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LA BELLEZZA SALVERÀ IL MONDO.
LECTIO MAGISTRALIS DI MONS. GIANFRANCO RAVASI
Premessa
Desidero anch’io ricambiare il saluto che mi è stato rivolto. Questa sera mi trovo in un orizzonte che mi è particolarmente caro per ovvie ragioni: le mie origini sono adiacenti alle vostre, a questa città, che in un certo senso mi ha accompagnato fin da quando ero fanciullo. Bergamo è sempre stato per me un punto di riferimento.
Desidero riflettere insieme a voi sul tema dell’incontro, così complesso ed impegnativo per la vastità, la mutevolezza e l’iridescenza che lo caratterizzano, ma vorrei sviscerarlo in modo semplice, oserei dire spontaneo, tralasciando gli aspetti accademici per giungere a sintesi immediate e dirette. Anche io vorrei partire dalla considerazione che è stata fatta in apertura, anche se mettere un titolo come questo “La bellezza salverà il mondo?” può sembrare forse una scelta un po’ stereotipata. È una frase oramai troppe volte usata ed abusata, che appartiene tra l’altro ad un romanzo che ha una straordinaria carica metafisica oltre che estetica. Presente nel capitolo quinto della terza parte dell’“Idiota”, la traduzione del termine russo non rende giustizia alla carica emotiva voluta dall’autore al fine di riuscire a comprendere pienamente il significato di queste parole: “la bellezza salverà il mondo”. Questa sera vorrei proporvi un modo nuovo per affrontare ed analizzare l’argomento in esame e vorrei avvalermi dell’estetica per proporvi un trittico di “quadri” al fine di dipingere nei vostri occhi delle immagini, iniziando però da una premessa che tenti di esplicitare la difficoltà nel parlare della bellezza. Una difficoltà prima di tutto di natura contingente perché, dobbiamo confessarlo senza paura, mai come in questo tempo siamo consapevoli di essere immersi in un grembo che è fatto di bruttura e bruttezza. Questi termini in italiano non sono sinonimi: “bruttura” ha una dimensione etica, “bruttezza” una dimensione estetica. Eppure si intrecciano e convivono pienamente ai nostri giorni, camminano come sorelle e dominano nelle piazze delle nostre città, ma soprattutto nell’areopago della politica e della società. Un’ulteriore difficoltà di natura oggettiva, che rende peraltro arduo questo discorso, è che la bellezza per sua natura è ineffabile. Esiste una sublime espressione adottata da Thomas Manley nell’indicare in tedesco l’azione compiuta dalla bellezza, lui usa il verbo “durchstechen”: cioè “trafiggere”, colpisce anche quando non la si cerca o la si interpreta. Vorrei prendere a prestito le parole più chiare ed immediate di Esna Paund che scrisse: “Non ci si mette a discutere su un vento d’aprile quando lo si incontra, ci si sente spontaneamente rianimati, così come quando si incontra un pensiero folgorante di Platone, oppure si incontra il profilo affascinante di un volto femminile o di una statua.” Una bellezza non si spiega, la si intuisce, ed è per questo allora che è difficile parlarne, eppure è del tutto indispensabile, e lo si ricordava anche prima in quella bella introduzione, è indispensabile vivere, cibarsi di bellezza in un mondo di bruttura e di bruttezza.
Come Vescovo, come ecclesiastico, ma soprattutto come uomo vorrei lasciare la parola al messaggio che l’8 dicembre 1965 il Concilio Vaticano II ha lanciato a tutti gli artisti: “Il mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza come la verità è ciò che depone, che mette gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all’usura del tempo, che unisce le generazioni e le congiunge nell’ammirazione”. La contemplazione, l’ammirazione, queste sono le uniche vie, non la parola, per comprendere la bellezza. La bellezza è inattesa, ti rende diverso, non tanto più bello e sorridente esteriormente, ma più bello dentro e quindi più buono.
L’estetica simbolica. La bellezza come armonia.
