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8 GIUGNO OMELIA : PENTECOSTE – « QUANDO VENNE IL GIORNO DELLA PENTECOSTE »

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8 GIUGNO 2014 | 8A DOMENICA DI PASQUA: PENTECOSTE A | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

« QUANDO VENNE IL GIORNO DELLA PENTECOSTE »

Nel descriverci il misterioso evento della discesa dello Spirito, san Luca ripetutamente annota il senso di « stupore » e di meraviglia che prese allora la gente: « Venuto quel fragore, la folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua. Erano stupefatti, e fuori di sé per lo stupore dicevano: « Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? »… » (At 2,6-7).
È lo stesso sentimento che afferra oggi anche noi, che quell’evento andiamo rimeditando e nella celebrazione liturgica misteriosamente rendiamo presente in tutto il suo significato e in tutta la sua forza.
Anche se mancano i segni esterni del « vento impetuoso » e delle « lingue di fuoco », lo Spirito di nuovo si comunica a tutti i credenti nel Cristo risorto: esso è il frutto più maturo della Risurrezione del Signore. È quanto ci ricorda il meraviglioso Prefazio odierno: « Oggi hai portato a compimento il mistero pasquale e su coloro che hai reso figli di adozione in Cristo tuo Figlio hai effuso lo Spirito Santo, che agli albori della Chiesa nascente ha rivelato a tutti i popoli il mistero nascosto nei secoli, e hai riunito i linguaggi della famiglia umana nella professione dell’unica fede ».
Ed è proprio alla forza dello Spirito che vorremmo affidarci per poter « balbettare » qualcosa di lui. Come si potrebbe infatti dire qualcosa di lui, se egli stesso non ci ammaestra? Infatti, « noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per riconoscere tutto ciò che Dio ci ha donato » (1 Cor 2,12).

« Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele »
A prescindere da tante altre osservazioni che potremmo fare, due mi sembrano particolarmente significative nel racconto in cui san Luca condensa e riepiloga tutto il significato del libro degli Atti; la prima è il voluto rimando alla pattuizione dell’alleanza ai piedi del Sinai1 e la seconda è la « novità » di questo immenso popolo di Dio (« Parti, Medi, Elamiti », ecc.) che nasce dalla potenza creatrice dello Spirito ed è composto degli abitanti di tutta la terra, al di là di ogni barriera di lingua e di razza.
È evidente il rimando alla scena del Sinai, in cui Dio pattuisce la sua alleanza di amore e di fedeltà con Israele sulla base delle « dieci parole », o decalogo: anche lì una scena di sommovimento, di clamore, di fiamme brucianti e di fuoco. « Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace. Tutto il monte tremava molto… Mosè parlava e Dio gli rispondeva con voce di tuono » (Es 19,18-19).
È chiaro che tutto questo linguaggio immaginifico ha più valore teologico che storico: sta cioè a significare la trascendenza e l’inaccessibilità di Dio che, pur tuttavia, si avvicina all’uomo per rinnovarlo e trasfigurarlo. Ogni contatto con Dio lascia le tracce del suo passaggio, come il fuoco che brucia e purifica, o come il tuono che si trascina dietro l’eco a rimbalzo del suo esplodere: la parola di Dio perfora la tardità di ascolto anche dei sordi!
Proprio a motivo di queste rassomiglianze sembra sicuro che san Luca abbia voluto presentare la Pentecoste cristiana come la « inaugurazione » ufficiale del « nuovo » patto di Dio con il suo popolo, quasi a ideale continuazione del vecchio patto del Sinai. In realtà anche in Israele, con l’andare del tempo, l’antichissima « festa delle settimane », che si celebrava cinquanta giorni dopo la Pasqua (di qui il nome greco « Pentekostés », cioè « cinquantesimo » giorno2) e che in origine era solo un rito agricolo (l’offerta delle primizie), aveva assunto il significato di celebrazione dell’alleanza e del « dono » della Legge che Dio aveva fatto al suo popolo.
Anzi, secondo la tradizione giudaica posteriore, ripresa anche da Filone,3 la voce di Dio, potente come il « tuono », risuonante in mezzo al « fuoco », si sarebbe allora come divisa e articolata in 70 « lingue », perché tutte le nazioni della terra potessero udire e comprendere la « legge » del Signore. Di qui forse la descrizione analoga di Luca: « Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posavano su ciascuno di loro; ed essi furono ripieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi » (At 2,3-4).
Se però c’è una certa analogia di situazioni, il significato e i contenuti della nuova « alleanza » di Dio con il suo popolo sono completamente diversi.
Qui non viene promulgata nessuna nuova legge, che pur sarebbe stata un grandissimo dono, ma viene dato solo lo Spirito, e dato in abbondanza, tanto che esso si rende clamorosamente visibile e percepibile, come una forma di contagio che afferra tutti. Lo Spirito Santo è la nuova « legge » del cristiano: dal di dentro egli, nella dolcezza e nell’amore, dirà a ciascuno quello che è bene e quello che è male e ci darà anche la forza per adempierlo.
È la realizzazione della grande profezia di Geremia: « Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò nel loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo » (Ger 31,33; cf anche Ez 36,25-27). Il dono dello Spirito produce necessariamente anche uno stile di vita « nuova »: è l’interiorità dell’uomo che viene valorizzata e chiarificata, al di là di tutti i comportamenti esterni, molte volte solo formalistici, o frutto di calcolo e di convenienza.
La « novità » fondamentale della Pentecoste cristiana, dunque, in rapporto a quella ebraica, è che Dio non è più presente in mezzo al suo popolo mediante il dono della « legge », che può ben anche dirsi una sua rappresentanza « vicaria », ma mediante « lo Spirito del Figlio suo » (cf Gal 4,6), cioè con la totalità di se stesso.

« Com’è che li sentiamo parlare la nostra lingua? »
E appunto per questo, anche il popolo nuovo che egli raduna intorno a sé non è più soltanto Israele, ma sarà formato da tutte le nazioni della terra. Perciò Luca ha interesse a presentarci i numerosi pellegrini, accorsi a Gerusalemme in occasione della festa della Pentecoste, come i rappresentanti dell’universalità delle nazioni, che Dio ormai chiama alla salvezza mediante l’annuncio fatto dagli Apostoli che egli ha « riempiti di Spirito Santo » (At 2,7-11).
Veramente, come si legge nell’antifona di ingresso, in una forma piuttosto adattata, « lo Spirito del Signore ha riempito l’universo; egli che tutto unisce, conosce ogni linguaggio » (Sap 1,7).
Comunque si voglia interpretare il prodigio delle « lingue », nella intenzione di Luca esso sta certamente a significare la forza « unificante » dello Spirito che porta tutti all’accettazione dell’unica fede. E lo Spirito opera contemporaneamente su due fronti: nel cuore e sulle labbra degli Apostoli, inebriati della sua presenza, che riescono a comunicare convincentemente il Vangelo della salvezza; nel cuore e nelle orecchie degli ascoltatori, che si aprono docilmente alla forza penetrante della Parola.
Cosicché « il parlare in lingue » continua prodigiosamente a verificarsi anche oggi, quando in tanti, da tutte le parti della terra, crediamo nell’identica verità rivelata e celebriamo insieme « le grandi opere di Dio » (cf v. 11), come commenta sant’Agostino: « Quella Chiesa così poco numerosa, che parlava tutte le lingue, era il simbolo di questa grande Chiesa che si estende dalle regioni dell’Oriente e dell’Occidente, e parla le lingue di tutti i popoli… Così noi siamo ancora in possesso del dono di parlare tutte le lingue, perché siamo le membra di un corpo in cui esse sono tutte parlate ».4
Non per nulla la tradizione patristica ha visto nella scena di Pentecoste l’antitesi della storia della torre di Babele (Gn 11,1-9), la cui lettura ci viene proposta anche dalla Liturgia per la Messa della vigilia della festività odierna.

« Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito »
La forza « unificante » dello Spirito, in ordine alla costituzione della Chiesa come « corpo di Cristo », è particolarmente messa in luce dalla seconda lettura, ripresa dalla prima Lettera di Paolo ai cristiani di Corinto.
Parlando dei « carismi », cioè di quei prodigiosi doni che Dio aveva suscitato nella comunità di Corinto in modo così ricco e variegato, l’Apostolo si preoccupa di regolarne l’uso in modo che servissero veramente per « costruire » la Chiesa e non per contrapporre gli uni agli altri, creando invidie, risentimenti, strani giochi di prestigio, quasi che fossero stati concessi per primeggiare e non piuttosto per servire.
Perciò san Paolo ne mette prima di tutto in evidenza l’origine dall’unico e identico Spirito: « Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune » (1 Cor 12,4-7).
Siamo dunque davanti a una « molteplicità » di doni e di servizi, che Dio dispensa alla sua Chiesa: egli è sempre originale, non vuole appiattire i credenti in un unico stampo. È così che nella Chiesa c’è posto per tutti, ognuno porta quello che ha di più tipico: ed è chiaro che per realizzare questa « tipicità », ognuno deve utilizzarsi fino in fondo! Il vivere « insieme » la nostra avventura di fede ci obbliga alla inventività e alla continua novità, e a dare il meglio di noi.
Però accanto alla molteplicità l’Apostolo sottolinea fortemente lo sforzo dell’ »unità »: « A ciascuno è data una manifestazione dello Spirito per l’utilità comune ». E per essere anche più convincente porta l’esempio del corpo umano: « Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo » (v. 12).
Il « molteplice » diventa un principio di dissoluzione dell’organismo, quando non tende a costruire il « tutto »: l’unità rende ricco il molteplice, perché gli permette di realizzare qualcosa che vale più delle singole parti. Così è nella Chiesa, che nasce solo nella misura in cui i singoli membri si trascendono per convergere in una fondamentale unità di fede, di amore e di opere: al di fuori di questo, i credenti sarebbero come atomi vaganti, incapaci di inserirsi nell’opera della salvezza e di testimoniare Cristo come « capo » del suo « corpo » che è la Chiesa.
Ma chi opera questo « raccordo » tra la « molteplicità » e la « unità » nella Chiesa è, per Paolo, lo Spirito, che nel giorno di Pentecoste operò il prodigio dell’ascolto, nella « lingua » di tanti, dell’unico messaggio della salvezza annunciato dagli Apostoli: i « magnalia Dei » sono percepibili dagli uomini al di là delle loro divisioni di lingua, di cultura, di razza, perfino di religione!
Perciò, quasi preoccupato che la pur doverosa affermazione del « particolare », che è in ogni carisma, possa nuocere al disegno di « unità » che si realizza nella Chiesa, san Paolo insiste nel far vedere come tutto in noi derivi dallo stesso e « unico » Spirito: « Nessuno può dire « Gesù è Signore » se non sotto l’azione dello Spirito Santo… E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati in un solo Spirito » (vv. 3.13). L’ortodossia della fede in Gesù come « Signore », la fedeltà al nostro Battesimo e alla nostra Confermazione, che è come il nostro « abbeveramento » (v. 13) alle sorgenti della grazia e della forza per la nostra lotta di ogni giorno, sono prodotte in noi dalla continua azione dello Spirito.

