Archive pour juin, 2014

The Song of the Songs of Solomon

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SAN BERNARDO: SERMONE VIII (…IL BACIO DI DIO)

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SAN BERNARDO: SERMONE VIII (…IL BACIO DI DIO)

I. Il bacio eccelso, lo Spirito Santo. II. Per questo bacio il Padre e il Figlio si rivelano, e inseparabile è la loro conoscenza. III. Ai filosofi non sono stati rivelati mediante questo bacio gli arcani di Dio. IV. Con quale cautela vada interpretato il significato del piede. V. Le due labbra della sposa. VI. Il bacio del Padre e del Figlio. VII. Il bacio della bocca offerto ai santi.

I. 1. Oggi, come vi ricordate che abbiamo promesso ieri, ci proponiamo di trattare del bacio sommo, cioè della bocca. Ascoltate con più attenzione ciò che ha più soave sapore, che si gusta più raramente e che più difficilmente si comprende. Mi sembra, per cominciare un po’ più alto, che abbia inteso designare un certo ineffabile bacio, non sperimentato da alcuna creatura, colui che disse: Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare (Mt 11,27). Il Padre infatti ama il Figlio, e lo abbraccia con una singolare dilezione, il sommo l’eguale, l’eterno il coeterno, il solo l’unico. Ma anche egli stesso è oggetto di non minore affetto da parte del Figlio, il quale per amore di Lui si sottomette alla morte, come egli medesimo attesta: Perché sappiano tutti che amo il Padre, alzatevi, andiamo (Gv 14,31), cioè alla passione. Quella conoscenza pertanto vicendevole e mutuo amore del Padre che genera e del Figlio che è generato che altro sono se non un soavissimo, ma segretissimo bacio?
2. Io ritengo per certo che a così grande santo arcano del divino amore non sia ammessa neppure l’angelica creatura. Difatti, anche san Paolo pensa che quella pace supera ogni sentimento, anche angelico. Per cui neppure costei (la sposa), sebbene molto audace, osa tuttavia dire: «Mi baci con la sua bocca», riservando cioè questo al solo Padre; ma, chiedendo qualcosa di meno, Mi baci, dice, con il bacio della sua bocca. Vedete la novella sposa che riceve il nuovo bacio, non dalla bocca, ma dal bacio della bocca. Soffiò, dice, su di loro, cioè Gesù sugli Apostoli, vale a dire sulla primitiva Chiesa, e disse: Ricevete lo Spirito Santo (Gv 20, 22). Fu per certo un bacio. Che cosa? Quel soffio corporeo? No, ma l’invisibile Spirito venne dato appunto con quel soffio del Signore, per significare che procedeva parimenti da lui e dal Padre, come un vero bacio, che è comune a chi bacia e a chi è baciato. Basta pertanto alla sposa che sia baciata dal bacio dello Sposo, anche se non viene baciata dalla bocca. Non ritiene infatti poca cosa o vile essere baciata dal bacio, il che non è altro che venire ripiena di Spirito Santo. Infatti, se veramente si riceve il Padre che bacia e il Figlio che è baciato, non sarà fuori luogo intendere per bacio lo Spirito Santo, che è del Padre e del Figlio l’imperturbabile pace, il forte cemento, l’indiviso amore, l’indivisibile unità.
II. 3. Questo è quello che pretende la sposa, questo, sotto il nome di bacio, chiede con fiducia che le venga infuso. Possiede invero qualche cosa che le fornisce motivo di sperare. Dicendo, infatti, il Figlio: Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, aggiunse: o colui al quale il Figlio lo abbia voluto rivelare (Mt 11,27). Ora, la sposa non dubita che, se lo vorrà a qualcuno, io voglia rivelare a lei. Chiede dunque con audacia che le venga dato il bacio, cioè, quello Spirito nel quale le sia rivelato anche il Figlio e il Padre. Non si conosce infatti l’uno senza l’altro. Perciò è detto: Chi vede me, vede anche il Padre (Gv 14,9) e le parole di Giovanni: Chiunque nega il Figlio, non ha neppure il Padre. Ma chi confessa il Figlio, ha anche il Padre (1 Gv 2,23). Dalle quali parole risulta chiaro che non si conosce il Padre senza il Figlio, né il Figlio senza il Padre. Giustamente perciò pone la somma beatitudine nella conoscenza, non di uno solo, ma dei due colui che dice: Questa è la vita eterna, che conoscano Te vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo (Gv 17,3). Infine anche di coloro che seguono l’Agnello si dice che hanno il nome di lui e il nome del Padre suo scritto sulle loro fronti, il che vuol dire gloriarsi della conoscenza di entrambi.
4. Ma dirà qualcuno: «Dunque la conoscenza dello Spirito Santo non è necessaria, dal momento che ha detto che la vita eterna consiste nel conoscere il Padre e il Figlio; e dello Spirito Santo non ha detto nulla?». È vero; ma dove si conosce perfettamente il Padre e il Figlio, come si può ignorare la bontà dell’uno e dell’altro, che è appunto lo Spirito Santo? Non si conosce infatti integralmente un uomo da parte di un altro uomo fino a che non si sa con chiarezza se sia di buona o di cattiva volontà. E poi quando viene detto: Questa è la vita eterna, che conoscano te vero Dio, e colui che hai mandato Gesù Cristo (Gv 17,3), se quella missione, dimostra da una parte il beneplacito del Padre che benignamente manda, e dall’altra quello del Figlio che volontariamente obbedisce, non del tutto si tace dello Spirito Santo dove si fa menzione di tanta grazia da parte di entrambi. L’amore, infatti, e la benignità dell’uno e dell’altro è lo Spirito Santo.