Il primo di questo trittico di “quadri” che desidero dipingere, tra i mille e più possibili, nei vostri occhi, ha un titolo particolarmente solenne: l’estetica simbolica, la bellezza esteriore del simbolo. Riprendendo il concetto espresso dal dott. Rocchetti nella sua introduzione, egli cita una pagina della Bibbia dove si dichiara che al termine di ogni opera, e quindi per sette volte, “Dio vide che era cosa tov”. Questo aggettivo della lingua ebraica è presente per ben settecentoquarantadue volte nell’Antico Testamento e viene tradotto in greco con tre aggettivi diversi, fatto questo che sottolinea ancora una volta che il termine bellezza non può essere ricondotto al solo significato di bello. Il primo aggettivo greco utilizzato è “kalos” il cui significato è “bello”, ma alcune volte troviamo l’aggettivo “agafos” cioè “buono”, ed in altri casi riscontriamo il termine “krestos” il cui significato è “utile, prezioso, significativo”. Nel momento in cui Dio contempla il frutto della sua opera, immagine questa in cui è rappresentato come l’artista che modella, plasma la sua creazione – in dottrina in senso figurato appare spesso descritto come un vasaio – “vide che era cosa buona”. Questo primo termine, “buona”, ha la forza di riassumere in sè anche gli altri termini: il creato non è solo “buono”, ma anche “bello” ed “utile”. È significativo osservare come il primo termine discenda dalla visione che Dio ha della sua opera: la percezione del “buono” avviene tramite la visione, “Dio vide che era cosa bella”. Ecco quindi lo stupore, l’ammirazione verso la bellezza che ciascun uomo nutre dentro di sè. Dio stesso, contemplando il suo operato, avverte il senso mirabile della sua opera: perché il creato non è solo bello, ma anche utile, ma, fatto fondamentale ed unico, è l’intreccio delle diverse dimensioni che si fondono e confluiscono armonicamente nel creato. Tutta la grande arte ha la capacità di far convivere insieme il bello, il buono ed il vero. Lo stesso Platone in uno dei dialoghi meno noti, il “Fileto”, afferma che la potenza del bene si è rifugiata nella natura del bello e lo raffigura in continua ricerca della sua patria, del suo orizzonte, cioè nel bello. Kant, per avvicinarci ai nostri giorni, dichiara nella “Critica del Giudizio” che “il bello è il simbolo del bene morale”. Ecco le ragioni che mi hanno indotto a parlare nel primo quadro dell’estetica simbolica.
Soffermiamoci un attimo sulla parola “simbolo”, in greco “symbolon”: letteralmente significa “mettere insieme”, “tenere insieme”. Come potete osservare, nel nostro mondo ed anche nell’arte e nella cultura quasi mai si è operato simbolicamente, ma anzi “diabolicamente”. Sempre in greco il termine “diabolos” si riferisce al diavolo, cioè a colui che separa, divide, scinde, frantuma l’armonia dell’insieme. Questa è la ragione per cui il bello ha una propria direzione che gli fa perdere il suo senso compiuto: quello di custodire dentro di sè il bene. Anche quest’ultimo disgiunto dal bello si muove in modo pedante, mentre il vero si isola in asserti che non raggiungono il cuore ma si limitano ad interessare il cervello, la ragione. Ecco quindi l’importanza di ritrovare l’estetica simbolica, peraltro testimoniata in modo estremamente illuminante dal testo capitale della nostra fede, della nostra cultura: il Nuovo Testamento. Ma desidero affrontare questo esame rivolgendomi al testo originale che è stato redatto in greco, confrontandolo con la traduzione in italiano, per meglio evidenziare le differenti sfumature. “Cosi risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e diano gloria al padre che è nei cieli”, questa frase, tratta dal discorso della montagna di Gesù, letteralmente in greco è: “Cosi risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere belle e diano gloria al padre che è nei cieli”. Certo sono opere buone ma sono anche belle, perché hanno un’armonia in sé, che unisce le dimensioni diverse della realtà e non le scinde e le disperde rendendo pedante il bene e il bello del tutto indifferente a qualsiasi valore. Oppure nella seconda lettera che San Paolo scrive ai cristiani di Tessalonica – capitolo 3, versetto 13 – parla dell’agire bene come norma fondamentale di vita, facendo quindi appello ad agire bene, a fare il bene.
