Archive pour juillet, 2014

Cristo il Seminatore

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Publié dans:immagini sacre |on 11 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

OMELIA PER IL 15 ° DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO, ANNO A 2014 (Vescovo Ron Stephens, Warrenton)

http://fatherronstephens.wordpress.com/

(Vi propongo, in traduzione Google dall’inglese, l’omelia che io posto sul mio blog inglese, è tutta centrata sulla Lettera ai Romani, il link che metto è al testo inglese)

OMELIA PER IL 15 ° DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO, ANNO A 2014

Anche se il tema dominante della prima e ultima lettura è di circa metaforicamente sementi, prima da Isaia nella sua predicazione, e in secondo luogo, da Cristo nelle sue parabole, vorrei concentrare le mie osservazioni oggi sulla seconda lettura di Paolo ai Romani.
Paolo inizia commentando le sofferenze del tempo presente. Mentre egli si riferisce al suo tempo e le persecuzioni e le lotte della giovane comunità, possiamo anche accettare che significa che il nostro tempo presente sulla terra. Credo che ogni generazione per 2000 anni ha avuto tipi unici di sofferenza nel loro tempo presente dalla Morte Nera di AIDS, da martiri romani alle vittime dell’Olocausto ebraico. La sofferenza è qualcosa che è stato purtroppo con noi attraverso i secoli.
Il commento di Paolo sulle sofferenze che sopportiamo, tuttavia, è che nessuna quantità di sofferenza può paragonare con la gloria che verrà a noi alla fine. Ma non possiamo saperlo – si è promesso a noi – e deve essere rivelato a noi mediante la fede. In altre parole, le sofferenze che sopportiamo nella nostra breve durata della vita si trasformeràin una nuova vita gloriosa, uno senza soffrire, senza paura, senza morte.
Gloria potrebbe anche riferirsi alla rivelazione stessa. Quando Paolo scriveva, i Vangeli non erano ancora stati scritti, e forse la Parola di Dio, parlata da Isaia e da Gesù nelle letture di oggi, è la gloria che sta arrivando.
In entrambi i casi – le sofferenze si fermerà. E Paolo estende questa idea in termini molto universali. L’intera creazione è stata attesa per questa rivelazione. A causa del primo peccato, ogni sorta di male, ma soprattutto la morte è entrata nel mondo – noi siamo come dice Paolo, nella schiavitù della corruzione – ed è in allontanamento da Dio e della sua creazione che uomini e donne hanno portato la sofferenza in il mondo. Non era nel piano di Dio, che è stato per lì per essere la « libertà della gloria » per « i figli di Dio ».
E così abbiamo che straordinaria immagine del parto – il mondo nelle doglie del parto in attesa per la nascita della gloria dei figli di Dio, per le persone a essere salvati per la sofferenza e la morte che era stato al comando.
Non so quanti di voi hanno effettivamente partorito o assistito a una nascita. Ricordo vividamente la differenza tra la nascita i miei due bambini. Sono cinque anni di distanza in modo molto era cambiato in questi cinque anni. Per il mio più vecchio mi è stato permesso in sala travaglio con mia moglie, ma è stato cacciato poco prima della nascita. Tutto quello che ho visto è stato il dolore, e io ero in realtà piuttosto risentita di quel dolore. E ‘veramente mi dava fastidio per lungo tempo. Ma quando il mio secondo è arrivato cinque anni dopo, mi è stato permesso di essere lì per tutta la vita ed è stato in grado di provare il dolore si trasformano in gioia assoluta. Questo è ciò che Paolo sta parlando. Il dolore si trasforma in gioia e gloria!
Estendere l’immagine, però, Paolo dice che mentre siamo sulla terra stiamo ancora vivendo le doglie e non abbiamo ancora sperimentato la gloria. Attraverso la rivelazione, attraverso gli insegnamenti di Gesù, attraverso la nostra fede, sappiamo che vivremo, però. Questo è il terreno buono che Gesù parla oggi. Sentiamo la rivelazione, la parola, e abbiamo capito, e per questo ci porteremo frutto, daremo vita, verremo a gloria alla fine della nostra vita terrena.
Questi insegnamenti di Paolo che provengono dalle stesse parole di Gesù ‘sono così ottimista, così ridurre lo stress, se solo li sentiamo. Sì, dobbiamo lottare in questa vita, le nostre vite sono piene di perdita, di dolore, di dolore, di paura, con il peccato. Ma noi sappiamo che Dio è in procinto di fare di nuovo il mondo buono e possiamo avere fede che Dio è fedele alla sua Parola e la sua visione e completerà il lavoro.
La morte per il cristiano sarà un evento di liberazione – saremo nati di nuovo e sperimentare Dio. Alla fine dei tempi, non ci sarà più la morte, non più sofferenza e il mondo saranno ripristinati alla sua bontà originaria.
Che cosa può significare questo per noi questa settimana? Mi auguro che ci dà la forza per superare momenti difficili. Per sapere che le nostre sofferenze avranno una fine, e come il dolore nella nascita di un figlio, il dolore produrrà qualcosa di glorioso. Lasciate che questo ci sostenga in quei tempi difficili. Che occhio non vide, né orecchio ascoltare ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano, Paolo ci ha detto nel Corinthians. Sia che ci sostengono quando siamo giù.
Cerchiamo di mantenere il terreno della nostra vita buona e riceviamo il centuplo ci ha promesso.
E questa è la buona notizia, la rivelazione di cose a venire che la nostra lettura di Paolo e del Vangelo ci dice oggi.

Vescovo Ron Stephens
Parroco della Parrocchia di S. Andrea a Warrenton, VA
La Chiesa Cattolica Apostolica in Nord America (CACINA)

13 LUGLIO 2014 | 15A DOMENICA A – « ECCO, IL SEMINATORE USCÌ A SEMINARE »

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13 LUGLIO 2014 | 15A DOMENICA A | T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

« ECCO, IL SEMINATORE USCÌ A SEMINARE »

In questa e nelle due Domeniche che seguiranno, la Liturgia ci presenta alcune delle parabole del Signore, riprese dal capitolo 13 di Matteo, tutto dedicato appunto al cosiddetto « discorso delle parabole ». Gli altri due Sinottici dispongono in maniera diversa, e anche selezionata, questo materiale.1

« Perché parli loro in parabole? »
Contrariamente a quanto si crede, le parabole non sono sempre di facile comprensione e Gesù vi è ricorso più per « velare » che per « svelare » il mistero del regno dei cieli (Mt 13,11). Gli Apostoli stessi si meravigliano perché egli parli in una maniera così stranamente allusiva, priva di significati precisi, capace di dir tutto e magari anche di dir nulla per chi non ha volontà o interesse di andare oltre « il velame delli versi strani » (Dante). È per questo che proprio dopo la prima parabola gli chiedono: « Perché parli loro (alle folle) in parabole? » (v. 10).
E Gesù risponde dicendo che nel suo « parlare in parabole » c’è un gesto di amore e di benevolenza, ma anche un « giudizio » e una condanna: tocca agli ascoltatori far sì che l’annuncio non diventi una « condanna », nel senso che devono andare oltre l’apparente semplicità o quotidianità delle analogie proposte da Cristo, per coglierne il messaggio profondo. Altrimenti, rimarranno ai margini del regno: anche quel poco di « luce », che era latente nelle parole di Cristo, ritornerà per loro ad essere « tenebra ». È così che si verifica il detto: « A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha » (v. 12).
Sono di una sconcertante attualità anche per noi, forse distratti lettori di queste pagine, i richiami di Gesù a un ascolto attento e appassionato delle sue parole che, al di là e al di fuori dello stesso genere letterario parabolico, sono sempre più profonde della prima e immediata percezione che di esse possiamo avere: « Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono. E così si adempie per loro la profezia di Isaia che dice: « Voi udrete, ma non comprenderete, guarderete, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo si è indurito »" (vv. 13-15).
Non basta l’ascolto, se non c’è lo sforzo di penetrazione del « mistero ». È già questo il primo frutto della « seminagione » della parola nel nostro cuore, che predisporrà alla maturazione di tutti gli altri frutti che fioriscono nelle opere.
Gli Apostoli, al contrario della folla, sono in questa disposizione d’animo: « A voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato » (v. 11). Non è, questo, un « dono » che discrimina; se mai, un dono che premia l’apertura del cuore e della mente, il desiderio e la ricerca della verità che è sempre più grande di noi, la percezione della « fascinosità » del mistero.
Forse noi cristiani abbiamo perduto il senso della « novità » del Vangelo e lo abbiamo privato della sua forza di provocazione, a furia di ripeterlo e di banalizzarlo nelle espressioni di tutti i giorni. Dovremmo imparare da Cristo a restituirgli tutta quell’aria di stupore, di sorpresa, di « mistero » appunto, che, se può anche lasciare indifferenti i pigri e gli svagati, scuote gli spiriti attenti, desiderosi di scrutare sempre più in profondità la luce che viene da Dio.