5. La sposa dunque chiede che le venga infusa la triplice grazia di questa conoscenza, per quanto è possibile comprendere nella carne mortale, allorquando chiede un bacio. Lo chiede poi al Figlio, perché spetta al Figlio rivelarlo a chi vuole. Rivela dunque il Figlio se stesso a chi vuole, rivela anche il Padre. Lo rivela certamente per mezzo del bacio, cioè per mezzo dello Spirito Santo, come testimonia san Paolo che dice: Dio ha rivelato a noi per mezzo del suo Spirito (1 Cor 2,10). Ma, dando lo Spirito, per il quale rivela, rivela anche il medesimo: dando rivela, e rivelando dà. La rivelazione che si compie per mezzo dello Spirito Santo, non solo dà luce per la conoscenza, ma anche accende l’amore, come dice l’Apostolo: La carità di Dio è diffusa nei nostri cuori pei mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato (Rm 5,5).
III. È forse per questo che di alcuni di coloro che, avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato come Dio, non si legge che lo abbiano conosciuto per rivelazione dello Spirito Santo, perché, conoscendolo, non lo amarono. Così infatti sta scritto: Poiché Dio lo rivelò a essi (Rm 1,19).
E non vi è aggiunto: per mezzo dello Spirito Santo, perché non si attribuissero le menti degli empi il bacio della sposa, ma, contente della scienza che gonfia, non conobbero quella che edifica. Infine, lo stesso Apostolo ci dica per mezzo di chi essi (i pagani) hanno conosciuto: Per mezzo delle cose, dice, che sono state fatte, (le cose invisibili di Dio) sono rese visibili all’intelligenza (Rm 1,20). Donde si vede che non conobbero perfettamente colui che non amarono affatto. Se infatti lo avessero conosciuto integralmente, non avrebbero ignorato la bontà con la quale volle nella carne nascere e morire per la loro redenzione. Senti infine ciò che di Dio fu loro rivelato: La sempiterna, dice (san Paolo), potenza di lui e la sua divinità (Rm 1,20). Vedi che essi hanno investigato, servendosi del loro spirito, non di quello di Dio, quel che riguardava la sublimità, la maestà. Ma non hanno compreso come egli sia mite e umile di cuore. E non fa meraviglia, perché il loro capo Behemoth (Leviatan) non è affatto umile, ma come si legge di esso, lo teme ogni essere più altero (Gb 41,25). Al contrario Davide non andava in cerca di cose grandi, superiori alle sue forze, perché volendo scrutare la maestà non venisse oppresso dalla gloria.
IV. 6. Anche voi, per porre con cautela il piede nei sensi arcani, ricordate sempre l’ammonizione del sapiente: Non cercare le cose più alte dite, e non voler indagare quelle cose che sorpassano le tue forze (Eccli 3,22). Camminate in esse secondo lo spirito e non secondo il proprio senso. La dottrina dello Spirito non acuisce la curiosità, ma accende la carità. Perciò giustamente la sposa, cercando colui che l’anima sua ama, non si affida ai sensi della sua carne, non accetta i vani ragionamenti dell’umana curiosità; ma chiede il bacio, cioè, invoca lo Spirito Santo, per mezzo del quale riceverà insieme e il gusto della scienza, e il condimento della grazia. E la scienza che viene data dal bacio si riceve veramente con l’amore, perché il bacio è segno di amore. La scienza invece che gonfia, essendo senza carità, non procede dal bacio. Ma neppure coloro che hanno lo zelo di Dio, ma non secondo scienza, si arroghino quello (bacio). Poiché la grazia del bacio porta con sé i due doni, la luce della scienza, e l’abbondanza della devozione. È infatti lo Spirito di sapienza e di intelligenza che, a guisa di ape che porta la cera e il miele, ha di che accendere il lume della scienza e infondere il sapore della grazia. Non pensi di aver ricevuto l’uno o l’altro, sia chi percepisce la verità, ma non l’ama, sia chi ama senza comprendere. In questo bacio davvero non vi è posto né per l’errore, né per la tiepidezza.
V. Pertanto, a ricevere la duplice grazia del sacrosanto bacio, prepari dal canto suo colei che è sposa le sue due labbra, la ragione dell’intelligenza e la volontà della sapienza, onde, gloriandosi del pieno bacio, meriti di sentirsi dire: Sulle tue labbra è diffusa la grazia, perciò ti ha benedetto Dio per sempre (Sal 44,3).
VI. Così dunque il Padre, baciando il Figlio, effonde pienamente in lui gli arcani della sua divinità e spira soave amore. Significa questo la Scrittura quando dice: Il giorno al giorno trasmette la parola (Sal 18,3). A questo sempiterno e singolarmente beato amplesso, come si è detto, a nessuna creatura affatto è dato di venire ammessa, solo restando lo Spirito di entrambi testimonio e consapevole della mutua conoscenza e dilezione. Chi infatti ha mai conosciuto il pensiero del Signore, o chi è stato suo consigliere? (Rm 11,34).