Ecco quindi in questa prima immagine proposta, la necessità di riuscire a trovare nella bellezza una pienezza, un’armonia d’insieme, che ci consenta, superati i nostri limiti e fragilità, di raggiungere alla fine la trascendenza. Per questo l’arte tendenzialmente si volge all’infinito, all’eterno, al divino e tenta di intrecciare dentro di sé tutte le dimensioni della verità, della bellezza e della bontà. Un poeta francese, La Forg, affermava che l’arte è l’ignoto, mentre un grande pittore catalano, Mirò, quando descriveva la sua opera diceva che l’arte non rappresenta mai il visibile, cioè il mondo reale, ma si avvale di questo per rappresentare l’invisibile nascosto nel visibile.
La parola estetica deriva dal greco “aistetikos” che vuol dire “percezione”, ma non la percezione della superficie esteriore, ma la percezione di quel “nodo d’oro” che coniuga insieme mistero e realtà. La bellezza allora, non è la sola conoscenza piena, intesa in senso orizzontale, ma assume valore verticale, congiungendo lo zenit celeste con il nadir della tenebra, del mistero oscuro, bene e male, gioia e dolore, riso e lacrime, mistero della grandezza e mistero della miseria dell’uomo, tutto in sé riunito, in un’armonia che è bellezza, per cui persino il male e il dolore in armonia con il bene diventano sorgente di bellezza.
L’estetica della parola. La parola come fonte di bellezza.
Passiamo ora al secondo dei tre quadri annunciati, abbiamo osservato con un rigore teorico un aspetto della bellezza: l’essere simbolica. Vorrei ora dissertare con una diversa visuale su un ulteriore aspetto estetico: l’estetica della parola. Siamo in presenza di un argomento per alcuni versi problematico, ma ci avvarremo nell’analisi del supporto del nostro grande codice culturale, cioè la Bibbia, che rappresenta la piattaforma della cultura ebraico-cristiana, dove si evidenzia l’esaltazione della Parola, fatto quest’ultimo presente anche in altre culture vicine alla nostra, come ad esempio quella islamica. Nella ricerca del bello all’interno della parola, vale rammentare l’inizio della Bibbia. Non si introduce una immagine visiva: “Dio che vede”, ma l’esperienza di “Dio che crea”, di “come Dio crea”. E questo atto non discende da un’azione di fatica, ma semplicemente dalla parola, dal Verbo o parola di Dio: «Dio disse “Sia luce” e luce fu». Assistiamo ad una Parola che crea, che rende mirabile il Nuovo Testamento: in principio c’era la Parola, tutto è stato fatto a mezzo di essa, nulla esisteva di ciò che è.
Quando Mosè deve rappresentare l’esperienza fatta nel Sinai, usa una frase bellissima – capitolo 4 del Deuteronomio, quinto libro della bibbia, versetto 12 – “Ricorda Israele, Dio vi parlò dal fuoco. Voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figura. Vi era soltanto una voce”. Via gli occhi dal vitello d’oro che è un idolo e che appare arte a prima vista. La prima grande bellezza è quindi nella Parola. Tu non ti fari ancora immagine di ciò che è nel cielo né di ciò che è sulla terra né sotto terra. Ecco quindi questa grande, vera, sorpresa: noi abbiamo uno strumento fondamentale, il linguaggio, che ai nostri giorni sta degenerando; osservate il linguaggio imbarbarito, involgarito, talmente semplificato e astratto da essere ricondotto semplicemente a dei segni: il linguaggio tipico dei cellulari. Così facendo perdiamo una dimensione della bellezza che è fondamentale all’interno non solo dell’uomo, ma della nostra grande cultura occidentale. Tentazione talmente forte da avere lentamente anche cambiato il modo di dire Dio: mi riferisco anche ad una certa teologia che a partire dal Settecento, cioè dall’Illuminismo, ha spazzato via tutta la bellezza della parola e dei simboli contenuti nella Bibbia. La tesi allora dominante era che il pensiero puro deve spazzare via come vento cristallino la nebula dei simboli, dei miti e delle immagini. Un primo tentativo era stato effettuato già nel Seicento da parte di un filosofo francese, Malbrunsh, che aveva coniato una frase veramente curiosa per la sua paradossalità: affermava che “l’immaginazione è la pazza dell’appartamento”, intendendo dire che nell’appartamento del nostro cranio risiedeva una pazza, cioè l’immaginazione. Come potete osservare, si cercava di ridurre, di parlare di Dio utilizzando tesi astratte, il più possibile “pure”, cioè lontane dalla ricchezza delle immagini affidate dalla Bibbia alla Parola, alla forza dei simboli propri della Bibbia. Questo grande codice della cultura occidentale ha creato un arsenale iconografico straordinario, sebbene abbia sempre proibito l’immagine, abbia sempre evitato la rappresentazione attraverso statue, eppure osservate cosa sia riuscito a creare dal punto di vista della rappresentazione artistica.
