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PAOLO APOSTOLO E TESITORE DI TENDE LA BOTTEGA SOME LUOGO DI ATTIVITÀ MISSIONARIA

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PAOLO APOSTOLO E TESITORE DI TENDE LA BOTTEGA SOME LUOGO DI ATTIVITÀ MISSIONARIA

A CURA DELLA REDAZIONE

Novembre 2008

L’articolo è tratto liberamente da una riflessione di Ronald F. Hock in The Social Context of Paul’s Ministry: Tentmaking and Apostleship, Philadelphia, Fortress 1980.

In uno dei suoi trattati politici, Plutarco critica alcuni filosofi perché rifiutavano di conversare con le autorità nel timore di essere considerati ambiziosi o troppo ossequienti. Per evitare il diffondersi di una tale situazione, Plutarco suggerisce che l’unica alternativa per l’uomo dalla mente aperta e desideroso di praticare la filosofia è fare l’artigiano, per esempio, il calzolaio, in modo da avere l’opportunità di conversare nella bottega, come Simone il calzolaio aveva fatto con Socrate. Questo suggerimento di Plutarco, che la bottega fosse un luogo che potesse ospitare discorsi intellettuali, è interessante e fa sorgere l’interrogativo se altre botteghe, specialmente quelle usate ai suoi tempi da Paolo, il tessitore di tende, nei suoi viaggi missionari, siano state utilizzate allo stesso modo nelle città della Grecia orientale. Questa tesi, pur avanzata dagli studiosi, non è mai stata studiata a fondo. Questo articolo è un tentativo di approfondire l’esame dei contesti sociali in cui si sono svolti la predicazione e l’insegnamento dei primi cristiani.
È noto che Paolo era un tessitore di tende. Questo suo lavoro è sempre stato considerato come un’eredità della sua tradizione ebraica. L’attività lavorativa di Paolo è considerata come un residuo della sua vita di fariseo ed è spiegata nei termini di un ideale rabbinico che cerca di associare lo studio della Torah con la pratica di un mestiere. Vorremmo ora portare il dibattito al di là dell’aspetto strettamente ebraico.

LA BOTTEGA DI PAOLO
Per una discussione sull’uso missionario della bottega da parte di Paolo, si deve sottolineare l’evidenza che lo colloca nelle botteghe delle città da lui visitate. Luca indica che Paolo aveva lavorato come tessitore di tende solo in Corinto e Efeso (At 18,3; 20,34); ma le Lettere di Paolo aggiungono Tessalonica (1 Ts 2,9) e – più importante – afferma che in generale la pratica missionaria era di lavorare per potersi mantenere (1 Cor 9,15 – 18). E allora, il riferimento di Paolo al lavoro di Barnaba per sostenere se stesso (1 Cor 9,6) dovrebbe coprire i cosiddetti primi viaggi missionari e la sua permanenza in Antiochia (At 13,1 – 14,25; 14,26-28; 15,30-35), il tempo in cui Luca pone Barnaba come suo compagno di viaggio. Il riferimento di Paolo al suo lavoro a Tessalonica (1 Ts 2,9) e la sua conferma dell’affermazione di Luca riguardante Corinto (1 Cor 4,12) si applicherebbe anche al secondo viaggio missionario (At 16,1 – 18,22). Il riferimento al suo lavoro in Efeso (cfr. 1 Cor 4,11: « fino ad ora »), di nuovo conferma il ritratto di Luca e la sua insistenza nel mantenersi economicamente, durante un futuro viaggio a Corinto (2 Co 12,14), confermerebbe questa pratica anche nel terzo viaggio missionario (At 18,23 – 21,16). In At 28,30 vediamo Paolo presumibilmente lavorare in seguito anche a Roma. In breve, le Lettere e gli Atti mettono in evidenza l’Apostolo nelle botteghe dove predicava e insegnava. Ma che cosa faceva Paolo nella bottega, oltre al suo lavoro di tessitura? Di cosa parlava? Sfruttava l’occasione per una predicazione missionaria?
Una risposta affermativa sembra verosimile, dato il suo impegno nella predicazione del Vangelo. Però né le Lettere, né gli Atti dicono esplicitamente che Paolo utilizzava la bottega per la predicazione. Il silenzio delle Lettere in proposito non è un problema, perché Paolo è di solito silenzioso o vago sulle circostanze della sua predicazione missionaria (cfr. per esempio 1 Cor 2,1-5). Con gli Atti tuttavia la situazione è diversa.
Il silenzio di Luca negli Atti può essere parzialmente spiegato perché l’evangelista era interessato a raccontare le esperienze di Paolo nella sinagoga. Solo in Atene, il centro della cultura greca e della filosofia, questo interesse è lasciato da parte in deferenza alle esperienze di Paolo al mercato (At 17,17) e specificatamente alle sue conversazioni con i filosofi stoici ed epicurei (ver.18) che portarono al discorso dell’Apostolo all’Aeropago (22-31). Qui Luca si avvicina molto nel menzionare le conversazioni della bottega, ma non lo fa, poiché le discussioni con i filosofi sono probabilmente da collocarsi sotto i portici della città, forse la Stoà di Attalos ad Atene.
La possibilità di fare conversazioni in bottega è intuibile da un brano delle Lettere di Paolo: il sommario dettagliato dell’attività missionaria dell’Apostolo nella città di Tessalonica (1 Ts 2,1-12). Al versetto 9, il lavoro e la predicazione sono accennati insieme: « Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il Vangelo di Dio ».

L’ATTIVITÀ MISSIONARIA
Se questi sei passi scelti dagli Atti e dalle Lettere parlano di Paolo che utilizzava le botteghe come contesti sociali per la sua predicazione missionaria, bisogna interpretare questi contesti come entità a sé, oppure confrontarli con la vita intellettuale delle città che egli ha visitato. Se la bottega è stata un contesto sociale dell’attività missionaria, per Luca questa era solo uno dei tanti luoghi in cui l’Apostolo predicava. Più frequentemente egli indica la sinagoga. Paolo predica nelle sinagoghe di Damasco (At 9,20), Gerusalemme (At 9,29), Salamide (At 13,5), Antiochia di Pisidia (At 13, 14, 44), Iconio (At 14,1), Tessalonica (At 17,1), Berea (At 17,10), Atene (At 17,17), Corinto (At 18,4) e Efeso (At 18,19; 19,8). Un altro contesto missionario importante è la casa, specialmente quelle di Lidia a Filippi (At 16,15, 40), di Tizio Giusto a Corinto (18,7) e di un cristiano non identificato a Triade (20,7-11) e di parecchie persone a Efeso (20, 20). Altre case devono essere incluse, anche se Luca non vi fa menzione di attività missionaria: la casa di Giasone a Tessalonica (17, 5-6), di Aquila e Priscilla a Corinto (18, 3), di Filippo a Cesarea (21, 8), di Mnasone di Cipro, presumibilmente a Gerusalemme (21, 16-17) e forse quelle di parecchi altri (cfr. 16,34; 21, 3-5, 7).
Ulteriori segni che indicano la varietà dei contesti sociali nella missione di Paolo sono la residenza del proconsole di Cipro, Sergio Paolo (13, 6-12), la porta della città in Listra (14, 7, 15-18), la scuola di Tiranno a Efeso (19, 9-10) e il pretorio a Cesarea (24, 24-26; 25, 23-27). Insomma, se la bottega era un contesto sociale per l’attività missionaria di Paolo, era solo uno dei tanti.

