Archive pour juillet, 2014

LA TEOLOGIA DELL’APOSTOLO PAOLO

http://digilander.libero.it/moses/cristianesimo03.html

(è soprattutto filosofia per me, critico, valido per molti versi, interessante)

CRISTO ED IL CRISTIANESIMO

LA TEOLOGIA DELL’APOSTOLO PAOLO

DI RENZO GRASSANO

Paolo è ricordato giustamente come il principale diffusore del cristianesimo in epoca apostolica. Fu figura storica a tutti gli effetti e lasciò alcuni scritti la cui autenticità è indubbia, anche se non si possono escludere rimaneggiamenti e « correzioni » operate a posteriori. La Lettera agli Ebrei, di cui parlerò abbastanza diffusamente per la sua importanza particolare, non fu forse opera sua, ma ne rispecchia alcuni modi di dire e le idee generali. Sicuramente uscì, dunque, dall’indirizzo profondo che egli aveva impresso alla prima chiesa.
Nato a Tarso, in Asia Minore, qualche anno dopo la nascita di Gesù, da famiglia ebraica ma di cittadinanza romana, fu educato a Gerusalemme e frequentò la scuola farisaica di Gamaliele, che a sua volta dovrebbe aver studiato con Hillel. Venne cioè educato alla dottrina farisaica dai migliori maestri di moderazione, lo stesso ceppo di quelli che influenzarono Gesù negli anni giovanili.
Sotto questo profilo, dunque, è per molti aspetti inspiegabile il trovarlo tra i più fanatici persecutori del cristianesimo.
Probabilmente non conobbe Gesù di persona, anche se non si può escludere lo abbia ascoltato quando insegnava nel Tempio di Gerusalemme.
Comunque non ebbe alcuna parte nella cattura, nel processo e nell’esecuzione del nazareno.
Cominciò la sua attività pubblica qualche anno dopo, e lo incontriamo per la prima volta al processo contro Stefano ed alla successiva lapidazione.
Gran parte della sua più realistica biografia è documentata negli Atti degli Apostoli composti dall’evangelista Luca in appendice al suo Evangelo.
Il resto si può facilmente ricavare dalle stesse Lettere di San Paolo, che nel II° secolo d.C. vennero canonizzate, cioè inserite nella Bibbia cristiana come scritture sacre a tutti gli effetti.
La sua vera avventura cominciò con il famoso episodio della caduta da cavallo sulla via di Damasco. Recava con sé lettere del Sommo Sacerdote di Gerusalemme che lo autorizzavano a catturare i seguaci di Cristo per condurli in catene a Gerusalemme.
Da allora, ricevute istruzioni direttamente da Gesù, che gli parlava, ovviamente, « dall’altro mondo » secondo la testimonianza dello stesso Paolo, egli divenne instancabile ed inarrestabile predicatore del cristianesimo.
Nessuno come lui andò così lontano nei viaggi missionari. Nessuno come lui cercò un approfondimento radicale e totale del mistero cristiano. Nessuno come lui visse con altrettanto coraggio e scarsissima considerazione di sé l’avventura della predicazione.
Parlò sia agli umili che ai potenti, anzi fu il primo a provare la grande impresa di convertire re e governatori.
I suoi scritti sono ancor oggi alla base della codificazione e della dottrina.
Il catechismo che abbiamo imparato da bambini prima della cresima, e che non sarebbe male ripassare nella sua ultima versione, si fonda sulle sue più importanti acquisizioni teoriche.
Non si è autenticamente cristiani se non si è « paolini ». Ma Paolo fu anche l’autore più contestato di tutta la storia della Chiesa. Tutti i pensatori che in qualche modo rifiutarono il cristianesimo fecero puntello sugli aspetti più paradossali e contraddittori delle affermazioni paoline. Il solo Nietzsche se la prese direttamente con il Cristo.
Persino io, che mi dichiaro cattolico (all’acqua di rose) senza vergogna, ma anche senza entusiasmo, visto l’andazzo attuale, trovo spesso imbarazzo e difficoltà nell’interpretare il pensiero ed il comportamento di San Paolo.
Del resto egli non fu mai accettato del tutto nelle comunità cristiane. Fu criticato ed osteggiato. Probabilmente fu frainteso, e persino calunniato. Dovette più volte difendersi e giustificarsi, contrattaccare.
Sotto un certo profilo, se si trova rispetto ad ogni sua affermazione un punto di forza relativo e contestualizzabile, egli ebbe ed ha sempre ragione. Ovviamente per i credenti. Ma questi punti vanno trovati e spesso non è facile. Come scrisse Pietro, od un suo successore immediato (forse un vescovo di Roma), « le sue lettere sono un po’ difficili da capirsi. »(1) Ammissione della rilevanza dei tratti speculativi e della radicale complessità dei ragionamenti.
Ancor oggi Paolo è un mistero, una sfida per la ragione e persino per la fede, se si crede che ogni buona fede non possa che riposare su un primo passo ragionevole del tipo: « quello che mi racconti ha dell’incredibile, ma sarebbe sciocco rifiutarlo a priori. » E’ la ragione che mi consiglia di credere.

Troviamo la teologia dell’Apostolo Paolo esposta in forma epistolare alle diverse comunità cristiane, non in modo organico e sistematico ma, a volte seguendo linee apparentemente estemporanee di approfondimento dottrinale, ed altre muovendo da semplici spunti polemici nei confronti di affermazioni di altri predicatori cristiani. Per essere correttamente intesa andrebbe ricostruita passo a passo, impresa che richiederebbe un lavoro ed un’attenzione enormi, e che al momento non sono in grado di produrre.
Mi limito quindi ad alcune linee molto generali, centrando l’attenzione su sei punti fondamentali:
1) la cosiddetta « follia della predicazione »
2) la dottrina del Cristo come nuovo Adamo ( e Sommo Sacerdote che immola sé stesso)
3) il primato assoluto della fede (non c’è altra giustificazione davanti a Dio che la fede in Cristo Gesù)
4) la dottrina della salvezza per « grazia »
5) il dualismo carne-spirito (e la realtà contraddittoria delle cose)
6)La dottrina politico-sociale di Paolo

La follia della predicazione
Nella parte introduttiva alla sua Storia della filosofia medioevale, Etienne Gilson riconosce in Paolo un’influenza stoica. «… Paolo ha certamente ascoltato le « diatribe » stoiche di cui ha conservato il tono violento di alcune espressioni: ma anche qui troviamo qualcosa di ben diverso dai residui di metafisiche precedenti; due o tre idee semplici, quasi brutali, ad ogni modo forti, e che sono altrettanti punti di partenza. Innanzi tutto un certo concetto della Sapienza cristiana. Paolo conosce l’esistenza della sapienza dei filosofi greci, ma la condanna in nome di una nuova sapienza che è follia per la ragione: la fede in Cristo….» Segue la citazione di I Corinzi I 22-25, che riportiamo pari pari:
« Gli Ebrei cercano i miracoli e i Greci cercano la sapienza; noi predichiamo un Cristo crocefisso, scandalo per gli Ebrei e follia per i Gentili, ma per i chiamati, Ebrei o Greci, potenza di Dio e sapienza di Dio. Perchè la follia di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini. »

Gilson commenta in modo da affermare il carattere di doppia sfida di quest’ affermazione, « che avrà lunga eco nel Medioevo »perchè si rivolge a filosofi, cioè a uomini che ragionano. Gilson parla di follia della predicazione, qualcosa che gli individui ragionevoli, cioè i filosofi stoici (e scettici ed epicurei) del tempo di Paolo consideravano probabilmente come una forma di stravaganza, se non di stoltezza.
I seguaci dei filosofi, dunque, più dei filosofi stessi (del resto non sembra che al tempo di Paolo esistessero personalità filosofiche di rilievo, se si escludono il giudaico Filone di Alessandria, che morì nel 40 d.C., e Seneca), vennero in vario modo sfidati a cogliere la predicazione cristiana come sapienza diversa, vera sapienza. Che tuttavia era anche follia di Dio, o come tale appariva. Purtroppo Gilson si ferma qui e, come molti altri commentatori, non da conto di come si possa osare di parlare di una follia di Dio.
Problema che mi sono posto ancor prima da credente che da filosofo. La mia impressione è che, parlando di follia di Dio, Paolo intendesse riferirsi ad una follia per Dio che è tipica di ogni predicatore di qualsiasi religione. Essa non è sapienza razionale, ma la sfida e la oltrepassa, non già in quanto credenza superstiziosa, ma in quanto sapienza fondata in una oscura regione dell’anima e dello spirito che solo in Cristo trova finalmente una luce, la sua luce.
E per l’Ebreo Paolo la luce non può che essere la comprensione, finalmente, del senso delle scritture profetiche. Esse sono realizzate nella figura di Cristo Gesù.
La follia di Dio è la predicazione della realizzazione completa, il compimento della Legge e dei profeti.
Analogamente, quando si accenna alla debolezza di Dio, si deve pensare ad una debolezza per Dio che ci dovrebbe rendere più forti degli uomini forti. Siamo deboli per timore di Dio. Siamo ancora più deboli perchè lo amiamo.
Ma poichè il passo è ambiguo, una volta giunti a questa possibile e plausibile chiarificazione, il dubbio ritorna. Per Paolo c’era propriamente una follia di Dio da intendersi letteralmente? Mi chiedo: ma è possibile che un credente in Dio possa anche solo lontanamente dubitare della razionalità e della giustizia di Dio? Del suo Logos?