La parabola del « seminatore »
E siamo così arrivati alla prima delle sette parabole raccolte qui da san Matteo: la parabola del seminatore, che Gesù prima propone (13,3-9) e poi, dietro esplicita richiesta dei suoi Apostoli che, al pari della folla, non l’avevano capita, spiega in termini più comprensibili e accessibili a tutti (vv. 18-23).
È pieno di poesia quel tocco descrittivo iniziale, in cui l’Evangelista ci descrive l’accalcarsi della folla attorno a Gesù, tanto che egli « dovette salire su una barca; si pose a sedere, mentre tutta la folla rimaneva sulla spiaggia » (v. 2). Semplice curiosità, o vero interessamento alla sua dottrina? La parabola sembra smentire questa seconda ipotesi; e forse anche la separazione fisica di Gesù dalla folla vuol significare che, nonostante tutto, quella gente gli sta lontano, è più incuriosita di lui che interessata al suo insegnamento.
Dalla barca, dunque, Gesù incominciò a dire: « Ecco, il seminatore uscì a seminare. E mentre seminava, una parte del seme cadde sulla strada e vennero gli uccelli e la divorarono. Un’altra parte cadde in luogo sassoso dove non c’era molta terra; subito germogliò, perché il terreno non era profondo. Ma, spuntato il sole, restò bruciata e non avendo radici si seccò. Un’altra parte cadde sulle spine e le spine crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta. Chi ha orecchi, intenda » (vv. 3-9).
La descrizione, diciamo così, « paesaggistica » non è immaginaria, ma ripresa dal vero. È l’ambiente palestinese che è così: piccole fette di terra, i campi, in cui c’è molto terreno roccioso, attraversati da viottoli che servivano per l’accesso e il disbrigo dei lavori agricoli, con ciuffi di rovi qua e là. Il seme veniva affidato a questo terreno con tutte le sue asperità e le sue sorprese, nella speranza che non tutto andasse perduto.

« Chi ha orecchi, intenda »
Ma che cosa vuole propriamente dire la parabola? Abbiamo già accennato, commentando il brano della precedente Domenica (Mt 11,25-30), come Gesù si trovi in un momento di crisi della sua credibilità presso la gente: soltanto pochi, quei « piccoli » ai quali Dio ha voluto « rivelare » il « mistero » che egli porta con sé (11,25), gli fanno credito. Presso la grande massa il suo messaggio va perduto o cade nell’indifferenza.
A questo punto egli vuol ricuperare la fiducia della gente e soprattutto dei discepoli, tentando anche una spiegazione di quanto succede attorno a lui. E lo fa con questa parabola, che si può pertanto « definire una parabola di fiducia. Nonostante l’insuccesso ripetuto, c’è del seme che produce frutto abbondante. Il seminatore che sparge generosamente i grani è Gesù stesso. Egli vuole assicurare i suoi che ci sarà frutto, nonostante i grani andati perduti. La sua missione può essere paragonata a una semina. Il regno è stato inaugurato nella storia; la sua forza salvifica non potrà non svilupparsi nel futuro. Tra semina e raccolta esiste un legame stretto e necessario. Tra la sua missione e la venuta del regno c’è un vincolo indissolubile.
La parabola rivela in Cristo una chiara coscienza messianica. Se nella sua persona o azione il regno viene, nonostante gli ostacoli e le difficoltà che incontra, vuol dire che egli appartiene alla sfera delle realtà decisive per la salvezza degli uomini e trascende il livello del semplice profeta. Ma il suo messianismo, lungi dall’essere glorioso e potente e mietere trionfi, si confronta duramente con la debolezza, lo scacco e l’insuccesso ».2
Se le cose stanno così, la parabola ha più un significato « cristologico » che « morale »: essa descrive più la difficoltà dell’accoglienza di Cristo, mediante la fede, che non la « fruttificazione » della sua parola nel cuore degli uomini.
Del resto, le due prospettive non si escludono, ma si integrano reciprocamente, come dimostra la successiva spiegazione della parabola, provocata dalla incomprensione degli stessi Apostoli, e che insiste di più sull’aspetto « morale »: a questo punto l’accento si sposta da Cristo alle disposizioni interiori di chi accoglie la « Parola ».
Probabilmente è l’Evangelista stesso che, davanti a certe situazioni concrete della sua comunità, ha operato questa trasposizione di significato. Dovevano essere, i suoi lettori, cristiani molto attaccati a Cristo, però non altrettanto coerenti nella vita con l’annunzio evangelico, da loro magari anche gioiosamente « ascoltato ». Ora, per Matteo, tutto il problema è precisamente qui: far sì che la parola del Vangelo trovi il « terreno » adatto a produrre il massimo « frutto » possibile.

« Voi dunque intendete la parabola del seminatore »
Si sarà notato come nei vv. 18-23 ci sia una progressione nella capacità di assorbimento della parola, dal seme « seminato lungo la strada » fino a quello « seminato tra le spine » che, naturalmente, da principio sono nascoste: tanto più amara, perciò, la delusione nel vedere andare in rovina tutto quel ben di Dio!
La parola di Dio è delicata ed esigente nello stesso tempo: o essa occupa tutto il terreno e viene curata con premura, o sfiorisce e muore. Essa non può convivere con la superficialità, la vita comoda, l’attaccamento ai beni di questo mondo, la ricerca di se stessi, la paura dei contrasti e delle difficoltà, ecc.
Vale la pena anche di notare come l’Evangelista distingua gli ascoltatori della parola di Dio, pur nella progressione già detta, in due grandi categorie: quelli che « ascoltano la parola del regno e non la comprendono » (v. 19), e quelli che « l’ascoltano e la comprendono » (v. 23). Questi ultimi sono quelli che portano frutto abbondante, « ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta » (v. 23). Segno evidente che il « comprendere » non è qui da intendersi in senso intellettuale, cioè come sforzo di mera penetrazione teologica, ma in senso operativo, pratico: « si comprende » la parola del Vangelo, se « si vive », se ci si lascia da essa trasformare, così come capita appunto per il campo che deve accogliere il seme. Se il campo non si dissoda e non viene squarciato dall’aratro, se non si brucia tutta la sterpaglia che in esso è sempre pronta ad attecchire, non diventerà mai biondeggiante di messe.
Tutta l’immagine parabolica richiama alla « fatica » come condizione prima perché il frutto sia abbondante. Senza un impegno faticoso c’è il rischio quasi sicuro del fallimento del raccolto, attribuibile però non alla improvvidenza del seminatore, ma alla indisponibilità del terreno, che è il cuore di ognuno di noi, ad accogliere senza riserve la « Parola » che, di per sé, avrebbe capacità di sconvolgere tutta la nostra vita.

« Come la pioggia e la neve scendono dal cielo, così sarà della mia parola »
Tutte le considerazioni fin qui fatte ci aiutano a comprendere meglio il senso della prima lettura, in cui il Deutero-Isaia esalta l’infallibile efficacia della parola di Dio.
La « Parola » del Signore viene qui personificata, come altrove la Sapienza (Prv 8,22; Sap 7,22), o lo Spirito (Is 11,2), e paragonata a un messaggero che ritorna solo dopo aver compiuto la sua missione. Il confronto poi con la pioggia e la neve ne dice la « fecondità » e anche la forza penetrante, ma soave, di trasformazione.
Rapportato al Vangelo, questo testo di Isaia ci sembra piuttosto enfatico e ottimistico: Gesù infatti ci ha insegnato che il più delle volte il « seme », che egli getta così generosamente, rimane infruttuoso. La parola di Gesù forse è meno potente della parola di Jahvè? In realtà, basta leggere l’Antico Testamento per rendersi conto delle infinite volte che anche lì la parola del Signore ha fatto fallimento.
Ma qui il Profeta vuol mettere in evidenza la « potenza » di trasformazione e di rinnovamento che la Parola ha in sé e per sé: per quanto dipende da Dio, essa opererà « ciò che lui desidera », per le vie anche più impensate, al di là o contro ciò che gli uomini potessero fare o pensare. Infatti, il nostro oracolo è collocato in un contesto di promessa: Dio ristabilirà la sua « alleanza » non solo con Israele, ma con tutti gli uomini:
« Porgete l’orecchio e venite a me,
ascoltate e voi vivrete.
Io stabilirò per voi un’alleanza eterna,
i favori assicurati a Davide.
Ecco, l’ho costituito testimone fra i popoli
principe e sovrano sulle nazioni » (Is 55,3-4).
E nessuno riuscirà mai a infrangere questo disegno di Dio, anche se molti saranno infedeli all’alleanza, o rifiuteranno di entrarvi.
Proprio in questa possibilità di far fallire la parola di Dio, per quanto dipende da noi, e di rendere sterile il « seme » della vita, depositato nel nostro cuore, sta tutto il rischio della vita cristiana.

« Tutta la creazione geme »
San Paolo ci ricorda che vale la pena di affrontare tutte le difficoltà e le sofferenze perché il disegno di Dio si attui in noi; e non soltanto in noi, ma nella intera « creazione », che deve ritornare ad essere splendore lucente di quella Parola iniziale da cui fluirono tutte le cose (cf Gn 1). « Io ritengo infatti che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi… Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando la adozione a figli, la redenzione del nostro corpo » (Rm 8,18.22-23).