IL PULPITO, LA PIAZZA E LA BOTTEGA
La pratica dei filosofi sopra descritta può aiutarci a capire anche ciò che avveniva nella bottega di Paolo. Lo possiamo immaginare nelle lunghe ore al tavolo di lavoro mentre taglia e cuce le pelli per fare tende. Egli si rende autonomo economicamente, ma ha anche possibilità di portare avanti il suo impegno missionario (cfr. 1 Ts 2, 9). Seduti nella sua bottega troviamo i suoi compagni di lavoro o qualche visitatore, clienti e forse qualche curioso che aveva sentito parlare di questo « filosofo » tessitore di tende appena arrivato in città. In ogni caso sono tutti là ad ascoltare e a discutere con lui, che porta il discorso sugli dei ed esorta i presenti ad abbandonare gli idoli e a servire il Dio dei viventi (1, 9-10). In questo modo, certamente qualcuno degli ascoltatori, un compagno di lavoro, un cliente, un giovane aristocratico o forse anche un filosofo cinico, sarebbe stato curioso di sapere di più di Paolo, delle sue chiese, del suo Signore e sarebbe tornato per un colloquio privato (2, 11-12). Da queste conversazioni di bottega alcuni avrebbero accolto le sue parole come Parola di Dio (2, 13).
Per Paolo, il missionario, quindi, il pulpito della sinagoga non bastava, ma usciva anche in piazza ed entrava nella sua bottega. « Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo! » (1 Cor 9,16).

A CURA DELLA REDAZIONE

Il contesto storico
Esaminiamo la pratica paolina nel contesto della vita intellettuale della Grecia orientale dei suoi tempi. Ad Atene, nel quinto e quarto secolo a. C., alcuni contesti specifici, inclusa la bottega, erano diventati normali per l’attività intellettuale ed ancora esistevano ai tempi di Paolo. Senofonte descrive Socrate mentre discute di filosofia in varie botteghe, tra cui quelle di un pittore, di uno scultore, di un fabbricante di armature. Platone menziona le bancarelle del mercato come abituale ritrovo di Socrate. Naturalmente la bottega non era il suo solo ritrovo: lo si poteva trovare in altre parti del mercato, come la stoà o altri edifici pubblici, nel ginnasio o nelle case di amici. In un certo senso la pratica di Socrate era tipica dei suoi giorni, data l’abitudine della gente di frequentare i negozi e i banchi del mercato. Ma, in un altro senso, l’abitudine di Socrate era molto atipica, non solo a causa dell’alto contenuto intellettuale delle sue conversazioni, ma anche per l’effetto limitato che questa sua pratica ebbe sui filosofi che lo seguirono. A giudicare da quanto riferisce Diogene Laerzio, i discepoli di Socrate non discutevano di filosofia nella bottega, anche se alcuni di essi da studenti lo avevano accompagnato, per esempio, alla bottega del sellaio.
I seguaci di Socrate, scegliendo il ginnasio o altri edifici, praticavano una filosofia meno pubblica rispetto al loro maestro. Il numero delle persone che partecipava a queste discussioni nelle botteghe non poteva essere grande. Spesso erano solo in due, Socrate con Simone e Crate con Filisco. Gli argomenti trattati erano molti: dalle discussioni che riguardavano i commerci degli artigiani a temi più interessanti: gli dei, la giustizia, la virtù, il coraggio, la legge, l’amore, la musica, ecc.

ELIA Eb ELIYAHU (“Mio Dio è Yahweh”)

http://www.parrocchie.it/calenzano/santamariadellegrazie/PROFETelia.htm

ELIA Eb ELIYAHU (“Mio Dio è Yahweh”)

(1Re, prima lettua di questi giorni)

Primo grande profeta del regno di Israele del Nord, Elia si conquistò la fama di uno che appariva e scompariva in un lampo, come se lo spirito di Dio lo portasse in un posto e poi lo rapisse. Il narratore del primo libro dei Re di certo alimenta questa fama, introduce mio il profeta senza dire una parola sul suo passato.
In un momento in cui Baal, il dio cananeo della tempesta, della pioggia e della fertilità, stava conquistando fedeli nel regno, Elia irruppe sulla scena con l’impetuosa e fiduciosa affermazione che il Dio di Israele aveva il controllo assoluto sul potere creativo della natura.
Elia annunciò al re Acab: « Per la vita del Signore, Dio di Israele, in questi anni non vi sarà né rugiada né pioggia, se non quando lo dirò io » (1 Re 17,1). Il drammatico messaggio era chiaro. Se la parola di un solo profeta di Yahweh poteva prevalere su tutte le invocazioni a Baal perchè desse fertilità e acqua, era allora evidente che Baal non era un dio degno di essere riverito con un culto o con timore.

UNA FAMA CONQUISTATA CON I FATTI
Il racconto biblico della missione di Elia copre una quindicina di anni, tra l’865 e l’850 a.C.
Le storie delle gesta coraggiose del profeta furono tramandate a voce di generazione in generazione per circa 300anni, fino a quando vennero inserite nel primo e nel secondo libro dei Re, originariamente un unico libro completato intorno al 550, un decennio dopo l’ultimo avvenimento in esso descritto.
A differenza dei racconti riguardanti i profeti posteriori – di solito ricchi di insegnamenti verbali – la Bibbia sottolinea, le azioni piuttosto che le parole di Elia. Pertanto il suo ministero e pieno di conflitti e di fatti prodigiosi.
Elia e il suo discepolo e successore Eliseo sono i più grandi operatori di miracoli che appaiano nelle Scritture tra Mosè e Gesù.
Elia era nato forse nel primo decennio del 900 a.C. ed era vissuto a Tisbe, un villaggio lontanissimo dal centro della vita israelita e così sconosciuto che non è ricordato in nessun altro passo della Bibbia. Tisbe si trova in Galaad, un’aspra regione a est del Giordano, ai confini del grande deserto d’Arabia. Scarsamente influenzati dallo stile di vita più evoluto e quasi lussuoso delle regioni centrali di Canaan, gli abitanti di Galaad tendevano a conservare le antiche, rigide tradizioni di Israele nate negli anni di nomadismo trascorsi nel deserto. Adoravano solo Yahweh e disprezzavano i culti di fertilità e le molte divinità cananee.
Durante gli anni giovanili di Elia, il regno del Nord attraversava un periodo di disordine politico, impegnato anche in una guerra distruttiva con il regno meridionale di Giuda. La pace e la stabilità arrivarono finalmente per Israele quando Omri salì al trono nell’anno 876 a.C. e negoziò un accordo di collaborazione con Giuda. Poiché il territorio di Omri includeva una numerosa popolazione cananea, egli strinse alleanza con la cananea Fenicia, siglandola con il matrimonio tra suo figlio Acab e la principessa fenicia Gezabele, figlia di Et-Baal, re di Sidone. Ora che il commercio poteva svolgersi tranquillamente tra nord e sud, il regno di Israele entrò in un periodo di prosperità quale non conosceva più da oltre un secolo, cioè dai tempi di Salomone.
Sebbene Omri fosse, almeno formalmente, adoratore di Yahweh, non rifiutò altre divinità, accettando e addirittura proteggendo il culto di Baal. In seguito suo figlio avrebbe eretto un importante tempio a Baal nella nuova capitale di Samaria, forse rivale dei santuari di Yahweh che si trovavano a Betel e Dan. Sembrava che Omri e suo figlio volessero mettere sullo stesso piano il culto di Yahweh e quello di Baal. Per persone come Elia, che erano cresciute nel rigido monoteismo di Israele, quella situazione era intollerabile.

