UN RE SENZA CAVALLO: ZC 9,9-10 E LE SUE RILETTURE NEOTESTAMENTARIE
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UN RE SENZA CAVALLO: ZC 9,9-10 E LE SUE RILETTURE NEOTESTAMENTARIE
Annalisa Guida
Mentre i cc. 1-8 del libro di Zaccaria sono citati abbondantemente nell’Apocalisse, quelli dal 9 al 14 compaiono spesso nei Vangeli. Si tratta, come sappiamo, di materiali molto diversi tra loro, perché in particolare il cosiddetto secondo Zaccaria è una raccolta di oracoli a tema differente. Tuttavia il c. 9, che ci interessa per le riletture matteane, ha, seppure conservando toni diversi nei quadri successivi, una sua unità e una certa ragionevolezza nell’accostamento di oracoli a primo impatto molto lontani. Zc 9,1-8 e 11-17: la terra e il popolo restaurati Nei primi 8 vv. del capitolo vengono emanati una serie di giudizi su svariate nazioni per incoraggiare Giuda, nonostante il trionfante avanzare a destra e a manca degli antichi nemici[1], riguardo al fatto che Dio promette di proteggere stabilmente il suo popolo. Giuda è continuamente a rischio di estinzione totale. Dio, però, si mette personalmente a difesa del suo popolo, addirittura si “accampa”, con linguaggio tipicamente militare, affermando che non permetterà più che alcun oppositore prevalga su Giuda o semplicemente che attraversi i suoi territori: Mi accamperò intorno alla mia casa per difenderla da ogni esercito da chi va e chi viene (Zc 9,8). Potremmo quindi sintetizzare questi primi 8 vv. attraverso il tema della restaurazione della terra, che avrà come suo artefice il Signore in persona. I vv. 11-17, invece, riguardano, la ricostituzione del popolo, che sarà anch’esso liberato, nutrito, protetto dal Signore (cf. l’insistenza sul soggetto di queste azioni benevole ai vv. 14.15.16); la nuova stagione che si apre per la gente di Giuda è espressa con una bella immagine di fertilità, abbondanza e ricchezza nel v. 17: Quali beni, quale bellezza!Il grano darà vigore ai giovani e il vino nuovo alle fanciulle. Zc 9,9-10 e lo strumento della ricostruzione: il futuro re Invece in 9,9-10, i due versetti al centro di questi oracoli dal sapore così fortemente bellicoso, una sorpresa: il profeta esplode in una gioiosa e pacifica rappresentazione dell’arrivo del messia-re, che entra in Gerusalemme tra gli “osanna” delle moltitudini. Questi versetti sono tra i più celebri che la Bibbia ebraica usi per ritrarre l’ingresso del futuro re a Gerusalemme e le caratteristiche della nuova età che con lui avrà inizio. Essi sono collocati tra quelli sulla restaurazione della terra (9,1-8) e del popolo (9,11-17); ciò significa che l’unità tematica del capitolo ha come perno la figura regale restaurata, che è la chiave di volta della ricostituzione di entrambi. 9 Esulta grandemente, o figlia di Sion, manda grida di gioia o figlia di Gerusalemme! Ecco, il tuo re viene a te; egli è giusto e porta salvezza, umile e montato sopra un asino, sopra un puledro d’asina. 10 Io farò scomparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme; gli archi di guerra saranno annientati. Egli parlerà di pace alle nazioni; il suo dominio si estenderà da mare a mare, e dal Fiume fino all’estremità della terra. Il brano si presenta improvvisamente, senza un’introduzione del tipo: «Oracolo di YHWH», o «Così dice il Signore» e senza transizione, in una forma letteraria particolare, ad andamento poetico, più simile ai versetti seguenti che a quelli precedenti[2]. Il v. 9 si apre con un invito alla gioia che dona al passo un carattere liturgico. I verbi dell’esortazione iniziale, infatti, sono gyl (“gridare di gioia”) e