Archive pour juillet, 2014

DIO PADRE NELL’ANTICO TESTAMENTO

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-06/14-2/DioPadre1.rtf.html

DIO PADRE NELL’ANTICO TESTAMENTO

Alberto Piola

Introduzione

Usiamo tutti delle immagini e dei titoli per parlare di Dio: ciascuna ha le sue utilità ed i suoi rischi. Come cristiani il riferimento essenziale va fatto alla Bibbia, dove Dio si è rivelato, cioè si è fatto conoscere; l’atteggiamento giusto è accostarci ad essa nell’ascolto: Dio ci parla e noi siamo chiamati ad entrare in dialogo con lui (cfr. l’importanza del parlarsi anche a livello umano). Una delle immagini più usate per parlare di Dio è quella di padre. Vogliamo innanzi tutto cercare che cosa dice l’Antico Testamento a questo proposito. Come cristiani sappiamo di dover guardare all’Antico Testamento tenendo presente il compimento della rivelazione di Dio che avviene in Cristo; ma già la prima parte della Bibbia può darci delle indicazioni utili per capire meglio in che senso Dio è nostro Padre. Infatti, è facile constatare che il termine « padre » può avere moltissimi significati diversi, sia quando lo usiamo a livello umano, sia quando lo adoperiamo per parlare di Dio; in molte religioni Dio è chiamato « Padre », volendo dire che in tutti gli uomini c’è un qualcosa di divino e che tutti formano una sola famiglia; ma nella Bibbia ciò acquista una dimensione particolare.

In ascolto di alcuni brani dell’Antico Testamento La paternità divina espressa dall’Antico Testamento è ben diversa da quella di religioni limitrofe: Dio non è padre perché ha generato fisicamente l’antenato del popolo tramite l’unione sessuale con una dea-madre. Significa innanzitutto che Dio è creatore del mondo: Deuteronomio 32,6 così ripaghi il Signore, o popolo stolto e insipiente? Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito?; Malachia 2,10 non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro profanando l’alleanza dei nostri padri? Poi significa che Dio ha fatto la scelta del suo popolo: questo ha creato un legame d’amore tra Dio e il popolo d’Israele; ha fatto alleanza con il popolo e ha fatto dono della Legge ad Israele, suo figlio primogenito (Esodo 4,22); Geremia 31,9 Essi erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li condurrò a fiumi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno; perché io sono un padre per Israele, Efraim è il mio primogenito; Sapienza 14,3 la tua provvidenza, o Padre, la guida perché tu hai predisposto una strada anche nel mare, un sentiero sicuro anche fra le onde; Deuteronomio 14,1-2 Voi siete figli per il Signore Dio vostro; non vi farete incisioni e non vi raderete tra gli occhi per un morto. Tu sei infatti un popolo consacrato al Signore tuo Dio e il Signore ti ha scelto, perché tu fossi il suo popolo privilegiato, fra tutti i popoli che sono sulla terra Tutto ciò si concretizza in un atteggiamento amoroso, proprio come un papà: Osea 11,3-9 Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. Ritornerà al paese d’Egitto, Assur sarà il suo re, perché non hanno voluto convertirsi. La spada farà strage nelle loro città, sterminerà i loro figli, demolirà le loro fortezze. Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo. Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Admà, ridurti allo stato di Zeboìm? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira; ciò significa che Dio è anche colui che corregge: Proverbi 3,12 il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto Ma questo atteggiamento amoroso di Dio non è corrisposto: c’è stata ingratitudine verso Dio; Deuteronomio 32,5-6 Peccarono contro di lui i figli degeneri, generazione tortuosa e perversa. Così ripaghi il Signore, o popolo stolto e insipiente? Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito?; e c’è allora il rammarico di Dio: Geremia 3,4-5.19 E ora forse non gridi verso di me: Padre mio, amico della mia giovinezza tu sei! Serberà egli rancore per sempre? Conserverà in eterno la sua ira? Così parli, ma intanto ti ostini a commettere il male che puoi Io pensavo: Come vorrei considerarti tra i miei figli e darti una terra invidiabile, un’eredità che sia l’ornamento più prezioso dei popoli! Io pensavo: Voi mi direte: Padre mio, e non tralascerete di seguirmi Ecco allora che parte l’invocazione di misericordia verso questo padre che si è tradito: Isaia 64,4-11 Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli. Siamo divenuti tutti come una cosa impura e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento. Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si riscuoteva per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci hai messo in balìa della nostra iniquità. Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci dà  forma, tutti noi siamo opera delle tue mani. Signore, non adirarti troppo, non ricordarti per sempre dell’iniquità. Ecco, guarda: tutti siamo tuo popolo. Le tue città sante sono un deserto, un deserto è diventata Sion, Gerusalemme una desolazione. Il nostro tempio, santo e magnifico, dove i nostri padri ti hanno lodato, è divenuto preda del fuoco; tutte le nostre cose preziose sono distrutte. Dopo tutto questo, resterai ancora insensibile, o Signore, tacerai e ci umilierai sino in fondo?; Isaia 63,16 perché tu sei nostro padre, poiché Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda di noi. Tu, Signore, tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore; 64,7 Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci dà  forma, tutti noi siamo opera delle tue mani; Sal 103,13 come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono Ecco allora che Dio padre è colui che dà il perdono: Geremia 3,12-13 Ritorna, Israele ribelle, dice il Signore. Non ti mostrerò la faccia sdegnata, perché io sono pietoso, dice il Signore. Non conserverò l’ira per sempre. Su, riconosci la tua colpa, perché sei stata infedele al Signore tuo Dio; hai profuso l’amore agli stranieri sotto ogni albero verde e non hai ascoltato la mia voce. Oracolo del Signore; Malachia 3,17 Essi diverranno dice il Signore degli eserciti mia proprietà nel giorno che io preparo. Avrò compassione di loro come il padre ha compassione del figlio che lo serve E più in generale ci si rivolge a Dio per chiedere aiuto: Siracide 23,1.4 Signore, padre e padrone della mia vita, non abbandonarmi al loro volere, non lasciarmi cadere a causa loro Signore, padre e Dio della mia vita, non mettermi in balìa di sguardi sfrontati; e in fondo è padre per tutti coloro che si rivolgono a lui: Siracide 51,9-12 innalzi dalla terra la mia supplica; pregai per la liberazione dalla morte. Esclamai: « Signore, mio padre tu sei e campione della mia salvezza, non mi abbandonare nei giorni dell’angoscia, nel tempo dello sconforto e della desolazione. Io loderò sempre il tuo nome; canterò inni a te con riconoscenza ». La mia supplica fu esaudita; tu mi salvasti infatti dalla rovina e mi strappasti da una cattiva situazione. Per questo ti ringrazierò e ti loderò, benedirò il nome del Signore Segue con amore particolare certe categorie di persone: Salmo 68,6-7 Padre degli orfani e difensore delle vedove è Dio nella sua santa dimora. Ai derelitti Dio fa abitare una casa, fa uscire con gioia i prigionieri; solo i ribelli abbandona in arida terra