« Ricevete lo Spirito Santo »
E anche il potere che la Chiesa ha di « rimettere i peccati » viene dal « dono » dello Spirito, che Gesù alitò sopra i suoi discepoli la sera stessa di Pasqua, secondo il racconto del Vangelo di Giovanni di cui ci siamo in parte già occupati nella seconda Domenica di Pasqua: « Gesù disse loro di nuovo: « Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi ». Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: « Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi »" (Gv 20,21-23).
Ed è chiaro che anche questo « potere » tende essenzialmente a costruire, o a « ricostruire », la Chiesa. Niente, infatti, più del peccato disgrega la comunità dei credenti, che è essenzialmente comunità di amore e di grazia: il peccato è invece ribellione a Dio e chiusura verso i fratelli, Esso rappresenta, in concreto, una situazione di ostilità e di « rottura »: di qui il dono della « pace », offerto da Cristo nel momento stesso in cui « alita » sui discepoli la potenza dello Spirito.
Di nuovo, da questo testo di Giovanni appare che lo Spirito è dono soprattutto « ecclesiale » e che affidarsi a lui, senza paura e in piena docilità, è per la Chiesa una necessità e una ragione di vita. Solo così essa « ringiovanirà » e farà « ringiovanire » anche il mondo, sempre più infrollito nella decrepitezza del male e del peccato.

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola.

Van Gogh, Mulberry tree

 Van Gogh, Mulberry tree dans immagini varie Vincent+Van+Gogh+-+Mulberry+Tree+

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Publié dans:immagini varie |on 5 juin, 2014 |Pas de commentaires »

IL PARADISO COME LUOGO E COME STATO

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IL PARADISO COME LUOGO E COME STATO