Ecco quindi l’importanza di considerare la parola come un mezzo epifanico, rivelatore della bellezza, parola che giustifica, “rende pura”, “libera da colpa” tutta la poesia, parola che ugualmente giustifica tutta la rappresentazione letteraria, tutta la musica, che in molti casi, in virtù della bellezza, diventa suono supremo. Pensiamo, ad esempio, alla purezza assoluta di un testo musicale di Bach: la sua felice architettura in cui riescono a coesistere sia tutta la verità del pensiero, in virtù del rigore matematico, sia lo splendore del suono, diventando così armonia suprema, confessione di fede o di amore, senza la necessità di ulteriori parole; se poi queste ci saranno, bibliche o liturgiche, daranno un ulteriore sapore e colore. Desidero soffermarmi su due esempi che celebrano la parola come fonte di bellezza, come luogo epifanico della bellezza, della parola utilizzata all’interno di tutte le grandi culture, privilegiando quelle della nostra matrice ebraico-cristiana. Il primo esempio, quello più facile, è relativo alla parola di Cristo. Come vi parla? Sappiamo tutti che Cristo predilige il linguaggio figurato. La bellezza del suo racconto riesce a conquistare letteralmente il suo uditorio, non assomiglia a quella immensa distesa di prediche che sono state rivolte all’intera umanità, anche se questa si meritava il giudizio, lo sberleffo cattivo, ma non sempre immotivato, di Voltaire che soleva affermare: “l’eloquenza sacra delle prediche è come la spada di Carlo Magno, lunga e piatta, perché i predicatori quello che non sanno dare in profondità te lo danno in lunghezza”. Ebbene, Cristo è l’esatto contrario, le sue trentacinque parabole con il supporto dei simboli e delle metafore allargate diventano settantadue. Ma Cristo come vi parla? Coinvolge i vostri occhi e le vostre orecchie; la bellezza, il messaggio, vengono comunicati attraverso un’esperienza globale: gli occhi riescono a vedere ciò che le parole dicono, e questo perché il suo è un discorso che parte dal basso, dai piedi dei suoi ascoltatori e non da un vago orizzonte mentale. Le Sue parabole parlano dei segni, dei pesci, della donna che ha perso la moneta nel terreno, delle case, dei quartieri di notte, dei figli difficili, di tutto quello che accade nella quotidianità, ma Egli le trasfigura, le fa diventare il Regno dei Cieli. Non so se ricordate il capitolo 7 di Giovanni: c’è una scena molto significativa che a volte nella sola lettura può passare inosservata. Un giorno, siamo ancora agli inizi della predicazione di Cristo, i capi dei sommi sacerdoti danno ordine alla loro polizia del tempio, di arrestare Gesù. Costoro vanno per portarlo di fronte ai sommi sacerdoti, ma tornano a mani vuote. Viene loro domandato come mai non lo avessero preso e portato lì e la loro risposta, anche se appare come la risposta di una persona semplice, dimostra però la forza creatrice della parola, la forza estetica: mai nessuno ha parlato come questo uomo, e le loro mani sono cadute lungo i fianchi, non sono state capaci di stringere i ceppi addosso a lui. Osserviamo un altro esempio: Cristo, nelle parabole, vede, camminando nel deserto, una specie di piccolo oggetto, sembra biancastro. È in realtà un particolare animale che esiste nel deserto, velenoso, che assomiglia ad un uovo di piccione. Riuscite a capire allora il significato di quella frase? Se un figlio chiede ad un padre un uovo, quest’ultimo gli darà forse uno scorpione? Vedete come Gesù riesca a lasciare una profonda traccia sulla mente dei suoi ascoltatori attraverso un’ immagine povera, elementare, ma assolutamente determinante.