Da: CIPRIANI S.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 11 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

Andrea Mantegna: San Benedetto

Andrea Mantegna: San Benedetto dans immagini sacre 320px-Andrea_Mantegna_Saint_Benedict

http://it.wikipedia.org/wiki/Benedetto_da_Norcia

Publié dans:immagini sacre |on 10 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

L’ATTUALITÀ DELLA REGOLA DI S. BENEDETTO

http://ora-et-labora.net/chittister.html

L’ATTUALITÀ DELLA REGOLA DI S. BENEDETTO

Vivere oggi la Regola di San Benedetto

Estratto dal libro « Fermati e ascolta il tuo cuore – Vivere oggi la Regola di San Benedetto » di Joan Chittister, OSB, Effatà editrice

La Regola: un libro di saggezza
« Chiunque tu sia, che ti affretti verso la patria celeste, attua, con l’aiuto di Cristo, questa piccola regola che abbiamo scritto per i principianti, e soltanto allora giungerai, con la protezione di Dio, alle vette più elevate della dottrina e della saggezza di cui abbiamo parlato più sopra. Amen. » (Regola di S. Benedetto cap.73, 8-9)
I Padri del Deserto narrano un racconto sulla vita spirituale che può spiegare nel modo migliore questo libro:
« Un giovane monaco incontrò per caso un monaco più anziano seduto tra gente che pregava, lavorava e meditava.
« Sono in grado di camminare sull’acqua », disse il giovane discepolo. « Quindi, andiamo sul quel laghetto laggiù, ci sediamo e intavoliamo una discussione spirituale ».
Ma il maestro rispose: « Se ciò che stai cercando di fare è fuggire da questa gente, perché non vieni con me a volare nell’aria, a muoverti spensierato nel quieto cielo aperto e lì parlare? »
E il giovane novizio replicò: « Non posso perché io non possiedo il potere di cui parli ».
E il maestro spiegò: « Esattamente. Il tuo potere di rimanere immobile sul pelo dell’acqua è lo stesso che possiedono i pesci. E la mia capacità di fluttuare nell’aria è propria di qualsiasi mosca. Queste capacità non hanno niente a che vedere con la verità vera e, in effetti, possono facilmente diventare la base dell’arroganza della competizione, non della spiritualità. Se dobbiamo parlare di argomenti spirituali, dobbiamo parlarne proprio qui in questo posto »".
Quasi tutte le persone che ho incontrato e che prendono sinceramente in considerazione le cose dello spirito, pensano che il nocciolo del racconto sia vero: la vita quotidiana è la vera sostanza di cui è fatta la grande santità. Ma quasi nessuna delle persone che ho incontrato ritiene che ciò sia facilmente realizzabile. Abbiamo tutti in qualche modo imparato che, per poter trovare la spiritualità, si deve lasciare il luogo dove viviamo. Ognuno di noi spera di ottenerne abbastanza in un determinato momento della sua vita affinché essa l’accompagni in tutti gli altri momenti. L’idea che la santità sia un aspetto della vita matrimoniale o della vita celibataria, tanto quanto lo è della vita religiosa o di quella sacerdotale, è un’idea molto amata ma in cui di rado si crede profondamente.
Al giorno d’oggi, così come ai tempi del racconto, le mode riempiono la vita spirituale. Un anno ci viene detto che la panacea sono le novene, un altro anno i ritiri e un altro ancora i luoghi di meditazione. Alcuni credenti convinti ci assicurano che il culto da loro scelto è la sola risposta alle battaglie della vita. Gli amanti dell’occulto promettono una salvezza che viene dalle stelle o da un’antica tradizione orientale. Le comunità terapeutiche offrono maratone di incontri o laboratori per liberare la nostra anima dall’ira. Più e più volte, cure, culti ed esercizi psicologici vengono regolarmente provati e regolarmente abbandonati, mentre le gente cerca qualcosa che la faccia sentire bene, che rafforzi la sua visione della realtà e che dia un senso e un orientamento alla sua vita. Tuttavia, come dimostra l’antico racconto, se non ci comportiamo in modo spirituale là dove ci troviamo e così come siamo, a nulla valgono i nostri sforzi. Stiamo semplicemente consumando l’ultima moda spirituale che intorpidisce la nostra confusione ma non riempie mai i nostri spiriti né libera i nostri cuori.
Dopo anni di vita monastica ho scoperto che, diversamente dalle mode spirituali che vanno e vengono con i loro maestri o le culture che le hanno generate, la Regola di San Benedetto guarda il mondo con occhi interiori e dura nel tempo. In essa, senza considerare chi siamo o cosa siamo, la vita e il suo scopo si incontrano.
La Regola di San Benedetto è stata una guida per la vita spirituale della gente comune a partire dal VI secolo. Qualcosa che è durato così a lungo e che ha avuto un tale impatto sulla società dell’usa e getta, è certamente degno di considerazione. E il libro che hai tra mano cerca di rispondere alle seguenti domande: come rendere conto di un modo di vivere che è durato per più di millecinquecento anni e che cosa ha da dire – se qualcosa ce l’ha- alla vita spirituale nel mondo d’oggi?
La spiritualità benedettina offre proprio ciò che manca ai nostri tempi. Essa cerca di riempire il vuoto e di comporre la frammentarietà nelle quali molti di noi vivono e lo fa in modo sensato, umano, completo e accessibile in un mondo che è oppresso dal lavoro, eccessivamente stimolato e programmato.
La Regola di San Benedetto chiamò alla comunione il mondo romano, che era basato sulle classi sociali, e chiama noi, che viviamo in un mondo frammentato, a fare lo stesso. La Regola spinse verso l’ospitalità in un’epoca di invasioni barbariche e spinge noi alla sollecitudine in un mondo di vicini tra loro estranei. Essa spinse all’uguaglianza in una società piena di classi e di caste e spinge noi all’uguaglianza in un mondo dove ognuno è dichiarato uguale ma viene giudicato in modo diverso. San Benedetto, che sfidò la società patrizia di Roma a essere umile, provoca allo stesso modo il nostro mondo, i cui eroi sono Rambo, James Bond, il potere militare e le stelle dello sport, l’uomo »macho » e quello violento.
La spiritualità benedettina invita alla profondità in un mondo quasi sempre contraddistinto da superficialità e fragilità. Essa propone un insieme di atteggiamenti ad una società che è stata sedotta da iniziative promozionali e soluzioni temporanee. La spiritualità benedettina offre profondità e saggezza dove la devozione ha perso significato e l’ascetismo valore.
Soprattutto, la spiritualità benedettina è una buona novella in tempi difficili. Insegna alla gente a considerare il mondo come qualcosa di buono, le sue necessità come legittime e il sostegno umano come necessario. La spiritualità benedettina non chiama a compiere grandi imprese o a esprimere grandi rifiuti. Semplicemente essa ci invita a stabilire delle relazioni, mostrando come metterci in contatto con Dio, con gli altri e con la parte più profonda di noi.
Prima di tutto, la Regola di San Benedetto è destinata alla gente comune che vive una vita qualunque. Non è scritta per preti o mistici o eremiti o asceti; essa venne scritta da un laico per laici. Venne scritta per fornire un modello di crescita spirituale all’uomo medio intenzionato a vivere un’esistenza che andasse oltre la superficialità o l’indifferenza. Essa è scritta per quanti hanno una profonda sensibilità e un serio interesse spirituale e non cercano di mettersi in cammino per fuggire dal proprio mondo, ma per infondere la visione di Dio nelle loro scelte etiche.
La Regola di San Benedetto è saggezza distillata dalla vita quotidiana. E questo libro è semplicemente il resoconto di come io – che ho vissuto questa Regola in una comunità monastica per più di trent’anni – sia arrivata a capire quanto la spiritualità benedettina abbia da dire all’uomo di oggi.
Spiritualità è più che andare in chiesa. Anzi, si può andare in chiesa e non crescere affatto nella spiritualità. La spiritualità è il modo in cui noi esprimiamo la fede vissuta in un mondo reale, è la somma degli atteggiamenti e delle azioni che definiscono la nostra vita di fede.