rw´ (“urlare in acclamazione”). Il primo compare spesso nei testi poetici post-esilici e significa originariamente “tornare indietro, in tondo”; evoca, dunque, il movimento proprio di una danza gioiosa o di una processione. Ciò spiega perché esso ricorra in testi legati al culto, sia nella tradizione canaitica dei culti della fertilità, sia in quella biblica (Gl 2,21.23; Ab 3,18; Sal 35,9); compare più raramente in testi sull’annuncio messianico (Is 25,9; 49,13; 61,10) e serve soprattutto a celebrare sia la venuta del messia re (Is 9,2; Ct 1,4; Sal 2,11) sia la regalità di Yhwh stesso (Sof 3,17; Sal 96,11; 97,1.8); diviene dunque, nella tradizione biblica, un termine a risonanza essenzialmente messianica e di colorazione liturgica. Anche l’altro verbo, “fare acclamazioni”, indica in testi molto antichi il grido di guerra (Gs 6,10, 1Sam 17,52), un grido d’allarme, un segnale convenuto, e poi è passato nel vocabolario liturgico a esprimere un’intensa gioia religiosa, una lode squillante, altisonante, per celebrare la gloria di YHWH (Is 44,23; Sal 65,14; Sof 3,14; Sal 47,2). Non si tratta di una coppia di termini abituali, ma l’ amplificazione che deriva dal loro accostamento sottolinea il valore dell’acclamazione del re messia e insieme di YHWH re[3] ed enfatizza l’importanza del personaggio atteso e la sua qualità eccezionale. Il contrasto tra la violenza di 1-8 e 11-16 e questa pace di 9-10 rivela, in fondo, un carattere complementare tra le parti: Dio interverrà con determinazione e forza, per restaurare la terra e il popolo di Israele. Ma una volta che ciò sarà avvenuto, il regno sarà nella pace. Un re senza cavallo può mai essere un vero re? Nel linguaggio contestuale, tipicamente militare, che esprime potenza, magnificenza e forza, irrompe a contrasto la figura di un re che entra in trionfo non su un fiero e forte cavallo, ma su un asino, anzi, su un puledro d’asina. Dio promette addirittura di far scomparire, insieme ai carri da Efraim, anche i cavalli di Gerusalemme. Ma un re senza cavallo può mai essere un sovrano che si rispetti? Nella storia biblica sembrerebbe di sì, anzi: il re senza cavallo è il vero re che adempie i comandi di Yhwh. Dio, infatti, ha ordinato ai re d’Israele di non moltiplicare i cavalli (cf. Dt 17,14-16) e quelli, tra loro, che infransero quest’ordine, come Acaz e Acab, ebbero una fine miserevole e si rivelarono estremamente dannosi per il proprio popolo. La cavalcatura di un asino è un’antica rappresentazione del re atteso già nelle parole di Giacobbe sulle sorti di Giuda (Gn 49,11[4]), sulla scia dell’arrivo dei personaggi importanti al tempo dei giudici e all’inizio del periodo dei re (Gdc 5,10; 10,4; 12,14). Verso la fine del regno di Davide, il mulo/mula sostituisce l’asino (cf. 2Sam 13,29; 18,9) e servirà per l’intronizzazione di Salomone (1Re 1,33.38.44), il quale in seguito importerà anche il cavallo e proprio dall’antico nemico egiziano (1Re 10,28). Ma i profeti polemizzeranno aspramente contro il cavallo di battaglia (Dt 17,16; Is 31,1; Os 1,7; 14,4; Mi 5,9; Sal 20,8). Anche nel primo Zaccaria il cavallo compare legato a immagini sì trionfanti, ma di una dominazione violenta (cf. Zc 1 e 6). Quindi possiamo leggere nel nostro testo un invito a ritornare alla prassi antica. La ripetizione «un asino, figlio di un’asina» non è solo una risonanza sinonimica quanto piuttosto un’insistenza, un rafforzativo, una voluta sottolineatura, come a dire: sì, proprio un asino, figlio di un’asina! Con questa scelta di una cavalcatura antica e mansueta si abbassa, così, il tono militare del brano complessivo.
