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27 LUGLIO 2014 | 17A DOMENICA – « IL REGNO DEI CIELI È SIMILE A UN TESORO NASCOSTO IN UN CAMPO »

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27 LUGLIO 2014 | 17A DOMENICA A | T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

« IL REGNO DEI CIELI È SIMILE A UN TESORO NASCOSTO IN UN CAMPO »

Delle tre parabole che ci vengono presentate dalla Liturgia odierna e concludono il cosiddetto « discorso parabolico » di san Matteo, quella della « rete gettata nel mare » e che « raccoglie ogni genere di pesci » è un po’ marginale alla « globalità » del discorso che viene sviluppato dalle altre letture bibliche. Esso, infatti, è tutto concentrato sulla inestimabile preziosità del « regno » o della « parola » del Signore, per i quali conviene « rischiare » tutto quello che abbiamo e che siamo. La nostra « perdita » non sarebbe mai così grande come quella della perdita del « regno »!
Ciò nonostante, anche la parabola della rete assume un suo particolare rilievo in questa prospettiva di fondo. Pur assomigliando per il contenuto a quella della zizzania già esaminata (cf Mt 13,24-30.36-43), essa in realtà mette l’accento sulla fase escatologica di cernita e di separazione « definitiva » fra il bene e il male: « Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridori di denti » (Mt 13,49-50).
È un monito ai lettori del Vangelo perché facciano in tempo la loro scelta « radicale » per Cristo, prima che avvenga la cernita del giudizio ultimo e irreversibile.

« La legge della tua bocca è preziosa »
Abbiamo detto che la globalità del messaggio biblico è orientata sulla preziosità del « regno » di Dio o della « parola » del Signore, che, in fin dei conti, sono due realtà molto rassomiglianti, se non proprio identiche, nel senso che la « parola » non solo annuncia, ma produce anche il « regno »: esattamente come si è verificato in Cristo.
Si vedano alcune espressioni bellissime riprese dal Salmo 119, il quale, come tutti sanno, è una commossa celebrazione della « legge » e dei « precetti » del Signore:
« La legge della tua bocca mi è preziosa
più di mille pezzi d’oro e d’argento
Perciò amo i tuoi comandamenti
più dell’oro, più dell’oro fino.
Per questo tengo cari i tuoi precetti
e odio ogni via di menzogna…
La tua parola nel rivelarsi illumina,
dona saggezza ai semplici » (Sal 119,72.127-128.130).

« Concedi al tuo servo un cuore docile, che sappia distinguere il bene dal male »
Anche la preghiera di Salomone, fatta proprio all’inizio del suo regno, dopo i tempestosi anni di Davide, mette in evidenza l’ansia verso ciò che nella vita di ogni uomo, ma soprattutto di chi ha responsabilità di guida per gli altri, vale di più, cioè la « ricerca » della « sapienza » e del « discernimento »: la ricchezza e la potenza non fanno più stimabile chi governa o chi presiede, ma semmai lo rendono più detestabile, se insieme, e prima ancora, non ha sapienza e bontà che gli insegnino a usare bene del « potere ». È la storia di sempre, nella società civile e, purtroppo, anche nella Chiesa.
Davanti, dunque, all’invito del Signore di « chiedergli » qualunque cosa desiderasse, Salomone così prega: « Signore Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene, io sono un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che ti sei scelto, popolo così numeroso che non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male, perché chi potrebbe governare questo tuo popolo così numeroso? » (1 Re 3,7-9).
Nei versi successivi Dio loderà Salomone perché non gli ha chiesto « né ricchezza, né lunga vita, né vittoria sui nemici » (v. 11), e perciò gli concederà, « un cuore saggio e intelligente », oltre alle numerose altre cose non richieste (vv. 12-13).
È una preghiera, quella di Salomone, che ha intuito l’essenziale non solo nella vita di un re, ma anche nella vita di ogni uomo: e cioè che tutto viene da Dio, in special modo la « docilità » del cuore per saper « distinguere il bene dal male » e scoprire quello che è utile o giovevole ai fratelli. In altre parole, la misura giusta per valutare i nostri comportamenti e le nostre azioni, soprattutto se abbiamo responsabilità nella Chiesa o fuori, a qualsiasi livello, è il rispetto, la crescita, il bene degli altri: è questo che Dio vuole soprattutto. Questo è il « primum » (cf Mt 6,33) indispensabile, da ricercare a tutti i costi; il resto non ha alcun senso, o può escludere addirittura dal regno di Dio.
Anche la Colletta iniziale si pone nello sfondo di queste considerazioni, quando ci fa chiedere a Dio di non perdere mai di vista, nelle fluttuazioni di questa vita, i « beni » che non tramontano mai: « O Dio, nostra forza e nostra speranza, senza di te nulla esiste di valido e di santo; effondi su di noi la tua misericordia perché, da te sorretti e guidati, usiamo saggiamente dei beni terreni, nella continua ricerca dei beni eterni ».
Dio non vuole che, per ricercare lui, fuggiamo dal mondo o ci disinteressiamo degli altri: vuole soltanto che « usiamo saggiamente » delle cose create, scoprendo le sue tracce dovunque e aiutando i fratelli a camminare alla sua « ricerca », come Salomone aveva chiesto di fare per il suo popolo « così numeroso ».

« Il regno dei cieli è simile a un mercante di perle preziose »
Ma veniamo adesso al brano di Vangelo, che ci presenta quella meravigliosa coppia di parabole che illuminano anche meglio quanto stiamo dicendo, cioè la parabola del tesoro nascosto e quella della perla preziosa (vv. 44-46).
Per comune ammissione, queste due parabole, esclusive di san Matteo, vogliono trasmettere un identico insegnamento, naturalmente accentuandone l’importanza proprio con la tecnica della ripetizione. In ciascuna di esse, infatti, troviamo un uomo che scopre improvvisamente un « tesoro » di inestimabile valore e che si sforza di acquistare al più presto, vendendo tutto ciò che possiede.
Ma qual è il preciso insegnamento delle due brevissime parabole? Qualcuno ha voluto insistere sul motivo della « gioia » con cui il protagonista, almeno quello della prima scena, compie la sua operazione rischiosissima: « Va, pieno di gioia, e vende i suoi averi e compra quel campo » (v. 44). « Il punto decisivo non è la vendita da parte dei due protagonisti delle parabole di quanto possedevano, bensì il motivo della loro decisione: l’essere stati sopraffatti dalla grandezza della loro scoperta. Così avviene del regno di Dio. La buona novella del suo avvento sopraffà, dona la grande letizia, orienta tutta la vita al compimento della comunità di Dio, effettua la più appassionante delle dedizioni ».1
A nostro parere, pur tenendo conto di questo dato della « gioia », che compensa ampiamente il rischio dell’operazione compiuta, la « punta » della parabola sta precisamente nel « coraggio » del rischio e della decisione davanti a una scoperta di eccezionale valore: e la « scoperta » è proprio lui, il Cristo, che con la sua presenza, con le sue opere di salvezza, anche fisica, con la sua dottrina, con il suo invito a seguirlo, rappresenta ed è il « regno ».2
Si può dunque attendere, ondeggiare, fare il calcolo di ciò che si perde o si guadagna, quando è evidente che nulla è paragonabile, in prezzo, a lui e al suo Vangelo? Neppure la vita si perde, se si gioca per lui! « Chi avrà trovato la sua via, la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà » (Mt 10,39).