Contrariamente ad alcuni che affermano la morte immediata di una parola una volta che questa è stata detta, io, come anche una poetessa americana, dico che proprio allora la parola inizia a vivere. Quando noi nella nostra vita abbiamo sbagliato una parola, abbiamo detto una parola cattiva contro una persona, quanto è durato il momento? Due o tre secondi? Sappiamo, invece, di odi tra fratelli, dopo una parola cattiva, che durano vent’anni. La fecondità e la forza della bellezza di una parola è anche nel male – esiste infatti l’estetica della perversione, della crudeltà – ecco perché dobbiamo cercare di custodire la parola ed impedire, evitare che questa diventi chiacchiera.
Desidero parlavi anche della musica, in un tempio così, in una città come questa dove ad un musicista è stato dedicato questo teatro non posso esimermi dal farvi riferimento. Io direi che come nella parola e nella comunicazione, esiste anche un estetica del suono, dell’armonia. La sguaiataggine imperante nei nostri giorni, è indubbiamente disarmonia, non è quella raffinata della musica colta che segna un dramma, ma è semplice volgarità. La sguaiataggine cancella invece la bellezza e il fascino della parola. Vorrei portarvi un esempio, forse un po’ sorprendente, che qualche volta faccio quando sono in presenza di un ambiente più ristretto di questo, peraltro è un ragionamento breve. Mi avvarrò di alcuni suoni ebraici, non ve li spiegherò, basterà solo che li ascoltiate. Li traggo dal Cantico dei Cantici, capitolo 2 e capitolo 16. Ascoltate con attenzione come suona la parola, anche se non sapete l’ebraico riuscirete a comprendere ciò che vuol dire il poeta, che usa la parola in modo sonoro, continuo, musicale, aiutato dal fatto che la metrica ebraica è qualitativa e non quantitativa. Siamo in presenza di una donna che deve dire che ama e che è tutta se stessa con il suo amato, l’uno non esiste senza l’altro, vera donazione d’amore, che tiene insieme e che dà significato all’eros e al sesso: la donazione reciproca. Il poeta, allora, usa il pronome della prima e della terza persona perché io/lui siamo una cosa sola. Voi provate ad ascoltare questa frase e sentirete che in ebraico ci sono due suoni che vibrano continuamente: «dodî lî wa’anî lô… ‘anî ledôdî wedôdî lî, « il mio amato è mio e io sono sua… io sono del mio amato e il mio amato è mio » (2, 16; 6, 3). Basta il suono a far capire che sono insieme, è un unico impasto, un suono unico. “Il mio amato è mio e io sono sua”, e la traduzione già dilaga, dapprima era solo un suono, poi diventa un armonia sottile; ecco perché dico che c’è anche un’estetica del suono, ed è per questo che Mosè dice “voi la ascoltaste solo un suono di parole”.
L’estetica della carne. La bellezza come manifestazione della trascendenza.
