremo qui dei frutti veramente straordinari che un cri­stiano può raccogliere dalla solitudine e dal silenzio. Sarebbe troppo facile lasciarsi andare a pericolose divagazioni, e d’altra parte si po­trebbero enumerare parecchie esperienze negative che possono na­scere dal silenzio. Il silenzio può essere un deserto spaventoso, una terribile solitudine. Può anche essere un paradiso dell’autoinganno, ed è difficile dire quale delle due cose sia preferibile. Comunque sia, ne consegue che non ci si deve aspettare dal silenzio qualcosa al di fuori del semplice incontro con la Parola di Dio, che è lo scopo per cui si è cercato il silenzio stesso. Ma questo incontro non potrà che essere un dono. Il cristiano non deve porre condizioni su come attendere e sperare questo incontro, ma deve esser pronto ad accet­tarlo come viene, e il suo silenzio sarà ampiamente compensato.
Tre sono le cose per cui il cristiano ha bisogno di precisi spazi di tempo da riservare a se stesso nella solitudine durante la giornata: la meditazione personale della Scrittura, la preghiera, l’intercessione. Questi tre momenti devono essere trovati all’interno del tempo della meditazione personale quotidiana[7]. Il termine ‘meditazione’ in sé non ha implicazioni particolari: è un antico termine della chiesa e della Riforma, che qui utilizziamo.
Si potrebbe chiedere perché sia necessario un momento specifico a questo scopo, visto che già tutte queste cose si fanno nella medita­zione comune. Risponderemo come segue.
Il momento della meditazione personale serve a riflettere perso­nalmente sulla Scrittura, alla preghiera e all’intercessione personale, e a nessun altro scopo. Qui non c’è posto per esperimenti spirituali. Ma ci deve essere un tempo per queste tre cose, poiché Dio stesso ce le richiede. Anche se questo tempo della meditazione personale non significasse altro che rendere a Dio un servizio dovuto, sarebbe già abbastanza.
Il momento della meditazione personale non è un momento di naufragio nel vuoto e nell’abisso della solitudine, ma è un momento in cui siamo soli con la Parola. In tal modo essa ci offre una solida base su cui poggiare, e chiare indicazioni sui passi da compiere.
Mentre nella meditazione in comune leggiamo di seguito un testo ampio, nella meditazione personale ci atteniamo ad un breve testo scelto dalla Scrittura, che possibilmente deve essere mantenuto per tutta una settimana. Mentre la lettura biblica in comune ci guida attraverso l’ampiezza e l’organicità della sacra Scrittura, ora invece siamo alle prese con la profondità insondabile di ogni singola frase e parola. I due aspetti sono ugualmente necessari «affinché possiate comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità» (Ef 3,18).
Nella meditazione personale leggiamo il testo assegnatoci, contan­do sulla promessa che esso abbia da dire a noi personalmente qual­cosa che si riferisca alla nostra giornata e alla nostra condizione di cristiani, che non contenga la Parola di Dio soltanto per la comunità, ma anche la Parola di Dio a me personalmente indirizzata. Ci con­frontiamo con ogni singola frase e parola, fino a capire in che senso ci riguardi personalmente. In tal modo non facciamo niente di diver­so dal cristiano più semplice e più incolto, nel suo agire quotidiano, leggiamo cioè la Parola di Dio come la Parola di Dio per noi. Non chiediamo dunque che cosa abbia da dire un tal testo ad altri uomi­ni, il che, per chi ha il compito di predicare, significa non chiedersi in che modo si possa predicare o insegnare sulla base di un certo testo, ma chiedersi che cosa esso abbia da dire a noi, nel senso più personale del termine. Naturalmente è necessario prima di tutto aver compreso il contenuto del testo, ma non si tratta di un lavoro esege­tico, di una preparazione a predicare, di uno studio biblico di qual­siasi tipo, si tratta invece di attendere che ci sia rivolta la Parola di Dio. Non un’attesa vuota, ma un’attesa che si fonda su una chiara promessa. Spesso siamo a tal punto oppressi e sopraffatti da pensie­ri, immagini e preoccupazioni di tutt’altro genere, che occorre molto tempo prima che la Parola di Dio, messo da parte tutto ciò che la ostacola, giunga infine a noi. Ma questo si verifica certamente, come è certo che Dio stesso è giunto fino agli uomini e di nuovo tornerà da loro. Questo appunto è il motivo per cui la nostra meditazione personale deve iniziare con la preghiera che invoca lo Spirito di Dio su di noi per mezzo della sua Parola, per rivelarci questa Parola e il­luminarci.