L’ »esclusivismo » di Dio
E si noti che l’urgenza della decisione non è sollecitata dalla preoccupazione che « il momento propizio » (cf 2 Cor 6,2) scocchi adesso sul quadrante della storia e non ritorni più. È vero anche questo; ma è vero soprattutto che l’urgenza nasce dalla « densità » salvifica del momento, dalla « ricchezza » che io ho davanti, a portata di mano, e non oso afferrare proprio per paura di dovere lasciar cadere dalle mie mani gli stupidi giocattoli che me ne impediscono la presa coraggiosa e la tenuta robusta.
È già disprezzare il « regno » attendere un attimo solo per entrarci, o illudersi di poterci entrare portandoci anche qualcosa di nostro, pensando forse di poterci stare meglio.
« C’è un esclusivismo di Dio, che però non si esercita alla maniera di quelli umani. Dio non è una realtà creata che occupa, nell’ambito dell’essere, un posto da cui esclude, per la sua esistenza stessa, tutte le altre realtà create. La presenza di Dio non scaccia l’umano: essa lo penetra e lo trasforma. Ma l’umano deve lasciarsi penetrare interamente; deve, per così dire, lasciarsi togliere a se stesso. La presenza di Dio, nella sua esigenza esclusiva, è compatibile con tutto ciò che, nella creazione, non è affetto dal peccato. A condizione però di rinnovare tutto.
Si arriva così alla questione dell’umanesimo: Dio è reperibile senza che l’uomo rinunzi a se stesso per lui? La ricchezza umana, non penetrata da Dio, esclude praticamente Dio. Il meglio diventa allora il peggio. Si arriva a professare o a vivere un umanesimo esclusivo, e il godimento indefinito della ricchezza umana fa perdere l’occasione di acquistare la perla unica. Si adora l’uomo al posto di Dio. Il regno è qualche cosa che si ottiene solamente rinunciando a tutto il resto » (Y. de Montcheuil).
Anche se non tutto è escluso dal regno, tutto vi deve però arrivare « rinnovato ». Ed è proprio per questo che abbiamo tutti una terribile paura a « vendere quello che abbiamo » per comprare il campo con il tesoro nascosto o la perla preziosa di cui parla il Vangelo.
Eppure questa è l’unica « saggezza » di cui deve dare prova il vero « discepolo » di Cristo, che al termine del brano viene paragonato, con un abbozzo di nuova piccola parabola, a « un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche » (v. 52). Gli esegeti leggono normalmente in questo versetto come una discreta annotazione autobiografica di Matteo, che descriverebbe così non solo la sua esperienza personale, ma anche il suo lavoro di composizione del primo Vangelo: un immenso « tesoro », in cui confluisce tutto il meglio dell’Antico Testamento (« le cose vecchie »), riletto e reinterpretato alla luce di quella « novità » radicale che è Cristo.
Applicato ad ogni discepolo del Signore, il proverbio potrebbe essere un invito non solo ad approfondire l’immensa « ricchezza » del Vangelo, lasciatoci in eredità da Gesù stesso e dalle prime generazioni cristiane, ma anche a « integrarlo » con le « nuove » esperienze di vita che la sua luce e la sua forza volta per volta ci suggeriranno. È anche questo un modo per scoprire e far scoprire la preziosità del « tesoro » che ogni generazione deve da capo dissotterrare e far risplendere davanti al mondo. È il famoso « quinto Evangelio », che deve essere riscritto ogni giorno dai cristiani: « E se tu mi domandi quale sia il quinto Evangelio, rispondo che è l’Evangelio eterno che costoro stanno scrivendo e non cesserà di essere scritto fino all’ultima salvezza ».3

« Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio »
Anche la brevissima, ma densa lettura paolina ci invita a riflettere sulla « preziosità » della vita cristiana, che è esclusivo dono dell’amore di Dio in Cristo. Egli ci ha pensati da sempre in Cristo (cf Ef 1,3-14) e tutto ha ordinato e « preordinato » per il nostro « bene »: la vita, la morte, le tristezze, le gioie, la salute, la malattia, il successo, l’insuccesso, ecc. L’importante è saper esprimere nella nostra vita « l’immagine del Figlio suo » (Rm 8,29). È in questa maniera che il « regno » di Dio si dilata e da Cristo si comunica anche a noi. « Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli: quelli poi che ha predestinati, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati » (Rm 8,28-30).
Come si vede, nel disegno di Dio c’è già perfino la nostra « glorificazione » finale. A una condizione però: quella di « riamare » Colui che da sempre ci ha amati!

Da: CIPRIANI S.,

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 25 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

San Charbel

San Charbel dans immagini sacre 20100401-San+Charbel

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Publié dans:immagini sacre |on 24 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

24 LUGLIO: SAN CHARBEL

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24 LUGLIO: SAN CHARBEL

(2007)

Oggi Santa Romana Chiesa ricorda San Charbel, santo libanese morto nel 1898.