7. Ma mi dirà forse qualcuno: «Allora, come è pervenuto a te ciò che dici non essere concesso a nessuna creatura?». In verità l’Unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato (Gv 1,18). Rivelato, dirò, non a me, misero e indegno, ma a Giovanni, amico dello Sposo, del quale sono queste parole; e non solo a lui, ma anche a Giovanni Evangelista, il discepolo che Gesù amava. Piacque infatti a Dio anche l’anima di lui, del tutto degna del nome e della dote di sposa, degna di amplessi dello Sposo, degna infine di riposare sul petto del Signore. Attinse Giovanni dal petto dell’Unigenito ciò che questi aveva attinto dal seno paterno. Ma non solo lui, anche tutti quelli ai quali diceva l’angelo del gran consiglio: Vi ho chiamati amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi (Gv 15,15). Attinse anche Paolo, il cui vangelo non è da uomo, né lo ha ricevuto per mezzo di uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo.
VII. Veramente tutti costoro possono tanto felicemente quanto veracemente dire: L’Unigenito che era nel seno del Padre, egli stesso ce lo ha rivelato (Gv 1,18). E tale rivelazione che altro fu per essi se non un bacio? Ma un bacio del bacio, non della bocca. Senti invece il bacio della bocca: Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10,30). E ancora: Io sono nel Padre, e il Padre è in me (Gv 14,10). È un bacio dato da bocca a bocca; ma nessuno si avvicini. È davvero un bacio di amore e di pace, ma quella dilezione sorpassa ogni scienza, e quella pace sorpassa ogni sentimento. Tuttavia, ciò che occhio non vide, né orecchio udì, né cuore di uomo poté capire, Dio lo ha rivelato a Paolo per mezzo del suo Spirito, vale a dire, per mezzo del bacio della sua bocca. Pertanto l’essere il Figlio nel Padre e il Padre nel Figlio, è bacio della bocca. Quello poi che si legge: Non abbiamo infatti ricevuto lo spirito di questo mondo, ma lo Spirito che è da Dio, perché conosciamo le cose che da Dio ci sono state donate (1 Cor 2,12), questo è bacio del bacio.
8. E per distinguere più nettamente uno dall’altro, chi riceve la pienezza, riceve il bacio della bocca, chi invece riceve dalla pienezza, riceve il bacio dal bacio. Grande è san Paolo; ma per quanto porga in alto la bocca, anche se si spinge fino al terzo cielo, rimane necessariamente al di sotto della bocca dell’Altissimo, e deve accontentarsi della sua misura e restarsene al posto suo, e non potendo arrivare al volto della gloria, chieda umilmente che, per condiscendenza verso di lui, gli venga trasmesso un bacio dall’alto. Colui invece che non considerò come una rapina l’essere egli uguale a Dio, di modo che possa dire: Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10,30), perché da pari a pari si unisce, da pari a pari gode l’amplesso, non mendica il bacio da un luogo inferiore, ma da pari altezza accosta la bocca alla bocca, e con singolare prerogativa, riceve il bacio dalla bocca. Per Cristo dunque il bacio è la pienezza, per Paolo è partecipazione, e mentre il primo si gloria del bacio dalla bocca, questi si glori di essere baciato soltanto dal bacio.
9. Felice bacio tuttavia, per il quale non solo si conosce Dio, ma si ama il Padre, il quale non si conosce pienamente se non quando perfettamente si ama. Quale anima tra di voi senti talvolta nel segreto dell’anima sua lo Spirito del Figlio esclamare: Abbà, Padre? (Gal 4,6) Essa, essa comprenda di essere amata con paterno affetto, dal momento che è animata dallo stesso Spirito del Figlio. Confida, chiunque tu sia, confida senza alcuna esitazione. Nello Spirito del Figlio riconosciti figlia del Padre, sposa del Figlio e sorella. Troverai che a una tale anima vengono dati questi due nomi. Mi è facile provarlo. Lo Sposo si rivolge a lei dicendo: Vieni nel mio orto, sorella mia sposa (Cant 5,1). È sorella, perché figlia dello stesso Padre; sposa perché nel medesimo Spirito. Poiché, se il matrimonio carnale stabilisce due in una sola carne, perché l’unione spirituale a più forte ragione non congiungerà due in un solo spirito? Infine, chi aderisce a Dio forma con lui un solo spirito (1 Cor 6,17). Ma senti anche il Padre con quanto amore e quanta degnazione la chiama figlia, e, come propria nuora, la invita ai teneri amplessi del Figlio: Ascolta, o figlia, guarda. Porgi l’orecchio, e dimentica il tuo popolo e la casa di tuo Padre. E al re piacerà la tua bellezza (Sal 44,11-12). Ecco da chi costei implora un bacio. O anima santa, abbi riverenza, perché egli è il Signore Dio tuo, forse non da baciarsi, ma da adorarsi con il Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.