LA NEFASTA INFLUENZA DI GEZABELE
Acab succedette a Omri nell’869, quando Elia doveva avere circa 30 anni. Se Elia avesse già intrapreso la sua missione di uomo di Dio, forse come membro di un gruppo profetico, non si sa. La crisi religiosa di Israele si aggravò quando Gezabele, sposa di Acab, fece sentire la sua presenza. Era stata educata al culto fenicio di Baal e della dea Asera e il suo attaccamento al culto di Baal appariva forte almeno quanto la devozione di Elia per Yahweh. Non solo manteneva a corte centinaia di profeti di Baal e di Asera, ma si adoperava anche per sopprimere il culto rivale di Yahweh, soffocando l’influenza dei suoi profeti, obbligando molti di essi a nascondersi e facendone giustiziare altri. Questa era la situazione quando Elia comparve improvvisamente a corte per lanciare la sua profezia di distruzione, condannando l’economia agricola di Israele ad anni di penuria. Poi, così com’era venuto, scomparve.
Acah credette alle parole del profeta quel tanto da ritenerlo responsabile della sopraggiunta carestia e da farlo oggetto di una sorta di caccia all’uomo. Ma Dio fece nascondere Elia presso il torrente Cherit (di cui si ignora l’esatta ubicazione), a est del Giordano, fuori dalla portata di Acab. Poiché il profeta era solo e privo di qualsiasi mezzo di sostentamento, Dio miracolosamente provvide alle sue necessità. «I corvi gli portavano pane al mattino e carne alla sera» (1 Re 17,6), mentre il ruscello gli forniva acqua: proprio come, ai tempi di Mosè, Dio aveva provveduto cibo e acqua a Israele nel deserto.
Il ruscello fu anche il parametro della crescente durezza della siccità. Quando si prosciugò, Elia fu mandato a nord, nella città di Zarepta di Sidone, patria di Gezabele, una regione ritenuta fedele a Baal. Lì Elia trovò una vedova cananea che raccoglieva legna alle porte della città e le chiese di portargli pane e acqua. La donna e suo figlio erano stati duramente colpiti dalla siccità. Baal non aveva potuto proteggere nemmeno il suo territorio contro il potere di Yahweh. Ella aveva solo olio e farina sufficienti per cuocere qualche focaccia per loro; finiti anche quelli, disse rassegnata, sarebbero morti di fame. Allora il profeta insistette che prima gli portasse qualcosa da mangiare e che avesse fiducia, perché il Dio di Israele avrebbe provveduto al loro sostentamento. La donna obbedì e, com’è noto, per tutto il tempo della carestia, «la farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non venne meno» (1 Re 17,16).
In seguito, però, il potere del Dio dispensatore di vita sembrò affievolirsi e il figlio della vedova si ammalò «tanto gravemente che cessò di respirare» (1 Re 17,17). Sia la vedova sia il profeta si resero conto che ciò veniva da Dio. Ma quando Elia «si distese tre volte sul bambino e invocò il Signore», l’onnipotenza di Dio fu manifestata di nuovo e «l’anima del bambino tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere» (1 Re 17,21-22).
Nel terzo anno di siccità, Dio mandò di nuovo Elia nel territorio di Israele a sfidare Acab.
Acab lo apostrofò: «Sei tu la rovina di Israele!» (1 Re 18,17). Elia rispose che invece era il re la rovina di Israele per la sua politica a favore di Baal e propose una sfida: che mandasse i 450 profeti di Baal e i 400 profeti di Asera a incontrarlo sul monte Carmelo. Quel promontorio affacciato sul Mediterraneo era certamente il sito di un altare di Baal fin dai tempi antichi.
Tuttavia durante i primi anni della monarchia, quando l’intero territorio era saldamente controllato da Israele, vi era stato eretto anche un altare dedicato al culto di Yahweh. Ora quell’altare era abbandonato e andava in rovina, simbolo della situazione religiosa di Israele. La sfida di Elia fu accettata: una moltitudine si raccolse sulla montagna per vedere gli 850 profeti cananei e il re davanti al grandioso altare di Baal, da una parte, e un unico profeta di Yahweh e un altare in rovina, dall’altra.

SUPPLICHE INASCOLTATE
Elia condannò solennemente la politica di Acab, che tentava un accomodamento tra Yahweh e Baal. Bisognava scegliere: «Fino a quando zoppicherete da entrambi i piedi? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!» (1 Re 18,21). Il popolo taceva, incerto. Per arrivare a una conclusione, Elia propose che le due parti preparassero sacrifici senza però bruciarli. Ogni gruppo avrebbe pregato, «e la divinità che risponderà concedendo il fuoco è Dio» (1 Re 18,24).
I riti cominciarono al mattino con un’invocazione a Baal. Muovendosi insieme, centinaia di profeti eseguirono una danza rituale, piegando le ginocchia e saltando da un piede all’altro, in una sorta di parodia delle credenze zoppicanti che Elia aveva imputato a Israele. Le loro suppliche a Baal rimasero inascoltate. Quando il sole caldo raggiunse il mezzogiorno, Elia non patè trattenersi dall’ironizzare: forse Baal era distratto o indaffarato o in viaggio, oppure dormiva; perciò dovevano gridare più forte. Di fronte al monarca indispettito e al popolo che spiava attentamente, i profeti divennero più frenetici e si fecero incisioni sul corpo fino a coprirsi tutti di sangue. Ma «non si sentiva alcuna voce ne una risposta ne un segno di attenzione» (1 Re 18,29).
Quando arrivò l’ora del sacrificio pomeridiano, la folla volse lo sguardo dal gruppo sanguinante e impolverato dei falliti profeti di Baal verso Elia, che cominciò a riparare con calma l’altare diroccato di Yahweh. Egli usò 12 pietre come simbolo del popolo riunito delle 12 tribù e così l’altare diventò un simbolo della vera identità di Israele. Poi preparò nel dovuto modo la legna e un giovenco sacrificale e stranamente scavò un canale profondo attorno all’altare. Infine chiese quattro giare di acqua e, invece di usarle per riti di purificazione come alcuni si sarebbero aspettati, ordinò di versarle sul sacrificio e sulla legna. Per altre due volte le giare furono riempite e vuotate finché il canale fu riempito e l’altare fu inzuppato.
Quando giunse il momento adatto, Elia si accostò da solo all’altare e si rivolse a Yahweh: «Signore, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe [...] rispondimi e questo popolo sappia che tu sei il Signore Dio e che converti il loro cuore!» (1 Re 18,36-37). Appena ebbe parlato, le fiamme consumarono ogni cosa: sacrifìcio, legna, pietre e persino l’acqua. La richiesta di Elia era stata esaudita, non dal popolo ma da Dio stesso. Immediatamente Elia incitò la folla a catturare i profeti di Baal, che, come nemici sconfitti in una guerra santa, furono condannati tutti a morte in rigida osservanza della Legge israelita contro l’apostasia: «Colui che offre un sacrificio agli dei, oltre al solo Signore, sarà votato allo sterminio» (Es 22,19).