La storia e la grandezza di questo Santo sono spesso ignorate, per questo abbiamo di ricordarlo nel giorno della Sua Memoria:

Giuseppe Makhluf, nacque nel villaggio di Biqa ’Kafra il più alto del Libano nell’anno 1828. Rimasto orfano del padre a tre anni, passò sotto la tutela dello zio paterno. A 14 anni già si ritirava in una grotta appena fuori del paese a pregare per ore (oggi è chiamata “la grotta del santo”).
Egli pur sentendo di essere chiamato alla vita monastica, non poté farlo prima dei 23 anni, visto l’opposizione dello zio, quindi nel 1851 entrò come novizio nel monastero di ‘Annaya dell’Ordine Maronita Libanese. Cambiò il nome di battesimo Giuseppe in quello di Sarbel che è il nome di un martire antiocheno dell’epoca di Traiano.
Trascorso il primo anno di noviziato fu trasferito da ‘Annaya al monastero di Maifuq per il secondo anno di studi. Emessi i voti solenni il 1° novembre 1853 fu mandato al Collegio di Kfifan dove insegnava anche Ni’matallah Kassab la cui Causa di beatificazione è in corso.
Nel 1859 fu ordinato sacerdote e rimandato nel monastero da ‘Annaya dove stette per quindici anni; dietro sua richiesta ottenne di farsi eremita nel vicino eremo di ‘Annaya, situato a 1400 m. sul livello del mare, dove si sottopose alle più dure mortificazioni.
Mentre celebrava la s. Messa in rito Siro-maronita, il 16 dicembre 1898, al momento della sollevazione dell’ostia consacrata e del calice con il vino e recitando la bellissima preghiera eucaristica, lo colse un colpo apoplettico; trasportato nella sua stanza vi passò otto giorni di sofferenze ed agonia finché il 24 dicembre lasciò questo mondo.
A partire da alcuni mesi dopo la morte si verificarono fenomeni straordinari sulla sua tomba, questa fu aperta e il corpo fu trovato intatto e morbido, rimesso in un’altra cassa fu collocato in una cappella appositamente preparata, e dato che il suo corpo emetteva del sudore rossastro, le vesti venivano cambiate due volte la settimana. Nel 1927, essendo iniziato il processo di beatificazione, la bara fu di nuovo sotterrata. Nel 1950 a febbraio, monaci e fedeli videro che dal muro del sepolcro stillava un liquido viscido, e supponendo un’infiltrazione d’acqua, davanti a tutta la Comunità monastica fu riaperto il sepolcro; la bara era intatta, il corpo era ancora morbido e conservava la temperatura dei corpi viventi. Il superiore con un amitto asciugò il sudore rossastro dal viso del beato Sarbel e il volto rimase impresso sul panno.
Sempre nel 1950 ad aprile le superiori autorità religiose con una apposita commissione di tre noti medici riaprirono la cassa e stabilirono che il liquido emanato dal corpo era lo stesso di quello analizzato nel 1899 e nel 1927. Fuori la folla implorava con preghiere la guarigione di infermi lì portati da parenti e fedeli ed infatti molte guarigioni istantanee ebbero luogo in quell’occasione. Si sentiva da più parti gridare Miracolo! Miracolo! Fra la folla vi era chi chiedeva la grazia anche non essendo cristiano o non cattolico.

Charbel Makhlouf, il santo libanese dai miracoli eclatanti, non cessa di manifestarsi con segni tangibili a chi ricorre a lui con fiducia. I miracoli registrati presso la sua tomba, nel convento san Marone di Annaya, sono oltre seimila. La sua intercessione si sperimenta rivolgendosi a lui con la preghiera, o utilizzando anche l’olio, l’acqua e l’incenso benedetti e distribuiti dal convento di Annaya, visitando la sua tomba e attraverso le sue immagini. Alcuni sono stati operati direttamente da lui e riportano anche i segni chirurgici, come è accaduto alla signora Nohad el-Chamy, che vive nei pressi del convento e conserva le cicatrici dell’intervento eseguito senza anestesia dal Santo apparsole mentre era paralizzata a letto, che le ha restituito la salute. Altre guarigioni sono avvenute suo tramite in modo meno traumatico. Molte le conversioni e le vocazioni sacerdotali nate sotto il segno di Charbel. Alcuni affermano di averlo visto in sogno, altri da svegli, dopo averlo invocato. Moltissimi dicono di aver visto illuminarsi la sua immagine. Sul registro del convento di Annaya si legge la testimonianza di Jean-Pierre Abboud, che a gennaio 2006 ringrazia il santo per averlo guarito dalla sordità, causata da una malattia infantile. Sostiene di avere recuperato l’udito dopo essersi strofinato sulle orecchie del cotone imbevuto con l’olio benedetto di san Charbel. Il 23 marzo 2006 ad Annaya, anche il signor Freddy Mansour registra la sua sconvolgente testimonianza. In vista di un rischioso intervento cardiaco, il devoto di Charbel teneva sul cuore un’immagine del Santo, confidando nel suo aiuto. Dieci giorni prima del ricovero iniziò la novena in suo onore. Il nono giorno, dopo avere acceso una candela davanti al quadro di Charbel, vide davanti a sé un uomo vestito da medico, che indicando l’immagine che teneva sul cuore, gli disse: “È lui che ti ha guarito” e disparve. Il giorno seguente i medici constatarono la sua completa guarigione. Claude Massouh è tornato a ringraziare san Charbel, dopo essersi specializzato in biologia in Francia. Per un tragico errore, durante gli esperimenti nel suo laboratorio, non erano stati spenti i raggi ultravioletti a cui lo studente era rimasto esposto inconsapevolmente. Quando se ne accorse era ormai troppo tardi. Prima di recarsi all’ospedale, corse a lavarsi gli occhi con acqua benedetta di san Charbel. I medici riscontrarono gravissime lesioni alla retina, ma ciò che non sapevano spiegarsi era come mai Claude ci vedeva bene, un fatto inspiegabile per la scienza. Terminati gli studi in Francia, nell’aprile 2006, il miracolato è tornato ad Annaya, per ringraziare il Santo presso la sua tomba. Paul Azzi, il postulatore generale dell’ordine libanese maronita di Roma, sostiene che più lo si invoca, più il Santo si manifesta con segni concreti a chi ricorre a lui e che l’ultimo miracolo di cui è stato messo al corrente riguarda una donna cilena di religione cattolico-melchita, ridotta a trenta chili di peso a causa di un tumore ai polmoni al quarto stadio, guarita contro ogni speranza dopo essersi rivolta a san Charbel. Un sacerdote ha invece raccontato di un ragazzo uscito dal coma il nono giorno della novena al santo, recitata dai familiari. Un’infermiera si è spaventata vedendo il quadro di Charbel illuminarsi all’improvviso nel buio della stanza, un’esperienza sperimentata da moltissimi suoi devoti, e una donna di Pescara mi ha riferito una serie di problemi familiari molto gravi che si sono risolti dopo avere invocato il santo con fiducia, come se una mano misteriosa li avesse sciolti uno dopo l’altro. Un’anziana sola al mondo, a 85 anni di età, venutasi a trovare in gravi difficoltà economiche è ricorsa a San Charbel, trovando in pochi giorni la soluzione al problema, piovuta proprio dal cielo. Moltissimi sono coloro che testimoniano benefici per intercessione del santo libanese che entra nella loro vita e nel loro cuore, come un amico di vecchia data.
Alcune sperimentazioni effettuate dagli istituti di ricerca di Mosca e Tbilisi. Ad esempio l’Istituto di Informazione e Tecnologie Elettromagnetiche ha scoperto che i ritratti di San Charbel irradiano incredibilmente onde elettromagnetiche come ogni normale essere vivente.