The Holy Trinity

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Publié dans:immagini sacre |on 13 juin, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI : SANT’ANTONIO DI PADOVA – 13 GIUGNO

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100210_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 10 febbraio 2010

SANT’ANTONIO DI PADOVA – 13 GIUGNO

Cari fratelli e sorelle,

due settimane fa ho presentato la figura di san Francesco di Assisi. Questa mattina vorrei parlare di un altro santo appartenente alla prima generazione dei Frati Minori: Antonio di Padova o, come viene anche chiamato, da Lisbona, riferendosi alla sua città natale. Si tratta di uno dei santi più popolari in tutta la Chiesa Cattolica, venerato non solo a Padova, dove è stata innalzata una splendida Basilica che raccoglie le sue spoglie mortali, ma in tutto il mondo. Sono care ai fedeli le immagini e le statue che lo rappresentano con il giglio, simbolo della sua purezza, o con il Bambino Gesù tra le braccia, a ricordo di una miracolosa apparizione menzionata da alcune fonti letterarie.
Antonio ha contribuito in modo significativo allo sviluppo della spiritualità francescana, con le sue spiccate doti di intelligenza, di equilibrio, di zelo apostolico e, principalmente, di fervore mistico.
Nacque a Lisbona da una nobile famiglia, intorno al 1195, e fu battezzato con il nome di Fernando. Entrò fra i Canonici che seguivano la regola monastica di sant’Agostino, dapprima nel monastero di San Vincenzo a Lisbona e, successivamente, in quello della Santa Croce a Coimbra, rinomato centro culturale del Portogallo. Si dedicò con interesse e sollecitudine allo studio della Bibbia e dei Padri della Chiesa, acquisendo quella scienza teologica che mise a frutto nell’attività di insegnamento e di predicazione. A Coimbra avvenne l’episodio che impresse una svolta decisiva nella sua vita: qui, nel 1220 furono esposte le reliquie dei primi cinque missionari francescani, che si erano recati in Marocco, dove avevano incontrato il martirio. La loro vicenda fece nascere nel giovane Fernando il desiderio di imitarli e di avanzare nel cammino della perfezione cristiana: egli chiese allora di lasciare i Canonici agostiniani e di diventare Frate Minore. La sua domanda fu accolta e, preso il nome di Antonio, anch’egli partì per il Marocco, ma la Provvidenza divina dispose altrimenti. In seguito a una malattia, fu costretto a rientrare in Italia e, nel 1221, partecipò al famoso “Capitolo delle stuoie” ad Assisi, dove incontrò anche san Francesco. Successivamente, visse per qualche tempo nel totale nascondimento in un convento presso Forlì, nel nord dell’Italia, dove il Signore lo chiamò a un’altra missione. Invitato, per circostanze del tutto casuali, a predicare in occasione di un’ordinazione sacerdotale, mostrò di essere dotato di tale scienza ed eloquenza, che i Superiori lo destinarono alla predicazione. Iniziò così in Italia e in Francia, un’attività apostolica tanto intensa ed efficace da indurre non poche persone che si erano staccate dalla Chiesa a ritornare sui propri passi. Antonio fu anche tra i primi maestri di teologia dei Frati Minori, se non proprio il primo. Iniziò il suo insegnamento a Bologna, con la benedizione di san Francesco, il quale, riconoscendo le virtù di Antonio, gli inviò una breve lettera, che si apriva con queste parole: “Mi piace che insegni teologia ai frati”. Antonio pose le basi della teologia francescana che, coltivata da altre insigni figure di pensatori, avrebbe conosciuto il suo apice con san Bonaventura da Bagnoregio e il beato Duns Scoto.