Per l’apostolo Paolo, la spiritualità consisteva nel vivere « in Cristo » e nel considerare i doni dello Spirito come volti a « formare il corpo di Cristo » qui e adesso. Ma la comprensione di ciò che costituisce la perfetta vita cristiana è cambiata da un’epoca all’altra attraverso i tempi. Un tempo essa veniva assimilata, in diversi modi, al martirio, al ritiro dal mondo, all’evangelizzazione e al rinnegamento di se stessi. Nel periodo della storia della Chiesa più vicino al nostro, ad esempio, spiritualità era sinonimo di obbedienza a « superiori debitamente costituiti » e in grado di suscitare una forte reazione emotiva nella preghiera individuale. Molti misuravano la spiritualità, o « la vita secondo lo Spirito », dal numero dei rosari recitati o da quello degli ordini accettati con docilità o dal numero di cose che venivano « abbandonate » in modo da poter condurre una vita più alta o più « perfetta ». Il risultato di questi criteri fu che solo alle suore, ai frati e ai preti veniva riconosciuta la capacità di vivere una vita veramente spirituale. Questa interpretazione resistette fino al Concilio Vaticano II, che riconobbe la chiamata universale alla santità e l’autenticità della vocazione laica nella Chiesa.
Come le persone vissute in epoche più lontane, oggi stiamo ricominciando a guardare la vita spirituale attraverso lenti angolari più ampie. La spiritualità che sviluppiamo influenza il nostro modo di immaginare Dio, il nostro metodo di preghiera, il tipo di ascetismo che pratichiamo, lo spazio che diamo al nostro ministero e alla comunità nel definire la « vita spirituale ». E’ la spiritualità che ci porta oltre noi stessi per trovare il senso e l’importanza della nostra vita. E’ la spiritualità che definisce i valori della nostra vita: abnegazione o valorizzazione di se stessi; vita di comunità o solitudine; contemplazione o evangelizzazione; trasformazione personale o giustizia sociale; gerarchia o uguaglianza. In altre parole, la spiritualità che facciamo crescere in noi è il filtro attraverso il quale noi vediamo il mondo e i limiti entro cui agiamo.
La spiritualità che emerge dalla Regola di San Benedetto è ricolma della quotidianità vissuta straordinariamente bene. Qui, trasformare la vita conta più che trascenderla. Ecco perché la Regola di San Benedetto è destinata alle persone che, nel mondo di oggi, lavorano faticosamente, sempre indaffarate, consumate dalla vita familiare, dai conti, dai doveri civili e dal duro lavoro, così come è destinata a chi ha dedicato se stesso a vivere una vita religiosa in mezzo agli uomini.
La questione è: quali sono i valori spirituali custoditi da circa millecinquecento anni nella Regola di San Benedetto e che cosa dicono – se qualcosa hanno da dire – alla nostra epoca e a noi che cerchiamo di vivere con serenità nel caos che ci circonda, con produttività nell’arena dello spreco, con amore in un vortice di individualismo e con gentilezza in un mondo pieno di violenza? Che cosa insegnano a noi che siamo alla ricerca di risposte alle grandi domande della vita, mentre il nostro lavoro ci sommerge e i nostri debiti crescono, mentre le nostre famiglie contendono la nostra attenzione e i nostri amici minimizzano le nostre preoccupazioni, mentre i nostri uomini politici ci dicono che la vita sta migliorando quando sappiamo che, almeno per molti, la vita sta in gran parte peggiorando?
La maggior parte di noi non può precipitarsi verso il mare per allontanarsi o volare via verso altri luoghi per fuggire, come i personaggi del racconto. Semplicemente, la maggior parte di noi vive lì dove si trova, in mezzo alla folla e nell’intrico delle domande. La maggior parte di noi non ha altro modo di arrivare a Dio e a una vita giusta se non il « qui » e l’ »ora ».Il problema è allora di scoprire come rendere il « qui » e l’ »ora » qualcosa di giusto e santo per noi. Il « qui » e l’ »ora » sono tutto ciò che ognuno di noi ha per rendere la vita degna di essere vissuta, Dio presente e la santità un modo di vivere normale anziché innaturale.
Per le persone come noi, la spiritualità benedettina è come una casa perché riguarda proprio il « qui » e « l’ora ». La spiritualità benedettina è impastata della materia grezza che è la vita di tutti i giorni e non presuppone un grande ascetismo, né promette esperienze straordinarie dello spirito. Non richiede grandi mortificazioni della carne e non offre eccezionali garanzie di misticismo. Essa non descrive un particolare tipo di vita e non si affida a un grande piano organizzativo. La Regola di San Benedetto prende semplicemente la polvere e l’argilla di ogni giorno e la trasforma in bellezza.
La Regola di San Benedetto non è un insieme di esercizi spirituali, né un elenco di proibizioni o devozioni o discipline. Non è affatto una regola nel senso moderno della parola.
Se con questo termine si intendono restrizioni, leggi o richieste, la Regola di San Benedetto non rientra in questa categoria. Anzi, essa è semplicemente un progetto di vita, un insieme di principi chiaramente più vicino al significato originario della parola latina regula, o guida, piuttosto che al termine lex, o legge. La legge è ciò che noi siamo arrivati ad aspettarci dalla religione; ciò di cui abbiamo veramente bisogno è la direzione.
Regula, la parola che adesso viene tradotta con « regola », nell’accezione originaria significava « indicatore stradale » oppure « ringhiera », qualcosa a cui aggrapparsi nel buio, qualcosa che indica la strada e conduce in una determinata direzione, che fornisce un sostegno per arrampicarsi. In altre parole, la Regola di San Benedetto è più saggezza che legge. Non è una serie di istruzioni, ma uno stile di vita.
Ecco la chiave per capire la Regola: comprendere che essa non è tale.
Per questo essa vale tanto per i laici quanto per i monaci. « Ascolta… chiunque tu sia », dice Benedetto nel Prologo alla sua Regola. Chiunque tu sia.
La Regola di San Benedetto è semplicemente un pezzo di letteratura sapienziale sulle grandi questioni della vita al fine di renderle comprensibili e attuali, chiare e raggiungibili.
Ma non è facile arrivare a rendersene conto in una Chiesa e in un mondo che vogliono o tutto legge o nessuna legge. Le formule e la licenza sono molto più semplici di un’attenzione, un’attenzione continua, alla qualità della vita che stiamo creando e allo stesso tempo cercando. In altre parole, è molto difficile quando siamo giovani renderci conto che, per arrivare dove si vuole nella vita, dobbiamo fare spesso cose che non avremmo scelto di fare. Alzarsi presto al mattino per pregare e per leggere è un modo di pensare estraneo ad un arrampicatore aziendale, convinto che ciò di cui ha veramente bisogno sia accumulare sonno e conservare le forze per il duro giorno che lo aspetta. Per la mentalità monastica, tuttavia, non vi può essere niente di più sensato. Senza la preghiera e la lettura spirituale – ecco la convinzione dei monaci – chi sarà mai in grado di capire verso che cosa tenda il desiderio umano di far carriera o in che cosa consista la sua realizzazione? Interrompere il lavoro per pregare, nel bel mezzo di una giornata caotica, appare una pura irrealtà a molti giovani monaci per i quali il lavoro o lo studio sono molto attraenti e proficui. Ma dopo qualche anno diventa chiaro che la consuetudine giornaliera di fermarsi, per ricordare in che cosa consista veramente la vita nelle sue vette più vertiginose, rappresenti la sola genuina realtà di quel periodo dell’esistenza.
La Regola di San Benedetto, in altre parole, porta nella spiritualità l’attenzione e la consapevolezza. L’essenza della vocazione monastica benedettina non è un insieme di prescrizioni congelate nel tempo, ma è il tempo esaminato minuziosamente alla luce dei valori del Vangelo. Il benedettino non si mette in cammino per evitare la vita; si mette in cammino per vivere straordinariamente bene la vita quotidiana. Così, il vero monaco diventa sensibile al mondo.
I monasteri difficilmente appaiono luoghi da cui analizzare il mondo. Entrare in monastero, secondo la mitologia popolare, significa lasciare il mondo e non già esserne coinvolti ancora più profondamente. Ma solo da lontano possiamo vedere meglio. Forse solo chi non ha denaro può sapere meglio degli altri che il denaro non è essenziale per vivere bene. Forse chi dispone solo di un letto, di libri e di un armadietto in una piccola stanza, può rendersi chiaramente conto di quanta confusione possano portare nella vita tante cose che ingombrano. Forse solo quelli che fanno voto di obbedienza a qualcun altro riescono ad intuire quanto l’egocentrismo corroda il cuore. Forse solo chi vive nella solitudine capisce veramente che cosa sia la comunità. Forse solo quelli che per scelta non hanno alcun potere possono dimostrare meglio il potere che deriva dal non averne. Forse solo quelli che hanno deciso di opporsi all’accumulo di beni personali. possono rendersi conto che il fallimento economico, l’assistenza dei servizi sociali e il minimo indispensabile per vivere non sono le cose peggiori che possano accadere nella vita di una persona. Forse solo quelli che per scelta non si sono sposati riescono ad ascoltare con maggiore sensibilità chi è stato abbandonato, chi è vedovo o chi è solo. Forse solo quelli che non hanno una scala aziendale o ecclesiale da salire, possono parlare meglio di uguaglianza. Davvero il monastero offre una prospettiva privilegiata da cui parlare al mondo.