Un messaggio per noi Tutti questi brani non ci offrono una sintesi già pronta, ma ci invitano a riflettere: che cosa ci dice quest’immagine della paternità applicata a Dio? Quali aspetti sentiamo già più vicini, a quali abbiamo (quasi) mai pensato? Innanzi tutto non dobbiamo mai assolutizzare quest’immagine, perché la Bibbia ci dice che Dio è anche madre: « Questa tenerezza paterna di Dio può anche essere espressa con l’immagine della maternità, che indica ancor meglio l’immanenza di Dio, l’intimità tra Dio e la sua creatura. Il linguaggio della fede si rifà così all’esperienza umana dei genitori che, in certo qual modo, sono per i genitori i primi rappresentanti di Dio. Tale esperienza, però, mostra anche che i genitori umani possono sbagliare e sfigurare il volto della paternità e della maternità. Conviene perciò ricordare che Dio trascende la distinzione umana dei sessi. Egli non è né uomo né donna. Egli è Dio. Trascende pertanto la paternità e la maternità umane, pur essendone l’origine e il modello. Nessuno è padre quanto Dio » (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 239).

Alcune sottolineature dai brani letti: L’esperienza dell’essere scelti (diverso da vincere un concorso, simile all’innamoramento): non ci meritiamo mai Dio; pensando all’esperienza del nostro essere figli o di avere dei figli, in che senso ci sentiamo figli di Dio? Dio ci educa, ci accompagna, ci corregge: sentiamo di aver bisogno di tutto ciò? O in fondo stiamo bene anche da soli? L’esperienza del peccato è il fallimento del nostro rapporto filiale. A volte possiamo leggere il peccato solo a livello di coerenza personale o a livello orizzontale. Non è scontato elevare una supplica di misericordia chiedere perdono ci compromette (cfr. i bambini e i loro giri di parole per chiedere scusa). E poi ci sono molti modi di chiedere perdono: potrebbe anche solo essere un « sentirsi a posto », senza credere di aver rotto un rapporto (cfr. l’esperienza di certi perdoni « pesanti » tra gli sposi) La richiesta di aiuto: quando e quanto ci rivolgiamo a Dio per chiedere aiuto? Ci crediamo davvero di averne bisogno? Che cosa chiediamo al Signore: una lista di cose che ci piacciono o di fare la sua volontà? Vivere la paternità di Dio: è lo stimolo che può venirci dall’ascolto attento di questi brani dell’Antico Testamento. Si tratta di vivere un sentirsi figli di un Padre che ci vuole bene; e di comportarci di conseguenza (un figlio prende sempre qualcosa dai genitori), seguendo le sue scelte. E forse di ricuperare qualche aspetto di questa paternità che l’Antico Testamento ci ha presentato.

 

Publié dans:LETTURE DALL'ANTICO TESTAMENTO |on 7 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

Blessed Mary, Daughter of Zion

Blessed Mary, Daughter of Zion dans immagini sacre Virgin%2BMary
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Publié dans:immagini sacre |on 4 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

ROMANI 8, 9.11-13

http://www.eglise.catholique.fr/foi-et-vie-chretienne/commentaires-de-marie-noelle-thabut/#Deuxieme_lecture

ROMANI 8, 9.11-13

(traduzione Google dal francese, la traduzione di un commento biblico da un’altra lingua è sempre difficile, ma il commento di Marie Noëlle è molto interessante, e, counque, si capisce)

Les commentaires de Marie Noëlle Thabut

Il grosso problema di questo testo è nella parola « carne » a Saint Paul, non ha avuto lo stesso significato che nel nostro attuale Francese XXI secolo. Noi, siamo tentati di opporre due componenti dell’essere umano che chiamiamo il corpo e l’anima, e quindi possiamo fare una terribile contraddizione: quando Paolo parla della carne e dello spirito, non è tutto quello che aveva in mente. Cosa St. Paul chiama « carne », che non è quello che noi chiamiamo il corpo; ciò che Paolo chiama lo Spirito non è ciò che chiamiamo anima. Oltre a Paul dice più volte che egli è lo Spirito di Dio, o ha detto, « lo Spirito di Cristo. » Eppure, se guardiamo più da vicino, non osta due parole « carne » e « Spirito », ma due espressioni « vivere secondo la carne » e « vivere secondo lo Spirito ». Per lui, deve scegliere tra due modi di vita; o per dirla altrimenti, dobbiamo scegliere i nostri insegnanti e la nostra linea, se si preferisce. Vivere « secondo la carne », san Paolo è vivere senza Dio, vivere la nostra forza, chiuso all’interno della intelligence e forze umane; Ovviamente, questo non va via! O meglio, si può andare molto lontano, ma nella direzione sbagliata. (Troviamo, come sempre con Paolo, il tema dei due canali). Perché vivere senza Dio, finisce sempre significa vivere lontano da Dio, e una distanza che può solo peggiorare. Questo è ciò che Paolo ha descritto nei primi capitoli di questa lettera ai Romani. Per scattare foto della Genesi vivere secondo la carne, per vivere come Adamo: lui vuole diventare come Dio, ma senza l’aiuto di Dio, si sbaglia. Inoltre, nei nostri tempi, che cercano solo la nostra felicità, senza di lui, o addirittura contro di lui, senza rendersi conto che questo è il modo migliore per rendere la nostra disgrazia. Invece, « vivere secondo lo Spirito » deve essere guidato da lui, e quindi la forza di Dio che cambia tutto vivente! Ma la grande novità di questo testo è « Lo Spirito di Dio abita in voi » così « non siete sotto l’influenza della carne, ma sotto l’influsso dello Spirito. » La parola « live » arriva tre volte nel testo di oggi, dimostra l’importanza che annette Paolo: Gold, che vive in casa è il padrone, corre. Così abbiamo letteralmente diventiamo case dello Spirito: è lui che ora controllano. Ancora bisogno di sapere quale posto lo abbiamo lasciato in casa nostra; perché siamo liberi di aprire la porta, più o meno. In molti testi, Paolo sottolinea la nostra libertà: « Tu sei sotto l’influenza della carne » significa che siamo schiavi del male non più, ora abbiamo la forza per superare i veri valori: l’amore, la pace, la verità, la giustizia. Abbiamo avuto la forza, ma non abbiamo avuto uno: in ogni istante, la scelta è ancora una volta. Lasciamo più spazio per lo Spirito Santo nella nostra casa (vale a dire, più respiro quello che facciamo nel modo di amore, di bontà, il perdono), più vivrà. Prima della sua conversione, Paolo applicato quantità di regole morali e religiosi con grande fedeltà, ma lo Spirito di Cristo non vive in essa; ancora viveva « sotto l’influenza della carne. » E potrebbe portare alla violenza e omicidio, con la migliore fede nel mondo. Ora tutta la sua vita è ispirato dallo Spirito di Cristo, per poter dire: « Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Gal 2, 20). Anche noi, poiché il nostro Battesimo, siamo in grado di lasciare che lo Spirito prende possesso della nostra casa. Paul dedurre due conseguenze: in primo luogo, siamo risorti con Cristo; è una promessa per il futuro: lo Spirito in noi esercitare il suo potere e realizzare in noi quello che ha fatto in Gesù Cristo: « Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Gesù dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. « In secondo luogo, ora, la nostra vita si trasforma, come era quella di Paolo, per ora, siamo » sotto l’influsso dello Spirito. «  »Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere », ha annunciato il profeta Ezechiele; Paolo spesso parla di questa nuova vita spirituale che è nostro perché il nostro Battesimo: anche se ancora nei nostri corpi mortali, possiamo già vivere secondo lo Spirito di Cristo. Questo è ciò che san Giovanni chiama « vita eterna ». In particolare, è chiaro che questo significa, semplicemente sostituire la parola « Spirito » con la parola « amore », « vivere secondo lo Spirito » è fargli soffiare con parole e gesti d’amore . Pochi capitoli precedenti, Paolo scrisse ai Romani: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. « (Rm 5, 5). E nella lettera ai Galati, spiega quali sono i frutti dello Spirito: « gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé » (Gal 5, 22), in una parola l’Amore diminuite di tutte le circostanze concrete della nostra vita. Paolo, in questo, è l’erede di tutta la tradizione dei profeti tutti dicono che il nostro rapporto con Dio è vera nella qualità dei nostri rapporti con gli altri; e nei canti del Servo, in particolare, Isaia dice che vivere secondo lo Spirito di Dio è amare e servire i nostri fratelli. Come san Giovanni (1 Gv 3, 14): « Chi non ama rimane nella morte … Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita (vita reale ovviamente), perché amiamo il nostro fratelli « .