Tanti altri miracoli sono stati attribuiti a san Charbel; conversio­ni, apparizioni e mirabolanti guarigioni come quella di Nouhad Al-Chami, la donna che soffriva di emiplegia con doppia ostruzione alla carotide. Lei stessa e la sua famiglia erano prostrati dalla disperazio­ne, perché Nouhad non si muoveva più e stava cessando di cibarsi, non riuscendo più a deglutire… I dottori le avevano consigliato un’operazione con esito dubbio; una notte, però, (era il 21 gennaio 1993), dopo che suo figlio le aveva frizionato la gola con dell’olio benedetto proveniente dal Monastero di San Charbel, si addormen­tò per poi destarsi di colpo e rammentare di aver visto san Charbel ed un altro monaco avvicinarsi al suo capezzale ed averla operata alla gola. Improvvisamente si alzò, corse in bagno e davanti allo specchio notò due cicatrici ai lati della gola di dodici centimetri ciascuna, coi punti di sutura e del filo chirurgico nero che fuoriusciva, mentre il collo e la cami­cia da notte erano imbrattati di sangue. Vi lascio immaginare lo stupore e lo spavento del marito vedendola in piedi e tutta insanguinata… Lo stesso mattino la famiglia di Al-Chami si recò al Monastero di Annaya per testimoniare l’accaduto al superiore, mentre i medici dell’Ospedale di Beirut tolsero increduli i punti di sutura dal collo di Nouhad, certificando­ne l’avvenuta guarigione.

***
Il Signore ha creato ogni essere umano affinché risplen­da, per illuminare il mondo; voi siete la luce del mondo. Ogni esse­re umano è una lanterna destinata a risplendere; il Signore ha provveduto che ogni lanterna disponga di vetri chiari e trasparen­ti, per permettere a questa luce di risplendere e di illuminare il mondo; ma la gente si cura del vetro, dimenticandosi della luce; si interessa dell’aspetto del vetro, lo colora e lo decora, finché esso diventa torbido, opaco, impedendo così alla luce di risplendere attraverso, e di conseguenza il mondo è sprofondato nell’ignoranza. Il Signore insiste nel voler illuminare il mondo. I vostri vetri devo­no ridiventare trasparenti. Dovreste realizzare il proposito per il quale siete nati in questo mondo »
San Charbel

Publié dans:SANTI, SANTI :"memorie facoltative" |on 24 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

QUELLI CHE SPERANO NELL’ETERNO (ISAIA 40:30-31)

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QUELLI CHE SPERANO NELL’ETERNO (ISAIA 40:30-31)