La dottrina del Cristo come nuovo Adamo (e Sommo Sacerdote che immola sé stesso)
Dobbiamo andare a quello che mi sembra lo zoccolo duro della dottrina paolina per vedere un altro aspetto della vicenda.
Il vero centro dell’annuncio (il kerigma) paolino, sta nella proclamazione forte del sacrificio di Gesù quale riscatto dell’intera umanità. Egli è il nuovo Adamo, e nell’Epistola agli Ebrei, diventerà il Sommo Sacerdote che immola sé stesso quale prezzo da versare per la nuova Alleanza tra Dio e gli uomini. Con l’offerta del suo sangue Cristo Gesù diventa il vero ed unico mediatore tra uomo e Dio, colui che riscatta l’uomo dal peccato.
Nel subconscio di Paolo, comunque infarinato di greca filosofia, questa necessità del sacrificio assume indubbiamente il carattere di una follia divina. Ed essa gli esplode nella bocca e gli scoppia tra le mani che vergano le pergamene. Com’è possibile che un Dio di bene e d’amore per gli uomini, si abbassi fino a questo punto? Come è possibile che, come una qualsiasi deità pagana, Dio si plachi solo con un olocausto?
Più avanti negli anni e persino nei secoli troveranno soluzione a questo interrogativo alcuni padri della Chiesa. La doppia natura del Figlio, insieme divina ed umana, ci consente di affermare che Cristo soffrì come uomo, nella carne, e come uomo versò il suo sangue di uomo. Ma come Dio egli venne al mondo, ed è solo come Dio che il sacrificio ebbe un valore presso Dio. Non ci sono sacrifici di uomini che possano tanto. L’Agnello ha da essere puro e santo, Unico nel suo genere.
Di qui l’esigenza di affermare il trinitarismo, che all’inizio fu indubbiamente una cristologia, cioè un dualismo Padre-Figlio, un unico Dio, ma composto da due persone distinte, con il Figlio nella singolare posizione di « generato, non creato ». Assurdità che la ragione, anche quella più forte ed addestrata alle sottigliezze, faticherà sempre a comprendere. E tanto vale, allora, parlare di mistero della Trinità. Perchè effettivamente c’è solo da perdere la testa a confrontarsi con un simile problema. Non capisco ma mi adeguo, aggiungendo che non mi ritengo affatto toccato dallo Spirito Santo e che le mie sono solo opinioni maturate dopo studi e riflessioni. Pensieri di un uomo in carne ed ossa.

Epperò, in Paolo la questione fu solo accennata e mai sviluppata, almeno nelle Lettere. Egli si limitò a disegnare, ad abbozzare un orizzonte, ma non riuscì ad approfondirlo, a curarne i dettagli, a giustificarlo con una dottrina non dogmatica.
Infatti, Paolo interpretò Cristo Gesù come il prezzo del riscatto offerto per l’affrancamento della colpa di Adamo. Non si trova, là dove si dovrebbe trovare, ovvero tra le righe di Romani, alcun accenno alla divinità di Cristo. Egli fu solo « il primogenito » di una moltitudine di redenti. (Rm 8,29)

Bisogna abbandonare Romani ed andare a Colossesi per trovare un punto più alto ed elaborato, un punto in cui si afferma: «In Lui abbiamo il riscatto, la remissione delle colpe: Egli è l’immagine di Dio, l’invisibile, primogenito della universa creazione, poichè in Lui tutte le cose furono costituite, così nel cielo come sulla terra, le invisibili e le visibili, i troni e le signorie, i principi ed i poteri, tutto attraverso Lui e per Lui fu creato: ed Egli è prima di ogni cosa e tutto si regge in Lui. Egli testa del corpo che è la Chiesa». (Col 1,15)

Ulteriore chiarificazione in Filippesi.
«Ed Egli che pure era nella forma di Dio, non fu geloso della sua somiglianza con Dio, ma si annullò fino ad assumere la forma di schiavo fattosi simile agli uomini. Ed apparso in fattezze umane, si umiliò, obbedendo fino alla morte, alla morte ignominiosa della croce. Per questo Dio lo esaltò e gli conferì un nome superiore ad ogni nome, affinchè a tal nome ogni ginocchio si pieghi.»(Fil 2,6)

Lettera dopo lettera, passo dopo passo, predicazione dopo predicazione, dunque, Paolo venne precisando il suo pensiero. E tuttavia non riuscì mai a riassumersi in una formula semplice, sintetica e lineare. Come Mosè riuscì a guidare il popolo alla Terra Promessa, ma morì prima di entrarvi, perchè Dio volle che a completare l’opera fossero i suoi discendenti (come a dire che il merito era di Dio e che mai nessun uomo riuscirà a completare del tutto disegni divini da lui iniziati), così Paolo seminò germi di dottrina, ma non li vide germogliare nemmeno nella sua consapevolezza finale. Stando a quello che troviamo scritto.
Del resto, una volta affermato che Cristo fu il nuovo Adamo, il nuovo capo di una nuova umanità redenta dalla colpa, si devono fare i conti con evidenti e naturali obiezioni. Basta dire che Gesù fu obbediente, ed in questo si distinse da Adamo, il disobbediente? Chiaro che no. La storia sacra pullula di uomini obbedienti. Ognuno di essi, da Mosè ai profeti, obbedì ed anche Abramo obbedì, pur non essendo un profeta. Il criterio dell’obbedienza non ha dunque una sufficienza di per sé. Sarebbe bastato Noè a salvare l’umanità dal peccato perchè egli obbedì a Dio nel momento cruciale. Tutti gli altri erano morti. Noè non salvò che pochi esemplari della specie umana. Ma anch’essi, secondo Paolo, non furono redenti. Sarà lo stesso Paolo ad affermare che l’obbedienza alla Legge non giustifica.
Eppure, proprio a Noè, Dio diede un cospicuo anticipo di quella che sarà la futura legge:
«Certamente del sangue vostro, ossia della vita vostra, io domanderò conto: ne domanderò conto ad ogni animale; della vita dell’uomo io domanderò conto alla mano dell’uomo, alla mano d’ogni suo fratello!
Chi sparge il sangue dell’uomo,
per mezzo di un uomo il suo sangue sarà sparso;
perchè quale immagine di Dio
ha fatto egli l’uomo» (Gn 9,5 – 9,6)
Dunque da quel preciso istante, secondo un’ovvia logica cronologica, la Parola di Dio è operante in modo che gli uomini sopravvissuti al diluvio abbiano ad intenderla.
E’ già operante ben prima della Legge.
Eppure, stranamente, in Ebrei non si trova alcun riferimento al valore immenso di questo precetto che fu consegnato al nuovo Adamo, l’Adamo intermedio tra il primo ed il terzo, ovvero Noè.

No, l’abisso scavato tra Dio e l’uomo richiedeva ora molto di più. Occorreva che Dio morisse per Dio e per la salvezza degli uomini.
Forse era questo il pensiero inseguito da Paolo e spesso afferrato per i capelli, ma subito sfuggito, subito di nuovo inafferrabile. Dev’essere stato duro vivere in questa perenne tensione, in questa ansiosa ricerca. Ma era inevitabile, proprio alla luce della sua stessa dottrina, che l’angoscia di afferrare la verità di Dio naufragasse a pochi metri dalla spiaggia, sempre a pochi metri, persino a pochi pollici.
In altre parole: ho il sospetto che Cristo Gesù per Paolo rimase « altro » da Dio fino alla fine della sua grama esistenza. Vicinissimo alla soluzione, ma mai alla soluzione.
E questo, sempre che si prenda per buona la dottrina del Sommo Sacerdote che immola sé stesso.
Ma è una buona dottrina? Era veramente necessaria una simile formulazione?
Per gli Ebrei, forse sì. Per noi che siamo del tutto estranei a quella forma mentis ed a tematiche di Alleanze che si fondano sul sangue, credo proprio di no. Probabilmente, noi preferiamo consolarci con un’immagine del Cristo sofferente, torturato, umiliato, messo in croce da una masnada di delinquenti. E ci ripugna l’idea del kamikaze imbottito d’amore anzichè di tritolo.