Novembre 2012

Nel Nuovo Testamento la parola “paradiso” compare 276 volte e da quello che riferisce san Paolo, in merito al fatto che sarebbe stato “rapito nel terzo cielo” (2 Cor 12, 1-9), si deduce che il paradiso sia costituito da tre cieli. Posto che il terzo cielo, di cui non viene rivelata la collocazione, sia il luogo in cui abita Dio e in cui esistono “molti posti” che oltre che essere destinati ai santi dell’Antico Testamento Gesù ha promesso di voler preparare per i suoi veri seguaci (Gv 14,2), il primo cielo dovrebbe corrispondere probabilmente al firmamento ancora interno alla realtà o all’orbita terrestri, entro cui si formano le nuvole e volano gli uccelli, mentre il secondo cielo dovrebbe corrispondere all’intero universo extraterrestre regolato da leggi fisiche diverse da quelle che valgono per la terra, ovvero lo spazio interstellare e interplanetario ancora in gran parte sconosciuto (Gn 1, 14-18).
Ora, il terzo cielo o luogo dove abita Dio nel suo massimo splendore è anche il luogo in cui ha per cosí dire sede la vita eterna della quale potranno godere tutti coloro che, con la parola e con le opere, avranno creduto in Cristo (Gv 3, 16). L’apostolo Giovanni descrive in qualche modo la città di Dio che gli apparve in una visione (Apocalisse 21, 10-27) e parla di “nuovi cieli e nuova terra” in cui tutto sarebbe stato pieno della presenza stessa e della gloria di Dio (Apocalisse 21, 11) e dove quindi non ci sarebbe più stato né il sole né la luna né la notte ma una luce eterna quale quella di Dio (Apocalisse 22, 5). Il paradiso, dunque, in aderenza a quanto chiaramente si legge in questi testi, non è nulla di metaforico, nulla di puramente simbolico, nulla di vagamente spirituale, ma una nuova e concreta realtà fisica, dotata di un nuovo “spazio” e di una “temporalità” non più coincidente con quella da noi conosciuta, e infine di leggi psico-biologiche potenziate o integrate (o, al limite, semplificate) rispetto a quelle terrene. Dopo gli ultimi tempi, quelli che precederanno e preannunceranno la fine del mondo, i cieli e la terra attuali si dissolveranno per essere sostituiti dai nuovi cieli e dalla nuova terra sotto i quali e sulla quale abiterà la nuova e rigenerata umanità tra le mura della nuova Gerusalemme, la città di Dio, una città senza confini e solo delimitata da mura funzionali a tenerla separata dalla città del diavolo o inferno in cui saranno precipitati i dannati. Questa città avrà porte di perla e strade d’oro come scrive l’apostolo Giovanni e sarà proprio un luogo fisico ben preciso in cui dimoreranno i corpi fisici glorificati, a cominciare da quello di nostro Signore Gesù Cristo e di sua Madre Maria, di tutti coloro che riceveranno in premio la vita eterna.
Ovviamente sia il concetto di un “cielo” che sarebbe “tra le nuvole” sia quello per cui noi saremo “spiriti fluttuanti nel cielo” non ha alcun fondamento biblico. Il cielo, il paradiso celeste, che i credenti potranno sperimentare sarà invece un nuovo, bellissimo e perfetto pianeta, dove non ci sarà più spazio per il peccato, per il male, per le malattie, per le sofferenze e per la morte. E’ probabile che la nuova terra di Dio sarà molto simile alla nostra terra attuale oppure una nuova creazione del nostro attuale pianeta su cui però non incomberà più la maledizione del peccato e di cui saranno conservate e valorizzate solo le realtà umane e spirituali che saranno state gradite a Dio
Nella mentalità ebraica, la parola “cieli” denotava sia lo spazio cosmico che la dimensione propria della dimora divina. Perciò, quando Giovanni in Apocalisse 21, 1, parla di “nuovi cieli”, probabilmente vuole significare che l’intero universo sarà ricreato. Certo, per quanto la descrizione giovannea sia piuttosto eloquente e significativa, la realtà paradisiaca resta molto al di sopra delle umane capacità di descrizione e immaginazione (1 Cor 2, 9). Ma da tale descrizione emerge come dato certo il fatto che la realtà paradisiaca – che subentrerà allorquando, come scrive san Pietro nella sua seconda lettera al capitolo 3, «i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta» –, è un luogo e non solo uno stato spirituale, stato spirituale che sarebbe peraltro non solo soggettivamente impensabile ma anche oggettivamente insussistente senza una qualche spazialità e una qualche corporeità; che in questo luogo non ci saranno più lacrime, dolore e morte, e che infine la cosa più grandiosa che gli esseri umani potranno gustare in esso sarà la possibilità di essere “faccia a faccia con Dio” e di vivere per l’eternità in compagnia dell’Agnello di Dio che ci ha amati da sempre con e per il Padre immolandosi per la nostra salvezza (Apocalisse 20, 6; Apocalisse 21, 4; 1 Giovanni 3, 2).
Pertanto, il credere che esista una casa celeste nel paradiso, una casa vera, reale, fisica, materiale, non astratta e meramente “spirituale”, si basa su concetti biblici e più segnatamente neotestamentari assolutamente inequivocabili e irriducibili ad interpretazioni cosí puramente spiritualistiche da implicare di fatto una dissoluzione della nostra vita corporea, psichica, sensoriale, della nostra stessa identità personale, nel nulla. Che noi vivremo, con questo corpo e con questa anima che ci ritroviamo adesso in questo mondo, sia pure sapientemente rinnovati dalla nuova creazione di Dio, è una promessa esplicita di Gesù. Il paradiso, di cui egli stesso ha parlato, è certamente un posto vero, non puramente simbolico, anche perché se non fosse un posto, un luogo, una realtà dotati di una loro concreta e specifica materialità, non si capirebbe più il senso della risurrezione di Cristo, il suo apparire a Maddalena, la sua presenza tra gli apostoli chiusi in una casa e una presenza che Egli voleva talmente affermare nella sua non illusorietà e nella sua effettiva veridicità da chiedere esplicitamente a Tommaso di toccare il suo corpo e di verificare che le sue ferite fossero proprio quelle riportate a causa della crocifissione.
Il Signore ha detto al malfattore pentito: oggi stesso sarai con me in paradiso, e non gli ha certo detto cosí semplicemente per dargli ad intendere che da lí a poco sarebbe cambiata solo la sua condizione spirituale! Il Signore, che appare da risorto agli apostoli sulla riva del lago, chiede di voler mangiare del pesce con loro, per fare loro capire che chi risorge, come lui e con lui, non è “un fantasma”, ovvero uno spettro, un’immagine spirituale priva di consistenza vitale, ma è una persona fisica vera benché tutte le sue qualità fisico-corporee, psichiche e mentali, sussistano ormai “glorificate” ovvero esaltate ulteriormente rispetto alla loro forma terrena.
Le promesse di Gesù devono essere interpretate per quello che sono, ovvero nel loro estremo realismo, e non per quello che vorrebbe un certo sapere teologico, tendenzialmente intellettualistico e apparentemente umile ma sostanzialmente incredulo o dubbioso, che è sempre tentato di trasformare le cose più semplici ed elementari della Parola di Dio in fumisterie metafisiche assolutamente irrealistiche e inattendibili. Gesù non ci ha chiesto di servirlo con fedeltà e zelo per niente, per illuderci circa una vita futura veramente e sensibilmente diversa da quella attuale. Avere paura di sostenere ed affermare apertamente l’esistenza fisica, corporea, materiale del paradiso che ci attende, significa semplicemente dimostrare di non credere sul serio né nella promessa di Cristo né in Cristo stesso.
Ecco perché vale davvero la pena di coltivare quaggiù una fede quanto più possibile coerente e solerte secondo le esortazioni della “Lettera agli ebrei”: «Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso. Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone. Non disertiamo le nostre riunioni, come alcuni hanno l’abitudine di fare, ma esortiamoci a vicenda, tanto più che vedete avvicinarsi il giorno del Signore» (10, 19-25). Ecco perché faremmo bene quaggiù a non far finta di non capire e ad eseguire i veri comandi di Dio: perché il mondo di là da venire ma che è già in mezzo a noi non è un mondo ideale, immaginario, irreale, immaginario, metaforico, simbolico, incorporeo, astratto, spiritualmente evanescente, ma è un mondo di perfetta spiritualità in quanto tutte le esigenze del corpo, della psiche, della carne potranno essere finalmente e gioiosamente soddisfatte nei modi originari decretati dal Padre celeste non per l’infelicità ma per la felicità più piena e abbondante possibile delle sue creature.
Né, d’altra parte, si dovrà credere nel paradiso solo in via scaramantica. Come dire: conviene crederci perché non si sa mai…Se non si è capaci di amare con tutte le forze gli insegnamenti di Gesù, di seguirne con tutto il cuore l’esempio, addossandosi le proprie croci per amore e non per semplice rassegnazione, è impossibile credere realmente in lui e nelle sue promesse tra cui quella relativa alla nostra eterna felicità in un luogo delizioso perché perennemente e totalmente inondato della luce di Dio. San Paolo incoraggiò i Corinzi a sperare in una loro dimora celeste e quindi ad avere radicalmente fede in Cristo per dare loro la necessaria prospettiva in cui fosse loro possibile sopportare difficoltà, amarezze e delusioni di questa vita (2 Cor 5, 1-4): «Perché la nostra momentanea, leggera afflizione», egli spiega, «ci produce un sempre più grande, smisurato peso eterno di gloria, mentre abbiamo lo sguardo intento non alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono; poiché le cose che si vedono sono per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne» (2 Cor 4, 17-18).
Certo, la via o la porta che introduce nel paradiso è “stretta”, proprio nel senso delle ristrettezze esistenziali che la fede in Gesù viene implicando, proprio nel senso di una lotta necessaria da intraprendere cristianamente ogni giorno contro ogni forma e ogni genere di peccato, come la smania di possesso, di ricchezza, di grandezza, o contro il vizio della lussuria e di ogni perversione che vi sia connessa. Su quella via si può procedere e da quella porta si potrà passare solo credendo in Cristo e implorandone sinceramente e costantemente il perdono dei peccati non solamente per mezzo di un pentimento interiore e della riconciliazione sacramentale ma anche e soprattutto per mezzo di un reiterato sforzo di compiere opere buone verso i fratelli nel comune vincolo della fede e dell’amore a Dio.
E’ importante chiarire che, se il paradiso cristiano non è un paradiso “materialistico” come quello islamico e musulmano, esso non è neppure cosí immateriale ed etereo come immaginava Dante Alighieri, il quale peraltro parlava dell’inferno e del purgatorio come di realtà fisiche concrete. Da quali specifici passaggi biblici i cristiani in genere si siano sentiti autorizzati nel corso dei secoli a ritenere rispettivamente l’inferno e il purgatorio anche dei luoghi fisici di sofferenza e di purificazione e a considerare invece il paradiso prevalentemente o esclusivamente come una condizione spirituale in cui i sensi e la stessa sensibilità intellettiva e morale dei risorti in Cristo tenderebbero a non sussistere più come tali perché ormai assorbiti e annullati in una visione estatica puramente spirituale di Dio e non invece ad essere semplicemente e sia pure profondamente cambiati e rinnovati nella e dalla gloriosa trasfigurazione paradisiaca cui sono destinati gli stessi risorti in Cristo, è veramente un mistero.
Innanzitutto, non si capisce perché inferno e purgatorio possano essere riconosciuti nella loro condizione di luoghi oltre che di spirito, mentre il paradiso dovrebbe sussistere solo in termini di stato spirituale. Ma, in realtà, ancora oggi si tende ad equivocare, tra i cattolici, sul senso di quella incorporeità o immaterialità dell’essere stesso di Dio e sul senso eminentemente spirituale della risurrezione e quindi della nostra vita eterna in cielo. Dio non è incorporeo e immateriale nel senso che non si possa manifestare anche come materia ma nel senso che, pur potendo assumere una forma umana e quindi anche biologica e materiale come paradigmaticamente è accaduto nella persona storica di Gesù, Egli non può essere ridotto a materia in quanto la materia per essere ha bisogno del suo Spirito, cosí come il principio vitale di tutto ciò che è materia o ha forma materiale è un principio di natura spirituale, e cosí come infine è o deve essere di natura eminentemente spirituale il fine o lo scopo di tutte le nostre attività fisiche e materiali, quali sono quelle che si riferiscono ai cinque sensi e all’attività intellettiva e contemplativa. Non si comprende perché il Signore, che ci ha creato con cinque sensi, nella nostra seconda, ultima e vera vita dovrebbe privarci di essi. E’ sensato pensare che quegli stessi uomini che hanno lottato per tutta la vita terrena contro il peccato ma nel senso di voler liberare i loro stessi organi di senso dalla zavorra del peccato, una volta giunti in paradiso si scoprano mutilati e non semmai potenziati rispetto a quei doni che, anche in termini fisico-sensoriali, avevano potuto sperimentare nel mondo terreno?
Ma Gesù risorto e trasfigurato è o non è una persona che parla, che ragiona regolarmente, che pur essendo ormai “puro spirito” è tuttavia ancora presente “in carne ed ossa” e capace anzi di rivendicare la sua corporeità davanti allo sguardo turbato e commosso di Tommaso, che è capace di mangiare e gustare un pezzo di pesce arrostito per far capire tra l’altro che i risorti in Cristo possano ancora mangiare, che ha gli stessi sentimenti di amore verso tutti coloro che lo avevano seguito (e lo avrebbero seguito anche successivamente) sia pure in una dimensione umana ora letteralmente impregnata di potenza e gloria divine? Questo Cristo è lo stesso che oggi e per l’eternità dimora in paradiso. Lo stesso ragionamento vale per la sua santissima Madre e per tutti i beati dei nuovi cieli e della nuova terra di Dio. E’ vero o non è vero tutto questo? E se è vero perché, nel nome di una malintesa spiritualità, si continua a parlare ambiguamente del cielo, del paradiso, come di una bellissima e meravigliosa condizione di vita ma di natura puramente spirituale?
Certo che la vita dei risorti sarà una vita eminentemente spirituale! Ma nel senso che essi sono “corpi spirituali o pneumatici”, come dice san Paolo, e non più “corpi carnali” abituati sulla terra ad essere soddisfatti in modo spesso carnale per l’appunto ovvero in modo peccaminoso oppure parziale oppure imperfetto; non certo nel senso che adesso la vista o visione contemplativa di Dio non possa avere più nulla di fisico, o che il banchetto celeste con “i cibi succulenti e i vini raffinati”, di cui parla la bibbia e a cui si ripromise di partecipare Gesù stesso poco prima di essere crocifisso, debba essere inteso in senso puramente simbolico. Quel che non si vuole capire, forse anche o proprio per mancanza di fede, è che la gioia del paradiso, promessa da Cristo, è una gioia piena, integrale, e che la felicità della vita eterna che lí sarà concessa è una felicità da intendersi come godimento dell’anima e del corpo, dello spirito e dei sensi, naturalmente all’interno di un mondo regolato dalla perfetta giustizia di Dio secondo la quale tale godimento non possa più degenerare negli eccessi, negli abusi, nelle deformazioni e nei vizi propri di una esistenza puramente terrena.
Si deve poi precisare che tutti in cielo saranno felici ma ognuno lo sarà in modo e in grado diversi, a seconda dei meriti che a ciascuno Dio vorrà riconoscere in base alle opere compiute sulla terra. E, siccome sulla questione in oggetto si continua oggi a polemizzare, sia all’interno della Chiesa (vedi, ad esempio, i seguaci di monsignor Lefebvre) sia all’interno di taluni ambienti intellettuali laici (vedi, ad esempio, il professor Odifreddi), nei confronti di papa Giovanni Paolo II, reo secondo costoro di aver negato il paradiso come luogo per affermarlo come semplice stato spirituale, è forse opportuno ricordare le parole del pontefice polacco: «Alla raffigurazione del cielo, quale dimora trascendente del Dio vivo, si aggiunge quella di luogo a cui anche i credenti possono per grazia ascendere, come nell’Antico Testamento emerge dalle vicenda di Enoc (cfr Gn 5, 24) e di Elia (cfr 2 Re 2, 11). Il cielo diventa cosí figura della vita in Dio. In questo senso, Gesù parla di “ricompensa nei cieli” (Mt 5, 12) ed esorta ad “accumulare tesori nel cielo” (ivi 6, 20; cfr 19, 21)» (G. P. II, Udienza Generale del 21 luglio 1999).
E’ anche vero che lo stesso pontefice, parlando dell’inferno, afferma che esso «sta ad indicare più che un luogo, la situazione in cui viene a trovarsi chi liberamente e definitivamente si allontana da Dio, sorgente di vita e di gioia» (Udienza Generale del 28 luglio 1999), ma l’espressione “più che un luogo” non può essere interpretata come negazione del fatto che l’inferno sia anche un luogo, significando essa semplicemente che, per quanto riguarda l’inferno, deve preoccupare non tanto il luogo in cui si sarà costretti a scontare per l’eternità la propria condanna quanto la condizione spirituale di assoluta lontananza da Dio. Che, mi pare, è una posizione del tutto condivisibile e legittima.

DOVE ABITA DIO ?

http://camcris.altervista.org/spurgeon11.html

DOVE ABITA DIO ?

di C. H. Spurgeon

Sermone esposto da Charles H. Spurgeon, domenica mattina 14 agosto 1859,

nella Music Hall, Royal Surrey Gardens, Londra.

« E in lui voi pure entrate a far parte dell’edificio, che ha da servire di dimora a Dio per lo Spirito » (Efesini 2:22).