UN RE SENZA CAVALLO: ZC 9,9-10 E LE SUE RILETTURE NEOTESTAMENTARIE

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UN RE SENZA CAVALLO: ZC 9,9-10 E LE SUE RILETTURE NEOTESTAMENTARIE

Annalisa Guida

Mentre i cc. 1-8 del libro di Zaccaria sono citati abbondantemente nell’Apocalisse, quelli dal 9 al 14 compaiono spesso nei Vangeli. Si tratta, come sappiamo, di materiali molto diversi tra loro, perché in particolare il cosiddetto secondo Zaccaria è una raccolta di oracoli a tema differente. Tuttavia il c. 9, che ci interessa per le riletture matteane, ha, seppure conservando toni diversi nei quadri successivi, una sua unità e una certa ragionevolezza nell’accostamento di oracoli a primo impatto molto lontani. Zc 9,1-8 e 11-17: la terra e il popolo restaurati Nei primi 8 vv. del capitolo vengono emanati una serie di giudizi su svariate nazioni per incoraggiare Giuda, nonostante il trionfante avanzare a destra e a manca degli antichi nemici[1], riguardo al fatto che Dio promette di proteggere stabilmente il suo popolo. Giuda è continuamente a rischio di estinzione totale. Dio, però, si mette personalmente a difesa del suo popolo, addirittura si “accampa”, con linguaggio tipicamente militare, affermando che non permetterà più che alcun oppositore prevalga su Giuda o semplicemente che attraversi i suoi territori: Mi accamperò intorno alla mia casa per difenderla da ogni esercito da chi va e chi viene (Zc 9,8). Potremmo quindi sintetizzare questi primi 8 vv. attraverso il tema della restaurazione della terra, che avrà come suo artefice il Signore in persona. I vv. 11-17, invece, riguardano, la ricostituzione del popolo, che sarà anch’esso liberato, nutrito, protetto dal Signore (cf. l’insistenza sul soggetto di queste azioni benevole ai vv. 14.15.16); la nuova stagione che si apre per la gente di Giuda è espressa con una bella immagine di fertilità, abbondanza e ricchezza nel v. 17: Quali beni, quale bellezza!Il grano darà vigore ai giovani e il vino nuovo alle fanciulle. Zc 9,9-10 e lo strumento della ricostruzione: il futuro re Invece in 9,9-10, i due versetti al centro di questi oracoli dal sapore così fortemente bellicoso, una sorpresa: il profeta esplode in una gioiosa e pacifica rappresentazione dell’arrivo del messia-re, che entra in Gerusalemme tra gli “osanna” delle moltitudini. Questi versetti sono tra i più celebri che la Bibbia ebraica usi per ritrarre l’ingresso del futuro re a Gerusalemme e le caratteristiche della nuova età che con lui avrà inizio. Essi sono collocati tra quelli sulla restaurazione della terra (9,1-8) e del popolo (9,11-17); ciò significa che l’unità tematica del capitolo ha come perno la figura regale restaurata, che è la chiave di volta della ricostituzione di entrambi. 9 Esulta grandemente, o figlia di Sion, manda grida di gioia o figlia di Gerusalemme! Ecco, il tuo re viene a te; egli è giusto e porta salvezza, umile e montato sopra un asino, sopra un puledro d’asina. 10 Io farò scomparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme; gli archi di guerra saranno annientati. Egli parlerà di pace alle nazioni; il suo dominio si estenderà da mare a mare, e dal Fiume fino all’estremità della terra. Il brano si presenta improvvisamente, senza un’introduzione del tipo: «Oracolo di YHWH», o «Così dice il Signore» e senza transizione, in una forma letteraria particolare, ad andamento poetico, più simile ai versetti seguenti che a quelli precedenti[2]. Il v. 9 si apre con un invito alla gioia che dona al passo un carattere liturgico. I verbi dell’esortazione iniziale, infatti, sono gyl (“gridare di gioia”) e rw´ (“urlare in acclamazione”). Il primo compare spesso nei testi poetici post-esilici e significa originariamente “tornare indietro, in tondo”; evoca, dunque, il movimento proprio di una danza gioiosa o di una processione. Ciò spiega perché esso ricorra in testi legati al culto, sia nella tradizione canaitica dei culti della fertilità, sia in quella biblica (Gl 2,21.23; Ab 3,18; Sal 35,9); compare più raramente in testi sull’annuncio messianico (Is 25,9; 49,13; 61,10) e serve soprattutto a celebrare sia la venuta del messia re (Is 9,2; Ct 1,4; Sal 2,11) sia la regalità di Yhwh stesso (Sof 3,17; Sal 96,11; 97,1.8); diviene dunque, nella tradizione biblica, un termine a risonanza essenzialmente messianica e di colorazione liturgica. Anche l’altro verbo, “fare acclamazioni”, indica in testi molto antichi il grido di guerra (Gs 6,10, 1Sam 17,52), un grido d’allarme, un segnale convenuto, e poi è passato nel vocabolario liturgico a esprimere un’intensa gioia religiosa, una lode squillante, altisonante, per celebrare la gloria di YHWH (Is 44,23; Sal 65,14; Sof 3,14; Sal 47,2). Non si tratta di una coppia di termini abituali, ma l’ amplificazione che deriva dal loro accostamento sottolinea il valore dell’acclamazione del re messia e insieme di YHWH re[3] ed enfatizza l’importanza del personaggio atteso e la sua qualità eccezionale. Il contrasto tra la violenza di 1-8 e 11-16 e questa pace di 9-10 rivela, in fondo, un carattere complementare tra le parti: Dio interverrà con determinazione e forza, per restaurare la terra e il popolo di Israele. Ma una volta che ciò sarà avvenuto, il regno sarà nella pace. Un re senza cavallo può mai essere un vero re? Nel linguaggio contestuale, tipicamente militare, che esprime potenza, magnificenza e forza, irrompe a contrasto la figura di un re che entra in trionfo non su un fiero e forte cavallo, ma su un asino, anzi, su un puledro d’asina. Dio promette addirittura di far scomparire, insieme ai carri da Efraim, anche i cavalli di Gerusalemme. Ma un re senza cavallo può mai essere un sovrano che si rispetti? Nella storia biblica sembrerebbe di sì, anzi: il re senza cavallo è il vero re che adempie i comandi di Yhwh. Dio, infatti, ha ordinato ai re d’Israele di non moltiplicare i cavalli (cf. Dt 17,14-16) e quelli, tra loro, che infransero quest’ordine, come Acaz e Acab, ebbero una fine miserevole e si rivelarono estremamente dannosi per il proprio popolo. La cavalcatura di un asino è un’antica rappresentazione del re atteso già nelle parole di Giacobbe sulle sorti di Giuda (Gn 49,11[4]), sulla scia dell’arrivo dei personaggi importanti al tempo dei giudici e all’inizio del periodo dei re (Gdc 5,10; 10,4; 12,14). Verso la fine del regno di Davide, il mulo/mula sostituisce l’asino (cf. 2Sam 13,29; 18,9) e servirà per l’intronizzazione di Salomone (1Re 1,33.38.44), il quale in seguito importerà anche il cavallo e proprio dall’antico nemico egiziano (1Re 10,28). Ma i profeti polemizzeranno aspramente contro il cavallo di battaglia (Dt 17,16; Is 31,1; Os 1,7; 14,4; Mi 5,9; Sal 20,8). Anche nel primo Zaccaria il cavallo compare legato a immagini sì trionfanti, ma di una dominazione violenta (cf. Zc 1 e 6). Quindi possiamo leggere nel nostro testo un invito a ritornare alla prassi antica. La ripetizione «un asino, figlio di un’asina» non è solo una risonanza sinonimica quanto piuttosto un’insistenza, un rafforzativo, una voluta sottolineatura, come a dire: sì, proprio un asino, figlio di un’asina! Con questa scelta di una cavalcatura antica e mansueta si abbassa, così, il tono militare del brano complessivo.