Il primato assoluto della fede (non c’è altra giustificazione davanti a Dio che la fede in Cristo Gesù)
Anche nell’esposizione delle virtù cristiane per eccellenza, fede, speranza e carità, Paolo cadde in una sorta di imprecisione. Conoscendo un po’ meglio la storia del cristianesimo si troverebbe facilmente, almeno oggi, la correzione dell’errore nella lettera di Barnaba, o pseudo Barnaba che sia. Essa non era di molto posteriore a quelle di Paolo, pochi decenni e forse meno. Le tre virtù per Barnaba erano fede, giustiziae carità. Guardando all’etimo delle parole non si sfugge all’impressione che il ritmo triadico cercato da Paolo quale simbolo di una perfezione pitagorica di origine squisitamente greca, che la parola giustizia non sia stata trovata non per negligenza ma, per ancora reconditi pensieri che non riuscivano a venire alla coscienza, se non a spezzoni. La speranza è qualcosa che è già compresa nella parola fede. Non proprio una tautologia, non proprio una vuota ed inutile ripetizione, ma certamente un accessorio. Chi ha fede non può non avere speranza, ed a volte si incontrano anche speranze senza fede. No, la seconda virtù cristiana, posto che la più grande sia la carità, insegnata da Gesù con la parabola del samaritano, è la giustizia. Lo disse Barnaba, propagandista cristiano che fu a lungo con Paolo prima di litigare furiosamente con lui. Il tutto si trova rendicontato negli Atti.
Il problema è che per Paolo il termine era troppo impegnativo. C’è una sola giustizia, quella di Dio. Agli uomini non è concesso di essere giusti, nemmeno dopo Cristo.
Adamo fu cacciato dal Paradiso terrestre perchè volle avere scienza del bene e del male, cioè un senso autonomo della giustizia. Ma con Paolo, nemmeno dopo Cristo si poteva pretendere di avere in sé la giustizia. Essa è eteronoma, come ovviamente anche in Gesù, ma di per sé nemmeno l’osservanza dei precetti divini porta giustificazione.
Dura da capire. Eppure è così. Guai a chi si ritiene giusto in virtù delle opere! La Legge non ha giustificato Israele, tuonò Paolo ancora in Romani. E non perchè, in verità, Israele non seguì mai la Legge e la Parola di Dio, ma perchè essa, la Legge, di per sé era ed è insufficiente. Nemmeno la giustizia, dunque è sufficiente.
E perchè?
Beh, questo è il punto. Da un lato è troppo stretta e dall’altro troppo larga. L’uomo è peccatore di natura. Sbaglia facilmente. « Persino io mi sbaglio, voglio il bene e faccio il male che non voglio ». Quindi chi si ritiene giustificato dalla giustizia del suo fare è solo un presuntuoso. Il che, rispetto a quel punto relativo che dovremmo sempre cercare, è certamente vero. Ma il passo di Romani in cui si annunciano queste cose non è di chiarezza cristallina, anzi devo dire che ho capito qualcosa solo attraverso una lunga meditazione.
Dopo un’introduzione nutrita di corrette citazioni (i profeti Osea ed Isaia), Paolo arriva al nocciolo del suo pensiero affermando in modo davvero brutale:
«Che diremo dunque? Che i pagani che non perseguivano la giustificazione si sono impadroniti della giustificazione, della giustificazione che deriva dalla fede. Israele, invece, che ha perseguito una legge di giustificazione, non è arrivato alla legge. Perchè mai? Perchè non l’hanno cercata dalla fede, ma dalle opere. Inciamparono nella pietra di scandalo come sta scritto:
Ecco, pongo in Sion
una pietra d’inciampo
ed un sasso di scandalo,
e chi crederà in esso
non rimarrà svergognato.
Fratelli, il desiderio del mio cuore e la preghiera a Dio per essi tendono alla loro salvezza. Do infatti loro atto che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza. Non volendo infatti riconoscere la giustizia di Dio e cercando di far sussistere la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. Infatti il compimento della legge è Cristo per portare la giustificazione ad ognuno che crede. Mosè infatti scrive riguardo alla giustizia quale proviene dalla legge: l’uomo che la metterà in pratica vivrà in essa. La giustizia che viene dalla fede dice così:
Non dire in cuor tuo: Chi salirà al cielo?
nel senso di farne scendere Cristo, oppure:
Chi scenderà nell’abisso?
nel senso di far risalire Cristo dai morti. Ma che dice?
La parola è vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore.
E questa è la parola della fede che noi proclamiamo: se tu professerai con la tua bocca Gesù come Signore, e crederai nel tuo cuore che Dio lo ha resuscitato da morte, sarai salvato. Col cuore infatti si crede per ottenere la giustificazione, con la bocca si fa la professione per ottenere la salvezza. Dice infatti la Scrittura: Chiunque crederà in lui non rimarrà confuso. Infatti non c’è distinzione tra Giudei e Greci; poichè lo stesso è il Signore di tutti e spande le sue ricchezze su tutti coloro che lo invocano, e chiunque avrà invocato il nome di Dio sarà salvato.» (Rm 9,30 – 10,13)
Da qui in poi, Paolo non fa che rimproverare ai Giudei la loro incredulità, quindi la mancanza di fede in Gesù. E siccome era fermamente convinto che solo Gesù fosse la salvezza, i passi successivi non mancano di chiarezza e coerenza.
Ma il complesso ragionamento sopra citato è ambiguo ed enigmatico, innanzi tutto perchè manca di prospettiva storica. Israele non ha trovato giustificazione non già perchè la Legge era insufficiente (e questo sembra invece dire Paolo), ma perchè pochi l’hanno messa in pratica. E’ da quest’inosservanza, mancanza di fedeltà alla Parola di Dio, e non di fede che nasce la confusione, il dramma, la caduta di Israele. Altrimenti non si capiscono i profeti e la loro necessità. Tutti i libri profetici non sono altro che l’ininterrotto lamento del giusto obbrobriato e disgustato dal comportamento di re e di popolo. E gli ultimi dicono che proprio non se ne più, tanto è grande l’ignominia.
Solo così si comprende anche il ruolo di Giovanni il Battista, l’ultimo dei profeti.
In secondo luogo non priva di ambiguità è anche la citazione di Mosè. Come se la Legge fosse opera dello stesso Mosé e non Parola di Dio.

Superata questa impasse che comunque non cessa di dare da pensare, Paolo si può finalmente riassumere. Chiunque osservi solo i comandamenti morali, e non importa se per timore della punizione o per convinta adesione interiore, non trova giustificazione presso Dio. Da adesso in poi, solo chi professa Cristo come Signore sarà giustificato. E non ha alcuna importanza donde venga, se sia Ebreo, Romano o Persiano. Il lato religioso-cultuale prevale su quello pratico-morale. Come a dire: prima dimmi se credi, il resto è di secondaria importanza. E’ questo il punto sul quale un qualsiasi filosofo razionale avrebbe molto, moltissimo, da ridire. Stoici, epicurei, filoniani, in fondo non fa differenza. E potrebbero obiettare a Paolo persino muovendo dal Vangelo. Se l’albero è buono, lo si riconosce dai frutti che dà. E se a qualcuno è stato affidato un talento, il Signore glie ne chiederà conto. Non conosco persone che abbiano ricevuto solo il talento della fede.

Paolo affrontò la stessa questione, più o meno negli stessi termini, in diverse occasioni. In Galati, ad esempio, una lettera composta tra il 56 ed il 57 d.C., egli scrisse:
«E allora, perchè la legge? Essa fu aggiunta a motivo delle trasgressioni, finchè non giungesse il seme oggetto della promessa, promulgata per mezzo degli angeli, tramite un mediatore. Ma un mediatore non esiste quando si tratta di una persona sola; e Dio è uno solo. La legge allora va contro le promesse di Dio? Non sia mai detto! Se infatti fosse stata data una legge capace di dare la vita, la giustificazione si avrebbe realmente dalla legge. Ma la Scrittura ha chiuso tutte le cose sotto il peccato, affinchè la promessa fosse data ai credenti per la fede in Gesù Cristo.
Prima che venisse la fede, noi eravamo custoditi come prigionieri sotto il dominio della legge, in attesa della fede che sarebbe stata rivelata. Cosicchè la legge è divenuta per noi come un pedagogo che ci ha condotti a Cristo, perchè fossimo giustificati dalla fede. Sopraggiunta poi la fede, non siamo più sotto il dominio del pedagogo.» (Ga 3,19 – 3,25)

Per Paolo la fede è sempre il momento cardinale. Fino al punto che non esitò nemmeno a cambiare le parole dei passi citati dalla Bibbia per dare forza ai propri discorsi.
Citando il profeta Abacuc, che scrisse: il giusto vivrà per la propria fedeltà al Signore ed alla sua Legge, Paolo sostituì la parola fedeltà con la parola fede. Il giusto vivrà in forza della fede.
E’ un gesto che si commenta da sé.

E la stessa disinvoltura ritorna in Ebrei, in modo molto più diffuso. Mettendo in un unico mazzo Abele, Enoch, Abramo, David, i profeti, Noè, Barak, Sansone… Sara, egli vide ed esaltò solo la loro fede, tipico di Paolo.
Persino troppo facile controbattere, lo farà Giacomo, capo della corrente cristiano-giudaica, asserendo che ciò che giustificò i vari personaggi biblici fu la loro obbedienza, cioè la loro fedeltà al Signore. E che obbedienza significa azione, cioè opere e comportamento.
Ma Paolo ha un partito preso, la priorità della confessione di fede, e quindi procede senza scrupoli. Sicchè incontriamo un’autentico gioiello di esegesi: « Per fede Abramo messo alla prova offrì Isacco… Egli pensava infatti che Dio è capace di far resuscitare i morti.» (Ebrei 11,17 – 11,19)
Qui, ancora una volta, la prospettiva storica è completamente stravolta. Gli Ebrei cominciarono a credere alla sopravvivenza dell’anima in epoca molto tarda, in ragione di influenze provenienti da culture e religioni esterne. In tutto l’antico testamento non ci sono passi espliciti che rinviino ad una simile credenza. La frase ricorrente alla morte di qualcuno è che si coricò con i padri. Per la verità, c’è un passo, in Genesi 5, 24, che dice qualcosa di diverso: «Enoch camminò con Dio e non ci fu più, poichè Dio lo rapì.» E’ l’unico indizio. Ma più che di morte cui seguì una sopravvivenza dell’anima od una resurrezione, farebbe pensare ad un’ascesa in cielo del tutto singolare, un premio assegnato ad un uomo del tutto particolare. Però anche l’Adamo intermedio, ovvero Noè, conobbe la corruzione e la morte.