Non è necessario nella meditazione personale giungere alla comprensione piena dell’intero testo. Spesso saremo costretti a fermarci a lungo su una sola frase o addirittura su una sola paro­la, perché questa ci blocca, ci costringe a star li, e non possiamo più eluderla. Non basta forse, molte volte, una parola come ‘pa­dre’, ‘amore’, ‘misericordia’, ‘croce’, ‘santificazione’, ‘risurrezio­ne’, per esaurire completamente il breve tempo destinato alla me­ditazione?
Non è necessario che nella meditazione personale ci preoccupia­mo di esprimere verbalmente pensieri o preghiere. Il pensare e pre­gare in silenzio, che viene solo dall’ascolto, molto spesso è più rac­comandabile.
Non occorre che troviamo pensieri originali nella meditazione personale. È una preoccupazione che spesso non fa che distrarci, e che soddisfa sola la nostra vanità. Basta e avanza, se la Parola entra profondamente e prende dimora in noi, così come l’abbiamo letta e capìta. Maria «rifletteva in cuor suo»[8] sulle parole dei pastori; anche a noi spesso capita di riflettere a lungo sulla parola di una persona, che ci rimane dentro, che viene elaborata, tenendoci occu­pati, suscitando in noi inquietudine o felicità, senza che possiamo farci niente; allo stesso modo nella meditazione personale la Parola di Dio vuol entrare in noi e restarvi, vuol muoverci, lavorare, operare in noi, fare in modo che non ce ne liberiamo più per tutto il giorno, ed essa porterà a termine poi la sua opera in noi, spesso senza che ce ne rendiamo conto.
Soprattutto non è necessario che la meditazione personale ci porti esperienze inattese e fuori del comune. Questo può anche capitare, ma se non succede, non è segno di tempo speso a vuoto. Non solo all’inizio, ma ripetutamente nel corso del tempo, possiamo sentire in noi una grande aridità interiore e indifferenza, una certa svoglia­tezza, addirittura una inettitudine per questa meditazione personale. Non dobbiamo lasciarci condizionare da simili esperienze, e soprat­tutto non dobbiamo lasciarci distogliere dall’affrontare la meditazio­ne personale, proprio in momenti come questi, con grande pazienza e fedeltà. Non è bene quindi prendere troppo sul serio le molte cattive prove che diamo di noi stessi nella meditazione. Potrebbe trattarsi di un camuffamento devoto della nostra vecchia vanità e delle nostre indebite pretese nei confronti di Dio, come se avessimo il diritto di attenderci esperienze che siano per noi solo fonte di edificazione e di soddisfazione, come se l’esperienza della povertà interiore non fosse degna di noi. Ma un atteggiamento del genere non ci porta lontano. L’impazienza e l’autoaccusa non fanno che alimentare la nostra presunzione e contribuiscono a imprigionarci sempre più nella rete dell’introspezione. Ma nella meditazione personale, così come nella vita cristiana in genere, non c’è alcun tempo riservato alla introspezione. Solo la Parola è l’oggetto che deve atti­rare la nostra attenzione, e tutto deve essere rimesso alla sua effica­cia. Non potrebbe darsi che Dio stesso ci faccia sentire i momenti di aridità e di vuoto, in modo che torniamo a rimetterci totalmente alla sua Parola? «Cercate Dio, non la vostra gioia»[9]: questa è la regola fondamentale della meditazione. Se cerchi solo Dio, riceverai anche gioia: questa è la promessa di ogni meditazione.
La riflessione sulla Scrittura porta a pregare. Già si è detto che il cammino più sicuro per giungere a pregare è quello che si percorre facendosi guidare dalla Scrittura a pregare in base ad essa. In tal modo si evita il vuoto che domina in noi stessi. Allora pregare non significa altro che essere disponibili ad applicare a se stessi la Parola, sia per quanto riguarda la nostra personale condizione, sia per i no­stri specifici compiti, sia in rapporto alle nostre decisioni, ai peccati e alle tentazioni in cui incorriamo. Ciò che non può mai entrare nella preghiera in comune, qui può esser manifestato a Dio nel silen­zio. Sulla base della Parola della Scrittura, preghiamo per avere chia­rezza nella nostra giornata, per esser salvaguardati dal peccato, per crescere nella santificazione, per ottenere fedeltà e forza nel nostro lavoro, e possiamo esser certi che la nostra preghiera sarà esaudita, perché nasce dalla Parola e dalla promessa di Dio. La Parola di Dio ha trovato adempimento in Gesù Cristo, e questo è il motivo per cui tutte le preghiere che rivolgiamo in base a questa Parola trove­ranno compimento ed esaudimento in Gesù Cristo.