30. I giovani s’affaticano e si stancano ; i giovani scelti vacillano e cadono, 31. Ma quelli che sperano nell’Eterno acquistano nuove forze, s’alzano a volo come aquile; corrono e non si stancano, camminano e non si affaticano.
Un famoso scienziato nel pieno della sua vita dichiarava orgogliosamente di essere ateo e di non credere all’esistenza di Dio. Alla fine dei suoi giorni, al suo capezzale, dovette confidare ad un amico di riconoscere che Dio esisteva e che aveva paura ad incontrarLo.
Nel brano citato dal libro di Isaia, il profeta poeta dell’Antico Testamento, ci mostra una raffigurazione delle varie tappe della vita umana con e senza Dio. Isaia trascura, volutamente l’ultima tappa, quella della terza età, poiché una vita con Dio escluso, rende questo periodo una continua angoscia nell’attesa/rifiuto della morte e di quello che sarà o non sarà dopo di essa. Può apparire naturale nel pieno della propria gioventù sentirsi capace di sfidare il mondo intero ed ammettere nell’età canuta invece, che « io ho veduto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità e un correre dietro al vento » (Ecclesiaste 1:14).
- Ma l’attuale società, ci ha abituati a vedere giovani forti, o come li chiama Isaia « scelti » che « vacillano » e sono stanchi della vita, ancora prima di cominciare. Si bruciano presto tutte le tappe. Prima dei 18 anni un giovane ha ormai provato quasi tutto quello che la società malata moderna aveva di negativo da proporgli. I tempi di sesso, droga e rock and roll, non sono mai tramontati, sono solo cambiati i nomi e le sostanze: il sesso da quello tradizionale portato alle depravazioni sempre più originali, è passato anche a quello virtuale; è impossibile navigare in Internet senza incontrare prima o poi un sito porno. La droga tradizionale è stata affiancata già da molto tempo da droghe sempre più sofisticate, che fanno passare la tradizionale eroina come qualcosa di antico e superato e che quasi tranquillizzano perfino i genitori, che non vedono più nei buchi sulle braccia dei propri ragazzi il segno evidente che il proprio figlio è un drogato, ma che invece, l’uso esagerato di quelle simpatiche pasticche con stampato sopra deliziosi animaletti o altri simboli, sono i corresponsabili delle tante stragi del sabato sera. Questo, insieme alla musica underground sempre più assordante che più che ascoltare si subisce in discoteca rendono i nostri ragazzi degli stracci ancora prima della maggiore età per i fortunati che riescono a raggiungerla. Forse è un quadro che alcuni potrebbero definire piuttosto nero, ma io lascerei ai sociologi il pietoso tentativo di spiegare perché sempre più ragazzi si tolgono la vita, compiono omicidi in cui molto spesso sono coinvolti anche i genitori, mostrano in generale una sconcertante assenza di valori e rifiuto della vita; e mi rivolgerei piuttosto a Colui che considera preziosa la vita di ogni sua creatura e può dargli un reale senso, degna di essere vissuta.
« ma quelli che sperano nell’Eterno.. ». E’ questo il segreto per una vita esuberante e piena di significato, sperare nell’Eterno . E’ nell’affidarsi nelle amorevoli mani del Padre Celeste, l’unica ancora di salvezza da questo mal di vivere che attanaglia i giovani d’oggi. Se si avrà il coraggio di fare il primo passo, di non considerare Dio come qualcosa di superato o buono per i vecchi, il peso che si sentirà togliersi di dosso, sarà paragonabile a sentirsi come:
- « un’aquila che si alza in volo », che guarda il mondo sotto di essa e vede anche quelle montagne che sembravano insormontabili, come dei piccoli ostacoli da superare e velocemente lasciare dietro. Considerate ancora il volo delle aquile; se dovesse sfruttare solo la sua forza, non volerebbe molto a lungo data la sua mole, ma essa sfrutta le correnti ascensionali spiegando le proprie grandi ali. Così è di colui che « spera nell’Eterno », non andrebbe molto lontano se dovesse contare sulle proprie forze, ma il Padre Celeste ci ha fornito di una corrente ascensionale speciale: la potenza dello Spirito Santo, che sostiene in alto i credenti anche nei momenti in cui le forze vengono a mancare, « ..io v’ho portato sopra ali d’aquila e v’ho condotti a me. » (Esodo 19:4).
Il volo però non può restare tale per tutta la vita; l’entusiasmo iniziale può sembrare venire meno, ma il credente maturo, sa scendere a terra ed a differenza del « giovane scelto », sa « correre senza stancarsi » . Questo presuppone allenamento. L’atleta che si prepara per una gara non lo fa per arrivare ultimo, ma per vincere e per questo prepara con cura e duramente il suo allenamento. Questo vale oggi come ieri e l’apostolo Paolo ne fa un bellissimo esempio da applicarsi al cristiano: « Non sapete voi che coloro i quali corrono nello stadio, corrono ben tutti, ma uno solo ottiene il premio?…….Chiunque fa l’atleta è temperato in ogni cosa;..…..io quindi corro ma non in modo incerto… » (I Corinzi 9:24-27). Molti pretendono di correre senza allenarsi, ma i nostri avversari non sono fisici, bensì spirituali e faranno di tutto non solo per non farci vincere, ma cercheranno di non farci raggiungere affatto il traguardo. Dunque il nostro allenamento dev’essere adeguato. L’allenamento del credente è la preghiera, la lettura e meditazione della Parola di Dio, la comunione fraterna. Ci saranno alcuni che sembreranno correre più degli altri, non cerchiamo di imitarli; sono come quegli atleti, « le lepri », che nelle gare hanno solo il compito di tenere il ritmo della corsa, ma che non sono in grado di completarla. L’importante nella corsa cristiana, non è « partecipare », come cita un famoso detto, ma raggiungere il traguardo: « Io ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho serbata la fede. » (II Timoteo 4:7).
« Quelli che sperano nell’Eterno » infine, non hanno paura di diventare vecchi. Per la società, per la famiglia, nonostante la società stessa stia diventando sempre più composta da anziani, costoro continuano a rappresentare un peso. Per la chiesa al contrario rappresentano coloro che hanno imparato a « camminare senza affaticarsi ». Fisicamente non saranno in grado di correre come quando erano giovani, ma spiritualmente sono di esempio e stimolo ai più giovani, grazie al raggiungimento di una saggezza frutto dell’esperienza di anni di fede. Quando si corre, non si colgono i particolari che si notano e si apprezzano quando si cammina piano.
Vogliamo dunque essere di « quelli che sperano nell’Eterno », nonostante tutto, nonostante le guerre, le atrocità commesse nel mondo, possano far pensare ad un Dio che si disinteressi di esso, nonostante le religioni nel mondo praticano diversamente da quello che predicano, nonostante la promessa del ritorno di Cristo possa essere per alcuni una realtà vicina, per altri ancora molto lontana e per altri ancora, non esserla affatto, vogliamo essere tra quelli che sperano nell’Eterno e che dicono maràn-atà: vieni Signor Gesù, noi speriamo in Te.

Michele Garruto

Santa Brigida di Svezia

Santa Brigida di Svezia dans immagini sacre StBridget

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Publié dans:immagini sacre |on 23 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

23 LUGLIO – SANTA BRIGIDA DI SVEZIA : DONNA DI AZIONE E DI CONTEMPLAZIONE

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Santo_del_mese/07-Luglio/Santa%20Brigida%20di%20Svezia.html