Mi ha molto colpito l’intepretazione che ha dato Gabriel Josipovici di questo infelice passaggio. E’ utile citarla per intero. «Una sfilata grandiosa ed affascinante, ma che inevitabilmente lascia alquanto perplessi i lettori dell’A.T. Come leggiamo il capitolo non possiamo evitare di domandarci se corrisponde alla nostra memoria del testo. E proprio tutto quanto si può dire di quelle persone? Ci rammentiamo di Sara che ride dentro di sé quando origliando il colloquio fra Dio ed Abramo apprende che concepirà un figlio, una scena tanto rilevante da essere perpetuata nel nome del figlio, Isacco; pensiamo agli anni giovanile di Mosè; ci tornano alla mente i tremendamente complicati e ambigui rapporti di Davide con Dio…. e riflettiamo: tutto questo può essere rubricato sotto la solo voce fede? E non è sufficiente rispondere che la fede fu l’elemento dominante della loro vita e che evidentemente l’autore della lettera agli Ebrei non intendeva riprendere per intero le scritture ebraiche. Non è sufficiente proprio perchè il riso di Sara e la passione di Davide per Betsabea ci impediscono di compendiare la loro vita e i loro rapporti con Dio in un unico concetto. Le storie della Bibbia ebraica sembrano per lo più destinate a lasciarci in una sconcertante ma feconda ambiguità: hanno evidentemente un significato, non sono pura e semplice cronaca di fatti: eppure stranamente, il significato è insito in esse più che essere un qualcosa che noi possiamo estrarre da esse. Giacobbe non è necessariamente migliore o più credente di Esaù, riesce difficile non biasimare Giuda, i peccati di Davide sono altrettanti o più numerosi di quelli di Saul. Eppure questi e non altri sono scelti. Perchè ci domandiamo, e ci pare che questa sia la precisa domanda che quelle storie ripetutamente attendono da noi. Ebrei, dando un’interpretazione, annulla la domanda.» (2)

Come non essere d’accordo? Tanto più che con questa pretesa della fede che tutto spiega, sia la storia che il suo intricato spessore umano perdono la drammaticità, e rendono persino il dolore e le lacrime inutili al limite della farsa. Perchè mai Abramo dovrebbe dolersi del sacrificio di Isacco se tanto credeva che Dio lo avrebbe resuscitato? E perchè non avrebbe dovuto dubitare di un Dio che prima gli promise una discendenza, e dopo che l’ebbe, subito glie la tolse? Che diavolo d’un dio era questo che manco manteneva le promesse? E, soprattutto, perchè, perchè, perchè, dopo il passo citato in Gn 9,5, contenente il comandamento di non uccidere, Dio pretese da Abramo il sacrificio di Isacco? Che diavolo d’un dio era questo che smentiva e tradiva persino i suoi comandamenti.
Ci vorrebbe un volo pindarico della ragione per spiegare tutto ciò.

La dottrina della salvezza per grazia
Uno dei punti cardine della predicazione paolina la troviamo espressa in Efesini. Essa si può definire come una conseguenza del principio Dio può tutto, tutto quello che accade è volontà di Dio, ergo anche la conversione al cristianesimo, che è l’unica via di salvezza, è frutto della volontà di Dio. L’uomo che gode del privilegio di conoscere l’insegnamento di Cristo e di accettarlo, non si è salvato da solo, non ha fatto uso della sua ragione e della sua libertà, ma è stato salvato (altri diranno predestinato alla salvezza). All’uomo, dunque, nessun merito. Non lo può salvare il buon comportamento, non lo può salvare il suo istintivo senso della rettitudine, e nemmeno la sua formazione etico-filosofica. Nemmeno l’accettazione del mistero cristiano è merito suo.
Nel corso del tempo questa dottrina sarà ulteriormente estremizzata, a partire da Agostino, e poi dai pensatori protestanti, sia da Lutero che, ancora più estremisticamente, da Calvino. Verrà combattuta da Pelagio, verrà di molto annacquata dalla Chiesa Cattolica, e sarà osteggiata da Erasmo da Rotterdam, il quale disputerà con Lutero a proposito del « libero arbitrio ».
Pochi si sono accorti che riducendo l’uomo a poco più di un bambino in balia degli eventi e della presunta volontà divina, gli si leva ogni merito, ma si finisce col sollevarlo anche da ogni responsabilità. Se non ci sono giusti per meriti acquisiti, allora non vi sono nemmeno criminali ed assassini per demeriti e libera scelta. Una simile sciocchezza non poteva essere accettata dalla Chiesa cattolica, soprattutto quando divenne religione ufficiale prima, e Chiesa di governo poi. E se questa è una delle ragioni storiche per cui la Chiesa cattolica dovette ammettere la dottrina del libero arbitrio, un’altra andrebbe certamente ravvisata nella lenta e progressiva valorizzazione della ragione, culminata nella filosofia di San Tommaso.

Il dualismo carne-spirito
Chi professa Gesù Cristo come nostro salvatore è già un uomo spirituale di per sé?
A Paolo sembra di sì. Però la cosa è fatalmente contraddittoria.
A leggere le lettere si ha l’impressione di un uso alternato di carota e bastone. A fragorosi proclami di grandezza spirituale ed un po’ ipocriti riconoscimenti di meriti alle varie comunità cristiane, seguono ammonimenti pedanti a non ubriacarsi, a non fornicare, a non dire bugie, non rubare e così via, che fanno a pugni sia con l’asserto del primato della fede che con quello dell’ormai avvenuta conquista della spiritualità. Insomma, si finisce col chiedere opere e comportamenti coerenti con la professione di fede proprio agli spirituali. Un po’ ridicolo, no?
Se davvero tra i fratelli si mentiva, si rubava, si fornicava e ci si ubriacava, era evidente che la trasformazione da chiesa di quadri puri e duri a chiesa di massa aveva comportato qualche prezzo da pagare. Cani e porci erano entrati nel sacro recinto e faticavano non poco a trasformarsi in persone rette. Così si comprendono le riserve sollevate dalla corrente di Giacomo e l’azione sobillatrice di alcuni Giudei convertiti che passavano di comunità in comunità a confutare quanto Paolo aveva proclamato, ovvero a richiedere l’osservanza della Legge, essendo insufficiente per loro la recitazione rituale di un credo.
Crebbero le incomprensioni e nacquero feroci polemiche proprio tra i quadri, per usare un’espressione moderna.
Molte lettere paoline contengono denunce accorate contro questi superapostoli dell’ortodossia giudaico-cristiana. La ragione, come spesso accade, stava da entrambe le parti, almeno un po’, ma per una serie di sviluppi storici ancora tutti da decifrare, Paolo ebbe partita vinta e la corrente giudaico-cristiana si sciolse come neve al sole già prima della rivolta giudaica e la distruzione del tempio di Gerusalemme attuata da Tito, figlio di Vespasiano. Giacomo fu ucciso durante una persecuzione, Pietro e Giovanni erano in giro per il mondo, al pari di Paolo. Di tutti gli altri Apostoli, ad eccezione di Giacomo Zebedeo ucciso a sua volta, si persero le tracce, anch’essi svaniti nel nulla.

Vincitore indiscusso, con forza sovraumana e volontà incrollabile, Paolo continuò a proclamare le sue più profonde convinzioni. Nella II lettera ai Corinzi abbiamo un passo veramente esemplare: «L’amore di Cristo ci spinge al pensiero che uno morì per tutti e quindi tutti morirono; e morì per tutti affinchè quelli che vivono non vivano più per sé stessi, ma per Colui che è morto e resuscitato per loro. Quindi ormai non conosciamo più nessuno secondo la carne; ed anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Quindi se uno è in Cristo è creatura nuova; le vecchie cose sono passate, ecco, ne sono nate di nuove!»
Qui, quando Paolo parla di una conoscenza secondo la carne, probabilmente voleva dire secondo criteri esteriori e, per così dire, « romanzeschi » e « narrativi ». Ora, però, noi che professiamo Gesù come salvatore, è come se fossimo morti con lui, e dunque resuscitati con lui.
Nella lettera ai Galati la vita spirituale conquistata in Cristo diventa sinonimo di libertà ed è contrapposta alla schiavitù della legge, la quale è la semplicistica espressione di una norma esteriore per mettere un freno alla carne.
«Ora vi dico: camminate nello Spirito e allora, non seguirete le bramosie della carne. La carne infatti ha desideri contro lo Spirito, lo Spirito a sua volta contro la carne, poichè questi due elementi sono contrapposti vicendevolmente, cosicchè voi non fate ciò che vorreste. Ma se siete animati dallo Spirito, non siete più sotto la legge. Ora le opere proprie della carne sono manifeste: sono fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, magia, inimicizie, lite, gelosia, ire, ambizioni, discordie, divisioni, invidie, ubriachezze, orgie e opere simili a queste; riguardo ad esse vi metto in guardia in anticipo, come già vi misi in guardia: coloro che compiono tali opere non avranno in eredità il regno di Dio.
Invece, il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, longanimità, bontà, benevolenza, fiducia, mitezza, padronanza di sé; la legge non ha che fare con cose del genere. Coloro che appartengono al Cristo Gesù crocifissero la carne con le sue passioni ed i suoi desideri.» (Ga 5,16 – 5,24)

La dottrina politico-sociale di Paolo
E’ in Romani che il pensiero di Paolo sul ruolo dei cristiani nella società comincia a prendere corpo e consistenza dottrinale. Posto che a Paolo interessasse ben poco fare del cristianesimo un movimento politico tout court, visto che la sua preoccupazione fondamentale era quella di salvare delle anime attraverso la conversione, in attesa della parusia immenente, cioè del ritorno di Cristo sulla terra, rimane che ad un certo punto della sua riflessione si trovò ad esplodere in due affermazioni molto impegnative. La prima riguardava il rapporto tra cristiani e le autorità politiche.
La seconda interessava addirittura il problema della legittimità del potere: secondo Paolo, è Dio che costituisce le autorità. L’ordine della società civile, amministrativa e politica, qualunque esso sia, è l’espressione della volontà di Dio.
Non è un pensiero che soddisfi più di tanto, per la verità, perchè nel bene e nel male, la conseguenza di questa affermazione è che anche i rivoluzionari che abbattono i regimi e riescono nell’impresa, fanno la volontà di Dio. Come poi nell’ordalia medioevale: chi vince, ha ragione per decreto divino?
Eppure questo fu uno dei più duraturi insegnamenti paolini.