Diventato Superiore provinciale dei Frati Minori dell’Italia settentrionale, continuò il ministero della predicazione, alternandolo con le mansioni di governo. Concluso l’incarico di Provinciale, si ritirò vicino a Padova, dove già altre volte si era recato. Dopo appena un anno, morì alle porte della Città, il 13 giugno 1231. Padova, che lo aveva accolto con affetto e venerazione in vita, gli tributò per sempre onore e devozione. Lo stesso Papa Gregorio IX, che dopo averlo ascoltato predicare lo aveva definito “Arca del Testamento”, lo canonizzò solo un anno dopo la morte nel 1232, anche in seguito ai miracoli avvenuti per la sua intercessione.
Nell’ultimo periodo di vita, Antonio mise per iscritto due cicli di “Sermoni”, intitolati rispettivamente “Sermoni domenicali” e “Sermoni sui Santi”, destinati ai predicatori e agli insegnanti degli studi teologici dell’Ordine francescano. In questi Sermoni egli commenta i testi della Scrittura presentati dalla Liturgia, utilizzando l’interpretazione patristico-medievale dei quattro sensi, quello letterale o storico, quello allegorico o cristologico, quello tropologico o morale, e quello anagogico, che orienta verso la vita eterna. Oggi si riscopre che questi sensi sono dimensioni dell’unico senso della Sacra Scrittura e che è giusto interpretare la Sacra Scrittura cercando le quattro dimensioni della sua parola. Questi Sermoni di sant’Antonio sono testi teologico-omiletici, che riecheggiano la predicazione viva, in cui Antonio propone un vero e proprio itinerario di vita cristiana. È tanta la ricchezza di insegnamenti spirituali contenuta nei “Sermoni”, che il Venerabile Papa Pio XII, nel 1946, proclamò Antonio Dottore della Chiesa, attribuendogli il titolo di “Dottore evangelico”, perché da tali scritti emerge la freschezza e la bellezza del Vangelo; ancora oggi li possiamo leggere con grande profitto spirituale.
In questi Sermoni sant’Antonio parla della preghiera come di un rapporto di amore, che spinge l’uomo a colloquiare dolcemente con il Signore, creando una gioia ineffabile, che soavemente avvolge l’anima in orazione. Antonio ci ricorda che la preghiera ha bisogno di un’atmosfera di silenzio che non coincide con il distacco dal rumore esterno, ma è esperienza interiore, che mira a rimuovere le distrazioni provocate dalle preoccupazioni dell’anima, creando il silenzio nell’anima stessa. Secondo l’insegnamento di questo insigne Dottore francescano, la preghiera è articolata in quattro atteggiamenti, indispensabili, che, nel latino di Antonio, sono definiti così: obsecratio, oratio, postulatio, gratiarum actio. Potremmo tradurli nel modo seguente: aprire fiduciosamente il proprio cuore a Dio; questo è il primo passo del pregare, non semplicemente cogliere una parola, ma aprire il cuore alla presenza di Dio; poi colloquiare affettuosamente con Lui, vedendolo presente con me; e poi – cosa molto naturale – presentargli i nostri bisogni; infine lodarlo e ringraziarlo.
In questo insegnamento di sant’Antonio sulla preghiera cogliamo uno dei tratti specifici della teologia francescana, di cui egli è stato l’iniziatore, cioè il ruolo assegnato all’amore divino, che entra nella sfera degli affetti, della volontà, del cuore, e che è anche la sorgente da cui sgorga una conoscenza spirituale, che sorpassa ogni conoscenza. Infatti, amando, conosciamo.
Scrive ancora Antonio: “La carità è l’anima della fede, la rende viva; senza l’amore, la fede muore” (Sermones Dominicales et Festivi II, Messaggero, Padova 1979, p. 37).
Soltanto un’anima che prega può compiere progressi nella vita spirituale: è questo l’oggetto privilegiato della predicazione di sant’Antonio. Egli conosce bene i difetti della natura umana, la nostra tendenza a cadere nel peccato, per cui esorta continuamente a combattere l’inclinazione all’avidità, all’orgoglio, all’impurità, e a praticare invece le virtù della povertà e della generosità, dell’umiltà e dell’obbedienza, della castità e della purezza. Agli inizi del XIII secolo, nel contesto della rinascita delle città e del fiorire del commercio, cresceva il numero di persone insensibili alle necessità dei poveri. Per tale motivo, Antonio più volte invita i fedeli a pensare alla vera ricchezza, quella del cuore, che rendendo buoni e misericordiosi, fa accumulare tesori per il Cielo. “O ricchi – così egli esorta – fatevi amici… i poveri, accoglieteli nelle vostre case: saranno poi essi, i poveri, ad accogliervi negli eterni tabernacoli, dove c’è la bellezza della pace, la fiducia della sicurezza, e l’opulenta quiete dell’eterna sazietà” (Ibid., p. 29).
Non è forse questo, cari amici, un insegnamento molto importante anche oggi, quando la crisi finanziaria e i gravi squilibri economici impoveriscono non poche persone, e creano condizioni di miseria? Nella mia Enciclica Caritas in veritate ricordo: “L’economia ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento, non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona” (n. 45).
Antonio, alla scuola di Francesco, mette sempre Cristo al centro della vita e del pensiero, dell’azione e della predicazione. È questo un altro tratto tipico della teologia francescana: il cristocentrismo. Volentieri essa contempla, e invita a contemplare, i misteri dell’umanità del Signore, l’uomo Gesù, in modo particolare, il mistero della Natività, Dio che si è fatto Bambino, si è dato nelle nostre mani: un mistero che suscita sentimenti di amore e di gratitudine verso la bontà divina.
Da una parte la Natività, un punto centrale dell’amore di Cristo per l’umanità, ma anche la visione del Crocifisso ispira ad Antonio pensieri di riconoscenza verso Dio e di stima per la dignità della persona umana, così che tutti, credenti e non credenti, possano trovare nel Crocifisso e nella sua immagine un significato che arricchisce la vita. Scrive sant’Antonio: “Cristo, che è la tua vita, sta appeso davanti a te, perché tu guardi nella croce come in uno specchio. Lì potrai conoscere quanto mortali furono le tue ferite, che nessuna medicina avrebbe potuto sanare, se non quella del sangue del Figlio di Dio. Se guarderai bene, potrai renderti conto di quanto grandi siano la tua dignità umana e il tuo valore… In nessun altro luogo l’uomo può meglio rendersi conto di quanto egli valga, che guardandosi nello specchio della croce” (Sermones Dominicales et Festivi III, pp. 213-214).
Meditando queste parole possiamo capire meglio l’importanza dell’immagine del Crocifisso per la nostra cultura, per il nostro umanesimo nato dalla fede cristiana. Proprio guardando il Crocifisso vediamo, come dice sant’Antonio, quanto grande è la dignità umana e il valore dell’uomo. In nessun altro punto si può capire quanto valga l’uomo, proprio perché Dio ci rende così importanti, ci vede così importanti, da essere, per Lui, degni della sua sofferenza; così tutta la dignità umana appare nello specchio del Crocifisso e lo sguardo verso di Lui è sempre fonte del riconoscimento della dignità umana.
Cari amici, possa Antonio di Padova, tanto venerato dai fedeli, intercedere per la Chiesa intera, e soprattutto per coloro che si dedicano alla predicazione; preghiamo il Signore affinché ci aiuti ad imparare un poco di questa arte da sant’Antonio. I predicatori, traendo ispirazione dal suo esempio, abbiano cura di unire solida e sana dottrina, pietà sincera e fervorosa, incisività nella comunicazione. In quest’anno sacerdotale, preghiamo perché i sacerdoti e i diaconi svolgano con sollecitudine questo ministero di annuncio e di attualizzazione della Parola di Dio ai fedeli, soprattutto attraverso le omelie liturgiche. Siano esse una presentazione efficace dell’eterna bellezza di Cristo, proprio come Antonio raccomandava: “Se predichi Gesù, egli scioglie i cuori duri; se lo invochi, addolcisci le amare tentazioni; se lo pensi, ti illumina il cuore; se lo leggi, egli ti sazia la mente” (Sermones Dominicales et Festivi III, p. 59).