TRIONFO SENZA RICOMPENSA
Elia aveva dimostrato l’impotenza di Baal come donatore della pioggia o del fuoco e aveva fatto vedere che solo Yahweh manda il fuoco. Ora il profeta doveva dimostrare che Yahweh era anche l’apportatore della pioggia e della fertilità. Coraggiosamente Elia annunciò ad Acab che sentiva «un rumore di pioggia torrenziale» (1 Re 18,41); poi salì sulla cima del monte Carmelo e si umiliò davanti a Dio, inchinandosi con la faccia tra le ginocchia. Per sette volte pregò e ogni volta chiese al suo servo di guardare il cielo verso ovest sopra il mare. Solo dopo la settima preghiera il servo gli riferì: «Ecco una nuvoletta come una mano d’uomo» (1 Re 18,44). Elia mandò a dire al sovrano di partire con il suo carro immediatamente, prima che la pioggia trasformasse il terreno in una distesa di fango impraticabile. Poi però, forse non volendo lasciare che l’ostile monarca annunciasse i lieti eventi sul monte Carmelo, il profeta corse per quasi 20 miglia fino alle porte di Izreel, la capitale del regno del Nord, arrivandovi prima del re.
Ci si sarebbe aspettati che, dopo la sfida del monte Carmelo, tutto Israele sarebbe tornato immediatamente alla fede e al culto di Yahweh. Ma in realtà le cose non andarono così.
Quando la regina Gezabele seppe della strage dei profeti da lei protetti, non solo non abbandonò la sua fede in Baal, ma giurò anche di far uccidere Elia quanto prima. Il vittorioso ma esausto profeta ora doveva correre di nuovo, e questa volta per salvarsi la vita e non per godersi la vittoria. Non sappiamo come riuscì a fuggire dalla città di Izreel; forse approfittò del temporale improvviso. Elia si diresse verso sud, fuori dalla portata della furiosa Gezabele, attraversando Giuda fino a Bersabea, dove lasciò il servo e si addentrò da solo nel deserto del Sinai. Poiché il suo sogno di trasformare il popolo e di ripristinarne la fede in Yahweh sembra-a infranto dal potere di Gezabele, nel fuggitivo la disperazione prevalse sulla fede.
Il profeta, scoraggiato, si sedette esausto sotto un solitario arbusto nel deserto. In quel momento un angelo del Signore lo toccò e gli diede acqua e pane cotto sulle pietre roventi del deserto. Elia mangiò e bevve, ma poi cadde ancora nello sconforto. Di nuovo l’angelo si presentò e lo nutrì, e questa volta gli disse anche di dirigersi più a sud. Rinvigorito dal cibo offertogli dal messaggero celeste, Elia camminò per 40 giorni «fino al monte di Dio, l’Oreb» (1 Re 19,8), conosciuto anche con il nome di monte Sinai. Era come se il profeta avesse ripercorso i 40 anni di Israele nel deserto e fosse tornato nel posto della prima rivelazione di Dio sulla sacra montagna dell’alleanza. Lì Elia si riposò in una caverna che ricordava la fenditura della roccia dove Mosè si era nascosto mentre Dio gli passava accanto e gli rivelava la sua gloria.
Anche dopo l’incontro con l’angelo, Elia era comunque in preda alla disperazione, accecato dall’autocommiserazione. Tuttavia prima che il profeta potesse riaversi, strani fatti cominciarono a verificarsi fuori della caverna. Come un tempo Dio era apparso al popolo di Israele sul Sinai nel fuoco, nel fumo, nel tuono e nel fulmine, anche ora la natura sottolineava l’epifania divina. Ma questa volta, in qualche modo, Elia avvertì una differenza. Un vento impetuoso, tanto forte da spaccare le rocce, investì la montagna, ma Elia seppe che Dio non era nel vento. Poi ci fu un terremoto e poi un fuoco ardente, ma Elia ancora riconobbe che il Signore non era in nessuno dei due fenomeni. Questi erano i segni tradizionali della teofania, o manifestazione divina, segni attribuiti anche a Baal. Certo, Yahweh avrebbe potuto facilmente manifestarli, ma non avrebbe mai potuto essere identificato con essi, come avveniva per gli dei pagani.
Quando il fuoco scomparve, Elia sentì un mormorio nel silenzio, come «di un vento leggero» (1 Re 19,12) e qualcosa dentro di lui gli disse che in quel suono di soave leggerezza era la vera voce di Dio. Non poteva più rimanere seduto, consumato dalla propria tristezza, così si coprì il volto con il mantello e uscì dalla caverna per incontrare il Signore. Allora la voce si rivolse decisamente a Elia: «Che fai qui, Elia?». Il profeta cominciò subito a difendersi, parlando del suo zelo per il Signore e dell’apostasia degli altri. «Gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita» (1 Re 19,13-14). Elia si era impegnato così a lungo nella lotta per la sua fede che era arrivato a pensarla come inseparabilmente legata alle sue vittorie o sconfitte personali.

UNA NUOVA MISSIONE PER ELIA
L’insolita epifania di Dio sulla montagna aveva però indicato una nuova direzione. Il fatto che Dio non fosse nelle potenti manifestazioni della forza della natura come quelle che erano attribuite a Baal, ma era invece presente in un mormorio appena percepibile nel silenzio, indicava che Yahweh si trovava su un piano totalmente diverso da quello della divinità cananea. Non poteva esserci vera competizione tra Baal, che non era nient’altro che una personificazione di quelle forze naturali, e il vero e misterioso Dio di Israele, che conteneva e superava ogni potere naturale. Contrariamente a ciò che immaginava Elia, la sopravvivenza di Dio non dipendeva solo da lui, semplice uomo, e la sua disperazione non era giustificata.
Dio, però, non respinse il suo profeta e gli affidò un’altra missione, concedendogli così di constatare che il piano divino andava oltre la sconfitta di Baal. Dio lo mandò a ungere nuovi re, per la Siria e per Israele, in modo che le fila del potere politico non rimanessero nelle mani di Acah, di Gezabele e della loro razza. Elia doveva anche ungere un nuovo profeta, Eliseo, che in futuro avrebbe preso il suo posto; nessuno era indispensabile. Questi nuovi personaggi avrebbero portato avanti il disegno di Dio con la punizione dell’apostasia che tanto aveva angustiato Elia. Il momento di ungere i nuovi sovrani di Israele e di Siria non era ancora venuto e, in attesa che ciò accadesse, Elia si dispose ad assolvere immediatamente la terza parte della sua missione. Si diresse verso la valle del Giordano fino alla città di Abel-Mecola, dove trovò Eliseo che arava un campo.
Quando il profeta «gli gettò addosso il mantello» (1 Re 19,19), Eliseo andò a prendere congedo dai suoi genitori e diventò il nuovo servitore e l’apprendista di Elia.
Proprio in quel periodo, Acab appariva al culmine della sua carriera; affrontava le sfide militari della Siria, riconquistava città perdute da tempo, stabiliva vantaggiosi accordi commerciali. Questi successi, però, accrebbero la sua brama di potere e, con l’aiuto di Gezabele, confiscò le proprietà di un vicino chiamato Nabot, dopo averlo fatto giustiziare con false accuse di bestemmia e di tradimento. Quando Acab prese possesso della sua nuova proprietà, Elia si presentò davanti a lui: «Mi hai dunque colto in fallo, o mio nemico!» (1 Re 21,20), esclamò Acab, sospettando quello che sarebbe accaduto. Il profeta non gli avrebbe risparmiato l’accusa di omicidio premeditato e, inoltre, gli predisse la completa distruzione della sua dinastia e la vergognosa morte di Gezabele.
Il fuoco delle parole di Elia era talmente intenso che sciolse perfino il cuore di pietra di Acab. Si stracciò le vesti, si vestì di sacco e iniziò un digiuno. Per questo apparente cambiamento di condotta la distruzione della casa reale fu per il momento rinviata; tuttavia, gli effetti delle sue trasgressioni e di quelle della moglie Gezabele sarebbero stati inevitabili. Non molto tempo dopo questi avvenimenti, Acab fu gravemente ferito in battaglia, a Ramot di Galaad, e non riuscì a sopravvivere; gli succedette il figlio Acazia.