Se i cristiani si comportano bene, e fanno del bene – scriveva l’Apostolo – non potranno che incontrare l’elogio delle autorità. I magistrati fanno paura solo a chi opera il male. Una simile affermazione cozzava non solo con l’esperienza concreta di Gesù (quanto bene aveva fatto e com’era stato ripagato?) ma con tutta la vicenda degli altri. Stefano, Pietro, Giacomo. Una serie ininterrotta di martiri, processi, prigionie e persecuzioni. Lo stesso Paolo era stato prima al servizio dell’autorità del tempio, come persecutore, poi perseguitato.
Come si spiega?
L’unica spiegazione probabile ed assennata deve far leva su quella che dovremmo considerare come una svolta, a meno che non si consideri il nostro Paolo come un demente forsennato. Quando Paolo scrisse queste righe, doveva essere in possesso, non dico di un concordato tra stato e chiesa, ma certo di un qualche solenne impegno da parte di qualche figura importante dell’impero. Ipotesi? Se ne può fare una sola: il rapporto maturato a Pafo in Cipro con il proconsole Sergio Paolo, che l’autore degli Atti definì uomo intelligente. Vedasi Atti 13,4 e seguenti. L’incontro col proconsole avvenne nel 46-47 d.C.
Sarà un caso che l’Apostolo decise di farsi chiamare Paolo proprio in conseguenza di quell’evento? E perchè Giovanni (quale Giovanni? I commentatori dicono Giovanni-Marco, cioè l’evangelista Marco) si separò da Paolo per tornare subito a Gerusalemme? E perchè, proprio a seguito del comportamento dell’evangelista, Barnaba e Paolo litigheranno?
Comunque sia, se si ritiene che questo sia un enigma ancora irrisolto, è qui che bisognerebbe cercare, nelle carte della diplomazia paolina.
Io sono propenso a credere che al di là di un possibile pre-concordato, Paolo facesse molto conto sulla conversione di pezzi grossi quali appunto il proconsole.
L’Apostolo, probabilmente, scriveva una delle più sbagliate e tragiche profezie della storia persuaso di poter godere per sé e soprattutto per la chiesa di una certa protezione. In quel momento si trovava a Corinto e si era nell’anno 57 d.C.
La prima persecuzione contro i cristiani di Roma venne avviata dopo l’incendio ordinato da Nerone nell’anno 62. Sotto l’imperatore Claudio, esattamente nel 49 d.C., è però vero che vennero espulsi Giudei considerati ospiti indesiderati. Ne parlò Svetonio nella Vita Claudii. Ma c’è una bella differenza tra espellere (o rimpatriare) e perseguitare.
Sembra che Claudio fosse preoccupato dalla crescita geometrica della comunità giudaica, che nelle grandi città dell’impero, in particolare ad Alessandria, andava a formare una minoranza etnico nazionale impenetrabile e compatta, del tutto restia a cancellare usi e costumi ed integrarsi nella comunità.
Non c’è dunque continuità tra la misura repressiva di Claudio e la successiva persecuzione neroniana. Semmai, come provato, sotto Nerone si ebbe dapprima una riapertura di credito nei confronti degli Ebrei, protetti da Poppea.
Poi cominciò la tragedia che toccò direttamente lo stesso Paolo. Ma questa è un’altra storia.

Note
1) La seconda lettera di Pietro. NT.
2) Gabriel Josipovici – Come leggere la Bibbia – Rusconi
DLG – 7 dicembre 2003 , rivisto il 24 febbraio 2004

OMELIA 20 LUGLIO 2014 | 16A DOMENICA – NON HAI SEMINATO DEL BUON SEME? DA DOVE VIENE LA ZIZZANIA? »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/5-Ordinario-A-2014/Omelie/16a-Domenica-A/12-16aDomenica-A-2014-SC.htm

20 LUGLIO 2014 | 16A DOMENICA A | T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

NON HAI SEMINATO DEL BUON SEME? DA DOVE VIENE LA ZIZZANIA? »

C’è una certa rassomiglianza e continuità di sviluppo fra la parabola del seminatore (Mt 13,3-9) e quella della zizzania: nell’una e nell’altra c’è un seminatore, c’è un campo dove si semina, e c’è anche il Diavolo, o Maligno, che nella prima « ruba ciò che è stato seminato nel cuore » dell’ascoltatore distratto (Mt 13,19) e nella seconda « semina » la zizzania (Mt 13,39).

« La riserva escatologica » del cristiano
Però lo sfondo e il significato sono profondamente diversi: quello che conta non sono gli apparenti successi del male, ma il « giudizio » ultimo che Cristo pronunzierà sulle azioni degli uomini, quando avverrà la grande discriminazione (cf vv. 40-43).
È la « riserva escatologica » del cristiano che, per un verso, tiene accese tutte le sue speranze, anche quando sembra che la zizzania infesti l’immenso « campo del mondo » (cf v. 38) e minacci il magro raccolto che, nonostante tutto, l’agricoltore continua ad attendere; e, per un altro verso, gli impedisce di lanciare anatemi sul mondo, creando assurde divisioni fra gli uomini, quasi che gli uni fossero « già » salvi e gli altri « già » in anticipo condannati.
In tal modo la Chiesa si ridurrebbe a una setta di fanatici, di niente altro preoccupati che di premunire se stessi dal male, dimenticando invece che Cristo ha voluto che fossimo « fermento » che si perde e si aggrega alla insipida massa di farina fino a che « sia tutta fermentata » (v. 33). Fino a che si svilupperà il corso della storia, il gioco è ancora tutto da fare: i buoni possono diventare cattivi, e i cattivi possono diventare buoni. Non solo: ma i buoni devono impegnarsi a convertire i cattivi e a dilatare i rami del grande « albero » che è la Chiesa, perché tutti gli uccelli del cielo vi trovino rifugio (v. 32).
Per cui è bene per tutti che il Giudice « pazienti » fino all’ultimo!

« Lasciate che la zizzania e il grano crescano insieme sino alla mietitura »
Il brano evangelico odierno è piuttosto lungo. Riporta prima la parabola della zizzania (vv. 24-30), seguita dalle due brevi parabole del granello di senape che diventa grande albero (vv. 31-32) e del pizzico di lievito (v. 33), che gli studiosi chiamano anche « parabole della crescita », perché preannunciano la misteriosa forza di dilatazione del « regno ». Dopo una ripresa del motivo del « perché » Gesù parlava in parabole (vv. 34-35; cf vv. 10-17), abbiamo la spiegazione della parabola della zizzania, provocata anch’essa, al pari di quella del seminatore (cf vv. 18-23), dagli Apostoli che non ne avevano afferrato il significato. Come si vede, ci sono motivi di carattere strutturale, che Matteo segue molto abilmente nella composizione del suo Vangelo.
Data la lunghezza e l’importanza della parabola della zizzania, non possiamo intrattenerci sulle altre due (il granello di senapa e il lievito), che pur meriterebbero un discorso a parte.
Anche qui la scena è molto realistica. Un uomo ha seminato del buon grano nel suo campo; ma « di notte » un suo « nemico », per fargli dispetto, vi semina la zizzania, che appare solo al momento della fioritura. Non appena i servi se ne accorgono, si precipitano dal padrone e gli denunciano il fatto (vv. 27-30).
Ciò che viene detto a proposito della difficoltà di estirpare la zizzania dal campo di grano corrisponde a quanto era ancora possibile osservare una volta nei pressi del lago di Genesaret: il lolium temulentum non può essere distinto dal grano, in mezzo al quale cresce, prima che esso maturi e si faccia giallo. Ed è chiaro che in una situazione del genere sarebbe stato poco saggio tentare di estirpare il « loglio », pensando di poter lasciare intatto il buon seme. Meglio aspettare la « mietitura », quando l’operazione sarebbe stata più facile e anche senza molto rischio. Allora i fasci di zizzania venivano bruciati, oppure dati in cibo al pollame.

Dio « non ha mandato il Figlio per giudicare il mondo, ma per salvarlo »
Ma che cosa vuol dire Gesù con questa parabola? Molto probabilmente anche qui abbiamo una sovrapposizione di due significati, del resto collegati fra di loro, come abbiamo già visto per la parabola del seminatore: un significato « cristologico », e uno di carattere « esortativo ». Il primo è quello direttamente inteso da Gesù; il secondo dovrebbe essere piuttosto frutto della riflessione della primitiva comunità cristiana.
Gesù con i suoi miracoli e l’annuncio del Vangelo aveva fatto nascere intorno a sé un grande senso di attesa messianica. Ora, secondo la parola dei Profeti, il Messia avrebbe dovuto radunare attorno a sé una comunità di santi e di puri. « Il tuo popolo sarà tutto di giusti, per sempre avranno in possesso la terra, germogli della piantagione del Signore, lavoro delle sue mani per mostrare la sua gloria »: così preannunciava Isaia (60,21) la Gerusalemme ideale dei tempi ultimi.
Se non che nessuna comunità di « santi » si era costituita attorno a Gesù: perfino tra i suoi Apostoli c’era un traditore! Addirittura, sfidando tutti i « perbenismi » del tempo e del proprio ambiente sociale, sarà l’amico dei « pubblicani » e perfino delle prostitute. La spettacolare « separazione » degli empi dai giusti, come sognava gran parte della letteratura intertestamentaria per il tempo del Messia,1 non si era verificata.
Proprio contro questa attesa « giustizialistica », che considerava il male più come un fatto fisico che morale, e perciò può essere corretto, riparato, superato, addirittura cambiato in bene, Gesù racconta questa parabola.
È bensì vero che egli è il Messia: ma il tempo del Messia è tempo di salvezza e non di « giudizio », come si afferma in Giovanni: « Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui  » (Gv 3,17). Perciò ci dovrà essere una possibilità concreta di salvezza offerta ad ogni uomo. In questo senso non è un male che la zizzania cresca insieme al buon grano: anzi, questo è il segno della « benevolenza » di Dio!