23 LUGLIO – SANTA BRIGIDA DI SVEZIA : DONNA DI AZIONE E DI CONTEMPLAZIONE

“Dio è grande nel cielo dei santi” così cantiamo in chiesa. Ed è vero. Contemplando quella immensa galleria di uomini e donne già “arrivati felicemente e trionfalmente alla casa del Padre” (i santi) ci accorgiamo di quanta varietà e creatività è stato capace lo Spirito Santo nel suo “lavoro” lungo i secoli. Ed è di questi nostri fratelli e sorelle “già” in Dio che dobbiamo continuamente fare memoria, perché abbiamo bisogno dei loro esempi per il nostro cammino, della loro testimonianza per la nostra perseveranza; perché, attraverso il loro ricordo, si rafforzi l’impegno di ciascuno di noi “non ancora” arrivato alla Meta del nostro pellegrinaggio terreno.
Per questi mesi estivi vi propongo una grande figura di donna, di sposa, di madre, di educatrice dei propri figli, di una laica “felicemente sposata” (così ha scritto il Papa) ma molto attiva nella Chiesa e per la Chiesa del 1300: Brigida di Svezia.Ha scritto Giovanni Paolo II nella sua breve ma bellissima Lettera alle Donne (1995):
«In tale ampio spazio di servizio, la storia della Chiesa in questi due millenni, nonostante tanti condizionamenti, ha conosciuto veramente il “genio della donna”, avendo visto emergere nel suo seno donne di prima grandezza che hanno lasciato larga e benefica impronta di sé nel tempo» (n. 11).
E subito dopo il Papa cita due pezzi da novanta nel firmamento femminile delle sante: Caterina da Siena e Teresa d’Avila (ambedue dichiarate dottoresse della Chiesa da Paolo VI).
A queste due grandi possiamo affiancare anche Brigida di Svezia. Che sia una stella di prima grandezza tra le nostre sorelle sante ne è prova la sua proclamazione da parte di Giovanni Paolo II, nell’ottobre del 1999 a compatrona d’Europa assieme a Caterina e a Edith Stein (morta martire nel lager di Auschwitz). Una scelta opportuna perché Brigida è stata una santa di “dimensione europea” per i suoi viaggi (pellegrinaggi), le sue conoscenze ed interessi che andavano ben al di là della sua Svezia (la sua seconda patria fu per lunghi anni la città di Roma).
Brigida: sposa e madre felice di una famiglia numerosa
Brigida (nell’etimologia gotica significa “luminosa”) nacque nel 1302. Suo padre Birger era governatore della regione dell’Upland. Sembra che abbia avuto la prima visione all’età di 12 anni.
Secondo l’uso del tempo anche Brigida fu data in sposa giovanissima: aveva solo 14 anni. Dal suo matrimonio con Ulf Gudmarsson nacquero ben otto figli: quattro maschi e quattro femmine. Anche se gli storici raccomandano di non esagerare l’influsso di Brigida su Ulf, tuttavia sembra che il loro matrimonio fu non solo felice ma anche sempre alla luce di Dio.
Ha scritto il Papa:
“Senza lasciarsi fuorviare dalle condizioni di benessere del suo ceto sociale, ella visse col marito Ulf un’esperienza di coppia in cui l’amore sponsale si coniugò con la preghiera intensa, con lo studio della Sacra Scrittura, con la mortificazione, con la carità. Insieme fondarono un piccolo ospedale, dove assistevano frequentemente i malati. Brigida poi era solita servire personalmente i poveri”.
Brigida fu anche apprezzata per sue doti pedagogiche. Queste le espresse prima nel servizio a corte come governante di Bianca, la giovane sposa del re Magnus Eriksson, e poi durante tutta la sua vita come madre ed educatrice sapiente e tenera dei suoi otto figli. Non a caso una delle sue figlie è diventata santa Caterina di Svezia.
Nel 1341 Brigida intraprese insieme al marito Ulf un lungo pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Un pellegrinaggio che le fece attraversare l’Europa, da nord a sud, facendole prendere coscienza anche della situazione della Chiesa divisa, con il papa che risiedeva ad Avignone. Al ritorno Ulf si ammalò gravemente fino a morire il 12 febbraio del 1344 in un monastero cistercense di Alvastra.
È da questo momento doloroso della perdita del marito che Brigida incominciò la sua seconda parte della vita. Ritornata in Svezia, rinunciò a tutti i suoi beni conducendo una vita di penitenza e di preghiera in una casa monastica. Proprio qui cominciarono le prime rivelazioni, della cui autenticità testimoniarono i suoi confessori e direttori spirituali cui Brigida obbedì sempre.
Proprio durante questi anni di intensa contemplazione e di preghiera, attraverso queste rivelazioni Dio le faceva capire la sua missione. Dalla contemplazione autentica di Dio e della sua gloria, fu chiamata all’azione per Dio e per il suo regno.
Nel 1349 accompagnata dai suoi confessori e dalla figlia Caterina Brigida partì per Roma lasciando per sempre la Svezia e divenendo “romana” di adozione. Ha scritto il Papa: “Il trasferimento in Italia costituì una tappa decisiva per l’allargamento non solo geografico e culturale, ma soprattutto spirituale della mente e del cuore di Brigida”.
Brigida a Roma per l’Anno Santo 1350
C’era un triplice motivo nella venuta di Brigida nella Città Eterna. Il primo era spirituale e personale: vivere l’esperienza dell’anno santo 1350 indetto da Clemente VI. Secondo motivo: ottenere l’approvazione dell’ordine religioso che lei
voleva fondare (e secondo la sua stessa affermazione per essere stata richiesta durante una rivelazione). La terza ragione del suo viaggio romano era propriamente ecclesiale: il suo amore alla Chiesa la sospingeva ad adoperarsi per far ritornare il Papa da Avignone a Roma (anche Caterina da Siena quasi negli stessi anni ha “lavorato” intensamente per lo stesso obiettivo).
Stabilitasi a Roma Brigida condusse una vita di preghiera, di penitenza, e di opere caritatevoli. Durante questi anni inviò anche numerosi messaggi di rimprovero, di minacce e di esortazioni a numerosi personaggi del tempo: abati, cardinali, sovrani e soprattutto papi. Ma nonostante la fama del personaggio e la sua santità, quei signori non furono impressionati per niente dalle sue lettere e seguirono la propria strada nel loro interesse politico o di semplice prestigio personale.
Durante il soggiorno italiano Brigida fece numerosi pellegrinaggi: fu così a Milano, Pavia, Ortona, Assisi naturalmente, Bari, Benevento, Pozzuoli, Napoli, Salerno, Amalfi, al santuario di san Michele Arcangelo sul Gargano. Ma il suo desiderio grande era recarsi anche in Terra Santa. Quest’ultimo pellegrinaggio lo realizzò nel 1371, insieme ai figli Birger e Carlo, e ad un gruppo di altre persone da lei chiamati “Amici di Dio”. Può sorprendere il numero grande di questi pellegrinaggi di Brigida, se pensiamo che non era facile viaggiare in quei tempi. Occorreva una buona disponibilità economica oltre che salute e amicizie che contano. Brigida malata di turismo religioso? Non direi. Il concetto di turismo (culturale o anche religioso è recente). Allora non si faceva turismo ma dei pellegrinaggi. Questi erano presi molto sul serio, e quasi sempre erano esperienze dure, di fatica, fame, sete, di pericoli e di… conversione (la fatica più grande allora come oggi). Niente a che fare con i molti pellegrinaggi di oggi, che pur avendo presente la componente spirituale, hanno un buon contorno, piacevole e gratificante, di quello che chiamiamo semplice turismo.
Per Brigida il pellegrinaggio era una vera esperienza di crescita spirituale. Per lei era un «cammino verso i santi per tentare di incontrare una realtà trascendente, il vagabondare dall’esiliata che esprime l’esilio dell’uomo sulla terra, pellegrinazione perpetua sul modello dell’itinerario di Cristo. Nel procedere di santa Brigida troviamo ognuno di questi elementi. Ma nella frenesia di pellegrinaggio, come pure nell’impegno attivo al servizio dei poveri, Brigida cerca ben altro che non far opera abituale e meccanica di salvezza: praticando la virtù di compassione e di amore verso il prossimo, si abbandona interamente a Dio; coltivando la virtù dell’umiltà e la spoliazione, piegando il corpo alla rude vita del pellegrino (le testimonianze del processo insistono su ciò: andava a piedi “pur avendo molti cavalli a sua disposizione”) sviluppa una personale ascesi».
Ascesi, da Brigida ricercata e coltivata durante tutta la vita e spinta all’estremo. Ogni giorno, anche durante la vita coniugale, faceva una mortificazione volontaria: rifiuto di dormire sul letto, digiuni prolungati, flagellazione, e sembra anche una specie di cilicio. Tutto questo non per un velato o inconscio senso masochistico, ma solo per partecipare e imitare la passione di Cristo “suo Sposo”.
Brigida finì il suo lungo pellegrinaggio terreno il 23 luglio del 1373. I figli Birger e Caterina riportarono la salma in Svezia nel monastero di Valstena. La sua canonizzazione avvenne solo pochi anni dopo nel 1391. Brigida rimane una luminosa figura di Santa del Trecento, ma che ha un messaggio anche per noi oggi.