L’ULTIMA PREDIZIONE
L’ultimo contatto indiretto di Elia con un re di Israele ci fu dopo che Acazia era rimasto ferito in seguito a una caduta. Il sovrano voleva sapere tramite un oracolo se sarebbe guarito e mandò messaggeri «a interrogare Baal-Zebub» (2 Re 1,2). Ma costoro incontrarono Elia, che li rimandò indietro con il conciso messaggio che il re sarebbe morto.
Quando i messaggeri riferirono l’accaduto e descrissero l’uomo che aveva parlato con loro, Acazia capi che si trattava di Elia e mandò 50 soldati ad arrestarlo. Ma il manipolo di armati non patè fare niente contro il profeta che invocò un fuoco dal cielo che li distrusse; la stessa fine toccò a un secondo gruppo di 50 soldati. Infine, Elia andò personalmente dall’empio re, riaccompagnando gli uomini del terzo drappello, e gli annunciò la condanna. Acazia morì senza figli e gli succedette suo fratello Ioram.
E’ultimo episodio della storia di Elia coinvolge anche la vicenda di Eliseo. Era venuto il tempo in cui Dio voleva «rapire in cielo in un turbine Elia» (.2 Re 2,1) e il vecchio profeta mise alla prova il coraggio del suo erede. Per tre volte Elia chiese a Eliseo di rimanere indietro, ma per tre volte Eliseo dichiarò che non avrebbe lasciato il suo maestro. Quando i due giunsero al Giordano, Elia separò le acque, percuotendole con il suo mantello arrotolato, e cosi poterono attraversare il fiume all’asciutto, proprio come avevano fatto tanto tempo prima gli Israeliti guidati da Giosuè.
Il momento dell’addio era ormai vicino ed Elia offrì a Eliseo un ultimo dono. Eliseo chiese solo di essere considerato come figlio maggiore e di ricevere «due terzi del tuo spirito» (2 Re 2,9). Mentre camminavano conversando, furono improvvisamente separati da un carro e da cavalli di fuoco che rapirono Elia verso il cielo. Elia era scomparso, lasciando cadere il mantello che il discepolo raccolse: era il segno che aveva ereditato la sacra missione di Elia.
Elia, un uomo che non era morto, catturò la fantasia e le speranze profetiche delle generazioni successive. Le profezie di Malachia, nel V secolo a.C., concludono l’Antico Testamento dicendo che Dio manderà Elia a salvare il suo popolo «prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore» (Ml 3,23)- Nel Siracide, Gesù ben Sira osserva che Elia è destinato a «ristabilire le tribù di Giacobbe» (Sir 48, 10). Nel Nuovo Testamento, sia Giovanni Battista sia Gesù vengono associati ad Elia. Di Giovanni è detto che avrebbe operato «con lo spirito e la forza di Elia» (Lc 1,17) ed egli indossava perfino la tunica caratteristica di Elia, intessuta di peli di cammello e stretta in vita da una cintura di cuoio. I Vangeli, inoltre, riferiscono che alcuni pensavano che Gesù fosse il profeta Elia, richiamato in vita sulla terra.

THE NAME OF MARY

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Publié dans:immagini sacre |on 11 juin, 2014 |Pas de commentaires »

Il gioco di Dio – di Gianfranco Ravasi

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Il gioco di Dio

di Gianfranco Ravasi

 » Ero con lui come
una giovane,
ero la sua delizia
ogni giorno,
giocavo davanti a
lui in ogni istante,
giocavo sul globo
terrestre… »
(Proverbi 8,30-31)

«Mentre la beata Umiliana giaceva nel suo letto, ecco un bambino di quattro anni, dal volto bellissimo. Giocava con impegno proprio nella sua cella davanti a lei che gli disse: “Carissimo bambino, non sai fare altro che giocare?”. E il bambino: “Che altro vuoi che faccia?”. E la beata: “Voglio che tu mi dica qualcosa di bello su Dio”. E il bimbo: “Credi che sia bene che uno parli di sé stesso?”. E con queste parole disparve». Questo episodio della vita della beata Umiliana de’ Cerchi (1219-1246), narrato dal suo biografo, fra Vito da Cortona, ha certamente alla base un’allusione alla frase evangelica sul diventare piccoli come bambini per essere grandi nel Regno dei cieli (Matteo 18,4).
Tuttavia, l’originalità sta nell’applicazione a Dio stesso dell’immagine del bambino che gioca. Ora, nel passo biblico che noi abbiamo estratto da un inno grandioso in cui la Sapienza divina si autopresenta, si ha una sorprendente metafora per definirla: è quella da noi tradotta con «giovane». In realtà, in ebraico abbiamo un termine che non ricorre altrove nella Bibbia, ’amôn (si trova, però, due volte nella variante hamôn) e che potrebbe designare anche un “architetto, artefice”, ma è possibile pure la resa “ragazzo, giovane”.
Sia nell’uno sia nell’altro caso la Sapienza del Creatore – che in questo inno è personificata sotto i tratti di una figura femminile – sarebbe raffigurata con simboli che evocano arte, festa, bellezza. A spingerci verso l’immagine della ragazza è proprio il verbo successivo che per due volte parla di “gioco”. Nelle distese immense dei cieli, negli spazi mirabili della natura Dio sembra del tutto immerso in un atto creativo libero e appassionato, un po’ come accade al bambino quando sta giocando. Tutte le sue energie intellettuali e fisiche sono assorbite in quel piacere intimo e totale. È ciò che si ripete per l’artista quando è coinvolto nella sua attività creatrice: nulla lo distrae e il suo spirito e il suo corpo sono totalmente consacrati all’opera che sta uscendo dalle sue mani.
Ebbene, non di rado in teologia si è ricorsi proprio al simbolo del gioco e della creazione artistica per parlare “analogicamente” di Dio. Chi conosce qualcosa di questa scienza sacra avrà sentito parlare, ad esempio, dell’“analogia estetica” sviluppata dal teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, oppure di quella “ludica” (cioè legata all’immagine del gioco) suggerita dall’americano Harvey Cox. Il gioco puro, senza l’inquinamento dell’interesse o della violenza come avviene oggi in certi sport, il gioco innocente e libero del bambino può essere un’analogia, cioè un modo umano adatto a descrivere la divinità, la felicità di Dio e in Dio.
L’abbandono di tutto l’essere che l’artista, come si diceva, sperimenta nell’istante creativo si trasforma in un segno visibile dell’infinita perfezione della mente e dell’azione del Creatore. C’è, a questo proposito, un testo molto suggestivo di Lutero che, ammiccando idealmente al passo del libro dei Proverbi da noi proposto, così dipinge la meta ultima della storia e dell’essere: «Allora l’uomo giocherà con il cielo e con la terra, giocherà con il sole e con tutte le creature. Tutte le creature proveranno anche un piacere immenso, un amore immenso, una gioia lirica, e rideranno con te, o Signore, e tu a tua volta riderai con loro».

27 ottobre 2011

« PERCHÉ TUTTI SIANO UNA COSA SOLA » – Papa Francesco e Patriarca Bartolomeo

http://www.zenit.org/it/articles/perche-tutti-siano-una-cosa-sola

« PERCHÉ TUTTI SIANO UNA COSA SOLA »

Dichiarazione Congiunta di Papa Francesco e del Patriarca Bartolomeo di Costantinopoli

Gerusalemme, 25 Maggio 2014 (Zenit.org)

Riportiamo di seguito la Dichiarazione Congiunta, firmata oggi pomeriggio da Papa Francesco e dal Patriarca Bartolomeo di Costantinopoli durante il loro incontro presso la Delegazione Apostolica di Gerusalemme.