La « pazienza » di Dio e le « impazienze » dei cristiani
Perciò, oltre che essere realistica, la parabola è anche carica di « ottimismo ».
E questo in un duplice senso: prima di tutto, nel senso che il male non è un’accusa contro Dio, ma se mai reclama la sua presenza proprio per essere vinto. Che Messia-Salvatore sarebbe stato Cristo se non avesse trovato peccatori e peccatrici da « redimere »? In secondo luogo, perché di fatto il male sarà anche vinto: però alla fine, « al momento della mietitura » (v. 31). Allora il Messia-Salvatore diventerà anche il Messia-Giudice, che « manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti » (vv. 41-42).
È un monito, questo, alle « impazienze » dei cristiani troppo zelanti, che vorrebbero vedere subito il trionfo della causa di Dio. A leggerlo meglio, però, questo atteggiamento, più che zelo, manifesta paura ed insicurezza: non è comodo per nessuno rimanere in assetto di guerra contro il « nemico », che può fare le sue incursioni notturne ad ogni momento! Più che la gloria di Dio, è la propria tranquillità che si è tentati allora di ricercare.
Ed è anche un monito contro tutte le tentazioni di « manicheismo », per cui ognuno di noi è portato a vedere il bene e il male in certe strutture, o sistemi, o schieramenti ideologici e politici, diversi da quelli che noi vorremmo, per cui basterebbe recidere qualcosa, come consigliavano i servi della parabola, per sradicare il male. Al contrario, nel « medesimo » campo ci può essere il bene e il male; nel cuore dello stesso uomo, cioè nel cuore di ognuno di noi, Satana può seminare, non appena ci addormentiamo un poco, la sua viscida zizzania.
Perfino la Chiesa, che pure è « il germe e l’inizio » del regno di Dio sulla terra,2 può essere devastata e infestata dalla zizzania, come la storia ampiamente dimostra.

« Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal regno tutti gli scandali »
Sembra essere precisamente questo il significato della spiegazione della parabola, richiesta dagli Apostoli, e che dovrebbe esprimere molto della esperienza della primitiva comunità cristiana alla quale si rivolge san Matteo (vv. 37-43).
Come è facile vedere, qui l’accento, più che sulla « attuale » convivenza del bene e del male, è tutto spostato sul « giudizio » finale, che è un tema assai caro al primo Evangelista (cf 25,31-46). Anche l’ultima espressione (« i giusti splenderanno come il sole »), ripresa da Daniele 12,3, rimanda a una prospettiva « escatologica ».
Come mai questo spostamento d’accento? Probabilmente per una ragione molto semplice: la comunità, a cui si rivolge Matteo, ha perduto il primitivo fervore; non solo non si meraviglia più per la strana convivenza del bene e del male nel mondo, ma neppure per quella al proprio interno. Ci sono dei cristiani incoerenti con la loro fede, che danno addirittura « scandalo » agli altri.
Cosa fare per scuoterli? A costoro bisognava ricordare che l’appartenenza alla Chiesa non è garanzia di salvezza, se non porta con sé le « opere » della fede: verrà il momento in cui sarà disvelato il bene e il male che è in ognuno di noi.
E il disvelamento sarà inesorabile e imparziale: chiunque avrà operato « l’iniquità » (in greco anomía: v. 41), cioè sarà stato infedele alla « legge » di Cristo, che è soprattutto legge dell’amore, sia esso cristiano o no, sarà condannato; chiunque avrà operato la « giustizia », sia esso cristiano o no, sarà coronato di gloria « nel regno del Padre ».
Come si vede, davanti al Cristo-Giudice non ci sono privilegi di sorta: neppure quello della fede! Tutto questo non poteva non far riflettere i cristiani, inducendoli a convertirsi e a « giudicarsi » da sé, prima che venisse il tempo del giudizio ultimo e inappellabile.

« Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza »
Anche la prima lettura contiene una riflessione sul modo di agire di Dio, che sconcerta alcuni Giudei della Diaspora alessandrina: essi lo volevano più energico nel punire gli idolatri, così come i servi impazienti del Vangelo.
L’autore del libro della Sapienza, scritto all’incirca nel primo secolo a.C. ad Alessandria d’Egitto, ripercorrendo alcune tappe della storia dell’Antico Testamento, specialmente quelle dell’Esodo, si meraviglia perché Dio abbia usato una così grande moderazione verso l’Egitto e i popoli di Canaan, che non ha « distrutto all’istante » (12,9). Interrogandosi su questo problema, egli trova la ragione di tale moderazione nella « benevolenza » di Dio che, pur « potendo » tutto, « pazienta » per dar luogo agli uomini di « pentirsi » (Sap 12,18-19).
Siamo dunque, di nuovo, di fronte all’amore di Dio, che sopporta il male non per debolezza ma proprio perché ha la « forza » e vuole usarla per indurre gli uomini a penitenza. In tal modo egli dà un esempio anche a noi, che siamo il suo « popolo » (v. 19): è molto più bello che nel campo di Dio ci sia abbondanza di frumento, magari trasformatosi e diventato tale dalla zizzania, che solo « poche » spighe di buon grano! In questo caso ci sarebbe sempre carestia nel mondo: la carestia del bene che, anche per colpa nostra, ci poteva essere e invece non è riuscito a fiorire.
La misteriosa « preghiera » dello Spirito, che « intercede per noi con gemiti inesprimibili e viene in aiuto della nostra debolezza », come ci insegna san Paolo (Rm 8,26), ci ottenga la generosità del cuore e ci apra la mente a capire il senso della tragica presenza del male nel mondo: una sfida, offerta ai cristiani, per verificare la loro capacità di amare e il loro ottimismo pieno di speranza in un mondo che la potenza di Dio, favorita dalla nostra buona volontà, renderà certamente migliore, nonostante tutte le apparenze, almeno nella fase ultima della storia.

Da: CIPRIANI S.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 18 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

Icon of the Mother of God “the Unexpected Joy”

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http://oca.org/saints/lives/2014/01/25/100313-icon-of-the-mother-of-god-ldquothe-unexpected-joyrdquo

Publié dans:immagini sacre |on 17 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

IL SILENZIO DI DIO

http://www.nostreradici.it/silenzio_DiSegni.htm

IL SILENZIO DI DIO

Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma, Direttore del Collegio Rabbinico Italiano

Il tema del silenzio e dell’assenza di Dio davanti alle sofferenze dell’umanità è salito improvvisamente alla ribalta per un motivo quasi casuale, un recente intervento del Papa che lo ha affrontato nel corso di un’omelia. Parlare di quest’argomento ha sorpreso un po’ tutti, sia per la natura del tema, così difficile e speciale, che per la forza con cui è stato trattato. Ma per la sensibilità ebraica non si è trattato di una novità né di una sorpresa.
È un tema importante della teologia biblica che viene costantemente ripreso ed elaborato nel corso della storia e che davanti a fenomeni di particolare gravità, come la Shoà, esplode travolgendo le coscienze. Esaminando le pagine bibliche si può vedere come l’interrogativo sulla presenza divina accompagni la storia ebraica dal momento stesso in cui nasce come popolo. La Bibbia cerca di dare qualche risposta, anche molto precisa a questa domanda terribile, ma la questione evidentemente non è semplice da risolvere per le coscienze turbate.
Il tema trova espressione in una grande metafora antropomorfica, quella del panim, del volto divino. Nel rapporto tra esseri umani guardarsi in faccia è un modo di comunicare, anche se non necessariamente benevolo, mentre volgersi la faccia, rivoltarsi, è segno di chiusura, di interruzione di comunicazione, di rifiuto. Sono pertanto sinonimo di speciale benedizione, simpatia, protezione, benevolenza le espressioni iaer haShem panaw elekha e issà haShem panaw elekha, « che il Signore illumini e volga te il suo volto », che compaiono nella benedizione sacerdotale di Numeri 6:25-26, che quotidianamente ripetiamo nella nostra liturgia.
Al contrario è il celarsi, il nascondersi del volto divino il segno di allontanamento. Leggiamo in proposito un brano fondamentale:
 » La mia ira divamperà contro di lui in quel giorno e li abbandonerò e nasconderò loro il mio volto (letteralmente: mi nasconderò il volto da loro) e diventerà preda di chi vuole divorarlo e lo incontreranno numerose disgrazie e cose cattive e in quel giorno dirà ‘è perché il mio Dio non è in mezzo a me che mi sono capitate queste brutte cose’. Ma Io avrò nascosto il mio volto in quel giorno per tutto il male che aveva fatto, perché si era rivolto ad altri dei ». (Deuteronomio 31:17-18).
In questo brano c’è la prefigurazione dell’evento (l’abbattersi delle sciagure nazionali, il diventare preda dei nemici), la sua rappresentazione teologica (Dio che si nasconde all’uomo), la constatazione umana dell’abbandono (Dio non è in mezzo a me) e l’interpretazione teologica (il volto si nasconde perché l’uomo si è ri-volto altrove).
Che non si vadano a cercare responsabilità divine primarie nel male; questo dipende in primo luogo dall’uomo e dal dono che gli è stato fatto di poter scegliere tra bene e male, tra premio e punizione. E all’uomo viene quindi chiesto di fidarsi e scommettere. Non a caso, in un brano che per molti versi è l’anticipazione di quest’interpretazione del Deuteronomio, la domanda su dove è Dio nasce in un contesto storico preciso: usciti dall’Egitto, dopo tutti i miracoli cui hanno assistito, gli ebrei si trovano nel deserto senza acqua; e allora, immemori e ingrati dei beni precedenti, protestano, fino a minacciare Mosè di lapidazione. Racconta la Bibbia:
« (Mosè) chiamò quel luogo Massà e Merivà (contesa e lite) per la lite dei figli d’Israele e per aver loro messo alla prova il Signore dicendo: ‘se Dio è in mezzo a noi o no’  » (Esodo 17:7).
E subito dopo ecco quello che succede:
« Arrivò Amaleq e combatté con Israele a Refidim » (ibid, v. 18).
Amaleq è il nemico mortale perenne d’Israele, senza pietà per i più deboli. Amaleq arriva e colpisce non in un momento qualsiasi, ma quando Israele non è più capace di avvertire la presenza divina dentro di sé. Dio fugge e si nasconde secondo il Deuteronomio dopo che gli ebrei gli si rivoltano contro; ma la prima fuga -quella che apre il varco al nemico divoratore- avviene nella coscienza degli uomini che diventano sordi e incapaci di avvertire la presenza divina. Prima ancora di un volto che si nasconde c’è l’incapacità umana di vederlo quando c’è. L’importanza di questa storia supera il caso isolato, diventa emblematica. Non a caso nella Torà uno dei comandi più importanti che si riferiscono all’uso della memoria, riguarda proprio la storia di Amaleq: « ricorda cosa ti ha fatto Amaleq » (Deuteronomio 25:17). Ricorda cosa ti ha fatto, ma anche che cosa può averlo provocato.
Il celarsi del Deuteronomio non è isolato, ma lo ritroviamo in tanti altri brani biblici,da Isaia (8:17, 54:8), Ezechiele 39 (23,24,29), ai Salmi (« non nascondermi il tuo volto »: 27:9, 102:3, 143:7; e ancora 13:2, 30:8, 44:25 ecc), espressioni di una angoscia e di una ricerca costante. Di fatto il tema del Dio che si nasconde diventa la costante dell’esperienza successiva, specialmente diasporica. Giocando sulla lingua, la radice satar che indica il celarsi (da cui forse anche il mistero) viene riscontrata dai Maestri nel nome dell’eroina biblica Ester: un nome che in realtà dovrebbe essere collegato a Astarte e Aster-Astro, ma che per i Maestri non indica il fulgore ma il buio. Con una consolazione: perché la regina Ester opera in un periodo storico in cui il Volto non è più visibile e accessibile, e per questo può sempre sorgere qualcuno che decide di distruggere l’intero popolo ebraico; ma anche se la presenza diretta, la visione luminosa del volto non c’è più, la presenza divina, la sua provvidenza, la sua assistenza non mancano mai e al momento giusto intervengono nella storia e liberano.
Per questo motivo consolatorio e di speranza gli ebrei celebrano ancora oggi (e continueranno a farlo anche quando tutte le altre feste saranno abolite), per una volta all’anno, con gioia fisica quasi sfrenata, la festa del Purim, per segnalare che anche in un regime di volto nascosto la protezione non viene mai meno. È sul filo di questa speranza che si gioca un’esperienza drammatica, una domanda con tante risposte sempre insufficienti, una provocazione alla fede che coinvolge quasi quotidianamente la vita di ogni ebreo, che sia religioso o no.
Nel momento in cui lo Stato si accinge a celebrare il Giorno della Memoria, con importanti intenti memoriale ed educativi, lo spirito ebraico partecipa con un ricordo sconsolato e con il peso di una domanda e di una ricerca che ha più di 32 secoli di storia.