Esaminiamo ora il terzo e ultimo dei quadri preannunciati: l’estetica della “sarx”, della carne, il logos verbo, versetto primo “In principio c’era il verbo”, versetto 14 “Il verbo divenne “sarx”, carne, cioè storia, e quindi se diventa storia diventa visibile, diventa immagine concreta e non più solo parola. Per questo l’arte cristiana spezzerà il rigido precetto aniconico del decalogo che non voleva immagini, lo spezza perché il Verbo, la parola, è diventata volto, è diventata uomo, è diventata persona: Gesù Cristo. Nella lettera di San Paolo ai Colossesi, capitolo 1 versetto 15, si ha questa definizione di Cristo: è l’icona del padre, il quadro, l’immagine, ed è per questo che l’arte diventa teofania; la bellezza, l’estetica della storia, diventa un estetica concreta e bisognerà combattere contro la tentazione puritana, come affermavo prima per la cancellazione dei simboli, di parlare solo con la logica formale, non con il linguaggio della Bibbia, non con il linguaggio di Gesù, creando testi aridi, freddi. Allo stesso modo, anche per l’arte si è tentati di cedere alla bella tentazione dell’iconoclastia. Se siete stati in Cappadocia, nelle Chiese rupestri erette per ognuno dei 365 giorni dell’anno, ve ne sono alcune che rappresentano il momento iconoclasta: sono visibili gli sfregi dei volti già dipinti o le deturpazioni anche di modelli geometrici per impedire che Dio non potesse essere rappresentato da una icona. Ecco la grande battaglia che farà santo, un Dottore della Chiesa di origine siriana di Damasco, Giovanni Damasceno, il quale si batterà per le immagini, proprio in virtù di Cristo icona: “e Lui ti dirà: se viene da te un pagano e ti chiede che cosa è la vostra fede, tu non rispondergli, prendilo per mano e conducilo nello splendore del tempio e mostragli tutte le sacre icone ed i quadri”. Adesso sarebbe meglio che in molte Chiese non conducessimo l’ateo perché diventerebbe più ateo ancora. Ma vedete il significato profondo che aveva l’arte: arte teofania, arte epifania di Dio, la bellezza come manifestazione della trascendenza. Nel 1300 gli artisti Senesi, avevano deciso di darsi sull’arte, uno statuto. Questo contemplava nel primo articolo, che vi leggo nell’italiano di allora, “ Noi” dicevano gli artisti di Siena, “siamo manifestatori agli uomini che non sanno lettura delle cose miracolose operate per virtù della fede” (“Noi manifestiamo agli uomini che non sano leggere le meraviglie della fede”). Ecco allora che nasce veramente quella grande arte che attinge per secoli ininterrottamente al grande codice della Bibbia, ai grandi simboli, alle grandi narrazioni, alle grandi figure, ai grandi temi, alla figura soprattutto di Cristo e di Maria. Ed è a questo punto che prende corpo quella frase divenuta famosa di un pittore ebreo del Novecento, Chagal, che descrisse quello che è avvenuto per secoli ed ora non più. Egli diceva, non potendo prescindere quasi da quella matrice: “I pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia, lì trovavano il loro lessico iconografico, il loro albo di immagini e la stessa cultura letteraria”.
Pensate a Nietzsche, uno che combatterà con tutta la sua opera il cristianesimo, considerandolo come una degenerazione, come una maledizione, un sudario di morte piombato sull’Europa. Egli dovette però riconoscere, suo malgrado, in una sua opera minore, che “tra ciò che si prova alla lettura di Pindaro o di Petrarca ed alla lettura dei Salmi, esiste la stessa differenza tra la terra straniera e la patria”. Lui era protestante, quindi a maggior ragione se sente Pindaro o Petrarca va bene, sono mirabili, però quando sente i Salmi, sente la sua terra, la sua patria. Per secoli è stato così, ecco perché esiste una bellezza del passato che noi dobbiamo custodire, una bellezza che ci deve ancora alimentare, nutrire, una bellezza capace di manifestarsi in tante forme e modi. Voglio sottolinearvi tre esempi, tre modelli di bellezza discendenti dall’eredità biblica che possono diventare per noi ancora motivo di riflessione, di bellezza e di contemplazione. È proprio per questo che vorrei proporvi di rifare un’esperienza: la prossima settimana avrete nella vostra città l’occasione straordinaria di visitare una mostra, per la quale vi chiederei di non avvalervi di una visita guidata. Purtroppo, quando ero direttore della Pinacoteca Ambrosiana di Milano, situata accanto alla Biblioteca, ho avuto modo di osservare troppe volte visite di studenti accompagnati dai professori, i quali approssimativamente e stancamente insegnavano alcune cose, peraltro banali, sulle opere esposte. Pensiamo alla “Canestra di frutta” di Caravaggio, che io custodivo all’Ambrosiana. Questa pittura di esclusivo contenuto metafisico, è una meditazione sulla nozione del tempo che passa e che scava, corrode dal profondo lo splendore dell’essere. Si è in presenza del contrasto tra vitalità e disfacimento, tra floridezza e morte; osservate la ramificazione gelida della morte espressa dalla foglia che si raggrinzisce, oppure osservate la mela che inizia a bacarsi. Qui non siamo in presenza di una attività di studio del passato, del Seicento, ma veniamo interrogati, interpellati sulla caducità della vita.