***

1. Come i nostri venerati predecessori, il Papa Paolo VI ed il Patriarca Ecumenico Athenagoras, si incontrarono qui a Gerusalemme cinquant’anni fa, così anche noi, Papa Francesco e Bartolomeo, Patriarca Ecumenico, abbiamo voluto incontrarci nella Terra Santa, “dove il nostro comune Redentore, Cristo Signore, è vissuto, ha insegnato, è morto, è risuscitato ed è asceso al cielo, da dove ha inviato lo Spirito Santo sulla Chiesa nascente” (Comunicato congiunto di Papa Paolo VI e del Patriarca Athenagoras, pubblicato dopo l’incontro del 6 gennaio 1964). Questo nostro incontro, un ulteriore ritrovo dei Vescovi delle Chiese di Roma e di Costantinopoli, fondate rispettivamente dai due fratelli Apostoli Pietro e Andrea, è per noi fonte di intensa gioia spirituale e ci offre l’opportunità di riflettere sulla profondità e sull’autenticità dei legami esistenti tra noi, frutto di un cammino pieno di grazia lungo il quale il Signore ci ha guidato, a partire da quel giorno benedetto di cinquant’anni fa.
2. Il nostro incontro fraterno di oggi è un nuovo, necessario passo sul cammino verso l’unità alla quale soltanto lo Spirito Santo può guidarci: quella della comunione nella legittima diversità. Ricordiamo con viva gratitudine i passi che il Signore ci ha già concesso di compiere. L’abbraccio scambiato tra Papa Paolo VI ed il Patriarca Athenagoras qui a Gerusalemme, dopo molti secoli di silenzio, preparò la strada ad un gesto di straordinaria valenza, la rimozione dalla memoria e dal mezzo della Chiesa delle sentenze di reciproca scomunica del 1054. Seguirono scambi di visite nelle rispettive sedi di Roma e di Costantinopoli, frequenti contatti epistolari e, successivamente, la decisone di Papa Giovanni Paolo II e del Patriarca Dimitrios, entrambi di venerata memoria, di avviare un dialogo teologico della verità tra Cattolici e Ortodossi. Lungo questi anni Dio, fonte di ogni pace e amore, ci ha insegnato a considerarci gli uni gli altri come membri della stessa famiglia cristiana, sotto un solo Signore e Salvatore, Cristo Gesù, e ad amarci gli uni gli altri, di modo che possiamo professare la nostra fede nello stesso Vangelo di Cristo, così come è stato ricevuto dagli Apostoli, espresso e trasmesso a noi dai Concili ecumenici e dai Padri della Chiesa. Pienamente consapevoli di non avere raggiunto l’obiettivo della piena comunione, oggi ribadiamo il nostro impegno a continuare a camminare insieme verso l’unità per la quale Cristo Signore ha pregato il Padre, “perché tutti siano una sola cosa” (Gv 17,21).
3. Ben consapevoli che tale unità si manifesta nell’amore di Dio e nell’amore del prossimo, aneliamo al giorno in cui finalmente parteciperemo insieme al banchetto eucaristico. Come cristiani, ci spetta il compito di prepararci a ricevere questo dono della comunione eucaristica, secondo l’insegnamento di Sant’Ireneo di Lione, attraverso la professione dell’unica fede, la preghiera costante, la conversione interiore, il rinnovamento di vita e il dialogo fraterno (Adversus haereses, IV,18,5. PG 7, 1028). Nel raggiungere questo obiettivo verso cui orientiamo le nostre speranze, manifesteremo davanti al mondo l’amore di Dio e, in tal modo, saremo riconosciuti come veri discepoli di Gesù Cristo (cf Gv 13,35).
4. A tal fine, un contributo fondamentale alla ricerca della piena comunione tra Cattolici ed Ortodossi è offerto dal dialogo teologico condotto dalla Commissione mista internazionale. Durante il tempo successivo dei Papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI e del Patriarca Dimitrios, il progresso realizzato dai nostri incontri teologici è stato sostanziale. Oggi vogliamo esprimere il nostro sentito apprezzamento per i risultati raggiunti, così come per gli sforzi che attualmente si stanno compiendo. Non si tratta di un mero esercizio teorico, ma di un esercizio nella verità e nella carità, che richiede una sempre più profonda conoscenza delle tradizioni gli uni degli altri, per comprenderle e per apprendere da esse. Per questo, affermiamo ancora una volta che il dialogo teologico non cerca un minimo comune denominatore teologico sul quale raggiungere un compromesso, ma si basa piuttosto sull’approfondimento della verità tutta intera, che Cristo ha donato alla sua Chiesa e che, mossi dallo Spirito Santo, non cessiamo mai di comprendere meglio. Affermiamo quindi insieme che la nostra fedeltà al Signore esige l’incontro fraterno ed il vero dialogo. Tale ricerca comune non ci allontana dalla verità, piuttosto, attraverso uno scambio di doni, ci condurrà, sotto la guida dello Spirito, a tutta la verità (cf Gv16,13).
5. Pur essendo ancora in cammino verso la piena comunione, abbiamo sin d’ora il dovere di offrire una testimonianza comune all’amore di Dio verso tutti, collaborando nel servizio all’umanità, specialmente per quanto riguarda la difesa della dignità della persona umana in ogni fase della vita e della santità della famiglia basata sul matrimonio, la promozione della pace e del bene comune, la risposta alle miserie che continuano ad affliggere il nostro mondo. Riconosciamo che devono essere costantemente affrontati la fame, l’indigenza, l’analfabetismo, la non equa distribuzione dei beni. È nostro dovere sforzarci di costruire insieme una società giusta ed umana, nella quale nessuno si senta escluso o emarginato.
6. Siamo profondamente convinti che il futuro della famiglia umana dipende anche da come sapremo custodire, in modo saggio ed amorevole, con giustizia ed equità, il dono della creazione affidatoci da Dio. Riconosciamo dunque pentiti l’ingiusto sfruttamento del nostro pianeta, che costituisce un peccato davanti agli occhi di Dio. Ribadiamo la nostra responsabilità e il dovere di alimentare un senso di umiltà e moderazione, perché tutti sentano la necessità di rispettare la creazione e salvaguardarla con cura. Insieme, affermiamo il nostro impegno a risvegliare le coscienze nei confronti della custodia del creato; facciamo appello a tutti gli uomini e donne di buona volontà a cercare i modi in cui vivere con minore spreco e maggiore sobrietà, manifestando minore avidità e maggiore generosità per la protezione del mondo di Dio e per il bene del suo popolo.
7. Esiste altresì un urgente bisogno di cooperazione efficace e impegnata tra i cristiani, al fine di salvaguardare ovunque il diritto ad esprimere pubblicamente la propria fede e ad essere trattati con equità quando si intende promuovere il contributo che il Cristianesimo continua ad offrire alla società e alla cultura contemporanee. A questo proposito, esortiamo tutti i cristiani a promuovere un autentico dialogo con l’Ebraismo, con l’Islam e con le altre tradizioni religiose. L’indifferenza e la reciproca ignoranza possono soltanto condurre alla diffidenza e, purtroppo, persino al conflitto.
8. Da questa Città Santa di Gerusalemme, vogliamo esprimere la nostra comune profonda preoccupazione per la situazione dei cristiani in Medio Oriente e per il loro diritto a rimanere cittadini a pieno titolo delle loro patrie. Rivolgiamo fiduciosi la nostra preghiera al Dio onnipotente e misericordioso per la pace in Terra Santa e in tutto il Medio Oriente. Preghiamo specialmente per le Chiese in Egitto, in Siria e in Iraq, che hanno sofferto molto duramente a causa di eventi recenti. Incoraggiamo tutte le parti, indipendentemente dalle loro convinzioni religiose, a continuare a lavorare per la riconciliazione e per il giusto riconoscimento dei diritti dei popoli. Siamo profondamente convinti che non le armi, ma il dialogo, il perdono e la riconciliazione sono gli unici strumenti possibili per conseguire la pace.
9. In un contesto storico segnato da violenza, indifferenza ed egoismo, tanti uomini e donne si sentono oggi smarriti. È proprio con la testimonianza comune della lieta notizia del Vangelo, che potremo aiutare l’uomo del nostro tempo a ritrovare la strada che lo conduce alla verità, alla giustizia e alla pace. In unione di intenti, e ricordando l’esempio offerto cinquant’anni fa qui a Gerusalemme da Papa Paolo VI e dal Patriarca Athenagoras, facciamo appello ai cristiani, ai credenti di ogni tradizione religiosa e a tutti gli uomini di buona volontà, a riconoscere l’urgenza dell’ora presente, che ci chiama a cercare la riconciliazione e l’unità della famiglia umana, nel pieno rispetto delle legittime differenze, per il bene dell’umanità intera e delle generazioni future.
8. Mentre viviamo questo comune pellegrinaggio al luogo dove il nostro unico e medesimo Signore Gesù Cristo è stato crocifisso, è stato sepolto ed è risorto, affidiamo umilmente all’intercessione di Maria Santissima e Sempre Vergine i passi futuri del nostro cammino verso la piena unità e raccomandiamo all’amore infinito di Dio l’intera famiglia umana.
“Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (Nm 6, 25-26).