Leggendo l’Antico Testamento notiamo che durante la dispensazione mosaica Dio aveva una dimora visibile tra gli uomini. La brillante nuvola che appariva tra le ali dei cherubini sovrastanti il propiziatorio e nel tabernacolo mentre Israele pellegrinava nel deserto e dopo, nel tempio, quando il popolo si stabilì nella propria terra, era la manifestazione visibile della presenza di Dio nel luogo consacrato al Suo culto. Ma ogni cosa della dispensazione mosaica era un tipo, una figura, una serie di ombre, delle quali l’Evangelo è la realtà e la sostanza. È triste, tuttavia, constatare che spesso nei nostri cuori abbiamo ancora molto del vecchio giudaesimo, al punto che, frequentemente, torniamo ai vecchi e meschini elementi della legge, invece di proseguire e considerarli un tipo di qualcosa di spirituale e di celeste al quale dovremmo aspirare. È penoso in questo nostro secolo ascoltare come la gente parla degli edifici religiosi; avrebbero fatto molto meglio ad aderire immediatamente al credo giudaico. Ricordo di aver ascoltato un sermone sul testo: « Se uno guasta il tempio di Dio, Iddio guasterà lui » e la prima parte del sermone consisteva in una puerile maledizione contro chiunque avesse osato commettere un atto profano nel cortile della chiesa, o se avesse appoggiato il palo di una tenda durante la fiera della settimana seguente contro qualche parete di quell’edificio che mi sembrò come l’idolo dell’uomo che occupava il pulpito. Esiste da qualche parte un luogo santo? C’è un luogo sulla terra dove Dio abiti in modo particolare? Io non l’ho mai incontrato. Ascoltate le parole di Gesù: « Credimi, l’ora vene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre… Ma l’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché tali sono gli adoratori che il Padre richiede ».
Ricordate le parole dell’apostolo Paolo ad Atene: « Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi fatti da opera di mano ».
Quando la gente parla di luoghi santi sembra ignorare il significato vero di ciò che dice. Può mai la santità abitare in mattoni e malta? Può esistere mai un campanile santo? Può accadere che esistano nel mondo una finestra moralmente elevata ed una porta santa? Rimango incredulo e sorpreso, anzi totalmente stupito se penso a quanto confuse sia la mente di coloro che attribuiscono virtù morali a mattoni e malta, a pietre e vetrate ornate. Quanto è profonda questa consacrazione e quanto elevata? Ogni cornacchia che vola su quell’edificio acquista una certa solennità? Quello di cui stiamo parlando è, se trattiamo l’argomento in maniera più approfondita, un errore nel quale possiamo cadere, ma è un errore talmente stravagante per cui tutti possiamo facilmente commetterlo. Abbiamo rispetto per i nostri semplici locali di culto, ci sentiamo confortevoli quando, in un modo o in un altro, pensiamo che il luogo deve essere santo.
Perciò, con grande decisione ed indipendenza di pensiero abbandoniamo per sempre l’idea che la santità è connessa con qualsiasi cosa che non sia un agente cosciente ed attivo. Abbandoniamo totalmente tutte le superstizioni collegate ai luoghi. Un luogo è altrettanto consacrato che un altro e dovunque ci raduniamo con vero cuore per adorare Dio, quel luogo diviene per quell’occasione la casa di Dio. Per quanto possa essere considerato con grande rispetto religioso, quel luogo, quando non c’è un cuore devoto che adora Dio, non è la casa di Dio; può essere una casa di superstizione, ma non la casa di Dio. Ma qualcuno obietterà: « Dio dovrà pur avere una dimora, il nostro testo non l’afferma? » Sì, certamente e di quella dimora parleremo. Esiste una casa di Dio; non è una struttura inanimata ma un tempio spirituale e vivente: « In lui », cioè in Cristo, « voi pure entrate a far parte dell’edificio, che ha da servire di dimora a Dio per lo Spirito ». La casa di Dio è edificata con pietre viventi di uomini e donne convertite. La Chiesa di Dio, che Cristo ha acquistato col proprio sangue, questo è l’edificio divino e la struttura nella quale Dio dimora anche oggi. Vorrei, tuttavia, fare una considerazione riguardante i luoghi nei quali offriamo il culto. Essi non posseggono una santità superstiziosa connessa con le strutture, ma nello stesso tempo esiste un tipo di sacralità collegata con la comunione con Dio. In qualsiasi luogo dove Dio ha benedetto l’anima mia, credo che sia nient’altro che la casa di Dio e la porta del cielo. Non perché le pietre siano santificate, ma perché mi sono incontrato con Dio ed il ricordo che ne ho lo rende consacrato per me. Quel luogo dove Giacobbe si adagiò per dormire, che era in quella circostanza la sua camera di riposo, fu per lui non altro che la casa di Dio. Spero che abbiate delle stanze nella vostra casa e « camerette », che sono più sacre di una qualsiasi maestosa cattedrale con le punte slanciate verso il cielo. Dove c’incontriamo con Dio si manifesta questa sacralità, non è il luogo ma la comunione con Lui. Dove restiamo in comunione con Dio e dove Egli stende il Suo braccio, sia questo luogo una capanna o un filare o una brughiera o una montagna, diviene per noi la casa di Dio; il luogo è immediatamente consacrato, non però per considerarlo con riverenza superstiziosa, ma soltanto consacrato nel ricordo delle ore benedette che lì abbiamo speso in preziosa comunione con Dio.
Lasciando da parte queste considerazioni permettetemi di introdurvi nella casa che Dio ha costruito per la Sua dimora. Considereremo la Chiesa prima di tutto come un edificio, poi come una dimora ed infine come un tempio.
Consideriamo, prima di tutto, la Chiesa come un EDIFICIO e chiediamoci che cos’è una chiesa, che cos’è la Chiesa di Cristo? Una setta riserva per sé il titolo di chiesa mentre un’altra denominazione con veemenza lotta per appropriarsene, ma non appartiene a nessuno di noi. La Chiesa di Dio non è composta da alcuna denominazione umana particolare, ma da coloro i cui nomi sono scritti nel libro dell’eterna elezione divina; da coloro che sono stati acquistati da Cristo sulla croce, che sono stati chiamati da Dio mediante lo Spirito Santo e che, essendo stati vivificati da quello stesso Spirito, sono partecipi della vita di Cristo e divengono membri del Suo corpo, della Sua carne, delle Sue ossa. Queste si trovano in ogni denominazione, tra ogni tipo di cristiani, alcuni lontani, dei quali neanche sogniamo l’esistenza. Troviamo qui e là, come per caso, un membro della Chiesa di Cristo, senza alcun contatto con una setta in particolare, lontano dai suoi fratelli, non avendone neppure conosciuto l’esistenza e che pur tuttavia ha conosciuto Cristo, perché la vita di Cristo è in lui. Questa Chiesa di Cristo, il popolo di Dio, in tutto il mondo, con qualsiasi nome sia essa conosciuta è nel nostro testo paragonata ad un edificio nel quale Dio dimora.
Permettetemi una piccola allegoria riguardante questo edificio. La Chiesa non è un mucchio di pietre collegate insieme, è un edificio. Il suo architetto l’ha progettato anticamente. Immagino di scrutare nell’eternità e vederlo disegnare il primo schizzo. « Qui », dice nella Sua sapienza eterna, « ci sarà la pietra angolare e lì il pinnacolo ». Lo vedo stabilire la lunghezza e la larghezza della costruzione e le porte con eccezionale abilità, progettando ogni particolare senza lasciare neanche una piccola parte non disegnata. Lo immagino, quel potente architetto, mentre sceglie personalmente ogni pietra dell’edificio, stabilendone la grandezza, la forma e perfino la posizione che deve occupare, se dovrà brillare sulla facciata o nascosta nel retro o sepolta al centro del muro. Immagino non soltanto il progetto di massima, ma tutti i particolari, tutti in ordine, stabiliti da un patto eterno, che è il piano divino del potente architetto sul quale la chiesa doveva essere costruita. Scrutando ancora, vedo quell’Architetto scegliere la pietra angolare. Guarda in cielo e ci sono gli angeli, quelle pietre lucenti, osserva ciascuno di loro, ma dice: « Nessuno di loro è adatto. Debbo trovare una pietra angolare che sostenga il peso dell’edificio, perché tutto deve poggiarvi sopra ».
Tuttavia, già nell’eternità bisognava trovare una pietra e doveva essere presa dalla stessa cava delle altre. Dove doveva esser trovata? Dove era l’uomo adatto per fungere da pietra angolare di tale maestoso edificio? No, né gli apostoli, né i profeti, né i dottori erano adatti. Messi tutti insieme sarebbero stati come un fondamento di sabbia e la casa avrebbe vacillato e sarebbe caduta. Ecco come la mente divina risolse il caso: « Dio diverrà uomo, vero uomo, Egli sarà della stessa sostanza delle altre pietre del tempio, ma sarà anche Dio e perciò forte abbastanza per portare il peso di quest’immensa struttura la cui cima raggiungerà il cielo ». Immagino di vedere la posa in opera della pietra del fondamento; si assisterà ad una manifestazione di giubilo? No, vi sarà del pianto. Gli angeli si radunano intorno alla pietra che è stata posta, ed ecco gli angeli piangono, le arpe del cielo sono coperte di sacco e non si ode alcun canto. Avevano cantato di gioia quando il mondo fu creato, perché non cantano ora? Guardate e ne comprenderete la ragione. Quella pietra è imbevuta di sangue, quella pietra angolare deve essere coperta di sangue. Quel cemento vermiglio che esce dalle vene sante deve saturarla. Lì è deposta la prima pietra dell’edificio divino. Cominciate di nuovo a cantare o angeli del cielo. La pietra del fondamento è posta, la cruenta cerimonia è completata ed ora da dove raccoglieremo le pietre per costruire questo tempio? La prima pietra è al suo posto, dove sono le altre? Scaveremo ai lati del Libano? Cercheremo queste pietre preziose delle cave di marmo dei re? NO, dove correte voi operai di Dio? Dove andate? Dove sono le cave? Essi rispondono: « Andremo a scavare nelle cave di Sodoma e Gomorra, nella profondità della peccaminosa Gerusalemme, in mezzo alla Samaria errante ». Li vedo togliere il terriccio, mentre scavano profondamente nella terra e alla fine giungono a quelle pietre; ma quanto sono grezze e ruvide, quanto