LA LETTERA AI ROMANI – 2) ADAMO E CRISTO (5,12-21).

http://proposta.dehoniani.it/txt/romani.html

LA LETTERA AI ROMANI

(Pedron Lino)

2) ADAMO E CRISTO (5,12-21).

12Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. 13Fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, 14la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
15Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini. 16E non è accaduto per il dono di grazia come per il peccato di uno solo: il giudizio partì da un solo atto per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute per la giustificazione. 17Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo.
18Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. 19Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
20La legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta, ma laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia, 21perché come il peccato aveva regnato con la morte, così regni anche la grazia con la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore.

L’apostolo prende ora in considerazione la storia dell’umanità nel suo complesso, quella storia che ogni singolo uomo trova davanti a sé come una realtà data, ma che anche contribuisce a fare. Questa storia dell’umanità reca l’impronta per un verso di Adamo e per l’altro di Cristo, di ciò che l’uno e l’altro hanno significato e hanno compiuto. Ogni uomo reca in sé, sia pure in modi diversi, il segno di questa origine.
Il discorso di Paolo procede faticosamente, perdendosi talvolta e riavviando poi il discorso.
V. 12 – Adamo è menzionato come un solo uomo (Vv.12.15.16. 17.18.19) per indicare che non è un qualsiasi individuo umano, ma in certo modo l’uomo primordiale che lascia la sua impronta decisiva e fatale su tutti gli uomini che vengono dopo di lui e rappresenta quindi il loro intrinseco destino. In che modo tramite lui il peccato sia entrato nel mondo qui non è detto. Ma al v.14 si parla della sua trasgressione, nei Vv.15.17 e 18 della sua colpa e della sua caduta, al v.19 della sua disobbedienza e al v.16 del suo peccato. Attraverso la trasgressione, la colpa e la disobbedienza di Adamo, dell’unico uomo, è entrato nel mondo il regime del peccato che ora vige nell’umanità e che la signoreggia in ciascuno dei suoi membri. E attraverso il regime del peccato, che trae origine dall’azione peccaminosa di Adamo, è di pari passo entrata nel mondo la morte o, meglio, il regime della morte, della morte come potenza cosmica (Rm 5,14.17; 7,5; 8,38-39; 1Cor 15,21.22.26; 1Cor 15,24; 2Cor 4,12; 1Cor 3,22; ecc.).
E questo regime della morte non si concreta soltanto nelle varie forme di distruzione fisica, psichica e spirituale; la morte è la manifestazione del giudizio di Dio, della sua ira, della sua condanna. È la morte intesa come la rovina e la distruzione che promanano dall’ira di Dio (Rm 9,22; Fil 1,28; 3,19; Rm 2,12; 1Cor 1,18; 8,11; 15,18; 2Cor 2,15; 4,9). Poiché in dipendenza da Adamo ogni uomo pecca, ogni uomo deve anche morire; ma poiché la morte è un effetto dell’ira di Dio, essa viene a cessare quando non ha più corso l’ira di Dio. Quindi la morte a cui tutti siamo sottoposti è in parte un’eredità di Adamo e in parte colpa nostra, in quanto col nostro modo di agire provochiamo l’ira di Dio. Non è questo l’unico testo in cui Paolo istituisce una connessione molto stretta fra peccato e morte. Non solo il peccato reca con sé la morte come sua punizione (Rm 1,32) o ricompensa (Rm 6,23), ma anche la carne dominata dal peccato anela, aspira (fronèi = medita, pensa) alla morte (Rm 8,6), ha una brama perversa di morte. La morte è il tèlos (il destino, il punto di arrivo) del peccato (Rm 6,21), è ciò a cui esso tende. Il peccato fa il gioco della morte (Rm 7,5). Esso stimola la morte come pungiglione (1Cor 15,56). Il peccato – e questa è forse la formulazione più comprensiva e pregnante – regna nella morte (Rm 5,21). In altre parole: la morte è la forma e il modo in cui il peccato esercita il suo dominio. Il regime del peccato, che attira sull’umanità il regime della morte, esercita di fatto il suo potere appunto in questo regime di morte.
E la potenza della morte è penetrata nel mondo in modo da dominare senza eccezione tutti gli uomini perché tutti gli uomini hanno peccato. La morte è un effetto e una manifestazione della potenza del peccato entrata nel mondo con il peccato di Adamo: tutti muoiono in Adamo (1Cor 15,22).
L’ingresso nel mondo del regime del peccato (insieme con la sua potenza di morte) viene motivato da Paolo in due modi:
1. per causa di Adamo e della sua disobbedienza (5,12a), e
2. in quanto tutti gli uomini hanno peccato (5,12d).
Il senso del v.12 risulta allora così: Come attraverso un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e attraverso il peccato la morte e così la morte si è estesa a tutti gli uomini perché tutti hanno peccato… Dopo Adamo i singoli individui hanno fatto una scelta personale a favore del peccato. Ma il peccato dei singoli non è una pura fatalità. L’esistenza di ogni uomo ha le sue radici nel passato (in definitiva in Adamo) e si manifesta negli atteggiamenti e nelle scelte libere del presente.
Vv. 13 – 14 – In questi versi Paolo svolge un’idea complementare ma necessaria. Essi ribadiscono l’enunciato del v.12 e ne difendono la giustezza contro una possibile obiezione che potremmo esprimere in questi termini: come può essere che attraverso un solo uomo (Adamo) il peccato e la morte siano entrati nel mondo e vi siano entrati in modo che questo peccato e questa morte passino in atto nei peccati concreti e nelle morti concrete dei singoli uomini? Com’è possibile, se è vero che da Adamo fino a Mosè non vi era legge, parlare di peccato se di peccato si può parlare solo quando vi sia una legge (cf 4,15)? Soltanto in 7,7-25 questo rapporto legge-peccato sarà trattato come tema specifico; qui è trattato brevemente e poi subito lasciato cadere. Per intanto Paolo risponde: Anche prima di Mosè c’era il peccato, ma non c’era ancora il peccato riconosciuto e qualificato dalla legge. Questa affermazione viene confermata dal v.14. La morte ha esercitato il suo dominio anche su coloro che, a differenza di Adamo, non hanno peccato nel senso di trasgredire una legge. Infatti anche il peccato non messo in conto è pur sempre peccato, e il peccato sprigiona sempre la morte. La morte ha regnato in tutti i tempi perché il peccato ha regnato in tutti i tempi. La morte ha regnato anche su coloro che non avevano prevaricato alla stessa maniera di Adamo, ossia trasgredendo un comando espresso. Adamo peccò violando un comandamento, commettendo una precisa trasgressione, mentre gli uomini dopo di lui, fino a Mosè, non agirono in maniera analoga. Eppure anch’essi peccarono e perciò anche su di loro regnò la morte entrata nel mondo a causa del peccato di Adamo. Il peccato e la morte sono, nel mondo prima di Cristo, fenomeni onnicomprensivi. Poiché essi provengono da Adamo e quindi da un solo uomo, questo uno è il tipo di un altro che qui viene chiamato colui che deve venire e che porta giustizia e vita per tutti coloro che si affidano a lui. Il vocabolo tupos significa figura, modello, esempio. Adamo è il tupos di Cristo; nella sua persona, per quanto essa significa nella storia della salvezza, è il prototipo che rimanda a Cristo come a suo antitipo. L’inizio del dominio universale del peccato e della morte in Adamo rimanda alla fine di tale dominio nell’Adamo escatologico, nel Cristo. I beni recati dall’Adamo che doveva venire, Cristo, sono incomparabilmente superiori rispetto alla rovina procurata agli uomini dal primo Adamo. L’Adamo-Cristo non rappresenta solo la compensazione del primo Adamo, e di ciò che questi ha prodotto, ma è molto di più, ha una superiorità non paragonabile con quella del primo Adamo, una superiorità infinita.
Vv. 15 – 17 – Paolo ci presenta queste verità: l’incomparabile superiorità del dono di grazia recato da Gesù Cristo per tutti (v.15), il carattere impareggiabile dell’evento di grazia che si compie per opera di uno e investe tutti (v.16), la grandezza senza paragone del dono di grazia e del destino di grazia per i credenti (v.17).
Posto che Adamo è figura di Cristo, ciò non significa un’equivalenza tra il suo passo falso (peccato) e il dono divino di grazia; al contrario, l’agire di Dio comporta sempre un sovrappiù, e il suo dono di grazia impersonato nell’unico uomo Gesù Cristo, è giunto in misura sovrabbondante a tutti. In questo caso oi pollòi, secondo l’uso ebraico (Dt 12,13; Is 56,6.11.12) significa tutti (harrabìm = i molti che non si possono calcolare).
Secondo la convinzione di Paolo, non è più possibile fraintendere il dono di Dio in Gesù Cristo come se fosse soltanto la compensazione di un errore o il bilanciamento del male che da Adamo in poi regna nel mondo. La grazia di Dio è essenzialmente sovrabbondanza, pienezza, una realtà inaudita e inesauribile.
Vv. 18 – 19 – Ciò di cui ora gli uomini possono e devono vivere è la vita offerta da Gesù Cristo e già attuata nella sua donazione per noi, quella vita che ci viene concessa dalla grazia di Dio. Dopo questa svolta, avvenuta nella storia, dal regime del peccato e della morte in Adamo al regime della sovrabbondante grazia e potenza di vita in Gesù Cristo, bisogna puntare sulla salvezza che si è manifestata in Gesù Cristo e che impronta di sé tutto il presente e tutto il futuro.
Vv. 20 – 21 – La menzione della legge nel suo rapporto con il peccato viene fatta in maniera incidentale. Soltanto in 7,1 ss. verrà assunto come tema specifico il rapporto tra legge e peccato.
Circa la legge si dice anzitutto che è sopravvenuta e in questa espressione forse c’è, come in Gal 2,4, un tono spregiativo nei confronti della legge. La legge è quindi un dato della storia. Non è, come insegnavano i rabbini, una della sette cose che furono create prima del mondo. Non è neppure, come si legge per es. in Abot 6,11, la mediatrice della creazione in quanto sapienza di Dio. La legge comincia ad esistere con Mosè ed è quindi un elemento della storia recente. Eppure essa aveva il suo compito assegnatole da Dio: per effetto di essa doveva moltiplicarsi il peccato. Questo moltiplicarsi del peccato di Adamo è una diffusione di quel peccato nei singoli peccati dei discendenti di Adamo. In che modo ciò avvenga per effetto della legge sarà spiegato in 7,7 ss. Eppure il moltiplicarsi del peccato ebbe come conseguenza il sovrabbondare della grazia. Là dove, per effetto della legge, ha preso forza e sviluppo il regno del peccato, ivi ha sovrabbondato la grazia eccedendo in ogni misura. In definitiva la legge ha solo in apparenza dispiegato la sua efficacia. La grazia ha vinto anche il peccato diffuso per la legge. Qual era dunque nell’intenzione di Dio, l’ufficio transitorio assegnato alla legge?
V. 22 – Questo versetto risponde alla domanda e così facendo ricapitola ancora una volta in maniera conclusiva la nuova situazione di Cristo succeduta a quella di Adamo. Il regime del peccato, che si concretizza e si manifesta nei singoli atti peccaminosi, ha esercitato il suo potere per mezzo della morte. La morte, intesa quale regime o potenza della morte, è lo strumento mediante il quale la potenza del peccato domina, è il modo in cui essa domina. Ma questa è la situazione passata dell’umanità. Ora è venuta la grazia sovrabbondante che ha sopraffatto il peccato e la morte. Questa grazia regna per mezzo della giustizia di Dio, attuata in Cristo Gesù, la giustizia della fedeltà di Dio al patto, la quale tutti comprende nella giustizia della sua grazia (3,21-22; 5,17). La grazia regna mediante la giustizia di Dio per condurre alla vita eterna per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore: la grazia che ci è stata data consiste nell’unico uomo Gesù Cristo. Attraverso il suo atto di giustizia procede per tutti gli uomini la giustificazione che dà la vita (v.18), e per la sua obbedienza tutti sono diventati giusti (v.19).