Una volta che ci si è resi conto che il testo della Regola di San Benedetto è solo un elemento della vita monastica, diventa evidente che le altre tre dimensioni di questa scelta esistenziale – il Vangelo di Cristo, le interpretazioni dei capi della comunità, l’esperienza e l’intuito di ogni singola comunità – sono destinate a mantenere una persona fortemente radicata nel mondo reale e sono regola tanto quanto la Regola stessa. Sono quelle dimensioni che danno vita, larghezza di vedute, profondità e portata, antichità e rilevanza, carattere locale e possibilità universale. Questi quattro elementi – le Scritture, il testo della Regola, guide sagge, l’intuito e le esperienze di vita, le condizioni della comunità o della famiglia in cui viviamo – sono ciò che rendono la Regola qualcosa di vivo e non un testo morto di norme passate, non un documento storico, non il passatempo di eccentrici antiquari.
La Regola di San Benedetto vive e respira di età in età. Essa esamina e si adatta da un secolo all’altro e da una cultura all’altra. La Regola di San Benedetto guida la gente verso un atteggiamento mentale, ma non la soffoca con una serie di prescrizioni particolari. E’ scritta per il nostro tipo di vita e le nostre condizioni, così come lo è stata per ogni epoca del passato. Cresce con i diversi periodi storici e ci offre un appiglio, un parapetto, una guida che non ci permetterà di arenarci nella nullità spirituale e nel torpore dei nostri tempi.
Il monaco cerca la santità « qui » e « ora » senza il peso di una particolare alimentazione o di una devozione esoterica o di un nocivo rinnegamento di se stesso. Il vero monaco attraversa la vita con un’anima spoglia, attenta, cosciente, piena di riconoscenza e che solo parzialmente si sente a casa.
Che cosa significa, dunque, seguire la Regola di San Benedetto, pensare con un’attitudine mentale monastica, vivere la vita più come un dono che come una lotta?
Prima di tutto, la spiritualità benedettina è un impegno più verso i princípi che verso le pratiche. Il monaco benedettino non segue tanto un orario o un rigido programma quotidiano, quanto predispone un equilibrio fra le varie attività della vita. Il benedettino non segue tanto un insieme di comportamenti quanto piuttosto sviluppa un’attitudine in armonia al suo posto nell’universo ed essa guida ogni sua conversazione e ogni suo gesto comune. Per la spiritualità benedettina conta di più vivere bene la vita che seguire perfettamente la legge.
In secondo luogo, la spiritualità benedettina è semplicemente una guida per i Vangeli, non un fine in se stesso. Benedetto definisce la sua Regola una « piccola regola per principianti » (RB 73, 8) nella vita spirituale, non un manuale per un’élite o per persone colte o per chi è già arrivato. Casalinghe e padri di famiglia, uomini e donne in carriera, monaci e laici « voi tutti che cercate la casa del Cielo » (RB 73, 8), la Regola vi sprona non verso una ginnastica spirituale ma verso la coscienza contemplativa secondo cui il Vangelo, e questo solo, è il criterio adatto per qualunque azione umana.
In terzo luogo, la Regola dimostra chiaramente che vivere la vita secondo il Vangelo non è un’avventura in balia del capriccio privato e dei voli di fantasie personali, ma è trarre coscientemente profitto dalla saggezza di altri che possono incoraggiarci e aiutarci ad esaminare minuziosamente il valore e il coraggio delle nostre scelte.
Infine, la spiritualità benedettina si fonda direttamente sull’idea che non siamo noi l’unica misura dei nostri bisogni spirituali, ma che l’intera umanità e l’universo hanno dei diritti sul valore delle nostre azioni quotidiane.
In un mondo dove l’intero pianeta è diventato il nostro prossimo e le nostre vite private sono caratterizzate da un’interminabile fiumana di gente, la Regola di San Benedetto, con il rilievo che dà alla qualità spirituale della vita di comunione, non è forse mai stata così attuale. Io stessa ho iniziato a vedere, sotto le apparenze di quest’antica regola monastica, una sembianza di ragionevolezza nell’irragionevolezza del mondo che mi circonda.
Quando iniziai la vita monastica, mi venne consegnata una copia della Regola. Per me non aveva alcun senso. Volevo delle indicazioni. Volevo una formula. Volevo la santità a rate: compra adesso, paghi più tardi. Mi ci sono voluti anni per capire che, se avessi pagato adesso, avrei ottenuto ciò che stavo cercando solo se e quando fossi diventata ciò di cui andavo in cerca. Mi ci sono voluti anni per rendermi conto che la Regola distillava anni di esperienza, era una sorta di saggio su ciò che Benedetto considerava la vita spirituale e una testimonianza di ciò che nella sua epoca erano stati i modi più efficaci per raggiungerla. Ma non si trattava affatto di un progetto dettagliato.
Nel 72° capitolo della Regola, Benedetto ci mette in guardia dal « cattivo zelo », dal fanatismo e dall’assolutismo che fanno della religione uno strumento di oppressione verso noi stessi e gli altri. Nel 73° capitolo, egli promette che se
« metti in pratica… questa piccola Regola… allora raggiungerai finalmente le più grandi vette della conoscenza e della virtù ».
Io iniziai a capire che questa vita richiedeva costanza, pazienza ed equilibrio. Qui si compiva una crescita, non delle norme. Questa vita sarebbe stata una santificazione della normalità, non una ginnastica spirituale. Per noi si trattava di un modo di vivere, non di vivere la vita in un certo modo.
Come risultato, adesso scopro di fare riferimento alla Regola quando mi chiedo quale dovrebbe essere la risposta cristiana ai problemi ecologici. Mi rivolgo ad essa per trovare la mia strada attraverso l’intrico dei rapporti umani. Mi affido ai suoi valori e ai suoi principi perché mi mostrino come gestire le stravaganze della vita. Guardo la Regola per spiegare la mia depressione, la mia frustrazione e la mia noia spirituale. Dipendo da essa per smettere di pensare solo a me stessa. La considero come un insieme di valori che trascendono il tempo ma che hanno un significato particolare per il mio tempo.
Ho scritto questo libro per condividere anni di riflessioni trascorsi con persone che ho trovato sinceramente interessate alle domande che mi pongo e preoccupate del cammino da seguire proprio come me. Di fronte a una continua confusione, dobbiamo tornare alla Chiesa di prima? Questo risolverebbe i nostri dilemmi? O una chiesa qualsiasi è la risposta in un’epoca in cui le chiese stesse si confrontano sulla questione nucleare, la questione della donna, quella che concerne il modo di vivere o la pastorale o la famiglia o l’alienazione o l’inquietudine personale? Quale significato ha la spiritualità rispetto a tutto questo: un rosario al giorno, l’astinenza dalle carni, dei ritiri regolari, il coinvolgimento nei gruppi della parrocchia, l’attività pubblica? E’ un crescendo di domande. Credo che le risposte si trovino in ciò che non va e viene con il passare degli anni e le diverse epoche. Le risposte consistono nell’offrire la saggezza e non un insieme di ricette.
Queste pagine sono le mie riflessioni sulla saggezza che emerge da un testo antico a proposito delle nostre antichissime e nuovissime preoccupazioni. Per vivere la Regola di San Benedetto non abbiamo bisogno di una serie di meccanismi, ma di un cambiamento del cuore e di una nuova disposizione della mente.
C’era una volta, narra un antico racconto monastico, un anziano monaco che disse ad un mercante:
«  »Come il pesce muore sulla terraferma, così tu morirai quando rimarrai impigliato nel mondo. Il pesce deve tornare nell’acqua e tu devi tornare allo Spirito ».
Il mercante rimase stupefatto: « Stai dicendo che devo abbandonare i miei affari ed entrare in un monastero? », chiese.
E l’anziano monaco disse: « Assolutamente no. Ti sto dicendo di rimanere aggrappato al tuo lavoro ed entrare nel tuo cuore »"
Questo libro vuole aiutare le persone normali a vedere il mondo di oggi attraverso il filtro della Regola di San Benedetto e i più forti desideri del loro cuore.