sono dure, quanto irregolari. Sì, ma sono le pietre elette da tanto tempo con un patto e queste devono essere le pietre e non altre. Devono essere modificate, devono essere raccolte, lavorate allo scalpello, lucidate ed infine messe al loro posto. Vedo gli operai all’opera. La dura scure della legge le taglia e poi viene il cesello lucidatore dell’Evangelo. Vedo le pietre messe al loro posto e la Chiesa che è edificata. I ministri come saggi costruttori corrono intorno al muro per mettere ogni pietra spirituale al suo posto; ogni pietra è poggiata sulla grande pietra angolare e ogni pietra dipende dal sangue e trova sicurezza e forza in Gesù Cristo, la Pietra angolare « eletta e preziosa ». Non vedete anche voi l’edificio che si va innalzando, ed ognuno degli eletti da Dio sono raccolti, chiamati per grazia e vivificati? Notate come le pietre viventi con amore santo ed in sacra fratellanza sono collegate insieme? Siete mai entrati in quell’edificio per vedere come quelle pietre poggiano una sull’altra portando il peso una dell’altra e così adempiendo la legge di Cristo? Considerate come la Chiesa ami Cristo e come i suoi membri si amino? Come prima di tutto la Chiesa è legata alla Pietra angolare ed ogni pietra unita a quella più prossima e la prossima alla vicina finché l’edificio diventa un’unità? Ecco, la struttura si eleva ed alla fine è completata. Ed ora aprite bene gli occhi vostri e mirate quale glorioso edificio è la Chiesa di Dio. Gli uomini parlano dello splendore delle loro architetture, questa è veramente architettura. Non secondo i modelli greci o gotici, ma secondo il modello del santuario che Mosè vide sul monte santo. C’è stata mai struttura tanto attraente come questa, pulsante di vita in ogni atomo? Su ogni pietra ci sono sette occhi e tutte sono piene d’occhi e di cuori. Era stato mai pensato un edificio così massiccio costituito da anime, una struttura formata da cuori umani? Non c’è altra abitazione per il riposo che quella del cuore. Lì l’individuo può trovare pace col suo simile; ma c’è una casa dove Dio si diletta di abitare, costruita con cuori viventi che pulsano d’amore santo; costruita con anime redente, scelte dal Padre, acquistate dal sangue di Gesù Cristo. La parte superiore di questo edificio è in cielo, una parte dei credenti dimora già oltre le nuvole. Molte delle pietre viventi dimorano ora nel pinnacolo del paradiso. Noi invece siamo qui, ma la costruzione s’innalza, la muratura sacra diviene sempre più imponente, mentre anche la pietra angolare si eleva, così tutti noi edifichiamo finché alla fine l’intera struttura dalle sue fondamenta, fino al pinnacolo, raggiungerà il cielo e vi rimarrà per sempre: la nuova Gerusalemme, il tempio della maestà di Dio.
Riguardo a questo edificio desidero fare qualche altra considerazione prima di passare al punto successivo. Quando gli architetti progettano un edificio commettono degli errori nel formularne il piano. I più diligenti omettono qualche particolare ed altri più dotati scoprono che qualcosa è sbagliato. Ma notiamo che la Chiesa di Dio è costruita secondo regole precise, con compasso e con regoli ed alla fine non si potrà trovare alcun errore. Forse fratello sei una pietra piccina nel tempio e pensi che avresti dovuto essere più grande. Però, non è stato commesso alcun errore. Hai un solo talento: è abbastanza, se ne avessi due rovineresti la costruzione. Forse sei stato messo in un angolo, nascosto e dici a te stesso: « Oh, se fossi in una posizione preminente ». Invece, se fossi maggiormente in evidenza staresti fuori posto ed una pietra fuori posto nell’architettura tanto delicata come quella divina, rovinerebbe tutto. Ti trovi dove dovresti essere e restaci. Siine certo non c’è un errore. Quando infine percorreremo la via intorno alle mura dell’edificio, noteremo le torri ed ognuno sarà indotto ad esclamare: « Quanto è gloriosa Sion! ». Quando i nostri occhi saranno illuminati ed i nostri cuori istruiti, ogni parte di questo edificio riceverà la nostra ammirazione. La pietra più alta non è il fondamento, né quest’ultimo può stare in cima. Ogni pietra è della forma giusta, del giusto materiale e la struttura intera si adatta perfettamente al suo scopo: la gloria di Dio, il tempio dell’Altissimo. In quest’edificio di Dio si riconosce la Sapienza infinita.
Bisogna riconoscere anche un altro particolare: la sua forza inespugnabile. Quest’abitacolo di Dio, questa casa non è il prodotto di mano d’uomo, ma è l’edificio di Dio che è stato attaccato spesso, ma mai espugnato. Moltitudini di nemici hanno assalito i suoi antichi bastioni, ma li hanno attaccati invano: « I re della terra si ritrovano e i principi si consigliano assieme » ma che cosa è accaduto? Si sono coalizzati contro a lei, ognuno di loro con uomini potenti, ognuno con la sua spada sguainata, ma che cosa è successo? L’Eterno li ha dispersi. Come neve dispersa sui monti da una tempesta improvvisa, così si sono dileguati, o Dio e si sono sciolti davanti all’alito delle nostre narici.
La Chiesa non è in pericolo e non lo sarà mai. Vengano anche i nemici ma può resistere. La sua maestosa staticità, il suo silenzio come roccia li spinge a sfidarla. Vengano ora e siano distrutti, si scaglino pure contro di lei ed imparino che quella è la via per la loro immediata distruzione. Ella è salva e sarà salva fino alla fine. Perciò, questo possiamo affermare riguardo alla sua struttura, è costruita con sapienza infinita ed è sicuramente inespugnabile.
Infine, è gloriosa nella sua bellezza. Non è mai esistita una costruzione simile. Gli occhi si possono rallegrare dall’alba al tramonto, rimirandola per poi iniziare di nuovo. Gesù stesso si diletta in lei. Dio si è compiaciuto nell’architettura della Sua Chiesa; Egli si è rallegrato della Chiesa come non ha mai fatto del mondo. Quando Dio creò il mondo, elevò i monti e scavò i mari. Coprì le vallate con l’erba, creò tutti gli uccelli del cielo e tutte le bestie della campagna e fece l’uomo alla Sua propria immagine. Quando gli angeli videro il risultato, cantarono insieme e si rallegrarono, ma Dio non cantò. Non c’era un tema tanto importante per cantare per Lui che è « Santo, Santo, Santo ».
Egli poté soltanto dire che « era molto buono », era però la bontà dell’idoneità non quella della santità. Ma quando Dio edificò la Chiesa allora cantò e quello è da considerare uno dei passi più straordinari di tutta la Bibbia, quando Dio è descritto mentre canta: « L’Eterno il tuo Dio, è in mezzo a te, come un potente che salva; egli si rallegrerà con gran gioia per via di te, si acquieterà nell’amor suo, esulterà per via di te con gridi (canti) di gioia » (Sofonia 3:17). Fratelli, pensate a Dio stesso che rimirando la Sua Chiesa, così bella e preziosa nella sua struttura, si rallegra e manda canti di gioia per l’opera Sua, mentre ogni pietra è messa al suo posto. La Divinità stessa canta. È stato mai composto un canto simile a quello? Oh, cantiamo, esaltiamo insieme il nome di Dio, lodate Colui che loda la Chiesa, costituita come Sua dimora particolare!
Ma la vera gloria della Chiesa di Dio consiste nel fatto che non soltanto è un edificio, ma è una DIMORA. Possiamo notare una grande bellezza in una struttura inabitata, ma rimane sempre una venatura di malinconia. Viaggiando nel nostro paese, spesso incontriamo qualche torre smantellata o qualche castello diroccato. Sono costruzioni attraenti. ma non c’è segno di gioia, anzi soltanto qualche dolorosa riflessione. Chi desidera osservare dei palazzi desolati? Chi ama vedere la terra svuotata dei suoi figli e le sue case senza abitanti? C’è però gioia in una casa illuminata ed ammobiliata, dove si sentono le grida dei fanciulli. Diletti, la Chiesa di Dio ha questa particolarità della quale gloriarsi, che è una casa abitata, che è la dimora di Dio per lo Spirito. Quante chiese sono soltanto case ma non dimore! Potrei presentarvi una chiesa di Dio formale, che è stata costruita con squadra e compasso, ma il suo modello ha copiato qualche credo antico, non la Parola di Dio. È precisa nella sua disciplina, secondo le proprie norme ed accurata in tutte le osservanze secondo il proprio modello. Quando entrate a far parte di quella chiesa, la cerimonia è imposta, l’intero culto forse vi attrae per un pò, ma uscirete da quel luogo consci che non avete incontrato la vita di Dio, che è una casa, ma senza inquilino. Può essere una chiesa professante, ma non è dimora del Santo; è una casa vuota che presto sarà dilapidata e cadrà. Temo che questa sia la fine di molte nostre chiese, istituzionalizzate o indipendenti. Esistono troppe chiese che non sono altro che un mucchio di formalismo morto e deprimente, dove non v’è la vita di Dio. Potete andare ad adorare con tali persone, giorno dopo giorno e il vostro cuore non palpiterà mai, il vostro sangue non scorrerà mai più velocemente nelle vostre vene, l’anima vostra non sarà mai arricchita, perché si tratta di una casa vuota. L’architettura dell’edificio può essere attraente, ma essendo vuota è soltanto un deposito; non c’è una mensa apparecchiata, non c’è gioia, non è stato « ucciso il vitello ingrassato », non c’è il canto di allegrezza. Diletti facciamo attenzione che anche le nostre comunità non divengano così, che non diveniamo un insieme di persone senza vita spirituale e di conseguenza case disabitate, perché Dio non le abita più. Ma una vera chiesa, che è visitata dallo Spirito di Dio, dove la conversione, l’istruzione e la devozione sono ugualmente presenti per l’influenza vitale e propria dello Spirito Santo: una Chiesa siffatta è la dimora di Dio.