LUCE, SPLENDORE E GRAZIA DELLA TRINITÀ – DI SANT’ATANASIO, VESCOVO

http://www.maranatha.it/Festiv2/festeSolen/TrinApage.htm

LUCE, SPLENDORE E GRAZIA DELLA TRINITÀ

DALLE «LETTERE» DI SANT’ATANASIO, VESCOVO

(Lett. 1 a Serap. 28-30; PG 26, 594-595. 599)

Non sarebbe cosa inutile ricercare l’antica tradizione, la dottrina e la fede della Chiesa cattolica, quella s’intende che il Signore ci ha insegnato, che gli apostoli hanno predicato, che i padri hanno conservato. Su di essa infatti si fonda la Chiesa, dalla quale, se qualcuno si sarà allontanato, per nessuna ragione potrà essere cristiano, né venir chiamato tale.
La nostra fede é questa: la Trinità santa e perfetta é quella che é distinta nel Padre e nel Figlio e nello Spirito Santo, e non ha nulla di estraneo o di aggiunto dal di fuori, né risulta costituita del Creatore e di realtà create, ma é tutta potenza creatrice e forza operativa. Una é la sua natura, identica a se stessa. Uno é il principio attivo e una l’operazione. Infatti il Padre compie ogni cosa per mezzo del Verbo nello Spirito Santo e, in questo modo, é mantenuta intatta l’unità della santa Trinità. Perciò nella Chiesa viene annunziato un solo Dio che é al di sopra di ogni cosa, agisce per tutto ed é in tutte le cose (cfr. Ef 4, 6). E’ al di sopra di ogni cosa ovviamente come Padre, come principio e origine. Agisce per tutto, certo per mezzo del Verbo. Infine opera in tutte le cose nello Spirito Santo.
L’apostolo Paolo, allorché scrive ai Corinzi sulle realtà spirituali, riconduce tutte le cose ad un solo Dio Padre come al principio, in questo modo: «Vi sono diversità di carismi, ma uno solo é lo Spirito; e vi sono diversità di ministeri, ma uno solo é il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo é Dio, che opera tutto in tutti» (1 Cor 12, 4-6).
Quelle cose infatti che lo Spirito distribuisce ai singoli, sono date dal Padre per mezzo del Verbo. In verità tutte le cose che sono del Padre sono pure del Figlio. Onde quelle cose che sono concesse dal Figlio nello Spirito sono veri doni del Padre. Parimenti quando lo Spirito é in noi, é anche in noi il Verbo dal quale lo riceviamo, e nel Verbo vi é anche il Padre, e così si realizza quanto é detto: «Verremo io e il Padre e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23). Dove infatti vi é la luce, là vi é anche lo splendore; e dove vi é lo splendore, ivi c’è parimenti la sua efficacia e la sua splendida grazia.
Questa stessa cosa insegna Paolo nella seconda lettera ai Corinzi, con queste parole: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (2 Cor 13, 13). Infatti la grazia é il dono che viene dato nella Trinità, é concesso dal Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo. Come dal Padre per mezzo del Figlio viene data la grazia, così in noi non può avvenire la partecipazione del dono se non nello Spirito Santo. E allora, resi partecipi di esso, noi abbiamo l’amore del Padre, la grazia del Figlio e la comunione dello stesso Spirito.

15 GIUGNO 2014 SS. TRINITÀ : LA GRAZIA DEL SIGNORE GESÙ CRISTO, L’AMORE DI DIO… SIANO CON VOI.

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/5-Ordinario-A-2014/Omelie/11a-Domenica-A/12-11aDomenica-A-2014-SC.htm

15 GIUGNO 2014  | 11 DOM T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LA GRAZIA DEL SIGNORE GESÙ CRISTO, L’AMORE DI DIO… SIANO CON VOI.

A rigore di termini, si potrebbe dire che la solennità della SS. Trinità è liturgicamente superflua. Infatti essa è celebrata costantemente non solo ogni Domenica, ma anche in ogni altra festività che, in modo particolare, esalti qualche aspetto o qualche evento dell’inesauribile mistero cristiano: per fare solo un esempio, la Pentecoste, che abbiamo appena solennizzata, non è forse una particolare manifestazione del « mistero » trinitario? Al di fuori di questo, infatti, che senso potrebbe mai avere la discesa dello Spirito?
Ed è proprio per tale ragione, oltre che per altri motivi, che è stata introdotta solo tardivamente, come festa a sé stante, per tutta la Chiesa (XIV secolo).
Ciò nonostante, essa ha la sua ragione di essere, e bene ha fatto la Chiesa a vincere certe difficoltà e a proporre ai credenti una occasione liturgica specifica per celebrare il « mistero » più alto della nostra fede, da cui derivano e prendono significato tutte le innumerevoli manifestazioni salvifiche che si sono realizzate nel corso della storia.