Un elemento negativo che minaccia specificamente la meditazione personale è la facilità con cui ci si distrae, e con cui i nostri pensieri divagano, in direzione di altre persone o fatti della nostra vita. No­nostante la frequenza di questa distrazione umiliante, anche in que­sto caso non dobbiamo scoraggiarci e preoccuparci, né tantomeno concludere che la meditazione non abbia alcun senso per noi. Tal­volta può esser di aiuto in tale situazione il rinunciare a reprimere con tutte le forze i nostri pensieri, e l’inserire con la massima calma nella nostra preghiera le persone o gli eventi a cui siamo riportati insistentemente, ritornando così, senza perdere la pazienza, al punto di partenza della meditazione.
La nostra preghiera personale viene collegata alla parola della Scrittura, e lo stesso avviene per l’intercessione. Nella meditazione in comune non è possibile intercedere per tutti coloro che ci sono affidati, o almeno, non è possibile farlo nel modo dovuto. Ogni cri­stiano ha delle persone che gli hanno chiesto di pregare per loro, o che egli si sente per buoni motivi di includere nella sua intercessio­ne. Anzitutto si tratterà di coloro che vivono insieme a lui quotidia­namente. Qui siamo giunti al cuore stesso di ogni forma di conviven­za cristiana. Una comunità cristiana vive della reciproca inter­cessione dei suoi membri, altrimenti è destinata al fallimento. Se prego per un fratello, non posso più odiarlo o condannano, qualsiasi problema possa procurarmi. Il suo volto, forse dapprima estraneo e insopportabile, nell’intercessione si trasforma nel volto del fratello, per amore del quale Cristo è morto, il volto del peccatore che ha ricevuto misericordia. È una scoperta molto felice per il cristiano che affronta per la prima volta la preghiera di intercessione. Non c’è antipatia, tensione o dissidio personale, che non si possa superare da parte nostra nell’intercessione. L’intercessione è il lavacro purifi­cante, nel quale devono immergersi ogni giorno i singoli individui e la comunità. Nell’intercessione può esserci una dura lotta con il fratello, ma c’è la promessa che il suo obiettivo sarà raggiunto.
In che modo? Intercedere non significa altro che presentare il fratello davanti a Dio, vederlo nella prospettiva della croce di Gesù, come un uomo povero e peccatore, che ha bisogno di grazia. A que­sto punto viene a cadere ogni motivo che mi allontana da lui, e lo vedo in tutta la sua povertà e miseria, anzi la sua miseria e il suo peccato assumono per me lo stesso peso e la stessa dimensione che se fossero i miei; a questo punto non posso fare altro che chiedere: Signore, sei Tu che devi intervenire, Tu solo, secondo il tuo rigore e la tua bontà[10]. Intercedere significa ascrivere al fratello lo stesso diritto che abbiamo ricevuto, cioè la possibilità di presentarsi a Cri­sto e di aver parte alla sua misericordia.
In questo modo risulta evidente che anche l’intercessione è un servizio dovuto a Dio e al nostro fratello, da compiersi quotidiana­mente[11]. Chi nega l’intercessione al prossimo, gli nega il suo servizio di cristiano. Inoltre è ormai chiaro che l’intercessione non si svolge su un piano generico, indistinto, ma è un fatto quanto mai concreto. Si tratta di persone ben precise, di determinate difficoltà e quindi di richieste determinate. Quanto più chiara la mia intercessione, tan­to maggiore la speranza che sia esaudita.