Le qualità di questo re Del re atteso non vengono detti il nome o la provenienza, ma se ne descrivono le qualità. Il re, infatti, sarà: giusto, vittorioso/portatore di salvezza, umile, costruttore di pace. Sono tutte qualità ampiamente fondate nell’immaginario delle profezie precedenti ma anche condivise dalle vicine culture medio-orientali. Le prime due qualità (giustizia e salvezza/vittoria) ineriscono il rapporto con Dio, non costituiscono degli attributi intrinseci e perciò meritori dell’uomo: è Dio che ha protetto e salvato il re, rendendogli così possibile la vittoria. Se da un lato, infatti, è certamente per la sua giustizia che il re d’Israele può essere gradito a Dio e pertanto il re messianico deve possedere questa virtù al massimo grado (cf. Is 9,5-6; 11,4; 16,5), in Zaccaria questo non basta. Il re messianico è anche “beneficiario” della giustizia di Dio (cf. il senso passivo dell’espressione nel suo insieme, letteralmente: «il tuo re viene condotto a te giustificato e salvato/reso vincitore»). Il fondamento della regalità sarà, dunque, non un’appartenenza dinastica – nemmeno menzionata, sebbene la qualifica di “re di Gerusalemme” lo caratterizzi abbastanza inequivocabilmente come discendente di Davide –, ma l’opera esclusiva di Dio. È lui che accorda la tzedaqah, la giustizia e la yešuah, la salvezza. Se il re è vittorioso, dunque, lo è nel senso passivo: è Dio che lo fa vincere. Sof 3,14-18[5], certamente il modello più significativo per il testo di Zaccaria, ha al centro come protagonista il Signore vittorioso, che ovviamente è anche il “salvatore potente”; in Zaccaria, invece, dove si verifica lo slittamento già menzionato dalla regalità assoluta di Yhwh alla regalità “partecipata” al messia, il salvatore diventa il salvato, il giusto e il salvato per grazia e, pertanto, anche il re legittimo. La terza qualità, l’umiltà, si riferisce all’atteggiamento verso i sudditi. L’aggettivo “umile” si accorda con questo significato relazionale: in sé il termine significa “afflitto, umiliato, oppresso”, ma qui ha il valore di “semplice”, non di “miserabile”. Il nostro non è il servo sofferente del Deuteroisaia quanto, piuttosto, un personaggio dotato di un’umiltà tutta religiosa, che combatte per la verità, la giustizia, la povertà, e con tale atteggiamento copre quella distanza che separerebbe normalmente un sovrano da un suddito. Questo re non vivrà la propria carica né come un esercizio autoritario di potere né come una posizione di privilegio. Pur assumendo nel futuro un potere sempre più ampio, di questo re è detto che resterà sempre umile e sottomesso al sovrano sommo, cioè a Yhwh. La disposizione pacifica e l’umiltà, dunque, esprimono l’esperienza di contrasto rispetto ai modelli di re contemporanei al nostro libro e ai modelli orientali del tempo.