MARIO SCUDU SDB ***

*** Questo e altri 120 santi e sante e beati sono presenti nel volume di :
MARIO SCUDU, Anche Dio ha i suoi campioni, Editrice Elledici, Torino
Brigida:
donna di profezia e di unione mistica
Alla base dell’esperienza spirituale di Brigida vi è l’unione mistica. Brigida si definiva lei stessa “Sposa di Cristo”, e ha descritto con parole appassionate la dolcezza ineffabile che a lei procurava questa unione. Il suo principale desiderio consisteva “nell’amare Dio con tutto il cuore… nella negazione di sé e della propria volontà”. Questa fusione amorosa della volontà trovava la ricompensa nella singolare grazia dello spirito dell’estasi mistica.
L’opera mistica di Brigida va sotto il nome di “Revelationes”. Fu redatta in svedese e tradotta in latino. Il contenuto è estremamente vario. Talvolta la rivelazione si presenta sotto forma di dialogo tra le persone divine, la Vergine Maria, i santi e Brigida stessa. Anche i demoni ottengono qualche ruolo dialogante. Si ha pure il racconto di visioni particolari con la Vergine Maria come protagonista. Anche in queste Revelationes Brigida è figlia del Trecento. Vi sviluppa infatti i temi devozionali cari alla spiritualità di quel secolo: la devozione al Cristo sofferente, ricordo della Vergine Maria come mediatrice, e dei santi protettori, fiducia nell’angelo custode, fede e accettazione della giustizia di Dio sempre temperata dall’infinita misericordia.
Un’ultima annotazione: Brigida nonostante avesse fondato un ordine religioso, con le componenti maschile e femminile unificate nel governo da un’unica badessa, rimase sempre una laica. E anche nelle Revelationes fa sentire il fatto di essere sempre donna, sposa, madre di famiglia. Brigida si sente madre: ha gusti materni, si serve di espressioni e di esempi di sapore materno, la dottrina che espone spesso viene esposta in luce materna. È interessante notare che sia il Signore Gesù sia la Vergine Maria approvano volentieri questo sentimento naturale di Brigida.
Le Revelationes sono giustamente considerate uno dei più importanti apporti alla letteratura svedese medievale. Quest’opera ha guadagnato a Brigida l’appellativo di “Veggente” o di “Mistica del Nord”. Ed il bene fatto da quest’opera durante i secoli è stato enorme. Solo un’esempio: Sant’Alfonso dei Liguori ne “Le Glorie di Maria”, si richiama spesso alla dottrina della grande santa svedese. Anche questo contribuì alla sua fama in tutta la Chiesa. (MARIO SCUDU)

BENEDETTO XVI: L’ANNO DELLA FEDE. DIO RIVELA IL SUO « DISEGNO DI BENEVOLENZA »

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2012/documents/hf_ben-xvi_aud_20121205_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 5 dicembre 2012

L’ANNO DELLA FEDE. DIO RIVELA IL SUO « DISEGNO DI BENEVOLENZA »