E infine non ci può sfuggire che il servizio di intercessione esige un suo momento, che ogni cristiano deve riservare ad essa, e tanto più un pastore che ha la responsabilità di un’intera comunità. Baste­rebbe la sola intercessione, ben fatta, a riempire il tempo della medi­tazione personale quotidiana. Da tutto questo risulta che l’interces­sione è un dono della grazia di Dio per ogni comunione cristiana e per ogni cristiano. Qui ci viene fatta un’offerta di valore incommen­surabile, che va accolta con gioia. Proprio il tempo dedicato all’in­tercessione diventerà per noi ogni giorno fonte di nuova gioia al cospetto di Dio e all’interno della comunità cristiana.
La riflessione sulla Scrittura, la preghiera e l’intercessione sono un servizio dovuto, nel quale la grazia di Dio si lascia trovare da noi; per questo dobbiamo abituarci a dedicarvi un momento fisso della giornata, come per ogni altro servizio da compiere. Questo non è ‘legalismo’, ma giusto ordine e fedeltà. Per lo più è il primo mattino il tempo opportuno, e noi abbiamo diritto, anche nei con­fronti degli altri, di utilizzare così questo tempo, facendo in modo che sia completamente indisturbato e silenzioso, nonostante tutte le difficoltà esterne. Per il pastore è un dovere imprescindibile, da cui dipende tutto il suo ministero. Chi sarà davvero fedele nelle grandi cose, se non sa esserlo nel quotidiano?
Ogni giorno porta al cristiano molte ore di solitudine in mezzo ad un mondo non cristiano. Questo è il tempo della verifica. Esso è la prova della bontà della meditazione personale e della comunio­ne cristiana. La comunità ha reso gli individui liberi, forti, adulti, o li ha resi viceversa dipendenti, non autonomi? Li ha condotti un po’ per mano, per far loro imparare di nuovo a camminare da soli, o li ha resi paurosi e insicuri? È una delle domande più serie e difficili che si pone a tutti i cristiani che hanno tra di loro comunità di vita. Inoltre qui si tratta di decidere se la meditazione personale ha porta­to il cristiano in un mondo irreale, da cui si risveglia con spavento, nel ritornare al mondo terreno del suo lavoro, o se viceversa lo ha fatto entrare nel vero mondo di Dio, che permette di affrontare la giornata dopo aver attinto nuova forza e purezza. Si è trattato di un’estasi spirituale per brevi attimi, cui poi subentra la quotidianità, o di un radicarsi essenziale e profondo della Parola di Dio nel cuore, tale da costituire per l’intero giorno un punto di riferimento e un sostegno, uno stimolo all’amore attivo, all’ubbidienza, alla buona opera? Solo la giornata potrà deciderlo. La presenza invisibile della comunione cristiana è per ogni individuo una realtà e un aiuto? L’in­tercessione degli altri è per me fonte di sostegno durante il giorno? La Parola di Dio mi è vicina come fonte di consolazione e di forza? O forse faccio cattivo uso del tempo in cui mi trovo da solo, facen­done un ostacolo alla comunione, alla Parola e alla preghiera? Ognuno deve sapere che anche il momento in cui è isolato ha una retroazione sulla comunione. Nella sua solitudine egli può dilacerare e macchiare la comunione, o viceversa rafforzarla e santificarla. Ogni forma di autodisciplina è anche un servizio alla comunione. Vicever­sa non c’è peccato in pensieri, parole e opere, che sia così personale e segreto, da non danneggiare tutta la comunione. C’è un agente patogeno che circola per il corpo, forse non si sa ancora donde pro­venga, in quale parte abbia allignato, ma il corpo è contaminato. Questa è l’immagine della comunione cristiana. Infatti, noi siamo membra di un corpo, non solo quando vogliamo, ma in tutto il no­stro essere, e quindi ogni membro serve all’intero corpo, contribui­sce alla sua salute o alla sua rovina. Non si tratta di teoria, ma di una realtà spirituale che viene sperimentata spesso con sconvolgente chiarezza nella comunione cristiana, in senso negativo o positivo.
Chi dopo la sua giornata di lavoro rientra nella comunità dei cri­stiani con cui vive, porta con sé la benedizione della solitudine, ma a sua volta riceve di nuovo la benedizione della comunione. Bene­detto chi è solo nella forza della comunione, benedetto chi mantiene la comunione nella forza della solitudine. Ma la forza della solitudi­ne e della comunione è costituita soltanto dalla Parola di Dio, che si applica all’individuo nella comunione.

Publié dans : Bonhoeffer D., MEDITAZIONI |le 4 août, 2014 |Pas de Commentaires »

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