Un regno di pace universale Che il suo regno si caratterizzerà in termini di pace e non di violenza è esplicitato, oltre che dalla singolare cavalcata, anche dal v. 10 attraverso la promessa dell’eliminazione dei carri di Efraim insieme ai cavalli di Gerusalemme. Nessuna guerra sarà utilizzata per estendere il regno del messia (per questo vengono eliminati i tipici strumenti bellici, carri e cavalli), perché esso sarà fondato e stabilito, come dice altrove lo stesso profeta, non con potenza o con l’esercizio della forza, bensì “con lo Spirito del Signore degli eserciti” (Zc 4,6). La guerra, dunque, sarà eliminata per sempre dal governo del re futuro perché non sarà più necessario esercitare la forza militare, sebbene questo re potrà sempre vincere perché è Yhwh che combatte per lui. L’altra dimensione significativa introdotta dal v. 10 è la prospettiva universale di questo regno futuro (cf. Sal 72,8-11), che abbraccia Gerusalemme, Giuda, Israele e addirittura le nazioni straniere. Non solo Dio nel c. 9 ha parlato vittorioso, oltre che al suo popolo, anche a tutti i popoli della regione, ma in Zc 9,10, quando si descrive l’estensione del regno del messia futuro, si usano delle coordinate molto ampie e inclusive: «Il suo dominio si estenderà da mare a mare, e dal Fiume fino all’estremità della terra». Il Fiume menzionato è l’Eufrate, che rappresenta l’asse centrale del mondo medio-orientale poiché va da un mare all’altro (dal Mediterraneo al Golfo Persico). Il riferimento implicito, quindi, è ovviamente alla geografia della Mesopotamia (della quale settentrione e meridione sono, in fondo, i confini del mondo conosciuto dai nostri autori). Così l’affermazione di Zaccaria diventa anche una sorta di confronto diretto con il regno di Babilonia, con il grande Ciro che scriveva di sé: «Io sono Ciro, il grande re dell’universo, il re dei quattro angoli del mondo, tutti i confini del mondo, dal mar inferiore al mare superiore, mi offrono tributi»[6]. Quindi Zaccaria porta a maturazione, in una frase apparentemente stereotipata, una lunga tradizione di fede che va consolidandosi, ossia quella di associare Israele alla regalità e sovranità assolute di Yhwh attraverso la conduzione di un messia. Questa fiducia cresce nella storia biblica[7] e trova poi la sua espressione ideale in Zaccaria, malgrado i fallimenti dei re storici e l’umiliazione dell’esilio. La fede del profeta non teme il paradosso del re umile che domina sul mondo intero. In questa stessa linea Matteo collocherà l’arrivo di Gesù e coi medesimi tratti ne dipingerà la messianicità. …affinché si adempisse ciò che fu detto dal profeta… (Mt 21,4) In due punti del suo Vangelo Matteo riprende la profezia di Zaccaria e ne utilizza alcuni elementi per qualificare la messianicità di Gesù. Il primo è in Mt 11,29, nelle parole di Gesù immediatamente seguenti la preghiera di ringraziamento (comune anche a Luca) rivolta al Padre per aver rivelato ai piccoli i misteri del regno, alla quale Matteo aggiunge: Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché io sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo per le vostre anime. Il riferimento alla profezia è ovviamente implicito; piuttosto se ne recupera il tratto della docilità-mansuetudine come caratteristica del messia atteso. Importante, però, è notare che è il personaggio Gesù l’artefice dell’assimilazione al modello di Zaccaria (nella linea delle beatitudini, cf. Mt 5,5): Matteo vuol esprimere così una profonda sintonia della figura di Cristo con la tradizione profetica che viene a incarnare e attualizzare. Il riposo (cf. Ger 6,16) non ha il senso moderno della pace dell’anima, ma significa che ci sarà pace solo nel ritorno a Dio e nella nuova fedeltà alla sua legge: questa fedeltà Gesù rende possibile attraverso il suo insegnamento, definito un giogo leggero perché solo alla scuola di Gesù si può apprendere la vera portata della legge non fardello o regime di sottomissione bensì come atto di misericordia, gioia della comunione promessa con il regno. Il secondo richiamo a Zaccaria – ora una citazione esplicita – compare nella descrizione dei preparativi dell’ingresso a Gerusalemme, quando Gesù dà indicazioni per il reperimento dell’asina e del puledro[8] e il narratore commenta: Or questo accadde, affinché si adempisse ciò che fu detto dal profeta, che dice: 5 «Dite alla figlia di Sion: Ecco il tuo re viene a te mansueto, cavalcando un asino, anzi un puledro, figlio di una bestia da soma». Nell’ingresso a Gerusalemme, dunque, Gesù manifesta la natura della propria regalità compiendo le due profezie: la cavalcatura d’asina e l’acclamazione come figlio di Davide (implicita nel testo di Zaccaria ma radicata, come abbiamo visto, nella tradizione profetica). In Matteo la citazione serve a rivelare il senso che l’evento dell’ingresso di Gesù riveste nella storia della salvezza. Gesù entra a Gerusalemme proprio con questo tipo di “equipaggiamento” ed è lui che decide le modalità della “rappresentazione”, persino i dettagli, scelti secondo il piano di Dio. Quindi Gesù, che adempie il comando infranto da tanti re tracotanti e malvagi di Israele, diventa in Matteo l’adempimento pieno della legge. Il lettore viene così preparato, attraverso questa scelta paradossale eppure carica di attese, di rimandi e di conseguenza sul piano del racconto, all’impatto della risposta di Gesù a Pilato in Mt 27,11: davanti al rappresentante del potere romano, che gli chiede: «Sei tu il re dei Giudei?»; davanti al mondo giudeo e al mondo pagano, un Gesù umiliato, che sarà poi condotto a morte senza proferire parola, proclamerà: «Tu lo dici». Non è la risposta ambigua di una volontà irretita dai violenti poteri avversari. È, piuttosto, una risposta da re, che non si autoproclama ma viene annunciato tale, anche in questo rovesciamento ironico e drammatico che si completerà con l’iscrizione sulla croce (Mt 27,32).

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[1] Siria? Fenicia? Filistei? L’assenza di date e indicazioni in questa seconda metà del libro impedisce una contestualizzazione certa degli oracoli, ma secondo molti studiosi il riferimento storico più probabile – su modello del quale viene anche “costruita” questa visione di un Dio battagliero che invade la Palestina dal nord – è alla discesa di Alessandro il Macedone (330 a.C. ca.); altri assumono come contesto plausibile il VI sec. o la metà del V sec. a.C., quando il governo persiano è dominante e minaccia la sopravvivenza di Giuda; altri, ancora, propendono per il periodo maccabaico (168-165 a.C.). [2] Secondo molti studiosi questa differente forma letteraria nonché il contrasto tra carattere bellicoso e pacifico dei testi accostati sarebbe indizio della mancanza di un’unitarietà originaria del capitolo. [3] Questa doppia acclamazione caratterizzerà soprattutto i testi postesilici. [4] Già qui compare la doppia menzione della cavalcatura di Giuda come “asinello” e come “figlio dell’asina”. [5] «Gioisci, figlia di Sion, esulta, Israele, e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico. Re d`Israele è il Signore in mezzo a te, tu non vedrai più la sventura. In quel giorno si dirà a Gerusalemme: “Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente. Esulterà di gioia per te, ti rinnoverà con il suo amore, si rallegrerà per te con grida di gioia,come nei giorni di festa”». [6] Iscrizione dell’epoca. [7] Da Es 23,31 a Dt 11,24, da 2Re 5,1 al Sal 89,26.