Gerusalemme, 25 maggio 2014

Holy Trinity Mosaic

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Publié dans:immagini sacre |on 10 juin, 2014 |Pas de commentaires »

L’APOSTOLO SOFFRE A VANTAGGIO DELLA CHIESA E RIVELA IL MISTERO (COL 1,21-29)

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L’APOSTOLO SOFFRE A VANTAGGIO DELLA CHIESA E RIVELA IL MISTERO (COL 1,21-29)

Sebastiano Pinto

Ci si sofferma sulla portata teologica della sofferenza di Cristo e, di rimando, delle tribolazioni dell’Apostolo, cercando di cogliere l’importanza della morte di Cristo «nella carne» e del ministero dell’annunciatore come sacrificio a favore della Chiesa.

Introduzione
Dopo l’inno iniziale che canta il primato universale di Cristo (1,12-20) i versetti finali del primo capitolo della lettera ai Colossesi sottolineano la ricaduta comunitaria di quest’opera di riconciliazione (vv. 21-29).
Soffermeremo la nostra attenzione su due temi principali: la carnalità della morte di Cristo che giustifica il nesso fede-redenzione additato alla comunità dall’Apostolo (vv. 21-23), e il ruolo e l’esperienza diretta di Paolo a favore dell’annuncio del Vangelo, con la sottolineatura del rapporto singolare che intercorre tra il sacrificio di Cristo e quello del cristiano (vv. 24-29).
La carne di Cristo e l’unicità della redenzione
21 Un tempo anche voi eravate stranieri e nemici, con la mente intenta alle opere cattive; 22 ora egli vi ha riconciliati nel corpo della sua carne mediante la morte, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili dinanzi a lui (1,21-22).
La contrapposizione tra il passato vissuto nell’ignoranza o nell’errore e il presente che è carico di verità e coscienza, è quasi un leitmotiv nella letteratura battesimale del Nuovo Testamento e in particolare paolina (1Cor 6,9-11; Rm 6,17-22; Col 2,13-14; 3,5-8; Ef 2,1-10.11-12; 1Pt 1,14-16; 2,10). Questa opposizione si fondava sulla comune considerazione che i costumi pagani erano perversi, frutto di non piena consapevolezza, e che il momento presente, quello della fede cristiana, costituisca invece il massimo disvelamento della verità sull’uomo e su Dio.
La nuova condizione positiva in cui il cristiano si trova è frutto della riconciliazione avvenuta mediante la carne (sarx) di Cristo; l’insistenza sull’elemento fisico si spiega con la volontà di non considerare Cristo alla stregua di un mito o di una “sofia”.
È da tenere presente il contesto sincretistico della regione di Colossi:
la città era in una zona dove prosperavano culti pagani collegati alla dea Cibele (o Rea), madre di tutti gli dèi, mitica divinità terrestre, procreatrice di tutto; fioriva anche il culto a Isis (o Iside), dea egiziana dell’abbondanza […] e quello a un Dio locale, Men, che la religiosità popolare identificava con Dionisio […]. Le allusioni all’osservanza dei sabati e all’imposizione dei precetti (2,16.21) fanno supporre anche un influsso giudaico[1].
La comunità di Colossi, per diversi aspetti solida nella fede e nella carità, corre il rischio di diluire il messaggio cristiano e vanificarlo: da alcuni passaggi dello scritto emerge, infatti, l’attività di falsi predicatori che parlano della fede come di una filosofia:
Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia (philosophías) e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo (2,8).
In concreto si mette in guardia da un duplice pericolo. Il primo consiste nel considerare il cristianesimo uno tra i diversi sistemi di pensiero greci legati alle scuole e ai relativi maestri di saggezza. Per philosophía si può intendere anche una di quelle teosofie giudeo-elleniste che speculavano sul mondo, sulla sua origine, sui suoi movimenti e sulla sua evoluzione.
Ma il secondo e più insidioso tranello che queste filosofie e i loro banditori portavano con sé consiste nella vanificazione della potenza salvifica dell’evento-Cristo. Se esso è solo frutto dell’ingegno umano che si applica alla scienza filosofica, non ha nulla di trascendente e di unico, rivelandosi incapace di un reale e radicale rinnovamento ontologico dell’uomo e dell’universo perché foriero di un sistema pratico e intellettuale effimero e passeggero:
Sono tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti di uomini, che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne (2,22-23).
L’inganno che l’Apostolo smaschera sembra seguire questo ragionamento: svuotando il significato della sarx di Cristo e il legame con la carne degli essere umani, si vanifica il valore autentico del corpo e si smarrisce la capacità di un reale dominio su di esso:
I cristiani di Colossi manifestavano una malsana curiosità per un movimento giudaico mistico-ascetico in voga in quel periodo nella valle del Lico […]; influenzati dalla speculazione giudaica, alcuni erano pervenuti a credere che l’astinenza dal cibo e dalle bevande unita a una stretta osservanza delle festività giudaiche potesse procurare un’ascesa mistica al vertice del cosmo, dove ognuno avrebbe potuto vedere gli angeli che rendevano culto presso il trono di Dio (cosa molto più gratificante dell’amore per il prossimo nel sacrificio di sé)[2].
Si scade, pertanto, in schizofreniche pratiche restrittive che, alla fine, non producono altro effetto se non l’accrescimento dell’orgoglio di chi è riuscito a sottomettere quella parte istintiva di sé che è spesso fuori controllo. Questo risultato non libera dalla schiavitù del corpo (considerato come componente secondaria rispetto all’anima/spirito perché soggetto alla corruzione e al disfacimento) elevando lo spirito ma lo strumentalizza per il proprio autocompiacimento.
Il primato cosmico di Cristo dell’inno iniziale consiste nel superamento di tutte le potenze umane e di quegli elementi sovrumani che pretendono di portare una luce di verità sull’uomo e sul suo habitat.
La differenza specifica tra il cristianesimo e questa “filosofia” risiede proprio della carnalità della salvezza che trasforma la morte da limite estremo di ogni creatura a porta attraverso la quale si accede alla profonda riconciliazione dell’uomo con se stesso e con il creato; solo in questo modo l’essere umano è definitivamente strappato all’autoreferenzialità e posto in relazione al “tu” di Cristo «per presentarsi santi, immacolati e irreprensibili dinanzi a lui» (v. 22b).
La nuova condizione qui descritta richiama il contesto liturgico e rituale che permetteva agli Israeliti di non temere di comparire davanti Yhwh (Es 19,10.14-15; 29,37-38); ma evoca anche il contesto giuridico del giusto che si presenta in tribunale certo della sua innocenza (Gb 31).
Quasi in polemica con questa visione del mondo Paolo traccia, dunque, una gerarchia ponendo Cristo al vertice del cosmo e individuando nella sua sarx il fulcro di quest’ultimo:
È in lui che abita corporalmente tutta la pienezza (pléroma) della divinità (2,9).
È vinta l’ignoranza dei cristiani, dunque, perché è ormai palese che non esistono elementi complementari a Cristo e alla sua redenzione, né forze che ne possano surrogare l’azione potente e pienamente efficace.
Il Vangelo è la speranza
Purché restiate fondati e fermi nella fede, irremovibili nella speranza del Vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunciato in tutta la creazione che è sotto il cielo, e del quale io, Paolo, sono diventato ministro (1,23).
L’Apostolo illustra ai cristiani di Colossi che la riconciliazione di Cristo e la sua irradiazione cosmica si rendono disponibili e fruibili solo a determinate condizioni. La prima è la fede che costituisce il fondamento stabile e certo della vita del cristiano: come in 1Cor 16,13 la fede è dono dello Spirito (1Cor 12,9; 13,2) e radicamento in quelle convinzioni che nell’oggi generano il dinamismo salvifico della vita nuova in Cristo dettata dallo Spirito (Gal 5,22).
Se la fede fonda la vita morale nell’oggi, la speranza la proietta nel futuro perché indica il compimento dell’itinerario al quale la fede introduce. Tale speranza non è il pio e vago desiderio di vedere la buona riuscita dei progetti o delle aspirazioni ma è una realtà che conferisce fermezza al pari della fede, perché la speranza è il Vangelo. Il genitivo «del Vangelo» può essere letto, infatti, come un genitivo oggettivo (il Vangelo è il contenuto della speranza) esplicitando che quanto Paolo ha già consegnato ai Colossesi – il primato di Cristo e della sua salvezza – è ciò che anima e proietta in avanti il cammino del credente abbracciando l’intero universo in questo processo di rigenerazione.
Si inserisce, a questo punto della riflessione, il senso della missione dell’Apostolo qui descritta nei termini del servizio: egli è il diacono del Vangelo e non il padrone, come indicato anche altrove (1Cor 3,5; 2Cor 3,6; 6,4; 11,23). Il vero evangelizzatore sa trovare il giusto rapporto tra verità del Vangelo e partecipazione/appropriazione personale.
Per questo nei versetti che seguono Paolo specificherà la sua personale adesione al mistero della croce di Cristo senza correre il rischio di sminuirne la portata oggettiva e universale.
Il completamento personale del sacrificio di Cristo
Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa (1,24).
Nella traduzione della Bibbia del 1971 operata della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), questo versetto veniva reso con qualche ambiguità:
Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa.
A primo impatto sembrerebbe che il sacrificio di Cristo sia incompleto e che sia Paolo a dargli pieno compimento. Una simile impressione, seppur riduttiva, non è errata; è necessario, tuttavia, specificare il senso della frase al genitivo «patimenti di Cristo» (thlípseõn tou Christou) e contestualizzarla legandola alle «sofferenze» (pathémasin) dell’Apostolo.
I due termini sembrano, infatti, richiamare la medesima realtà, quella, cioè, delle prove subite dai cristiani e dai missionari in unione alle prove di Cristo crocifisso.
Nell’epistolario paolino o negli altri scritti del Nuovo Testamento il termine «tribolazione» (thlípsis) non designa le sofferenze di Cristo – associate, invece, a vocaboli quali «sangue», «croce», «morte» – ma l’angoscia che coinvolge gli uomini e il cosmo e che precede la venuta piena del regno e il giudizio definitivo (Mc 13,19-24; Rm 8,35; 2Cor 6,4; Ef 3,13; 2Ts 1,4). A conferma di quanto ora asserito si può leggere 2Cor 1,5 in cui Paolo chiama «sofferenze di Cristo» (pathémata tou Christou) le prove che come evangelizzatore deve sopportare a motivo della croce di Cristo.
Alla luce di questa considerazione si comprende il senso del genitivo partitivo «patimenti di Cristo» (thlípseõn tou Christou) che, tra le varie tipologie di genitivo della lingua greca, indica la parte di un tutto: si specifica, nel nostro contesto, l’esistenza di una porzione riservata all’Apostolo all’interno del più ampio rimando alle sofferenze accettate in conformazione al mistero della croce. Il sacrificio di Cristo, infatti, è completo in sé e lo si afferma a chiare lettere più avanti nella lettera in 2,13:
Con Cristo Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe.
In conclusione, possiamo asserire che a dover fare ancora il suo corso è il cammino di Paolo (e del cristiano) che attraverso la sua croce è chiamato a conformarsi al Crocifisso in un sacrificio che, similmente a quello di Cristo, è finalizzato all’edificazione della Chiesa:
La Chiesa diviene compimento del mistero di Cristo e realizza il suo divenire attraverso gli uomini: le loro tribolazioni sono per essa fermento di crescita (1,24); le loro comunità costituiscono la Chiesa locale (1,2; 4,16); le loro famiglie, la Chiesa domestica (4,15). La vita del Cristo che si dilata nel cosmo si manifesta ovunque: nel cristiano che ne accoglie l’annuncio per essere perfetto in lui (1,28) e che ha parte alla sua pienezza (2,10)[3].
In questo senso la traduzione della Bibbia CEI del 2008 esplicita correttamente il senso teologico della frase fugando ogni dubbio.