Consideriamo ora questo amabile tema. Una chiesa costituita d’anime viventi è la dimora propria di Dio. Cosa voglio affermare? Una casa è il luogo dove un individuo trova serenità e si ristora. Fuori combattiamo col mondo, là abbiamo ogni nervo in tensione per mantenere la rotta in mezzo ad un mare in tempesta e non essere trascinati via. Fuori, tra la gente, incontriamo coloro che parlano un linguaggio diverso dal nostro, che spesso, rapidamente, colpiscono e feriscono i nostri cuori. Perciò dobbiamo stare in guardia e spesso ripetiamo: « L’anima mia è in mezzo ai leoni, dimora tra gente che vomita fiamme ». Nel mondo che ci circonda abbiamo poco riposo, ma finita la giornata andiamo a casa e qui troviamo requie. Il nostro corpo è ristorato. Mettiamo da parte l’armatura che abbiamo indossato e non combattiamo più. Non abbiamo davanti a noi dei visi estranei, ma occhi benevoli che ci guardano. Non udiamo più un linguaggio tanto oltraggioso ai nostri orecchi. L’amore si esprime e noi rispondiamo. La nostra casa è il luogo del nostro ristoro, del nostro conforto, del nostro riposo. Dio ha definito la Chiesa la Sua dimora, la Sua Casa. Notatelo dall’esterno. Egli utilizza i tuoni e fa udire la sua voce sulle acque. AscoltateLo perché la Sua voce « spezza i cedri del Libano » e « fa partorire le cerve ». RimirateLo quando va alla guerra, guidando il carro della Sua potenza, Egli scaccia gli angeli ribelli dai bastioni del cielo giù nella profondità dell’abisso. RimirateLo come si eleva nella maestà della Sua forza! Chi è Costui così glorioso? È Dio Altissimo e tremendo. Ma rimirateLo mentre mette da parte la Sua spada fiammeggiante, non porta più il Suo arco. Egli torna a casa. I Suoi figli sono intorno a Lui. Si acquieta e si riposa. Non pensate che vada oltre nella descrizione. Egli si riposa nel Suo amore, trova pace nella Sua Chiesa. Non è più un fuoco consumante, un terrore ed una fiamma. Ora è amore e amabilità, dolcezza e canto. Quanto è bella l’immagine della Chiesa come Casa di Dio, il luogo dove Egli si compiace: « Poiché l’Eterno ha scelto Sion, l’ha desiderata per sua dimora. Questo è il mio luogo di riposo in eterno, qui abiterà, perché l’ho desiderata » (Salmo 132:13).
Inoltre, la casa è il luogo dove l’individuo dimostra la sua vera personalità. Se incontrate un uomo al mercato, parla con decisione, sa con chi sta trattando ed agisce come con una persona qualunque. Ma, quando lo vedrete parlare con i suoi figli a casa, direte: « È differente, non posso credere che sia la stessa persona ». Osservate il professore in cattedra mentre istruisce i suoi alunni e notate la sua decisione quando parla d’argomenti difficili. Ma non crederete che sia la stessa persona, quando alla sera metterà i suoi piccini sulle ginocchia e racconterà loro delle favole o ripeterà le « ninna nanna » della fanciullezza. Ed è proprio cosi. Guardate al re che cavalca sul suo destriero in grande pompa, migliaia sono intorno a lui e le acclamazioni giungono al cielo. Quale portamento maestoso. È proprio un monarca in ogni sua fibra, si eleva al di sopra delle moltitudini. Ma lo avete mai visto a casa? Allora è proprio come tutti gli altri uomini; ha i suoi piccini attorno a sé, sta sul pavimento e gioca con loro. Ma è questo il re? Sì! Perché non agisce così nel suo palazzo o per le strade? Perché non è nella sua dimora privata. Soltanto là un uomo esprime totalmente se stesso.
È così anche del nostro glorioso Dio: nella Sua Chiesa è dove manifesta Se stesso e non nel mondo. Un individuo comune punta il proprio telescopio verso il cielo, vede la gloria di Dio nelle stelle e dice: « O Dio quanto sei infinito! ». Con devozione rimira il mare e osserva anche le sue tempeste e dice: « Ecco la potenza e la maestà della divinità ». L’anatomista seziona, analizza e scopre in ogni parte del corpo umano la saggezza divina ed esclama: « Quanto è sapiente Dio! ». Ma è soltanto il credente che in ginocchio nella sua stanza può dire: « Mio Padre ha fatto tutto questo » e continuare: « Padre nostro che sei nei cieli sia santificato il Tuo nome ». Vi sono cose sublimi che Dio comunica alla Sua Chiesa e che invece non dona ad altri. È lì che prende i Suoi figli in seno; è lì che apre il Suo cuore e permette ai Suoi di conoscere le fonti dell’anima Sua infinita e tutta la potenza del Suo affetto. Non è forse dolce il pensiero di Dio a casa con i Suoi familiari, felice nella Sua casa, la Sua Chiesa?
Mi colpisce, però, anche un’altro pensiero. La casa di un uomo è la sede di tutto quello che fa. Ecco una grande fattoria, costituita da costruzioni rurali, capanne e pagliai, ma nel mezzo c’è la dimora del padrone, il centro di tutta l’attività. Non importa quanto sia grande il raccolto di frumento, tutto quello che si produce va nei magazzini della casa. È per il mantenimento della famiglia che il padrone porta avanti la propria attività. Potrai sentire il muggito delle mandrie e potrai contare tutte le pecore sparse sulle colline, ma la lana viene portata a casa e tutte le mammelle producono latte per i figli di quella famiglia, perché la dimora del padrone è al centro di tutto. Ogni rivolo d’industriosità scorre verso il quieto lago della famiglia. Non è la Chiesa di Dio il centro dell’opera Sua? Egli agisce fuori nel mondo, opera qua e là, ovunque, ma tutta la Sua attività verso cosa tende? Verso la Chiesa. Perché Dio ricopre d’abbondanza i colli? Per cibare il Suo popolo. Verso quale scopo rivolge la Sua provvidenza? Perché muta le guerre e le tempeste in pace e calma? Per la Sua Chiesa! Nessun angelo si mette in movimento se non ha una missione per la Chiesa. Questa può manifestarsi direttamente o indirettamente ma è sempre per quell’unico fine. Non c’è un arcangelo che adempia i piani dell’Altissimo, senza portare sulle sue larghe ali la Chiesa e trasportare i Suoi figli, perché non inciampino in alcuna pietra. I depositi di Dio sono per la Sua Chiesa. Le profondità dove sono nascosti i tesori delle ricchezze infinite di Dio, sono tutti per il Suo popolo. Non c’è nulla che Egli possieda, dalla corona risplendente alle ricchezze nascoste sotto il Suo trono, che non siano per i Suoi redenti. Tutte le cose concorrono e cooperano al bene della Chiesa eletta da Dio, che è la Sua casa: la Sua dimora quotidiana. Sono certo che se continuerete a meditare su questa benedetta realtà scoprirete quanto sia prezioso questo fatto sublime che, come la casa è il centro d’ogni cosa, così la Chiesa è il centro di tutto ciò che Dio compie e possiede.
Un’altra considerazione ancora. Una cosa può essere detta con una certa sicurezza, che siamo in molti ad essere uomini di pace e non ci piace prendere la spada. Alla prima vista del sangue ci sentiamo male, siamo esseri pacifici, non siamo favorevoli alla lotta e alla guerra. Ma se l’individuo più pacifico immagina che l’invasore è sbarcato sulle nostre coste, che le nostre case sono in pericolo e che saranno saccheggiate dal nemico, tutta la nostra opposizione alla guerra finirebbe e mi chiedo se ci sarebbe qualcuno tra noi non disposto a prendere le armi per fermare il nemico. Al grido: « I nostri cuori e le nostre case », combatteremmo contro l’invasore. Non vi sarebbe potere tanto forte da paralizzare le nostre braccia e fino a che non cadremmo morti, combatteremmo per le nostre case; nessun ordine tanto severo potrebbe fermarci, spezzeremmo ogni legame ed il più debole tra noi diventerebbe un gigante e le nostre donne delle eroine nel giorno della difficoltà. Ogni mano troverebbe un’arma per frenare l’invasore. Amiamo le nostre case e le difendiamo. Ora consideriamo la Chiesa come la casa, la dimora di Dio. Non la difenderà Egli stesso? Permetterà che la Sua dimora sia saccheggiata e tormentata? Sarà il cuore del Divino macchiato dal sangue dei Suoi figli? Può essere mai che la Chiesa sia vinta, la sua struttura distrutta e la sua pacifica dimora data in balia del fuoco e della spada? No, mai, finché Dio ha un cuore amorevole e fino a che chiama il Suo popolo la Sua casa, la Sua dimora. Venite rallegriamoci in questa sicurezza, sia pur tutto il mondo in guerra, noi dimoriamo in pace, perché il Padre nostro è in casa, nella Sua dimora ed Egli è Dio Onnipotente. Vengano pure contro di noi, non temiamo, il Suo braccio li vincerà, l’alito delle Sue narici li distruggerà, una parola li annienterà, essi si scioglieranno come grasso di montone, « come grasso d’agnelli saranno consumati e andranno in fumo ». Tutte queste considerazioni mi fanno credere che la Chiesa sia la dimora di Dio.
Infine la Chiesa sta divenendo IL GLORIOSO TEMPIO DI DIO. Non appare ancora così oggi, ma lo sarà. Questa preziosa realtà è stata già menzionata. La Chiesa di Cristo s’innalza oggi e continuerà ad innalzarsi fino a raggiungere « il monte della Casa dell’Eterno (che) si ergerà sulla vetta dei monti e tutte le nazioni affluiranno ad esso. Molti popoli v’accorreranno e diranno: Venite saliamo al monte dell’Eterno » ed adoriamoLo. Allora la gloria della Chiesa comincerà. Quando questa terra passerà, quando i monumenti degli imperi saranno dissolti e si scioglieranno come lava ardente, allora la Chiesa sarà rapita nelle nuvole e poi sarà esaltata nel cielo stesso, per divenire un tempio che occhio non ha mai veduto.
Ora, fratelli, sorelle, in conclusione: se la Chiesa di Dio è la dimora di Dio, che faremo tu ed io? Dobbiamo cercare ardentemente d’essere parte del tempio nel quale dimora il Suo grande Abitatore. Non contristiamo lo Spirito Santo, altrimenti lascia la Sua chiesa per un pò, ma soprattutto non siamo degli ipocriti altrimenti non prenderà dimora nei nostri cuori. Se la Chiesa è il tempio e la dimora di Dio, non la contaminiamo. Se contaminiamo noi stessi guastiamo la Chiesa, perché il tuo peccato, se sei un membro della Chiesa, è il peccato della Chiesa. L’impurità di una pietra in un edificio rovina tutta la sua perfezione. Vigiliamo per essere santi come Egli è santo. Il tuo cuore non divenga la dimora di Beliar. Non pensare che Dio ed il diavolo possano abitare nella stessa dimora. Donati totalmente a Dio. Cerca di più il Suo Spirito, affinché come una pietra vivente possa essere completamente consacrato. Non essere mai contento finché non senti in te la perpetua presenza del divino Inquilino che dimora nella Sua Chiesa. Benedica Dio ogni pietra vivente del Suo tempio. E voi che ancora non siete stati liberati dal peccato, prego che la grazia divina v’incontri e possiate essere rinnovati e convertiti e alla fine essere « partecipi dei santi nella luce ».