Cari fratelli e sorelle,

all’inizio della sua Lettera ai cristiani di Efeso (cfr 1, 3-14), l’apostolo Paolo eleva una preghiera di benedizione a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci introduce a vivere il tempo di Avvento, nel contesto dell’Anno della fede. Tema di questo inno di lode è il progetto di Dio nei confronti dell’uomo, definito con termini pieni di gioia, di stupore e di ringraziamento, come un “disegno di benevolenza” (v. 9), di misericordia e di amore.
Perché l’Apostolo eleva a Dio, dal profondo del suo cuore, questa benedizione? Perché guarda al suo agire nella storia della salvezza, culminato nell’incarnazione, morte e risurrezione di Gesù, e contempla come il Padre celeste ci abbia scelti prima ancora della creazione del mondo, per essere suoi figli adottivi, nel suo Figlio Unigenito, Gesù Cristo (cfr Rm 8,14s.; Gal 4,4s.). Noi esistiamo, fin dall’eternità nella mente di Dio, in un grande progetto che Dio ha custodito in se stesso e che ha deciso di attuare e di rivelare «nella pienezza dei tempi» (cfr Ef 1,10). San Paolo ci fa comprendere, quindi, come tutta la creazione e, in particolare, l’uomo e la donna non siano frutto del caso, ma rispondano ad un disegno di benevolenza della ragione eterna di Dio che con la potenza creatrice e redentrice della sua Parola dà origine al mondo. Questa prima affermazione ci ricorda che la nostra vocazione non è semplicemente esistere nel mondo, essere inseriti in una storia, e neppure soltanto essere creature di Dio; è qualcosa di più grande: è l’essere scelti da Dio, ancora prima della creazione del mondo, nel Figlio, Gesù Cristo. In Lui, quindi, noi esistiamo, per così dire, già da sempre. Dio ci contempla in Cristo, come figli adottivi. Il “disegno di benevolenza” di Dio, che viene qualificato dall’Apostolo anche come “disegno di amore” (Ef 1,5), è definito “il mistero” della volontà divina (v. 9), nascosto e ora manifestato nella Persona e nell’opera di Cristo. L’iniziativa divina precede ogni risposta umana: è un dono gratuito del suo amore che ci avvolge e ci trasforma.
Ma qual è lo scopo ultimo di questo disegno misterioso? Qual è il centro della volontà di Dio? E’ quello – ci dice san Paolo – di «ricondurre a Cristo, unico capo, tutte le cose» (v. 10). In questa espressione troviamo una delle formulazioni centrali del Nuovo Testamento che ci fanno comprendere il disegno di Dio, il suo progetto di amore verso l’intera umanità, una formulazione che, nel secondo secolo, sant’Ireneo di Lione mise come nucleo della sua cristologia: “ricapitolare” tutta la realtà in Cristo. Forse qualcuno di voi ricorda la formula usata dal Papa san Pio X per la consacrazione del mondo al Sacro Cuore di Gesù: “Instaurare omnia in Christo”, formula che si richiama a questa espressione paolina e che era anche il motto di quel santo Pontefice. L’Apostolo, però, parla più precisamente di ricapitolazione dell’universo in Cristo, e ciò significa che nel grande disegno della creazione e della storia, Cristo si leva come centro dell’intero cammino del mondo, asse portante di tutto, che attira a Sé l’intera realtà, per superare la dispersione e il limite e condurre tutto alla pienezza voluta da Dio (cfr Ef 1,23).
Questo “disegno di benevolenza” non è rimasto, per così dire, nel silenzio di Dio, nell’altezza del suo Cielo, ma Egli lo ha fatto conoscere entrando in relazione con l’uomo, al quale non ha rivelato solo qualcosa, ma Se stesso. Egli non ha comunicato semplicemente un insieme di verità, ma si è auto-comunicato a noi, fino ad essere uno di noi, ad incarnarsi. Il Concilio Ecumenico Vaticano II nella Costituzione dogmatica Dei Verbum dice: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso [non solo qualcosa di sé, ma se stesso] e far conoscere il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono così resi partecipi della divina natura» (n. 2). Dio non solo dice qualcosa, ma Si comunica, ci attira nella divina natura così che noi siamo coinvolti in essa, divinizzati. Dio rivela il suo grande disegno di amore entrando in relazione con l’uomo, avvicinandosi a lui fino al punto di farsi Egli stesso uomo. Il Concilio continua: «Il Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr Es 33,11; Gv 15,14-15) e vive tra essi (cfr Bar 3,38) per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé» (ibidem). Con la sola intelligenza e le sue capacità l’uomo non avrebbe potuto raggiungere questa rivelazione così luminosa dell’amore di Dio; è Dio che ha aperto il suo Cielo e si è abbassato per guidare l’uomo nell’abisso del suo amore.
Ancora san Paolo scrive ai cristiani di Corinto: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano. E a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio» (2,9-10). E san Giovanni Crisostomo, in una celebre pagina a commento dell’inizio della Lettera agli Efesini, invita a gustare tutta la bellezza di questo “disegno di benevolenza” di Dio rivelato in Cristo, con queste parole: «Che cosa ti manca? Sei divenuto immortale, sei divenuto libero, sei divenuto figlio, sei divenuto giusto, sei divenuto fratello, sei divenuto coerede, con Cristo regni, con Cristo sei glorificato. Tutto ci è stato donato e – come sta scritto – “come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?” (Rm 8,32). La tua primizia (cfr 1 Cor 15,20.23) è adorata dagli angeli […]: che cosa ti manca?» (PG 62,11).
Questa comunione in Cristo per opera dello Spirito Santo, offerta da Dio a tutti gli uomini con la luce della Rivelazione, non è qualcosa che viene a sovrapporsi alla nostra umanità, ma è il compimento delle aspirazioni più profonde, di quel desiderio dell’infinito e di pienezza che alberga nell’intimo dell’essere umano, e lo apre ad una felicità non momentanea e limitata, ma eterna. San Bonaventura da Bagnoregio, riferendosi a Dio che si rivela e ci parla attraverso le Scritture per condurci a Lui, afferma così: «La sacra Scrittura è […] il libro nel quale sono scritte parole di vita eterna perché, non solo crediamo, ma anche possediamo la vita eterna, in cui vedremo, ameremo e saranno realizzati tutti i nostri desideri» (Breviloquium, Prol.; Opera Omnia V, 201s.). Infine, il beato Papa Giovanni Paolo II ricordava che «la Rivelazione immette nella storia un punto di riferimento da cui l’uomo non può prescindere, se vuole arrivare a comprendere il mistero della sua esistenza; dall’altra parte, però, questa conoscenza rinvia costantemente al mistero di Dio, che la mente non può esaurire, ma solo accogliere nella fede» (Enc. Fides et ratio, 14).
In questa prospettiva, che cos’è dunque l’atto della fede? E’ la risposta dell’uomo alla Rivelazione di Dio, che si fa conoscere, che manifesta il suo disegno di benevolenza; è, per usare un’espressione agostiniana, lasciarsi afferrare dalla Verità che è Dio, una Verità che è Amore. Per questo san Paolo sottolinea come a Dio, che ha rivelato il suo mistero, si debba «l’obbedienza della fede» (Rm 16,26; cfr 1,5; 2 Cor 10, 5-6), l’atteggiamento con il quale «l’uomo liberamente si abbandona tutto a Lui, prestando la piena adesione dell’intelletto e della volontà a Dio che rivela e assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli da» (Cost dogm. Dei Verbum, 5). Tutto questo porta ad un cambiamento fondamentale del modo di rapportarsi con l’intera realtà; tutto appare in una nuova luce, si tratta quindi di una vera “conversione”, fede è un “cambiamento di mentalità”, perché il Dio che si è rivelato in Cristo e ha fatto conoscere il suo disegno di amore, ci afferra, ci attira a Sé, diventa il senso che sostiene la vita, la roccia su cui essa può trovare stabilità. Nell’Antico Testamento troviamo una densa espressione sulla fede, che Dio affida al profeta Isaia affinché la comunichi al re di Giuda, Acaz. Dio afferma: «Se non crederete – cioè se non vi manterrete fedeli a Dio – non resterete saldi» (Is 7,9b). Esiste quindi un legame tra lo stare e il comprendere, che esprime bene come la fede sia un accogliere nella vita la visione di Dio sulla realtà, lasciare che sia Dio a guidarci con la sua Parola e i Sacramenti nel capire che cosa dobbiamo fare, qual è il cammino che dobbiamo percorrere, come vivere. Nello stesso tempo, però, è proprio il comprendere secondo Dio, il vedere con i suoi occhi che rende salda la vita, che ci permette di “stare in piedi”, di non cadere.

Cari amici, l’Avvento, il tempo liturgico che abbiamo appena iniziato e che ci prepara al Santo Natale, ci pone di fronte al luminoso mistero della venuta del Figlio di Dio, al grande “disegno di benevolenza” con il quale Egli vuole attirarci a Sé, per farci vivere in piena comunione di gioia e di pace con Lui. L’Avvento ci invita ancora una volta, in mezzo a tante difficoltà, a rinnovare la certezza che Dio è presente: Egli è entrato nel mondo, facendosi uomo come noi, per portare a pienezza il suo piano di amore. E Dio chiede che anche noi diventiamo segno della sua azione nel mondo. Attraverso la nostra fede, la nostra speranza, la nostra carità, Egli vuole entrare nel mondo sempre di nuovo e vuol sempre di nuovo far risplendere la sua luce nella nostra notte.

 

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