[8] Matteo, infatti, non interpreta l’affermazione «un asino, figlio di un’asina» in senso sinonimico ma mette in scena due cavalcature messianiche.

 

6 LUGLIO 2014 | 14A DOMENICA – HAI TENUTO NASCOSTE QUESTE COSE AI SAPIENTI E LE HAI RIVELATE AI PICCOLI »

 http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/5-Ordinario-A-2014/Omelie/14a-Domenica-A/12-14aDomenica-A-2014-SC.htm

6  LUGLIO 2014 | 14A DOMENICA A | T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

HAI TENUTO NASCOSTE QUESTE COSE AI SAPIENTI E LE HAI RIVELATE AI PICCOLI »

« L’inno di giubilo » (come viene chiamato dagli studiosi), con cui Gesù ringrazia il Padre per aver « tenuto nascosti » i misteri del regno ai « sapienti » e agli « intelligenti » e averli « rivelati ai piccoli » (Mt 11,25), dà il tono a tutta la Liturgia odierna e la tiene come sospesa in un paesaggio irreale. Gesù ci delinea un mondo tutto suo, in cui vengono capovolti i rapporti degli uomini fra di loro e i criteri valutativi dei comportamenti, delle azioni, della gerarchia dei valori: davanti a Dio non conta la saggezza umana, che ha sempre una buona dose di presuntuosità, ma la « semplicità » del cuore; pur essendo il suo messaggio un « giogo », esso non opprime ma dà gioia e « ristoro » (v. 29) alle anime disorientate; Gesù, che dal Padre ha ricevuto « tutto » (v. 27), di fatto si presenta ai suoi discepoli senza alcuna ostentazione, ma come maestro « mite e umile di cuore » (v. 29). Già il profeta Zaccaria aveva preannunciato che il futuro re messianico sarebbe entrato in Gerusalemme non fra lo splendore rumoroso dei carri e dei cavalli, ma cavalcando un umile « asinello » (Zc 9,9-10). È il mondo « nuovo » e diverso che dovrebbero costruire i cristiani seguendo e attuando il messaggio evangelico, che sconvolge tutte le categorie correnti, ma che ancora stenta a nascere. Davanti alla nostra fede e davanti alla storia abbiamo il dovere di non far rimanere sogno, o « utopia », quello che Cristo ha voluto diventasse, sia pure faticosamente, consolante realtà.

« Esulta, figlia di Sion! Ecco, a te viene il tuo re… Egli cavalca un asino » Il brano, appena ricordato, del profeta Zaccaria, ci riferisce un noto oracolo messianico, che Matteo (21,5) vedrà realizzato proprio nel solenne ingresso di Gesù in Gerusalemme: « Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina » (Zc 9,9). L’invito alla « gioia », qui rivolto alla città santa, non è motivato soltanto dal fatto che essa avrà di nuovo un « re », dopo l’umiliazione e il disfacimento dell’esilio, ma anche dal fatto che tale re sarà vicino ai bisogni della gente: pur essendo potente e « vittorioso », egli sarà « umile » in mezzo ai suoi, ne condividerà i problemi e le sofferenze. Perciò rinuncerà all’apparato sfarzoso dei re storici,1 per riprendere l’antica e semplice cavalcatura dei principi.2 Il profeta Sofonia aveva preannunciato per gli ultimi tempi il sorgere di un popolo « umile e povero, « fiducioso » soltanto nel Signore (3,12-13); nel nostro passo si preannuncia che anche il futuro re di questo popolo sarà un « povero » (‘anì) di Jahvè.

« Annunzierà la pace alle genti » Ed egli darà anche i segni di questo nuovo stile di regalità « povera », che ripone tutta la sua fiducia nel Signore: per esempio, abolirà tutti gli strumenti di guerra e proporrà un messaggio di pace per gli uomini di tutta la terra. Ecco infatti come continua il testo: « Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti; il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra » (v. 10). Il riferimento ad Efraim (che faceva parte del regno del Nord) e a Gerusalemme vuol dire che il Messia ristabilirà l’unione di « tutte » le tribù d’Israele, facendo pace fra di loro. Al di là dei confini d’Israele, richiamati nelle espressioni finali (« da mare a mare, e dal fiume ai confini della terra », cioè dal Mediterraneo al Mar Morto e dall’Eufrate all’estremo Sud), è però evidente il riferimento universalistico: a tutte le « genti » si estenderà il messaggio della pace, realizzata dal re « umile » e « giusto », che Gerusalemme esultante accoglierà nei segni della semplicità e della povertà. Anche Isaia preannuncia per i tempi messianici un mondo di serenità e di pace: « Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto… Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano sul covo di serpenti velenosi » (Is 11,6.8). Però soltanto Zaccaria ci fa vedere come la « pace » nasca, di fatto, da un atteggiamento di esclusiva « fiducia » in Dio, che è l’atteggiamento tipico del « povero » di Jahvè. Non sono la forza e la potenza, sia delle armi che dell’accortezza diplomatica, che fanno la pace, ma il « disarmo » degli spiriti e la « fiducia » nell’unico Dio, Padre di tutti gli uomini. Sono cose, queste, tanto semplici da apparire a molti addirittura infantili. Eppure contengono l’intuizione più profonda, che potrebbe davvero riassestare la storia: la « pace » non ha bisogno di essere protetta dalle armi, ma dalla fiducia reciproca degli uomini e da una immensa capacità di amore, che sola permetterà di trasformare, non metaforicamente ma letteralmente, « le spade in vomeri e le lance in falci », come già vaticinava Isaia (2,4).

« Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra » La lettura evangelica si rifà al brano profetico, fin qui analizzato, sia per un sottofondo comune di pensieri, sia soprattutto per un rimando esplicito, là dove Gesù si presenta come « mite (in greco pra´ys) e umile di cuore » (v. 29). Infatti, soltanto qui e nel capitolo 21,5, dove si cita la profezia di Zaccaria a proposito della entrata in Gerusalemme, si trova applicato a Gesù l’appellativo di pra´ys (= mite). Segno evidente che Gesù stesso ha applicato a sé, in piena coscienza messianica, il testo profetico. Analizziamo brevemente questo densissimo brano evangelico. Esso si compone di tre piccole unità letterarie, in origine disperse in contesti diversi e poi riunite qui da Matteo per particolari fini didattici: prima abbiamo il famoso « grido di giubilo », che è un ringraziamento a Dio perché svela i suoi « misteri » ai semplici (11,25-26); poi abbiamo una fortissima affermazione teologica sul rapporto unico di Gesù con il « Padre » (v. 27); infine una massima sapienziale, con invito a mettersi alla sua scuola che non impone a nessuno « gioghi » troppo pesanti (vv. 28-30). Tutto questo si capisce anche meglio se si inserisce nello sfondo della più vasta tematica dei capitoli 11 e 12 di san Matteo, che vogliono mettere in luce l’incomprensione degli uomini nei riguardi del « mistero » di Cristo e l’ostilità che a poco a poco, insorge contro di lui: perfino Giovanni Battista è perplesso nei suoi riguardi (11,2-6). Le città della Galilea, ove egli ha svolto a lungo il suo apostolato, lo hanno respinto: « Guai a te, Corazin! Guai te, Betsaida! Perché se a Tiro e a Sidone fossero stati compiuti i miracoli che sono stati fatti in mezzo a voi, già da tempo avrebbero fatto penitenza » (11,21). Tutti quelli della sua generazione vengono paragonati a « bambini » capricciosi, che respingono reciprocamente i giochi che vanno improvvisando: « Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; abbiamo cantato un lamento e non avete pianto » (11,17). In mezzo a questa ottusità di mente e di cuore si capisce l’esplosione della gioia di Cristo nello scoprire che c’è qualcuno che ha intuito qualcosa del suo mistero: è la « gioia » di chi si sente finalmente compreso dagli altri, che non è più solo con i suoi pensieri e la sua capacità di amore! « Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te » (vv. 25-26). Quello che colpisce di più, in questa commossa preghiera di « ringraziamento » (exomologúmai = ti benedico), è la intimità di Cristo con Dio, che nello spazio di appena due versetti viene chiamato due volte « Padre ». Il motivo del ringraziamento, poi, non è tanto il fatto che Gesù ha finalmente trovato qualcuno che può comprenderlo, quanto il fatto che tutto questo viene come « dono » da Dio. È il Padre che apre il cuore a comprendere il mistero di Cristo, mentre quasi tutti si chiudono davanti a lui: « Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te » (v. 26). Il Padre gli dona dunque amici e fratelli, che però non provengono dai « sapienti » e dagli « intelligenti » di questo mondo, ma dai « semplici », quelli che Matteo chiama appunto i « piccoli » (népioi). Con tale nome vengono certamente designati i discepoli: ma per Matteo sono anche i lettori del suo Vangelo e i credenti di tutti i tempi, i quali non avanzano pretese né riserve davanti a Cristo, ma sono totalmente disponibili al suo messaggio, che è sempre « oltre » la saggezza e la intelligenza umana, quando addirittura non è « contro », perché tende a rovesciarne gli schemi e le presuntuose sicurezze. Quando la misura del nostro cristianesimo, sia a livello di ricostruzione teologica sia a livello di esperienza di vita, rientra nei canoni della cosiddetta « ragionevolezza », vuol dire che lo abbiamo tradito, o stiamo per farlo!

« Nessuno conosce il Figlio se non il Padre » L’affermazione teologica che segue è fortissima e apre uno spiraglio di luce sul mistero del rapporto « unico » ed esclusivo fra Padre e Figlio. Il che ci induce a ritenere che le « cose » nascoste ai sapienti e « rivelate » ai piccoli non sono tanto « i misteri del regno dei cieli » (cf Mt 3,11), come suggeriscono molti studiosi, quanto la realtà indicibile della reciproca relazione fra Padre e Figlio, cioè il vero « essere » di Cristo: « Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare » (v. 27). Qualcuno ha definito questo versetto « un meteorite caduto dal cielo giovanneo nel terreno sinottico » (K. Hase), per dire che sembra provenire più da Giovanni e dalla sua teologia che non dai Sinottici. In realtà, esso sta benissimo nel nostro contesto, come è testimoniato anche da Luca (10,22). Il « conoscere », di cui qui si parla, è il tipico « conoscere » biblico, che implica anche « l’amare ». Fra Padre e Figlio c’è dunque una totale compenetrazione e una totale reciproca donazione conoscitivo-amorosa, che però non si chiude in loro, ma viene partecipata a chiunque « il Figlio lo voglia rivelare ». Il mondo di Dio non è più, così, un mondo chiuso, ma aperto a chiunque abbia ricevuto grazia e volontà per avventurarsi in una esplorazione che non conosce limiti né di tempo né di spazio: il credente, ormai, ha la possibilità di immergersi in Dio e di vivere la sua stessa vita per mezzo di Cristo fin da questo momento.

« Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi » Gli ultimi tre versetti, pieni di profondissima umanità, sono di carattere « sapienziale » e contengono un invito a « seguire » Gesù Maestro, perché egli è l’unico che sa attrarre a sé anche i più deboli, senza schiacciarli con pesi « insopportabili » come facevano i farisei con i loro discepoli (cf 23,4): « Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero » (vv. 28-30). Il « giogo della legge » è una metafora che ricorre frequentemente presso i rabbini, ed è in parte già utilizzata dall’Antico Testamento per esprimere l’impegno che esige la « sapienza » dai suoi discepoli. Si legga il seguente testo del Siracide: « Avvicinatevi, voi che siete senza istruzione, prendete dimora alla mia scuola… Sottoponete il collo al mio giogo, accogliete l’istruzione. Essa è vicina e si può trovare… » (51,23.26). Con questa immagine Gesù vuol dire che il suo insegnamento è molto esigente; egli non inganna i suoi ascoltatori, facendo apparire facile ciò che è difficile: si pone alla pari dei suoi discepoli, vivendo per primo la dottrina che loro propone, in piena « umiltà » e semplicità di cuore. E se qualcuno dei suoi discepoli è lento ad apprendere, o cade, o è tentato di tornare indietro, egli lo rianima (« vi ristorerò ») con la pazienza e la « mitezza » tipiche del grande Maestro, che non si sovrappone ai suoi alunni ma si sforza di farli crescere fino alla sua statura. Il messaggio cristiano viene così spogliato di ogni parvenza e anche di ogni tentazione « legalistica », per essere solo una offerta di salvezza che Cristo ci annuncia e si impegna a vivere insieme a noi, dandoci forze sempre nuove per non venir meno lungo la strada della nostra maturazione spirituale.

« Voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito » In tal modo Gesù si fa « maestro » e « legge » nello stesso tempo: non è tanto il nuovo Mosè, che detta la sua legge fra i bagliori del Sinai, quanto la « sapienza » di Dio che si interiorizza nel cuore di ogni uomo per prendere tutti per mano, facendosi così « norma » vivente per ognuno che accetta, nella semplicità del cuore, la « rivelazione » del suo mistero. Lo stupendo brano paolino, ripreso dalla Lettera ai Romani, approfondisce questo pensiero quando ci dice che il cristiano deve farsi « guidare » dallo « Spirito di Cristo » e non dalle seduzioni della carne: « Voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in noi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene » (8,9). Soltanto nella « legge dello Spirito » (8,2) c’è vita e libertà: le « opere della carne », invece, producono morte e schiavitù (8,12-13). Paradossalmente, di nuovo, solo il « giogo » di Cristo porta alla autentica « libertà », che gli uomini sognano da sempre ma non riescono mai a realizzare, né per sé né per gli altri.