Come primo esempio, desidero farvi osservare che l’arte tenta di attualizzare la Bibbia, di renderla presente a noi, vicina a noi, all’interno del gioco dell’oggi. Vi propongo un dipinto di Gauguin che forse non conoscete: è intitolato “Dopo il sermone”, dopo la predica. Questo dipinto si trova ad Edimburgo, nella National Gallery of Scotland; lì,in questo piccolo quadro, in primo piano si vedono le tipiche cuffie bretoni e vengono raffigurate tre donne che sono uscite dalla Chiesa, appunto dopo il sermone. Di che cosa ha parlato il prete? In questo caso deve essere stata una buona predica che ha impressionato i fedeli. Ha parlato di una delle pagine più belle, misteriosa ed affascinante, della Genesi capitolo 34: la lotta di Giacobbe con l’essere misterioso che nella tradizione diventa l’angelo. Ma questo essere misterioso non è altri che Dio: Giacobbe lotta con Dio e non ne esce indenne! Noi possiamo anche lottare con Dio, Dio ci ascolta ma nello stesso tempo ci trasfigura. L’indomani, quando risorge il sole, Giacobbe, che zoppica all’anca, ha oramai un altro nome, è diventato un’altra persona dopo l’incontro con Dio. Così queste donne escono e vedono la piazza del paese diventata color sangue, dove l’angelo e Giacobbe continuano a lottare tra di loro. In altri termini: quello che tu ha sentito è nella piazza, devi solo ritrascriverlo nella vita. Ecco perché affermavo che l’arte attualizza la Bibbia. È necessario ritrovare ancora tutte quelle pagine attraverso l’arte, attraverso la bellezza dell’arte, ritrovare il messaggio antico che è nella piazza, nel crocevia, nella famiglia.
Nel secondo modello desidero parlare di quando l’arte, certe volte, ha sfregiato, è stata un po’ blasfema, ma non di un’accezione di blasfemia come nell’arte contemporanea, che è quasi un gioco di società, come questi atei che considerano l’interlocutore della fede un reperto del paleolitico culturale, peraltro ostinato. I veri grandi atei rappresentavano con veemenza il confronto con il mistero che negavano e vivevano nella solitudine assoluta, sotto un cielo che non ha nessun Dio, che non ha nessuna stella spirituale: un’esistenza la loro davvero drammatica. Prendo ad esame un libro biblico che è un capolavoro assoluto, l’estetica della parola, che narra di Giobbe. Però non intendo presentarlo in tutte le immagini che sono state fatte, a volte sbagliate, di un Giobbe paziente: sappiamo infatti che non lo era. Esaminiamolo solo all’inizio ed alla fine, perché è un antico racconto spesso citato. Giobbe è per eccellenza impaziente, grida, urla: “Tu Dio sei come un leopardo che affila gli occhi su di me, sei come un arciere sadico che cerca di trapassarmi il cuore, il fegato e reni, sei come un generale trionfatore che mi sfonda il cranio”: è quasi blasfemo. La rappresentazione non è autentica, ma degenerata. Voglio ricordarvi invece un libro particolare, la risposta a Giobbe di Jung, uno dei padri della psicanalisi. Egli infatti immagina che Dio nella sua onnipotenza decida lui ciò che è bene e ciò che male e tutti gli uomini, dovendo temere il suo giudizio, si dovranno adeguare. Ebbene, cosa fa l’autore? Rende diverso Giobbe, lo fa diventare tutta un’altra cosa, e sebbene questa sia una degenerazione, diventa sorgente di estetica. Dio scopre che c’è un uomo che si erge ritto contro di lui: “Tu Dio devi