SAN BENEDETTO DA NORCIA PATRONO D’EUROPA – 11 LUGLIO

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SAN BENEDETTO DA NORCIA PATRONO D’EUROPA – 11 LUGLIO

Benedetto credette che era possibile anche nel deserto (geografico e morale) aprire una scuola per imparare a servire il Signore. La Regola è tutta organizzata attorno a un duplice «lavoro»: il lavoro per Dio e il lavoro delle mani. I monaci sono infatti «operai del Signore».

San Benedetto da Norcia

(ca. 480 – 21 marzo 543/560)

Nel secolo V dopo Cristo, l’Impero romano era in decomposizione. Avevano cominciato i Vandali ad oltrepassare la frontiera del Re­no con vere e proprie migrazioni d’intere tribù, con donne, bambini, carri, greggi. Nel 410 Roma era caduta, ed era stata saccheggiata per la prima volta dalle truppe d’Alarico, sotto gli occhi stupefatti del mondo. Poi, nei primi tre quarti di secolo, si era compiuta la rovina.
A metà secolo c’era stata la terribile minaccia di Attila e dei suoi Unni, provenienti dal Nord, e, subito dopo, un altro saccheggio di Roma da parte dei Vandali di Genserico che, avevano devastato la Spagna, le province d’Africa, ed erano risaliti dal mare, dopo aver conquistato la Sicilia e la Sardegna. Le città imperiali restarono, di conseguenza, prive di grano. Nel 476 fu ucciso a Ravenna l’ultimo imperatore d’Occidente e il barbaro Odoacre prese il potere; il figlio minorenne dell’ucciso lo chiamavano per spregio Romolo l’imperatoruccio (Augustolo). Nel 490 Teodorico il Grande prende il potere e fonda a Ravenna il regno dei Goti d’Oriente, tentando una sintesi, anche culturale, di romanità e germanesimo. Ma l’impresa fallirà in una trentina d’anni, per l’incompatibilità tra la fede ariana dei Goti e quella cattolica dei Romani.
Benedetto nasce dalle parti di Norcia, verso il 480; è dunque bambino quando l’Impero romano si dissolve – Roma, dove si reca adolescente per iniziare gli studi, è sopraffatta dalle sventure: ripetu­te carestie e inondazioni del Tevere, epidemie, lotte intestine, disfaci­mento del tessuto sociale amministrativo e religioso [...]
Sembrava davvero una città agonizzante, anche se – dice un testi­mone del tempo – «Roma moriva ridendo», senza voler rinunciare ai piaceri e alle dissolutezze che spesso accompagnano la disgregazione.
«Ci fu un uomo Benedetto, di nome e per grazia…», così comin­cia il racconto di san Gregorio, presentandoci subito un adolescente che ha già – come piaceva a quei tempi – la saggezza di un uomo ma­turo.
Benedetto è un ragazzo di famiglia agiata che, dal territorio di Norcia, viene a Roma per dedicarsi agli Studi letterari. Ma la «città eterna» gli appare piuttosto come abisso di perdi­zione in cui è facile perdersi, ed egli intuisce che deve anzitutto «cercare se stesso», realizzando quell’ideale di «abitare con se stesso» che è condizione primaria di salvezza, quando tutto sembra crollare.
Fugge dunque da Roma: quel mondo desolato che si abbevera agli ultimi piaceri gli sembra un deserto; preferisce perciò un deserto vero, secondo le più antiche e pure tradizioni monastiche.
Fugge, soli Deo placere desiderans («desiderando piacere soltanto a Dio»), inaugurando, con i fatti, una di quelle plendide massime spirituali di cui diventerà maestro. E, riflettendo sugli studi di letteratura che Benedetto ha abban­donati, il Santo Pontefice crea un’altra massima di splendido sapore antico: «Se ne andò, sapendo di non sapere e sapientemente ignoran­te» (scienter nescius et sapienter indocitis) (D 2°, prol.).
Per tre anni Benedetto visse in un paesino a settanta chilometri da Roma, accompagnato e accudito dalla sua governante, abitando in una chiesa; e già lì diede inizio alla sua attività taumaturgica per ri­sparmiare qualche dispiacere casalingo a colei che lo accudiva con tanto affetto.
Ma è difficile vivere in solitudine, quando si fanno miracoli, e Be­nedetto fuggì di nuovo – questa volta completamente solo – rifugian­dosi in un inaccessibile speco a Subiaco. Vi restò tre anni, assistito da un monaco del posto che gli portava periodicamente un po’ di pane.
Fu Dio a decidere che quella solitudine dovesse cessare dopo tre anni: il giorno di Pasqua suggerì a un prete delle vicinanze, che si sta­va preparando il pranzetto festivo, di andare a condividerlo con l’e­remita della montagna. Poi furono dei pastori che cominciarono a scambiare con lui del cibo: essi gli portavano il necessario, dai prodotti del loro gregge, e il giovane solitario ricambiava, offrendo il nutrimento della sua predi­cazione.
Stava per cominciare la missione pubblica di Benedetto, ma prima egli doveva essere provato dalla tentazione e definitivamente pu­rificato.
Secondo i canoni antichi delle «tentazioni nel deserto», l’eremita si vide assalito dal ricordo bruciante di una bella ragazza che aveva intravisto nel breve soggiorno romano, e tanto bastò per incendiargli il cuore, la mente e le membra. Benedetto spense quel fuoco accendendone un altro più materia­le, ma più tormentoso: si ravvoltolò nudo tra spine e ortiche, finché il corpo bruciò davvero: «Di fuori bruciò per lo strazio, e dentro si estinse il fuoco del peccato» – commenta il saggio pontefice.
Molti secoli dopo, in altra stagione, Francesco d’Assisi, per lo stesso problema, sceglierà di immergersi nella neve gelata.
Ambedue comunque dimostrarono d’avere una notevole intelli­genza, dato che compresero che non si può mai curare l’ardore dei sensi affidandosi solo ad elevazioni spirituali. La vittoria fu comunque definitiva. Nel racconto essa ha lo scopo esplicito di garantirci che Benedetto non diventò maestro di altri cri­stiani, senza prima aver imparato ad avere un completo dominio di sé.
Non trascorse molto tempo, che i monaci di Vicovaro (tra Subiaco e Tivoli) vennero a offrirgli la nomina a superiore. Benedetto accettò, dopo molte resistenze, ma i monaci se ne pentirono subito, non appe­na si accorsero che egli esigeva una vera osservanza regolare. Cercarono un mezzo spiccio per liberarsene e decisero di avvele­nargli, a pranzo, il bicchiere di vino.
Avevano però dimenticato che la consuetudine prescriveva di be­nedire il bicchiere di vino prima di bere, e così – quando Benedetto tracciò il segno di croce – la coppa logicamente si spezzò, perché «la bevanda di morte non aveva potuto sopportare il segno della vita». Forse il miracolo spaventò i monaci, ma Benedetto si convinse che era meglio per lui abbandonarli, perché non voleva «stremare le sue forze» nel tentativo di correggere «chi non voleva essere corretto». Da allora furono monaci e postulanti ad accorrere da lui, ma ac­correvano soltanto coloro che desideravano davvero d’essere spiri­tualmente guidati.
In breve, i discepoli furono tanti che Benedetto si trovò, quasi senza accorgersene, ad essere fondatore di dodici monasteri dissemi­nati nella zona: ognuno abitato da dodici monaci.
Il numero perfettamente e sapientemente biblico (dodici per do­dici) rappresenta anticipatamente «il disegno» della armoniosa archi­tettura benedettina. Ed erano già monasteri in cui – secondo un uso rimasto a lungo – si accoglievano anche bambini, figli di nobili, da educare.
[...] La storia di Montecassino inizia in seguito a un opportuno stacco voluto da Dio, anche se allora sembrò che fosse il demonio ad avere la meglio.
In breve, ci fu un prete «astioso di invidia» che fece di tutto per distruggere l’opera del Santo: prima gli mandò del «pane avvelenato» e Benedetto sventò la minaccia, poi organizzò nell’orto del monaste­ro, con alcune ragazze, uno spettacolo lascivo per avvelenare i frati. In conclusione Benedetto, comprendendo che l’astio era rivolto a lui, diede un definitivo ordinamento a quei monasteri, assegnò loro dei bravi superiori e poi li lasciò alla loro sorte, conducendo con sé solo pochi fratelli.
Inutile dire che, appena Benedetto si mise in viaggio, quel prete astioso e malvagio morì vittima di una disgrazia, ma il santo Patriarca rimproverò Mauro e gli impose una penitenza perché gli aveva porta­to la notizia con una certa soddisfazione. Lui provava invece un im­menso dolore.
Non tornò indietro tuttavia, ma si incamminò verso Cassino, una rocca situata sul fianco di un alto monte, sulla cui vetta c’era ancora un tempio dedicato ad Apollo.
Quando Benedetto si diede a distruggere tempio e altare pagani e a predicare ai nativi la Buona Novella, la lotta con Satana esplose con violenza. I monaci dicevano di sentire un grido lamentoso: «Maledet­to, non Benedetto, che cos’hai contro di me? Perché mi perseguiti?». Era l’annuncio che la nuova fondazione avrebbe contribuito alla di­struzione del regno di Satana, ma dovevano attendersi prove su prove.
Durante la costruzione dell’abbazia, i monaci, come vedevano in ogni aiuto la mano provvidente di Dio, così vedevano nelle difficoltà più insormontabili la mano oppressiva di Satana. Era infatti una terra seminata di idoli.
In questi casi Benedetto interveniva con la sua preghiera, sia che si trattasse di spostare un macigno che sembrava radicato nel terreno, sia che si trattasse di placare qualche allucinazione dei monaci, sia che un muro in costruzione crollasse improvvisamente su uno dei ra­gazzini affidati alla comunità. Il potere del santo si estendeva allora fino a richiamare in vita il fanciullo morto per la cattiveria del demonio. Altri miracoli gli occorrevano, poi, per aiutare i monaci ad osservare la Regola. Così Benedetto sapeva, per divina ispirazione, se dei monaci in viaggio l’avevano trasgredita mangiando fuori dal Monastero o accettando regali.
Allo stesso modo egli metteva a nudo le intenzioni e le traine di chi cercava di ingannarlo o le interne mormorazioni di chi disobbedi­va nel cuore.
L’episodio rimasto celebre nella storia fu quello di Totila, il re go­to, che scorrazzava impunemente per l’Italia e che si avvicinò a Montecassino incuriosito della fama di Benedetto.