Conclusione
Emerge, dalla riflessione sviluppata in queste pagine, che l’importanza della morte nella carne di Cristo, della conseguente riconciliazione e della partecipazione alle sue sofferenze si spiega
oltre che in rapporto all’applicazione attuale e personalizzata dell’evento storico-salvifico, anche in ragione della preoccupazione fortemente pratica ed esistentiva dell’esortazione; lo scopo della riconciliazione è quello di dare ai cristiani la reale possibilità di una vita secondo il progetto di Dio[4].
Ci pare molto attuale questa sottolineatura esistenziale che getta una luce particolarissima e unica sul mistero della sofferenza di Cristo e del credente. Essa ha un valore positivo perché non solo assimila e incorpora a colui che mediante il suo sacrificio ha rinnovato l’universo, ma rende feconda anche la croce di ogni singolo uomo conferendo forza e efficacia proprio nel momento della debolezza e dell’apparante inutilità.
Lo specifico del messaggio paolino ha, infatti, una forte impronta antropologica perché la persona di Cristo dischiude all’essere umano il mistero della propria vocazione. L’intuizione dell’Apostolo nelle sue esortazioni alla comunità di Colossi mira a saldare indissolubilmente l’umanità di Gesù – nato, morto e risorto nella sua sarx – con la debolezza di ogni singola sarx, perché è consapevole della posta in gioco: negando la prima si dissolve anche la seconda e, al contrario, riconoscendo il Dio-uomo si apre la strada per la reale divinizzazione dell’essere umano.

[1] E. Ghini, La Lettera ai Colossesi. Commento pastorale, EDB, Bologna 1990, 18.
[2] J. Murphy-O’Connor, «Lettera ai Colossesi», in R. Penna – G. Perego – G. Ravasi (edd.), Temi teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2010, 176.
[3] Ghini, La Lettera ai Colossesi, 31.
[4] Cf. R. Fabris, Le lettere di Paolo. Traduzione e commento, Borla, Roma 19902, 92.

Publié dans:Lettera ai Colossesi |on 10 juin, 2014 |Pas de commentaires »
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