La Trinità come « spazio vitale » del cristiano
In tal modo la Trinità viene rimossa dalla solitudine rarefatta delle speculazioni dei teologi per rientrare nello spazio tormentato della nostra esistenza: è il Dio, uno e unico nella natura, ma sussistente in tre Persone eguali e distinte, Padre e Figlio e Spirito Santo, che non solo è oggetto della nostra fede e della nostra adorazione, ma è « protagonista » della nostra salvezza. La Trinità perciò non ci sta lontana, ma alberga nei nostri cuori, possiede addirittura i nostri stessi corpi perché siano « tempio vivo dello Spirito Santo che è in noi » (cf 1 Cor 6,19).
La Trinità diventa così « spazio » vitale in cui vive, si muove e agisce il cristiano. Non solo, ma diventa « modello » sul quale egli dovrebbe rispecchiarsi, per strutturare tutta la sua esistenza in forma « trinitaria ».
Mi sembra che la Liturgia abbia felicemente intuito tutto questo quanto, nell’antifona per la Comunione, ci fa leggere un testo di san Paolo leggermente ritoccato, forse per farcene sentire di più la densità misterica: « Voi siete figli di Dio. Egli ha mandato nei vostri cuori lo Spirito del Figlio suo che grida: « Abbà, Padre »" (Gal 4,6). Il dono della « filiazione » divina è essenzialmente trinitario: è il « Padre » che ce lo offre nel « Figlio », disvelandocelo e testimoniandocelo con la forza illuminante e trasformante dello « Spirito ».
E il momento più intenso di questa scoperta sempre nuova e di questa inebriante fruizione è quello del nostro incontro con Gesù nell’Eucaristia!

Una tipica formula « trinitaria » in san Paolo
Le letture bibliche sono particolarmente indicate a farci comprendere, al di là della « realtà » del mistero trinitario, la sua « vitalità » dinamica e salvifica, tendente a coinvolgere e ad assorbire nel proprio circuito operativo non solo ogni credente, ma tutta la realtà umana e perfino cosmica.
Significativa è soprattutto la seconda lettura, ripresa da san Paolo. È il brano conclusivo della seconda Lettera ai Corinzi, in cui l’Apostolo dà gli ultimi avvertimenti a quei cristiani e li saluta proprio nel nome della Trinità: « Fratelli, state lieti, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi. Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano. La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi » (2 Cor 13,11-13).
È commovente questo saluto di Paolo, che si traduce anche nel gesto di fraternità, espresso nell’abbraccio e nel « bacio » vicendevole che i cristiani si davano in occasione della celebrazione liturgica. E anche la formula trinitaria finale dovrebbe essere non solo di origine liturgica, ma doveva molto probabilmente accompagnare proprio quel gesto di fraternità che i cristiani si scambiavano fra di loro: abbracciandosi, si scambiavano un augurio « trinitario », che voleva essere come una immersione comunitaria nel Dio che è essenzialmente « il Dio dell’amore e della pace » (v. 11), cioè il Dio che « fa unione ».
Ma è interessante analizzare brevemente la formula trinitaria, qui utilizzata da Paolo, il quale già in molti passi del suo epistolario fa riferimento alla Trinità con formule quasi sempre diverse, che mettono in evidenza i ruoli delle tre divine Persone in funzione dei diversi contesti. Senza uscire da questa medesima lettera, ricordiamo il bellissimo testo che leggiamo verso l’inizio: « È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori » (2 Cor 1,21-22).1
Intanto c’è da dire che nel brano che stiamo commentando Paolo non segue l’ordine che poi sarà classico in tutte le formulazioni di fede: egli infatti ricorda al primo posto « la grazia del Signore nostro Gesù Cristo »: in 1 Cor 12,4-6 si parte addirittura dallo Spirito Santo. Evidentemente non gli interessano le definizioni teologiche, quanto piuttosto le « realtà » che stanno loro dietro!

Cristo come « dono » totale del Padre
La prima realtà che incontra il credente nel suo itinerario verso Iddio, è la persona di Cristo, che si è mosso verso di noi quando noi neppure lo pensavamo, anzi gli eravamo nemici: « Dio dimostra il suo amore per noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi » (Rm 5,8). Così che in Cristo percepiamo anche il senso della completa « gratuità » della nostra salvezza, esperimentando che tutto è « grazia » nella nostra vita. E la « grazia » fondamentale è proprio lui, con il quale poi ci verranno tutte le altre grazie: « Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci darà ogni cosa insieme con lui? » (Rm 8,31-32).
L’incontro con Cristo permette agli uomini di scoprire anche il vero volto di Dio, che è quello dell’amore: ce lo ricordava san Paolo nel passo appena citato di Rm 5,8. E « l’amore di Dio » tanto più è grande quanto più grande è il dono che egli ci fa.
Ora, è evidente che tutto quello che egli ci poteva dare è sempre inferiore a se stesso: la creazione, che pure è un immenso dono di Dio, non è altro che una imitazione o una pallida « immagine », a livello della creatura più alta che è l’uomo (cf Gn 1,26), della sua sapienza, della sua bellezza, della sua potenza. E anche tutti gli interventi salvifici, descrittici nell’Antico Testamento, di cui abbiamo una meravigliosa testimonianza proprio nella prima lettura (Es 34,4-9), non sono la « totalità » del dono che Dio poteva pur sempre fare.
Solo in Cristo abbiamo la « totalità » del dono, perché egli è il Figlio stesso di Dio, la « Parola » ultima in cui Dio si dice tutto perché è Dio lui stesso: « In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio » (Gv 1,1): « Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse » (Gv 14,11).
Ma proprio perché il Cristo ci si manifesta come il « Figlio », ci rivela nello stesso tempo la realtà più intima ed esaltante di Dio, che è quella di essere « Padre »: e Padre non solo di Cristo, ma anche di tutti noi. È evidente infatti che, « donandoci » il suo stesso Figlio, Dio voleva come dilatare la sua stessa « paternità », veder riflesso il suo volto in infinite immagini, non tanto e solo di creature, ma di « figli »: « Filii Dei in Filio ».
La rivelazione di Cristo come Figlio di Dio, perciò, non solo ci spalanca le porte del mistero trinitario, ma ce ne fa sentire tutto il fascino e la dolcezza. Ci fa intuire e quasi toccare con mano che « Dio è amore », come dirà meravigliosamente san Giovanni (1 Gv 4,8). A ragione, perciò, san Paolo augura ai suoi cristiani che « l’amore di Dio (Padre) sia con tutti » loro (v. 13).