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 4 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

by Duccio di Buoninsegna, Saint Thomas the Apostle, Siena

by Duccio di Buoninsegna, Saint Thomas the Apostle, Siena dans immagini sacre saint-thomas-the-apostle-08
http://saints.sqpn.com/saint-thomas-the-apostle-gallery/

Publié dans:immagini sacre |on 3 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

3 GIUGNO: SAN TOMMASO Ap

http://www.30giorni.it/articoli_supplemento_id_17027_l1.htm

3 GIUGNO:  SAN TOMMASO Ap

Il nome di Tommaso, in aramaico, significa “gemello”, e stesso significato ha l’appellativo greco, Didimo, con cui l’apostolo viene anche indicato. Era un pescatore, come si deduce dall’episodio della pesca miracolosa nel Vangelo di Giovanni (Gv 21, 2), che di lui parla anche in varie altre occasioni, e in particolare per il famoso episodio dell’incredulità (Gv 20, 24-29): «Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato, e non essere più incredulo ma credente!”. Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto!”» (così al passato è il verbo e indica chi, come Giovanni, il discepolo prediletto, anche prima di vedere Gesù risorto, dai piccoli indizi del sepolcro inizia a credere, cfr. Gv 20, 8). Secondo una tradizione che risale almeno a Origene (185-255 circa), Tommaso evangelizzò la regione dei Parti, cioè la Siria e la Persia: «Quanto agli apostoli e ai discepoli del Salvatore nostro dispersi per tutta la terra, la tradizione riferisce che Tommaso ebbe in sorte la Partia […]. Tutto questo è riportato testualmente da Origene nel terzo tomo del Commento alla Genesi» (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, III, 1, 1.3). Un’altra tradizione, più tarda, che risale a Gregorio Nazianzeno (329-390 circa), attribuisce a Tommaso l’evangelizzazione dell’India, regione dove avrebbe subito il martirio. Questa tradizione appare accolta anche dagli apocrifi Atti di Tommaso, un testo siriaco della metà del III secolo composto probabilmente a Edessa (l’attuale Urfa, oggi in Turchia), che, depurato dalle aggiunte a carattere gnostico con cui ci è giunto, sembrerebbe mantenere un nucleo di notizie attendibili. Secondo questo testo dunque Tommaso giunse fino all’alto corso del fiume Indo, nell’India occidentale, per trasferirsi poi nell’India meridionale, dove morì martire, ucciso a colpi di spada o di lancia, poco lontano da Calamina. La tradizione è riportata anche nel Martirologio Romano, al 21 di dicembre. Isidoro di Siviglia verso il 636 pone in questo giorno anche la sua sepoltura nella stessa Calamina, città non altrimenti nota ma che probabilmente deve identificarsi con l’odierna Mylapore, sobborgo di Chennai-Madras, dove il luogo del suo martirio è ancora indicato da una croce con iscrizione in antico persiano del VII secolo. Nella locale comunità cristiana, a lungo separata dall’Occidente fino a quando nel 1517 i portoghesi arrivarono in India, si è sempre conservata viva nei secoli la tradizione della propria origine dalla predicazione di Tommaso. Quello che la popolazione locale identificava ancora con il suo sepolcro (che fu visitato da Marco Polo nel 1292, e di cui recenti considerazioni archeologiche confermerebbero l’antichità), all’arrivo dei portoghesi era da secoli custodito da una famiglia musulmana. Essi vi edificarono sopra una chiesa, dal XIX secolo sostituita dall’attuale chiesa cattedrale intitolata all’apostolo. Da questo sepolcro le reliquie di Tommaso, come affermano gli stessi Atti di Tommaso e poi, verso la fine del IV secolo, il siriano sant’Efrem, erano state trafugate e trasferite a Edessa, probabilmente già dal 230 (la tradizione riporta la data precisa del 3 luglio); e lì sono ricordate sia nel 394 che verso il 415, mentre sappiamo che nel 373 vi era stata edificata e dedicata a san Tommaso una grande chiesa. Il 13 dicembre 1144 Edessa subì l’ultima e definitiva conquista musulmana: ma prima di questo avvenimento le reliquie di Tommaso erano state traslate probabilmente nell’isola di Chios. È da qui infatti che le vediamo pervenire nella cittadina di Ortona in Abruzzo, insieme alla pietra tombale, secondo il racconto che si legge in una pergamena del 22 settembre 1259, un solenne atto pubblico che raccoglie le testimonianze, rese sotto giuramento, degli ortonesi che asportarono da Chios le reliquie di Tommaso. La data che il documento indica per la traslazione è il 6 settembre 1258; essa avvenne a opera di Leone Acciaiuoli, capitano delle tre galee ortonesi alleate della flotta di Venezia nello scontro contro quella di Genova al largo di Acri. Da allora le reliquie di Tommaso sono custodite nella Concattedrale a lui intitolata. In epoca moderna esse sono state toccate dal fuoco in occasione dell’incendio dei Turchi in Ortona del 1566; dopo quell’episodio più volte hanno subito risistemazioni nel corso dei secoli. Nel 1984 ne è stata eseguita una ricognizione scientifica; la perizia antropologica ha evidenziato la presenza di numerose ossa con tracce di combustione (conseguenza dell’episodio del 1566), appartenenti a un individuo di sesso maschile, morto in età tra i 50 e i 70 anni, con uno zigomo fratturato da un colpo di fendente affilato, forse causa della sua morte. Altre poche ossa appartenevano a un secondo individuo, ma la mancanza di tracce di combustione su di esse ha fatto ritenere che siano state aggiunte alle altre dopo l’incendio del 1566. Più recentemente, l’esame della raffigurazione dell’apostolo e dell’iscrizione presenti sulla lastra tombale ha fatto ragionevolmente ipotizzare (secondo le conclusioni che si leggono in un recente studio di Paola Pasquini) una sua collocazione cronologica nel III secolo, e ritenere possibile, se non probabile, la sua provenienza dalla zona di Edessa. Secondo una secolare tradizione, anche a Roma, nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, si conserva una reliquia dell’apostolo Tommaso, una falange del dito indice. Un’altra reliquia di Tommaso, donata dalla chiesa di Ortona, è dal 1953 nella chiesa di San Tommaso apostolo a Chennai-Madras.

 

Publié dans:SANTI, SANTI APOSTOLI |on 3 juillet, 2014 |Pas de commentaires »
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