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Gesù e i bambini

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BENEDETTO XVI : CANTICO CFR FIL 2, 6-11 (2005)

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BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 1° giugno 2005

CANTICO CFR FIL 2, 6-11
Cristo servo di Dio
Primi Vespri della Domenica della 3a Settimana

1. In ogni celebrazione domenicale dei Vespri la liturgia ci ripropone il breve ma denso inno cristologico della Lettera ai Filippesi (cfr 2,6-11). È l’inno ora risuonato che consideriamo nella sua prima parte (cfr vv. 6-8), ove si delinea la paradossale «spogliazione» del Verbo divino, che depone la sua gloria e assume la condizione umana.
Cristo incarnato e umiliato nella morte più infame, quella della crocifissione, è proposto come un modello vitale per il cristiano. Questi, infatti, – come si afferma nel contesto – deve avere «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (v. 5), sentimenti di umiltà e di donazione, di distacco e di generosità.
2. Egli, certo, possiede la natura divina con tutte le sue prerogative. Ma questa realtà trascendente non è interpretata e vissuta all’insegna del potere, della grandezza, del dominio. Cristo non usa il suo essere pari a Dio, la sua dignità gloriosa e la sua potenza come strumento di trionfo, segno di distanza, espressione di schiacciante supremazia (cfr v. 6). Anzi, egli «spogliò», svuotò se stesso, immergendosi senza riserve nella misera e debole condizione umana. La «forma» (morphe) divina si nasconde in Cristo sotto la «forma» (morphe) umana, ossia sotto la nostra realtà segnata dalla sofferenza, dalla povertà, dal limite e dalla morte (cfr v. 7).
Non si tratta quindi di un semplice rivestimento, di un’apparenza mutevole, come si riteneva accadesse alle divinità della cultura greco-romana: quella di Cristo è la realtà divina in un’esperienza autenticamente umana. Egli è veramente il «Dio-con-noi», che non si accontenta di guardarci con occhio benigno dal trono della sua gloria, ma si immerge personalmente nella storia umana, divenendo «carne», ossia realtà fragile, condizionata dal tempo e dallo spazio (cfr Gv 1,14).
3. Questa condivisione radicale della condizione umana, escluso il peccato (cfr Eb 4,15), conduce Gesù fino a quella frontiera che è il segno della nostra finitezza e caducità, la morte. Questa non è, però, frutto di un meccanismo oscuro o di una cieca fatalità: essa nasce dalla scelta di obbedienza al disegno di salvezza del Padre (cfr Fil 2,8).
L’Apostolo aggiunge che la morte a cui Gesù va incontro è quella di croce, ossia la più degradante, volendo così essere veramente fratello di ogni uomo e di ogni donna, costretti a una fine atroce e ignominiosa.
Ma proprio nella sua passione e morte Cristo testimonia la sua adesione libera e cosciente al volere del Padre, come si legge nella Lettera agli Ebrei: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8).
Fermiamoci qui nella nostra riflessione sulla prima parte dell’inno cristologico, concentrato sull’incarnazione e sulla passione redentrice. Avremo occasione in seguito di approfondire l’itinerario successivo, quello pasquale, che conduce dalla croce alla gloria.
4. Concludiamo la nostra riflessione con un grande testimone della tradizione orientale, Teodoreto che fu Vescovo di Ciro, in Siria, nel V secolo: «L’incarnazione del nostro Salvatore rappresenta il più alto compimento della sollecitudine divina per gli uomini. Infatti né il cielo né la terra né il mare né l’aria né il sole né la luna né gli astri né tutto l’universo visibile e invisibile, creato dalla sua sola parola o piuttosto portato alla luce dalla sua parola conformemente alla sua volontà, indicano la sua incommensurabile bontà quanto il fatto che il Figlio unigenito di Dio, colui che sussisteva in natura di Dio (cfr Fil 2,6), riflesso della sua gloria, impronta della sua sostanza (cfr Eb 1,3), che era in principio, era presso Dio ed era Dio, attraverso cui sono state fatte tutte le cose (cfr Gv 1,1-3), dopo aver assunto la natura di servo, apparve in forma di uomo, per la sua figura umana fu considerato come uomo, fu visto sulla terra, con gli uomini ebbe rapporti, si caricò delle nostre infermità e prese su di sé le nostre malattie» (Discorsi sulla provvidenza divina, 10: Collana di testi patristici, LXXV, Roma 1988, pp. 250-251).
Teodoreto di Ciro prosegue la sua riflessione, mettendo in luce proprio lo stretto legame sottolineato dall’inno della Lettera ai Filippesi fra l’incarnazione di Gesù e la redenzione degli uomini. «Il Creatore con saggezza e giustizia lavorò per la nostra salvezza. Poiché egli non ha voluto né servirsi soltanto della sua potenza per elargirci il dono della libertà né armare unicamente la misericordia contro colui che ha assoggettato il genere umano, affinché quegli non accusasse la misericordia d’ingiustizia, bensì ha escogitato una via carica di amore per gli uomini e al contempo adorna di giustizia. Egli infatti, dopo aver unito a sé la natura dell’uomo ormai vinta, la conduce alla lotta e la dispone a riparare alla sconfitta, a sbaragliare colui che un tempo aveva iniquamente riportato la vittoria, a liberarsi dalla tirannide di chi l’aveva crudelmente fatta schiava e a recuperare la primitiva libertà» (ibidem, pp. 251-252).

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