Le qualità di questo re Del re atteso non vengono detti il nome o la provenienza, ma se ne descrivono le qualità. Il re, infatti, sarà: giusto, vittorioso/portatore di salvezza, umile, costruttore di pace. Sono tutte qualità ampiamente fondate nell’immaginario delle profezie precedenti ma anche condivise dalle vicine culture medio-orientali. Le prime due qualità (giustizia e salvezza/vittoria) ineriscono il rapporto con Dio, non costituiscono degli attributi intrinseci e perciò meritori dell’uomo: è Dio che ha protetto e salvato il re, rendendogli così possibile la vittoria. Se da un lato, infatti, è certamente per la sua giustizia che il re d’Israele può essere gradito a Dio e pertanto il re messianico deve possedere questa virtù al massimo grado (cf. Is 9,5-6; 11,4; 16,5), in Zaccaria questo non basta. Il re messianico è anche “beneficiario” della giustizia di Dio (cf. il senso passivo dell’espressione nel suo insieme, letteralmente: «il tuo re viene condotto a te giustificato e salvato/reso vincitore»). Il fondamento della regalità sarà, dunque, non un’appartenenza dinastica – nemmeno menzionata, sebbene la qualifica di “re di Gerusalemme” lo caratterizzi abbastanza inequivocabilmente come discendente di Davide –, ma l’opera esclusiva di Dio. È lui che accorda la tzedaqah, la giustizia e la yešuah, la salvezza. Se il re è vittorioso, dunque, lo è nel senso passivo: è Dio che lo fa vincere. Sof 3,14-18[5], certamente il modello più significativo per il testo di Zaccaria, ha al centro come protagonista il Signore vittorioso, che ovviamente è anche il “salvatore potente”; in Zaccaria, invece, dove si verifica lo slittamento già menzionato dalla regalità assoluta di Yhwh alla regalità “partecipata” al messia, il salvatore diventa il salvato, il giusto e il salvato per grazia e, pertanto, anche il re legittimo. La terza qualità, l’umiltà, si riferisce all’atteggiamento verso i sudditi. L’aggettivo “umile” si accorda con questo significato relazionale: in sé il termine significa “afflitto, umiliato, oppresso”, ma qui ha il valore di “semplice”, non di “miserabile”. Il nostro non è il servo sofferente del Deuteroisaia quanto, piuttosto, un personaggio dotato di un’umiltà tutta religiosa, che combatte per la verità, la giustizia, la povertà, e con tale atteggiamento copre quella distanza che separerebbe normalmente un sovrano da un suddito. Questo re non vivrà la propria carica né come un esercizio autoritario di potere né come una posizione di privilegio. Pur assumendo nel futuro un potere sempre più ampio, di questo re è detto che resterà sempre umile e sottomesso al sovrano sommo, cioè a Yhwh. La disposizione pacifica e l’umiltà, dunque, esprimono l’esperienza di contrasto rispetto ai modelli di re contemporanei al nostro libro e ai modelli orientali del tempo.
Un regno di pace universale Che il suo regno si caratterizzerà in termini di pace e non di violenza è esplicitato, oltre che dalla singolare cavalcata, anche dal v. 10 attraverso la promessa dell’eliminazione dei carri di Efraim insieme ai cavalli di Gerusalemme. Nessuna guerra sarà utilizzata per estendere il regno del messia (per questo vengono eliminati i tipici strumenti bellici, carri e cavalli), perché esso sarà fondato e stabilito, come dice altrove lo stesso profeta, non con potenza o con l’esercizio della forza, bensì “con lo Spirito del Signore degli eserciti” (Zc 4,6). La guerra, dunque, sarà eliminata per sempre dal governo del re futuro perché non sarà più necessario esercitare la forza militare, sebbene questo re potrà sempre vincere perché è Yhwh che combatte per lui. L’altra dimensione significativa introdotta dal v. 10 è la prospettiva universale di questo regno futuro (cf. Sal 72,8-11), che abbraccia Gerusalemme, Giuda, Israele e addirittura le nazioni straniere. Non solo Dio nel c. 9 ha parlato vittorioso, oltre che al suo popolo, anche a tutti i popoli della regione, ma in Zc 9,10, quando si descrive l’estensione del regno del messia futuro, si usano delle coordinate molto ampie e inclusive: «Il suo dominio si estenderà da mare a mare, e dal Fiume fino all’estremità della terra». Il Fiume menzionato è l’Eufrate, che rappresenta l’asse centrale del mondo medio-orientale poiché va da un mare all’altro (dal Mediterraneo al Golfo Persico). Il riferimento implicito, quindi, è ovviamente alla geografia della Mesopotamia (della quale settentrione e meridione sono, in fondo, i confini del mondo conosciuto dai nostri autori). Così l’affermazione di Zaccaria diventa anche una sorta di confronto diretto con il regno di Babilonia, con il grande Ciro che scriveva di sé: «Io sono Ciro, il grande re dell’universo, il re dei quattro angoli del mondo, tutti i confini del mondo, dal mar inferiore al mare superiore, mi offrono tributi»[6]. Quindi Zaccaria porta a maturazione, in una frase apparentemente stereotipata, una lunga tradizione di fede che va consolidandosi, ossia quella di associare Israele alla regalità e sovranità assolute di Yhwh attraverso la conduzione di un messia. Questa fiducia cresce nella storia biblica[7] e trova poi la sua espressione ideale in Zaccaria, malgrado i fallimenti dei re storici e l’umiliazione dell’esilio. La fede del profeta non teme il