DIO È PER NOI UN RIFUGIO ED UNA FORZA

http://www.ilfaro-it.net/Brevi%20meditazioni%20bibliche%20Scuderi1.

DIO È PER NOI UN RIFUGIO ED UNA FORZA

“Dio è per noi un rifugio ed una forza, un aiuto sempre pronto nella difficoltà. Perciò non temiamo se la terra è sconvolta, se i monti si smuovono in mezzo al mare, se le sue acque rumoreggiano, schiumano e si gonfiano, facendo tremare i monti.
C’è un fiume, i cui ruscelli rallegrano la città di Dio, il luogo santo della dimora dell’Altissimo. Dio si trova in essa: non potrà vacillare; Egli fa udire la sua voce, la terra si scioglie. Il Signore degli eserciti è con noi, il Dio di Giacobbe è il nostro rifugio.
Venite, guardate le opere del Signore, Egli fa sulla terra cose stupende. Fa cessare le guerre fino all’estremità della terra. “fermatevi”, dice “e riconoscete che io sono Dio. Io sarò glorificato fra le nazioni, sarò glorificato sulla terra”. Il Signore degli eserciti è con noi; il Dio di Giacobbe è il nostro.
(Salmo 46)

Il Salmo inizia con una certezza di fede: “Dio è per noi un rifugio ed una forza”. Questa è una constatazione che si basa sulle esperienze vissute. Perciò, visto quello che è successo, visto il manifestarsi della potenza di Dio, è scritto “noi non temiamo”, parola che esprime la certezza della fede, dell’essere sicuri perché fondati su quanto è avvenuto nel passato. Così cantava l’antico Israele. Anche oggi la fede nell’azione di Dio nel passato fonda la certezza per l’azione di Dio nel futuro. La fede cristiana infatti è ancorata alla fedeltà di Dio, all’azione divina della storia. Il nostro domani è nelle mani di Dio fedele alle promesse di salvezza e di amore per il suo popolo e per tutti gli uomini.
Ma il Salmo continua: “perciò non temiamo se la terra è sconvolta”. Facciamoci una domanda: oggi possiamo anche noi dire come il salmista: “perciò non temiamo?”.
Consideriamo la nostra situazione oggi. Il testo infatti accenna a possibili situazioni negative. Parla di “terra sconvolta” e “montagne scosse”, questo fa pensare ai terremoti. Il testo parla di “acque che rumoreggiano, schiumano e si gonfiano facendo tremare i monti”, questo fa pensare a nubifragi, frane e maremoti. Siamo così lontani da questa realtà?
Abbiamo ancora eventi naturali che scuotono e che ci danno un forte senso di impotenza. Ma ciò che spesso ci sconvolge è che questi eventi non sono casuali, ma sono la risposta naturale alle manomissioni dell’uomo sulla natura trattata nono come dono di Dio, ma come preda da spartire e violentare per l’arricchimento di pochi. Accanto a questi sconvolgimenti poi esistono i grandi smottamenti dovuti al normale assesto idrogeologico; sconvolgimenti che avvengono solitamente a distanza di secoli, ma che abbiamo vissuto ultimamente. Quanto scritto nel Salmo è storia di oggi.
Ma questo non basta. Il Salmo parla anche di nazioni che rumoreggiano, regni che vacillano. Impossibile elencare la grande quantità di guerre e conflitti etnici esistenti nel mondo. Ci Sono continuamente conferenze e riunioni internazionali nel tentativo di risolvere queste crisi che sorgono all’improvviso o che durano da secoli. Anche in questo Salmo si racconta la storia dei nostri giorni: una situazione negativa che investe il mondo.
Ma qual è la nostra reazione a questa situazione generale?
Come credenti partecipiamo alla vita degli uomini e non possiamo estraniarci dalle responsabilità e dall’impegno umano per arginare le crisi. Ogni tentativo, ogni azione, ogni aiuto umanitario, ogni lotta che la società intraprende per tentare una via di soluzione deve vedere i credenti in prima linea solidali con chi sacrifica se stesso ed i propri interessi per creare a tutti uno spazio vitale, una società aperta e nuova. In questo senso come singoli e come comunità partecipiamo con le nostre voci, con la nostra presenza ed il nostro aiuto a tutte quelle iniziative che rivendicano la pace e la necessità di tutti gli esseri umani senza distinzione, di avere le stesse opportunità e lo stesso diritto alla vita che ha bisogno anche di cibo, vestiti, medicine e tutto il necessario. La tecnica del riccio che quando avverte il pericolo si appallottola su se stessi e tira fuori le spine è irresponsabile sintomo di rinuncia e di viltà. I credenti che si chiudono sono i primi ad essere trascinati nella rovina delle strutture inique della società così come il riccio per quanto spinoso verrebbe travolto dalle “acque schiumeggianti” del nostro testo.
Partecipare alle lotte degli uomini come credenti però significa parteciparvi con metodi e contenuti diversi da quelli dettati dalle parti in causa. Il credente è portatore dei metodi e del messaggio di salvezza di Dio per la storia e per gli uomini e questa la vocazione specifica del popolo di Dio che vive della Sua presenza e su questa fonda la propria azione, la propria testimonianza quotidiana e la certezza della vittoria.
L’antico Israele vedeva la presenza di Dio in Gerusalemme, nel tempio con le sue mura e l’arca, nella città santa, sicuro rifugio. Per noi la presenza di Dio è legata non ad un luogo, ma ad una persona: Gesù Cristo, Dio per noi. E’ con Cristo che deve confrontarsi la storia degli uomini perché Cristo è il Signore degli uomini e della storia. Il credente sa che non saranno le soluzioni umane a salvare l’umanità, ma solo una conversione a Cristo, a Colui che rappresenta un rifugio ed una forza, la roccia su cui fondarci.
Ma per far questo, il Salmo ci grida un messaggio urgente, una visione profetica. E’ un messaggio di richiamo alla realtà: “fermatevi e riconoscete che io sono Dio” (verso 10).
“Fermatevi” significa dire all’uomo che la sua corsa al progresso senza limiti, alla supremazia dell’uomo sull’uomo e delle nazioni, la corsa al denaro, al benessere, è una corsa verso la rovina. La corsa verso soluzioni centrate sull’uomo è soltanto una fuga dalle responsabilità perché tutto ciò che è umano è provvisorio e noi viviamo in questa provvisorietà.
“Riconoscete che io sono Dio” vuol dire date a Dio il primo posto nella vita, vuol dire riscoprite la sovranità di Dio. Riconoscete Dio come Signore vuol dire ritrovare il senso dei propri limiti. Riscoprire l’uomo alla luce di Dio vuol dire avere una nuova etica sociale del lavoro, politica, personale, coniugale. E questo resta valido di fronte a qualsiasi terremoto, sia esso mondiale, sia esso personale quando situazioni avverse, egoismi, malvagità, incapacità nostre od altrui ci hanno portato ad una crisi profonda fino al punto da non farci più sentire la voce di Colui che ci ama.
Dove l’essere umano sa fermarsi per considerare la maestà di Dio lì nasce l’uomo nuovo che vince la crisi e vive la propria storia in modo responsabile per il bene di tutta l’umanità. Chi crede nell’Iddio vivente ed operante ha una visione profetica perché vede come già realizzato il futuro: “egli fa sulla terra cose stupende. Fa cessare le guerre fino all’estremità della terra”. Questo versetto è l’invito a vedere la vittoria di Dio allora sul campo assiro distrutto ed abbandonato, oggi sui disastri della terra e sulle sicurezze costruite dagli uomini. Questo versetto diviene profezia della vittoria del Regno di Dio come regno di pace in cui non ci sarà più alcuna guerra.
I credenti testimoniano perché questo Regno venga, pur sapendo che la venuta del Regno è nelle mani di Dio e la sua realizzazione non sarà frutto delle soluzioni umane. Il nostro compito è indicare agli uomini che solo in Cristo e nel riconoscimento della sua Signoria è l’unica soluzione ai problemi. Predicare questa vittoria sul male è credere che Dio agisce, è operare per manifestare che già in noi Egli è il Signore, è indicare le cose grandi e le soluzioni di Dio e
non noi stessi e la nostra provvisorietà. Allora una Chiesa operante e potente potrà portare frutti di pace e di salvezza e essere segno delle cose grandi di Dio.
Operiamo con fede, testimoniamo con fermezza perché “Dio è per noi un rifugio ed una forza, un aiuto sempre pronto nelle difficoltà” ed Egli “glorificato sulla terra”.

Di Marco Scuderi

The 10 Commandments revisited

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Publié dans:immagini sacre |on 4 juin, 2014 |Pas de commentaires »

LUIGI PADOVESE. UN AMORE SCRITTO COL SANGUE – ASSASSINATO IL 3 GIUGNO 2010

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LUIGI PADOVESE. UN AMORE SCRITTO COL SANGUE – ANNIVERSARIO DELL’ASSASSINIO (3 GIUGNO 2010)