« La comunione dello Spirito Santo »
E per ultimo il richiamo allo Spirito Santo, con una formula altrettanto espressiva e commovente: « la comunione dello Spirito Santo ».
Il termine « comunione » (koinonía), infatti, in san Paolo ha una portata centrale ed esprime ordinariamente un rapporto di intimità e di fusione con Cristo, o con qualsiasi altro evento salvifico. Così l’Apostolo partecipa ai Corinzi la sua convinzione che essi saranno « irreprensibili » sino alla fine, perché « fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo » (1 Cor 1,9). Più tardi, parlando della Eucaristia, dirà che essa è « comunione » con il sangue e il corpo di Cristo (1 Cor 10,16).
Applicata allo Spirito Santo, la « comunione » deve esprimere non solo questa misteriosa intimità con lo Spirito inviatoci da Cristo, una specie di vita « comune » con lui, ma anche una forza prepotente che spinge a « far unione » con gli altri. In questo senso lo Spirito Santo diventa elemento aggregante dei fedeli, è lui che fa la Chiesa come « comunità » di fede, di amore e di speranza. Così egli compie in noi quello che già compie nell’intimo del mistero trinitario: egli infatti è « l’amore » che lega per sempre il Padre e il Figlio in una « unità » misteriosa ed esaltante che, nello stesso tempo, è netta « distinzione » di persone e di missioni.
Si capisce allora, molto facilmente, quale sia la « ricchezza » strabiliante racchiusa nella breve formula conclusiva della seconda lettura, che la Chiesa ci fa dire anche come saluto iniziale nella Liturgia della Messa: « La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi » (2 Cor 13,13). È la ricchezza che ci portiamo dietro fin dal nostro Battesimo, che ci è stato conferito nel nome della SS. Trinità, e che la Chiesa vuol ricordare a tutti noi nella festa odierna.

« Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito »
Anche il brano di Vangelo, che contiene alcune riflessioni di san Giovanni al termine del dialogo di Gesù con Nicodemo, ci introduce mirabilmente alla percezione del mistero trinitario tramite l’esperienza stessa di Cristo. Infatti vi si parla di Dio (Padre), che « manda » il suo Figlio per salvare il mondo.
Non potendo dilungarci su questo testo, così denso di significato, vorremmo almeno sottolinearne qualche aspetto, inquadrato però nella cornice liturgica odierna.
E ciò che prima di tutto emerge è la rivelazione di Dio come infinitamente « amante »: « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito » (v. 16). Qui il « dare » (in greco padédoken) è da intendere come il « dare alla morte ».2 Il Padre, dunque, quasi si espropria del Figlio, che per di più è unico (« unigenito »), per offrirlo in dono di amore agli uomini. È chiaro che qui il termine « mondo » significa l’umanità; ma indubbiamente esso significa anche tutta la realtà cosmica in quanto collegate con l’uomo. L’amore di Dio in Cristo abbraccia l’universo intero: la Trinità afferra nel suo amore tutta la creazione.
Proprio per questa densità di amore si capisce la gravità del « giudizio », pronunciato già da questo momento su chiunque rifiuta di « credere » in Gesù Cristo come « Figlio di Dio »: « Chiunque non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio » (v. 18). Respingere Cristo, infatti, è chiudersi all’epifania più clamorosa dell’amore di Dio, è confessarsi perduti per sempre perché incapaci di amare.

« Il Signore, Dio misericordioso e pietoso… »
Come si vede, c’è una coralità di convergenze in tutti questi testi per mettere in luce il mistero di Dio come « mistero d’amore ». Già la prima lettura ci orienta in questo senso: nella grandiosa teofania del Sinai a Mosè il Signore si proclama come il « Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà » (Es 34,6). Svelandosi però come Dio Trinità, questa dimensione dell’amore si estende all’infinito, e l’esperienza di Cristo ce ne dà clamorosa testimonianza.
L’unico problema che si pone per noi cristiani è di realizzare nella nostra stessa vita questa meravigliosa « struttura » trinitaria, come abbiamo già accennato all’inizio: « Dunque nella Chiesa è all’opera la Trinità; la vita interiore della Chiesa scaturisce dalla Trinità: Ecclesia de Trinitate. Si può dire che la Chiesa è il luogo dove si compie il disegno eterno di amore della Trinità. La Trinità sono, in un solo Dio, tre Persone distinte: Padre, Figlio e Spirito, il cui legame è l’amore. L’umanità sarà quindi a sua immagine se, pur mantenendo differenze personali, sarà unificata dall’amore, per quanto è possibile a esseri limitati, da un amore che sia partecipazione di quello con cui le Persone divine si amano eternamente » (Y. de Montcheuil).

Da: CIPRIANI S.,

Prophet Elijah ascend into Heaven

Prophet Elijah ascend into Heaven dans immagini sacre elias+main1

http://www.johnsanidopoulos.com/2010/07/did-prophet-elijah-actually-ascend-into.html

Publié dans:immagini sacre |on 12 juin, 2014 |Pas de commentaires »
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