Per mettere alla prova il santo, il re gli mandò il suo scudiero ab­bigliato da re, con tutte le insegne e la scorta dei nobili. Benedetto non lo lasciò nemmeno avvicinare. Da lontano gli gridò: «Figlio mio, levati quelle vesti che non ti appartengono!». Caddero tutti a terra, impressionati non perché l’inganno fosse stato scoperto, ma per la «velocità» con cui erano stati smascherati.
Quando Totila giunse in persona, non osava nemmeno avvicinar­si e se ne stava genuflesso lontano. Gli si accostò Benedetto, lo fece alzare e gli disse senza mezzi termini: «Il male che fai è molto, e mol­to ne hai già fatto. Metti fine, una buona volta, alle tue malvagità. En­trerai a Roma, passerai il mare, regnerai nove anni e nel decimo morrai». Dicono che, da allora, Totila fu un po’ meno crudele.
«Al suo orecchio risuonavano perfino le parole solamente pensa­te», spiega l’agiografo, che narra anche «miracoli» più spirituali: in­tuizione dell’animo e delle debolezze altrui, premonizioni, sogni, au­torevolezza sulle anime estesa fin quasi all’aldilà, forza di intercessione in terra e in cielo.
La formula usata per spiegare tutto è questa: ad agire è «la grazia di Benedetto». Il santo è talmente ricolmo di doni spirituali che può dispensarli con larghezza, in ogni direzione.
Poi ancora quei miracoli di guarigione e di «abbondanza», carat­teristici di ogni «epoca messianica»: liberazione di indemoniati, gua­rigione dei lebbrosi, sollievo di prigionieri e sofferenti, remissione di debiti, e abbondanza prodigiosa di provviste (pane, olio) in tempo di carestia.
Viene anche sottolineata la soccorrevole carità verso i più poveri, al quali Benedetto si prefigge «di dare tutto in terra per non perdere nulla in ciclo», tanto da innervosirsi quando il monaco dispensiere conserva gelosamente l’ultima ampolla d’olio.
Solo una volta Gregorio descrive Benedetto, nella sua dolente umanità: non mentre compie miracoli, ma mentre si abbandona a un dirotto pianto: così lo vede infatti un nobile ospite del monastero che entra improvvisamente nella camera dell’abate.
A lui Benedetto confida: «Tutto questo monastero che io ho co­struito e tutte le cose che ho preparato per i fratelli, per disposizione di Dio Onnipotente sono destinate a finire preda dei barbari. A grande fatica sono riuscito ad ottenere che, di quanto è in questo luogo, sia­no risparmiate almeno le persone». E così accadde alcuni decenni dopo la morte del Patriarca, al tem­po dell’invasione longobarda. A nessun amico di Dio può infatti essere risparmiata la passione e la sua notte.
Ultimo miracolo raccontato vede per la prima volta Benedetto quasi tremare di impotenza. Ha davanti un papà disperato che porta in braccio il corpicino del figlio morto. «Restituiscimi mio figlio, re­stituiscimi mio figlio!», grida insistentemente l’uomo, con la persua­sione che, rivolgendosi a Benedetto, il grido raggiunga Dio.
«Te l’ho forse tolto io tuo figlio?», chiede confuso Benedetto, ma quando si accorge che gli viene chiesto un miracolo di resurrezione, subito manda via gli altri monaci: «Allontanatevi, fratelli, allontana­tevi! Non sono miracoli per me questi! Solo i Santi Apostoli possono farli! Perché volete addossarmi un peso che non sono capace di por­tare?». Poi il miracolo accade, ma Benedetto lo chiede a Dio «per la fede di quest’uomo che chiede di resuscitargli il figlio».
Ora che l’agiografo ha toccato il vertice della sua narrazione, rac­conta anche, per la prima e unica volta, una sconfitta di Benedetto: «Ci fu qualcosa che, pur da lui desiderata, non riuscì ad ottenere». Improvvisamente Benedetto esce dal suo alone misterioso e subli­me, e veniamo a sapere qualcosa dei suoi affetti.
Scopriamo così che egli ha una sorella gemella alla quale è molto affezionato e che, come lui, si è consacrata a Dio fin dall’infanzia. Scopriamo che il venerabile Patriarca le dedica un giorno all’an­no: un’intera giornata in visita al monastero di lei, «a parlare assieme di argomenti santi», fino alla cena compresa.
Ed ecco che ci viene narrata l’ultima visita. Quando, a sera, giun­ge l’ora in cui Benedetto deve tornare in monastero (la Regola proibisce severamente di pernottare fuori), Scolastica chiede al fratello un’eccezione: «Questa notte non lasciarmi, te ne prego, così potremo fino a domani mattina parlare della gioia della vita celeste». Ma rice­ve un rifiuto quasi scandalizzato: «Che cosa dici mai, sorella!».
Il cielo non ha una nuvola. Scolastica pone le mani intrecciate sul tavolo e china la testa. In brevissimo tempo il cielo si annuvola e scoppia una tale tempesta con lampi e tuoni e rovesci di pioggia, che Benedetto, per tutta la notte, non può nemmeno metter piede fuori della soglia.
«Dio Onnipotente ti perdoni, sorella mia», disse Benedetto, «che hai fatto?». E Scolastica, con logica tutta femminile, rispose: «Vedi, ho pregato te, e tu non mi hai voluto ascoltare. Allora ho pregato il mio Signore e mi ha ascoltata. Ora esci pure, se ci riesci, torna in mo­nastero!».
Così Benedetto si trovò a subire un miracolo. Il motivo era duplice, spiega papa san Gregorio.
Il primo: nel cristianesimo tutto è questione d’amore. Dio stesso è amore, quindi fu cosa logica «che potesse di più colei che amò di più». Ed è con questo conclusivo giudizio che Gregorio relativizza in un colpo solo tutti i miracoli che ha raccontati e ne fa – anche a favore di Benedetto, si intende – una questione d’amore.
Il secondo: Dio sapeva che quell’incontro tra i due fratelli era l’ul­timo. Scolastica morì dopo tre giorni. Benedetto mandò i suoi frati a prenderne il corpo, per deporlo nel sepolcro che egli aveva fatto pre­parare per sé. «Si ebbe perciò che, come in vita la loro anima era sta­ta sempre una cosa sola in Dio, così in morte anche i loro corpi non furono separati neppure dalla tomba» (D n. 34).
Siamo così giunti quasi al vertice della narrazione, e sentiamo per­ciò il bisogno di andare all’altra fonte della biografia di Benedetto, a cui san Gregorio rinvia il suo lettore scrivendo: «Tra i tanti miracoli che resero famoso nel mondo quest’uomo di Dio c’è da porre anche il luminoso splendore della sua dottrina. Scrisse infatti per i monaci una Regola, davvero notevole per la sua discrezione, e chiara e bella (luculenta) nell’espressione. E se qual­cuno vuole conoscere più a fondo i suoi costumi e la sua vita, nell’in­segnamento della Regola può trovare gli atti con cui egli stesso visse il proprio magistero, perché egli non poté insegnare in maniera di­versa da come visse» (D 11,36).
Che la Regola debba in qualche maniera rispecchiare la vita del nostro santo è evidente soprattutto la dove descrive le qualità e i compiti dell’abate che – dice Benedetto – «sono già tutti indicati dal nome con cui lo si chiama: Padre!».
Il cuore dell’avvenimento evangelico – la venuta sulla terra del Fi­glio di Dio e il dono del suo Spirito che ci rende capaci di invocare Dio col nome di Abbà («Padre!») – diventa così il cuore stesso del monastero, tutto abitato da figli che si rivolgono con questo nome al loro Superiore.
Costui sa di dover trasmettere la volontà di Dio, con le parole e con la vita, ricordandosi sempre «del nome che porta»: sa di dover essere un padre «puro, sobrio, misericordioso» che lascia sempre «prevalere la misericordia sulla giustizia».
A lui Benedetto chiede il difficile equilibrio di un amore capace, a un tempo, di estendersi a tutti e di privilegiare ciascuno secondo le sue necessità. Un padre riservato e indulgente, forte e saggio; non inquieto né ansioso, non oppressivo né geloso; capace di tenerezza e di infinita pazienza, ma anche di severità e di decisione. Un padre che «preferisce sempre la misericordia alla giustizia», ma non trascura mai la correzione.
Un padre che osserva attentamente i suoi figli e la loro diversa in­dole in modo che «i forti abbiano sempre un ideale a cui tendere e i deboli la possibilità di non scoraggiarsi».
Gli aggettivi, le immagini, i proverbi si susseguono sotto la penna di Benedetto, a volte con u certo umorismo, come quando esorta l’abate a non essere come quel pastore che «a forza di far correre il gregge fa morire tutte le pecore in un solo giorno», o quando gli con­siglia «di stare attento a non spezzare il recipiente a forza di grattare via la ruggine».
Altri consigli hanno la bellezza di motti programinatici: «L’abate curi più di essere amato che termuto»; «sappia di dover giovare più che comandare».
Dietro molte espressioni si intravedono le esperienze personali di Benedetto: le sue scoperte pedagogiche, i propositi di buon gover­no che deve aver elaborato nel corso degli anni, le delusioni che deve aver subito e i successi riportati con l’aiuto di Dio.
Ma la Regola è soprattutto descrizione dell’edificio che Benedetto va man mano costruendo. Si può dire che egli progetti una costruzio­ne grandiosa, ma a suo modo incredibilmente semplice.
In un’epoca in cui tutto sembra sfaldarsi – sia la società ecclesiale che quella civile, sia la vita monastica che quella laicale – e Benedetto pensa in termini di «famiglia»: il monastero è un’intera «società» ge­stita come una «famiglia». Nella sua compiutezza, il monastero deve contenere tutto ciò che serve alla vita: «l’acqua, il mulino, l’orto e i locali dove si esercitano i vari mestieri … ».
Da un lato è il monaco che non ha più bisogno di girovagare per il mondo né di cercarvi il necessario per vivere, dall’altro – nei seco­li bui che si avvicinano – sarà piuttosto il mondo che verrà a vivere all’ombra e sotto la protezione del monastero, cercandovi quella pa­ce, quell’ordine, quella progettualità che sarà impossibile trovare al­trove.
Nel monastero benedettino vengono a vivere, come fratelli sotto l’autorità di un unico Padre, tutti coloro che lo desiderano, purché promettano obbedienza e stabilità. Non si fa distinzione tra liberi e schiavi, né tra uomini d’arme e contadini, né tra ignoranti e dotti. Non si fa distinzione di età: perfino i fanciulli sono ammessi; l’ab­bazia ha sempre una scuola in cui dei bambini – amati come figli – già si preparano alla vita monastica; la Regola vale anche per loro, anche se tocca all’abate adattarla alla loro età e temperarla. Non si fa nemmeno quella distinzione che più ci si attenderebbe: la previa valutazione delle disposizioni spirituali e l’attuazione di un discernimento vocazionale.