del card. Angelo Scola, arciv. di Milano luglio-agosto 2012

Ho avuto più volte occasione negli ultimi anni di approfondire il legame con S.E. monsignor Luigi Padovese. In particolare, attraverso la Fondazione Internazionale Oasis, nata per incrementare la reciproca conoscenza e l’incontro tra il mondo occidentale e quello a maggioranza musulmana, avevo avuto modo di incontrarlo, di ascoltarlo raccontare la situazione dei cristiani in Turchia e di apprezzarne le grandi qualità intellettuali e spirituali. L’ho conosciuto come una persona di straordinaria sensibilità e dedizione. Dopo essere stato impegnato attivamente nel mondo accademico e della ricerca scientifica per circa un trentennio, ha accolto la nomina a vicario apostolico dell’Anatolia con grande entusiasmo e fervore, spendendosi generosamente per la sua nuova missione con un impegno unanimemente riconosciuto. Del resto mons. Padovese aveva già un’ampia conoscenza e frequentazione di quei territori, sia per gli studi patristici che per l’organizzazione di un gran numero di convegni su san Giovanni ad Efeso e su san Paolo a Tarso.
Le omelie e gli scritti pastorali contenuti in questa raccolta ci permettono di cogliere in sintesi questa singolare figura di teologo sapiente, esperto dei Padri della Chiesa e delle origini cristiane, e di pastore appassionato e sollecito nella cura pastorale del suo gregge, chiamato a svolgere il suo ministero nella terra che ha dato i natali a san Paolo e dove per la prima volta, come ci ricordano gli Atti degli apostoli, i credenti furono chiamati «cristiani».
Scorrendo queste pagine si trovano numerose testimonianze di figure che il teologo Hans Urs von Balthasar soleva chiamare «personalità totali», riferendosi alla caratteristica, così diffusa nel primo millennio cristiano, dei grandi dottori della Chiesa di essere al contempo studiosi rigorosi e pastori attenti e sensibili alla vita del popolo di Dio. Le omelie e le lettere pastorali di mons. Padovese sono, da una parte, semplici, immediate e vanno dirette al cuore dell’interlocutore; d’altra parte sono continuamente nutrite da numerose citazioni dei Padri della Chiesa e anche di autori contemporanei. Mostrano il suo profondo radicamento nella grande tradizione della fede cristiana e un’intelligente apertura alle questioni che toccano la vita della Chiesa e della società di oggi. La sua predicazione e la sua azione pastorale possono essere descritte come i due fuochi di un’ellisse: da una parte il richiamo costante e deciso a una consapevolezza chiara della identità cristiana, alla necessità di essere cristiani per convinzione e non per convenzione, nella coscienza di essere eredi dei Padri che hanno vissuto e dato la vita proprio nella terra dell’Anatolia; dall’altra la tensione all’incontro e al dialogo con chiunque, in particolare con i fedeli musulmani, con i quali monsignor Padovese intratteneva in genere ottimi rapporti e che era solito salutare con profondo rispetto.
Non a caso, ai suoi funerali nella cattedrale di Iskenderun, si è registrata una grande partecipazione di popolo e di autorità. Non solo di fedeli cristiani e di autorità della Chiesa ortodossa, con le quali aveva sempre intrattenuto relazioni di collaborazione e di stima fraterna, ma anche delle autorità e del popolo musulmano della zona. Nella sua azione e nelle sue parole non c’era alcuna forma di proselitismo, ma sempre sostegno e incoraggiamento ai cristiani perché crescessero nella fede e testimoniassero la vita buona del Vangelo, nel profondo rispetto di tutte le identità religiose e culturali.
Monsignor Luigi Padovese è stato certamente un figlio di san Francesco d’Assisi e nello stesso tempo un figlio della Chiesa ambrosiana. Il santo di Assisi ricorre spesso nelle sue omelie. Proprio il carisma del figlio di Pietro Bernardone, del resto, lo aveva persuaso ancora in giovane età a seguire Cristo sulla via dei consigli evangelici nella famiglia dei cappuccini.
Colpisce a questo proposito il fatto che anche nel suo ministero episcopale, come emerge in queste pagine, egli si sia sempre definito un «cappuccino vescovo», ossia abbia sempre sentito di dover e poter attingere al proprio carisma anche l’alimento per vivere con impegno e dedizione la responsabilità di Pastore. Lo sguardo di Francesco a Cristo, che incarna l’umiltà di Dio, e l’impegno a vivere «minores et subditi omnibus» hanno certamente segnato anche lo stile dell’episcopato di mons. Padovese. Egli ha così vissuto in se stesso quella reciprocità tra doni gerarchici e doni carismatici che permette di vivere in pienezza il ministero e di servire efficacemente la Chiesa nella sua missione anche nel nostro tempo. Inoltre, monsignor Padovese non ha mai smesso di sentirsi figlio della nostra Chiesa ambrosiana e della tradizione dei santi Ambrogio e Carlo.
Il vicario apostolico dell’Anatolia sottolineava volentieri anche il profondo rapporto tra la Chiesa ambrosiana e la Chiesa in Turchia, soprattutto attraverso la fiorente storia di santità che le accomuna in molti punti. Una testimonianza emblematica di questo è l’omelia che egli fece proprio nel Duomo di Milano nell’ottobre del 2008 in occasione della Giornata missionaria mondiale: «Io, figlio della Chiesa di Milano, mi trovo ad essere padre di quella Chiesa di Anatolia che nella storia è sempre stata legata alla comunità cristiana della nostra città. È la memoria dei santi che ha fatto da ponte, già al tempo di Ambrogio, tra Oriente ed Occidente. Vorrei ricordare santa Tecla, patrona dell’antica cattedrale, vissuta e morta nel territorio che è affidato alla mia cura; san Babila vescovo di Antiochia, il vescovo di Milano, Dionigi, morto in esilio nell’attuale Turchia e sepolto in questa Chiesa» (Omelia del 19 ottobre 2008).
Mi sembra che qui emerga un altro tratto fondamentale della personalità di monsignor Padovese: proprio perché non si cessa mai di essere «figli», si può essere «padri» e «pastori». Egli non ha mai smesso di sentirsi figlio della Chiesa ambrosiana e figlio della provincia dei frati cappuccini di Lombardia, vivendo concretamente e fedelmente questi legami. In forza di questo è diventato padre ed amico, generando tanti alla fede in Cristo.
È questo, in fondo, il senso di una citazione di Ambrogio che molto spesso Padovese richiamava al suo clero: «Non può essere riscaldato chi non è vicino al “fuoco ardente” e non può riscaldarsi per un altro chi non ha Cristo per sé». Si può dare la vita solo se non si smette di riceverla; si può comunicare l’amore di Cristo solo se ci si lascia continuamente riscaldare da questo fuoco. Certamente per monsignor Padovese sarebbe stato più comodo continuare lo studio della patristica, piuttosto che andare a fare il vescovo in un territorio difficilissimo, con pochi fedeli e ancor meno sacerdoti. In uno dei nostri incontri mi raccontò che una comunità del suo vicariato era costituita da due sole persone, oltre il sacerdote: «Ma – mi diceva – occorre assolutamente non mollare, per non perdere l’ultima chiesa rimasta su tutta la costa meridionale del Mar Nero». (…)
Monsignor Padovese sapeva benissimo a quali pericoli andava incontro lo svolgimento della sua missione. E nelle pagine di queste omelie ne troviamo una drammatica testimonianza, che risuona per tutti noi, cristiani di Occidente un po’ impagliati, come un richiamo acuto a vivere la testimonianza con rinnovata decisione.
Il vescovo Luigi, peraltro, era ben consapevole di essere pastore in una terra profondamente segnata da martiri: «Tra tutti i paesi di antica tradizione cristiana, nessuno ha avuto tanti martiri come la Turchia. La terra che noi calpestiamo è stata lavata con il sangue di tanti martiri che hanno scelto di morire per Cristo», così affermava nella lettera ai suoi fedeli nell’ottobre del 2005.
Particolarmente emblematici di questa coscienza sono poi i testi delle omelie relative all’uccisione di un suo sacerdote, don Andrea Santoro nel febbraio del 2006. In esse non mancano chiare parole di denuncia e al contempo espressioni di dialogo, che non deve mai interrompersi, e di perdono. Nel primo anniversario della uccisione del sacerdote romano, così affermava: «Chi ha pensato che, uccidendo un sacerdote cancellava la presenza cristiana da questa terra, non sa che la forza del cristianesimo sono proprio i suoi martiri… preghiamo per il suo giovane assassino. La forza del nostro perdono e della nostra preghiera lo aiuti a capire che l’amore è più forte della morte» (Omelia del 5 febbraio 2007).
Risultano infine particolarmente commoventi le omelie tenute a Stegaurach, un paese della diocesi di Bamberg, in Germania, cui monsignor Padovese era legato da lunga data. Alcune omelie risultano qui essere come una sorta di confidenza fatta ad amici intimi, come quando il 6 maggio del 2007 disse: «L’assassinio di un mio sacerdote, il ferimento di un altro, le intimidazioni ricevute, l’abbandono del sacerdozio di un giovane e poi le difficoltà di gestire una realtà molto piccola, ma complessa, mi hanno pesato e a volte mi tolgono la tranquillità ed il sonno. C’è poi il timore che all’improvviso uno o più pazzi, come è avvenuto ultimamente a Malatya, compia qualche gesto folle. Questa situazione vincola ancora i miei movimenti perché mi rendo conto che ormai tutto è possibile» (Omelia del 6 maggio 2007 in Germania).
Queste evidenti difficoltà non hanno tuttavia impedito a questo figlio di san Francesco d’Assisi di avere sempre un cuore lieto, facendo eco alla espressione di san Paolo: «nel dolore lieti», e nemmeno gli hanno impedito di continuare ad amare la Turchia, il popolo turco e soprattutto la Chiesa che gli è stata affidata, come afferma nell’ultima omelia riportata in questa raccolta, tenuta pochi giorni prima del suo assassinio: «Se oggi mi si chiedesse: sei contento di essere dove sei? Risponderei certamente di sì. Le difficoltà non hanno ridotto, ma anzi aumentato l’amore per questa Chiesa piccola ma importante. È facile amare quando tutto va bene e funziona, eppure tutti sappiamo che l’amore si misura nella prova» (30 maggio 2010).
Nella vita donata di questo pastore troviamo così sintetizzata l’urgenza dei cristiani nel nostro tempo, ossia l’impegno alla testimonianza: ad essere quel tramite misterioso tra Dio che si comunica a noi e l’uomo nostro fratello.
Cristo – il testimone fedele e verace, come leggiamo nel libro dell’Apocalisse, rimane contemporaneo attraverso la testimonianza dei fedeli, che corroborati ogni giorno dalla Parola di Dio, nutriti dal sacramento dell’Eucaristia e sostenuti dalla comunione ecclesiale, si espongono inermi nella relazione con l’altro, non in forza di una propria idea, ma di quella verità amorosa di Dio che ci è stata donata in Cristo, come ci insegna mons. Padovese già nel suo motto episcopale, ispirato a san Giovanni Crisostomo: In Caritate Veritas.
Infatti, come ci ricorda Sua Santità Benedetto XVI, «Diveniamo testimoni quando, attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica. Si può dire che la testimonianza è il mezzo con cui la verità dell’amore di Dio raggiunge l’uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale. Nella testimonianza Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell’uomo» (Sacramentum Caritatis, 85).
Infine, la pubblicazione di questo volume di omelie e di scritti pastorali di monsignor Luigi Padovese, torna a sollevare una richiesta urgente dalla quale dobbiamo tutti lasciarci interrogare: non dobbiamo lasciare sola la Chiesa di Turchia ed in generale i cristiani in Medio Oriente.
La preoccupazione che fu di mons. Luigi Padovese risuona come un monito a ciascuno di noi: ci sono cattolici, sacerdoti, laici, consacrati, disposti a giocarsi in prima persona per sostenere la presenza cristiana in quelle terre? Possa il suo esempio e quello di tutti coloro che hanno dato testimonianza fino al dono della vita stimolare i cristiani all’impegno per la nuova evangelizzazione, di cui abbiamo veramente bisogno.

(Questo testo è tratto dal volume La verità nell’amore. Omelie e scritti pastorali di mons. Luigi Padovese, di cui rappresenta l’Introduzione)

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