paradosso del re umile che domina sul mondo intero. In questa stessa linea Matteo collocherà l’arrivo di Gesù e coi medesimi tratti ne dipingerà la messianicità. …affinché si adempisse ciò che fu detto dal profeta… (Mt 21,4) In due punti del suo Vangelo Matteo riprende la profezia di Zaccaria e ne utilizza alcuni elementi per qualificare la messianicità di Gesù. Il primo è in Mt 11,29, nelle parole di Gesù immediatamente seguenti la preghiera di ringraziamento (comune anche a Luca) rivolta al Padre per aver rivelato ai piccoli i misteri del regno, alla quale Matteo aggiunge: Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché io sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo per le vostre anime. Il riferimento alla profezia è ovviamente implicito; piuttosto se ne recupera il tratto della docilità-mansuetudine come caratteristica del messia atteso. Importante, però, è notare che è il personaggio Gesù l’artefice dell’assimilazione al modello di Zaccaria (nella linea delle beatitudini, cf. Mt 5,5): Matteo vuol esprimere così una profonda sintonia della figura di Cristo con la tradizione profetica che viene a incarnare e attualizzare. Il riposo (cf. Ger 6,16) non ha il senso moderno della pace dell’anima, ma significa che ci sarà pace solo nel ritorno a Dio e nella nuova fedeltà alla sua legge: questa fedeltà Gesù rende possibile attraverso il suo insegnamento, definito un giogo leggero perché solo alla scuola di Gesù si può apprendere la vera portata della legge non fardello o regime di sottomissione bensì come atto di misericordia, gioia della comunione promessa con il regno. Il secondo richiamo a Zaccaria – ora una citazione esplicita – compare nella descrizione dei preparativi dell’ingresso a Gerusalemme, quando Gesù dà indicazioni per il reperimento dell’asina e del puledro[8] e il narratore commenta: Or questo accadde, affinché si adempisse ciò che fu detto dal profeta, che dice: 5 «Dite alla figlia di Sion: Ecco il tuo re viene a te mansueto, cavalcando un asino, anzi un puledro, figlio di una bestia da soma». Nell’ingresso a Gerusalemme, dunque, Gesù manifesta la natura della propria regalità compiendo le due profezie: la cavalcatura d’asina e l’acclamazione come figlio di Davide (implicita nel testo di Zaccaria ma radicata, come abbiamo visto, nella tradizione profetica). In Matteo la citazione serve a rivelare il senso che l’evento dell’ingresso di Gesù riveste nella storia della salvezza. Gesù entra a Gerusalemme proprio con questo tipo di “equipaggiamento” ed è lui che decide le modalità della “rappresentazione”, persino i dettagli, scelti secondo il piano di Dio. Quindi Gesù, che adempie il comando infranto da tanti re tracotanti e malvagi di Israele, diventa in Matteo l’adempimento pieno della legge. Il lettore viene così preparato, attraverso questa scelta paradossale eppure carica di attese, di rimandi e di conseguenza sul piano del racconto, all’impatto della risposta di Gesù a Pilato in Mt 27,11: davanti al rappresentante del potere romano, che gli chiede: «Sei tu il re dei Giudei?»; davanti al mondo giudeo e al mondo pagano, un Gesù umiliato, che sarà poi condotto a morte senza proferire parola, proclamerà: «Tu lo dici». Non è la risposta ambigua di una volontà irretita dai violenti poteri avversari. È, piuttosto, una risposta da re, che non si autoproclama ma viene annunciato tale, anche in questo rovesciamento ironico e drammatico che si completerà con l’iscrizione sulla croce (Mt 27,32).
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[1] Siria? Fenicia? Filistei? L’assenza di date e indicazioni in questa seconda metà del libro impedisce una contestualizzazione certa degli oracoli, ma secondo molti studiosi il riferimento storico più probabile – su modello del quale viene anche “costruita” questa visione di un Dio battagliero che invade la Palestina dal nord – è alla discesa di Alessandro il Macedone (330 a.C. ca.); altri assumono come contesto plausibile il VI sec. o la metà del V sec. a.C., quando il governo persiano è dominante e minaccia la sopravvivenza di Giuda; altri, ancora, propendono per il periodo maccabaico (168-165 a.C.). [2] Secondo molti studiosi questa differente forma letteraria nonché il contrasto tra carattere bellicoso e pacifico dei testi accostati sarebbe indizio della mancanza di un’unitarietà originaria del capitolo. [3] Questa doppia acclamazione caratterizzerà soprattutto i testi postesilici. [4] Già qui compare la doppia menzione della cavalcatura di Giuda come “asinello” e come “figlio dell’asina”. [5] «Gioisci, figlia di Sion, esulta, Israele, e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico. Re d`Israele è il Signore in mezzo a te, tu non vedrai più la sventura. In quel giorno si dirà a Gerusalemme: “Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente. Esulterà di gioia per te, ti rinnoverà con il suo amore, si rallegrerà per te con grida di gioia,come nei giorni di festa”». [6] Iscrizione dell’epoca. [7] Da Es 23,31 a Dt 11,24, da 2Re 5,1 al Sal 89,26.
[8] Matteo, infatti, non interpreta l’affermazione «un asino, figlio di un’asina» in senso sinonimico ma mette in scena due cavalcature messianiche.
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