La Regola sembra dare per scontato, quasi in ogni pagina, che in monastero abitino, con lo stesso diritto, monaci obbedienti, capaci, pazienti, docili, virtuosi, intelligenti e altri caparbi, cattivi, orgogliosi, ribelli, turbolenti, arroganti, indisciplinati, inutili…
Tutti assieme essi formano «il gregge dell’abate», ed egli deve pascerli dando ad ognuno il giusto nutrimento e la giusta medicina. Alla fine del cammino (… alla fine della Regola) Cristo li prenderá tutti assieme li condurrà alla vita eterna».
Nel prologo, Benedetto definisce il suo monastero «una scuola per imparare a servire il Signore»; poco dopo dirà che è un’«officina» dove tutti lavorano, avendo a disposizione gli «strumenti delle buone opere». Se si legge la lunga lista di questi «strumenti consigliati» (quasi 74) non ci si deve meravigliare di trovare elencati assieme: i principali comandamenti (compreso quello di «non ammazzare» e «non commettere adulterio»), le opere di misericordia (compresa quella di «seppellire i morti»), le tentazioni contro le quali bisogna resistere (tra cui «non dare sfogo all’ira», «non covare rancore», «non almanaccare l’inganno»), i vizi che bisogna eliminare (tra cui la raccomandazione di non essere «pigri», «beoni», «mangioni», «dormiglioni», brontoloni»), e le virtù che bisogna coltivare (tra cui «venerare i più anziani» e «amare i più giovani»).
Il fatto che Benedetto si attardi a enumerare raccomandazioni spesso gravi, ci dice che si ritiene normale anche la vocazione di molti robusti e inveterati peccatori: i tempi sono tali che il monastero non può essere immaginato come rifugio di anime elette e spiritualmente affinate, ma come rifacimento e salvezza di tutto un mondo, solo in parte cristiano, che sembra inabissarsi.
Ma tra i tanti pesanti richiami risplendono indicazioni di altissima vita mistica, offerte come lampi di ideale a chi «può comprendere»: dal bellissimo «Affidare a Dio la propria speranza», al suggestivo «Desiderare la vita eterna con ogni concupiscenza spirituale», al conclusivo e pacificante «Non disperare mai della misericordia di Dio» .
E non si può certo dimenticare quello splendido aforisma: «Non anteporre nulla all’amore di Cristo» che Benedetto mette all’inizio della Regola e che riprende alla fine con un’assolutezza ancora maggiore.
Su tutto dovrà poi dominare l’obbedienza all’abate, soprattutto quella prestata «senza indugio», che è propria di coloro «che ritengono di non avere per sé nulla di più caro di Cristo» e che porterà i fratelli a un desiderio umile di obbedirsi reciprocamente»,
L’esistenza che la Regola descrive e prescrive è tutta organizzata attorno a un duplice «lavoro» (opus): il lavoro per Dio e il lavoro delle mani. I monaci sono infatti «operai del Signore».
Opus Dei (la preghiera comune di tutti i monaci) è un lavoro che dev’essere compiuto «al cospetto degli angeli» e scandisce le ore del giorno e della notte. Esso dà un orientamento verticale e purificatore a tutte le tensioni dell’esistenza. Anche in questo caso deve valere una radicale decisione del cuore: «non si deve anteporre nulla all’Opera di Dio», così come non si deve anteporre nulla all’amore di Cristo. Opus magnum è il lavoro a cui tutti devono applicarsi negli altri tempi della giornata. In un’epoca in cui il lavoro è affare di schiavi, Benedetto lo fa diventare questione di umana dignità, di fraterna solidarietà e di spirituale offerta.
Perfino gli strumenti di lavoro vanno trattati «come i vasi sacri dell’altare». Perfino l’economo della casa dve curare l’amministrazione e deve tutto sorvegliare in base a un criterio di profonda umanità innervata dalla fede: anch’egli è tenuto a comportarsi «come padre della comunità» e il suo compito deve tendere a che «nessuno si turbi o si rattristi nella casa di Dio»,
Ora et Labora: il motto sintetico, che diverrà poi tradizionale, descrive il monaco che sa di lavorare con Dio e per Dio, ma sa che anche Dio lavora con lui e in lui.
Fu così che i monaci – guidati da questa Regola (che Benedetto, alla fine, definisce «piccolissima Regola da principianti») – impararono a rendere «eroica la vita quotidiana e quotidiana la vita eroica» con lo stesso ritmo con cui apprendevano «a dissodare terre e a darle alla civiltà», dopo aver dissodato e offerto a Dio il loro cuore.
Col passare (dei secoli «l’Europa sarà rinserrata in una rete di fattorie modello, (i centri di allevamento, di focolai di alta cultura, di fervore spirituale, di arte di vivere, di volontà di azione, in una parola: di civiltà ad alto livello che emerge dai flutti tumultuosi della barbarie. San Benedetto è senza alcun dubbio il Padre d’Europa. I bene­dettini, suoi figli, sono i padri della civiltà europea»: così ha scritto Léo Moulin. Egli amava ricordare che perfino le leggi del galateo che oggi rispettiamo a tavola (tovaglie, tovaglioli, fiori, silenzio, pulizia, sequenza dei cibi, cortesia reciproca, modo di comportarsi) furono inventate dai monaci che resero il cibo «una pietanza», qualcosa che è legata alla pietas: un cibo ricevuto e consumato con gratitudine e ri­spetto.
Ai tempi della prima abbazia di Montecassino il lavoro riguarda­va la stretta amministrazione della casa e dei suoi più vicini possedimenti.
Col tempo i monaci impareranno a dissodare terre, bonificare, ir­rigare, fino a gestire vere e proprie aziende agricole, allevamenti, vi­vai, serre sperimentali. Impareranno e insegneranno la viticoltura, lo sfruttamento delle foreste, l’uso delle piante medicinali. Si preoccuperanno di ricopiare nei loro freddi scriptoria tutte le opere dell’antichità classica che oggi noi conosciamo soltanto per lo­ro merito. I monasteri diverranno perfino centri finanziari, e adempiranno per secoli anche alla funzione di banche di depositi e prestiti.
Dicono che in Europa non c’è luogo in cui non si trovino tracce dell’azione dei monaci, e molte città ebbero il loro primo nucleo in un’abbazia.
La Regola è all’origine di tutto questo: ha salvato e costruito l’Europa non perché offrisse un progetto dettagliato e credibile di ricostruzione, ma perché trasmetteva un modello di vita in cui «la dignità umana aveva un riconoscimento quotidiano» (Bernard Dejòuvenel) e – aggiungiamo noi – tale dignità era riconosciuta in ogni azione del giorno, dalla più sacra alla più umile.
Lo scopo di Benedetto – e poi quello dei suoi monaci – non fu quello di supplire alle deficienze di una società in sfacelo, ma quello di poter semplicemente realizzare la vocazione che Dio dona all’uomo.
Benedetto credette, insomma, che era possibile anche nel deserto (geografico e morale) aprire una schola dominici servitii: «una scuola per imparare a servire il Signore»; ma comprese che, in quegli anni e in quei secoli, una simile «scuola» doveva semplicemente farsi carico di insegnare tutto, anche tutto l’umano»: dalla cortesia al senso del­la misura, dalla tenerezza alla serietà, dall’onorare Dio all’onorare i propri fratelli e le proprie responsabilità.
Aveva poco più di sessant’anni, quando Dio gli fece l’ultimo rega­lo. Una notte in cui Benedetto pregava silenziosamente, stando alla finestra, una luce si diffuse lentamente fino a che tutto sembrò ri­splendere come in pieno giorno. Ed ecco che «durante questa visione si verificò un fatto prodigioso, come ebbe a dire in seguito lui stesso: davanti ai suoi occhi si presentò addirittura il mondo intero come raccolto sotto un unico raggio di sole».
Anche san Gregorio Magno, che racconta quest’episodio conclu­sivo, fa fatica a spiegare il significato e la possibilità stessa di una si­mile visione. Spiega tuttavia così: «Non furono la terra e il cielo a rimpicciolirsi, fu l’anima del veggente che si dilatò».
E questa una nota ricorrente nell’esperienza di molti santi, che merita di essere sottolineata: l’ultima preghiera, l’ultima visione ri­guardano Dio Creatore e la bellezza di tutte le creature. Il primo articolo del Credo è anche l’ultima verità pienamente creduta e gustata.
Ormai il Santo Patriarca sapeva d’essere giunto al termine del suo cammino. Si fece portare nell’oratorio del monastero, ricevette l’Eu­caristia, e poi «con l’aiuto dei discepoli che sostenevano le sue debo­li membra, rimase in piedi con le mani alzate verso il cielo, finché spirò mormorando un’ultima preghiera».
Moriva com’era vissuto, nella posizione dell’Orante, mentre alcu­ni monaci di lontani monasteri ricevevano la visione di una strada, tutta coperta di tappeti, che si innalzava dritta fino al cielo, verso Oriente, e una voce spiegava loro: «Questa è la via per la quale Bene­detto, caro a Dio, è asceso al cielo».
Così finisce il racconto della vita di colui che fu «Benedetto di no­me e per grazia». Più avanti, in un altro libro dei suoi Dialoghi, san Gregorio ag­giungerà ancora un episodio sul Santo Patriarca che può servirci come conclusione del racconto e ammonimento.
Il Pontefice narra la vicenda di un eremita del monte Morsicano che, in quegli stessi anni, viveva chiuso in una caverna e che, per restare fedele al suo proposito, aveva addirittura legato il suo piede alla roccia con una catena di ferro. Benedetto, quando lo seppe, gli mandò a dire: «Se sei servo di Roma a tenerti legato non deve essere una catena di ferro, ma la catena di Cristo». Voleva dire – a lui e a noi – che l’unico legame indissolubile è l’a­more di Gesù.

(Testimoni della Fede) Sacerdoti – autore: Antonio Sicari

Publié dans:SAN BENEDETTO DA NORCIA |on 10 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

Journey from Ur / Abraham offering Isaac

Journey from Ur / Abraham offering Isaac dans immagini sacre abe2
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Publié dans:immagini sacre |on 9 juillet, 2014 |Pas de commentaires »
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