spiegarmi perché questo è bene e questo è male, perché c’è la gioia e il dolore”. E questo uomo è Giobbe. Dio vorrebbe annientare questo unico ribelle, però si incuriosisce, e che cosa fa? Manda suo figlio, il quale essendo uomo è pari a Giobbe, riesce a sentire le ragioni dell’uomo che si interroga sul mistero del male, che non capisce il perché del dolore, che ha dentro tutte quelle nostre domande. Ed allora, anche se io ho semplificato molto il significato di questo libro, quando Dio è pronto a scatenare la sua ira perché ci sono uomini che si ribellano come Giobbe, accanto a lui c’è sempre suo figlio che ferma l’ira ventura. Vedete che Giobbe è tutt’altra cosa rispetto al testo originale, che probabilmente è una grande riflessione sul mistero dell’io, più che del dolore.
Concludo con l’ultimo esempio: quello che chiamerei trasfigurativo. L’arte può prendere i grandi valori, i grandi temi e renderli presenti all’oggi, ma può anche girarli, torcerli e renderli ancora più importanti, più significativi, nonostante una lettura blasfema. Ma esiste anche la grande trasfigurazione: noi riusciamo a vivere la bellezza proprio perché ereditiamo una grande tradizione e questa continua a parlarci. Desidero offrirvi l’esempio della musica: è la musica, infatti, ad essere uno degli emblemi più alti che riappacifica la quiete e la tormenta. La musica non è soltanto pace, c’è anche lo spirito dionisiaco della musica. Pensate per esempio a Bach. Nella maggior parte delle sue partiture egli scriveva in alto “s. d. g.” ed in basso “J. J.”, che voleva dire “sono deo gloria” e sotto “Jesus juvat” “suono la gloria di Dio” e in basso diceva, “Gesù aiutami”. Lui impastava la fede con la musica, la faceva diventare epifania mirabile di verità, di bellezza e di bontà. Se volete posso fare un esempio di arte che ci permette di vedere come la trasfigurazione avvenga tramite l’arte, che ci fa capire, che ci spiega e ci squadra davanti agli occhi ciò che noi dovremmo spiegare. Siete stati qualche volta a Roma nella chiesa dedicata a San Luigi dei Francesi? Siete andati a vedere la “Vocazione di San Matteo” del Caravaggio? La “Vocazione di San Matteo” non è solo una storia di vocazione, ma è una storia di creazione e di ricreazione. Avete in mente la scena di Cristo che appare all’improvviso mentre Matteo è seduto al tavolo davanti alle sue monete? Cristo entra in scena e punta l’indice su di lui e Matteo mette la sua mano sul petto per rispondere alla chiamata. Ma quale è l’elemento più significativo? Caravaggio riprende l’indice di Michelangelo della Cappella Sistina: l’indice della creazione di Adamo. Ed allora in quel momento il Dio Creatore diviene il Dio Redentore che trasforma e ricrea la storia di un nuovo creato. In ultima analisi è come un messaggio, il messaggio della redenzione che viene trasfigurato attraverso l’arte, attraverso la bellezza.
Suggestioni.
Ai nostri giorni purtroppo noi assistiamo ad un divorzio che speriamo di poter ricomporre. Da un lato in alcune Chiese si ricalcano moduli del passato, dall’altro si usano moduli artigianali privi di significato, come affermava Padre Maria Turoldo quando diceva: “ Purtroppo abbiamo tante delle nostre Chiese che sono architettura, non sono oggetti, sono architetture ma sono dei garage sacrali, dove è parcheggiato Dio, mentre i fedeli sono allineati davanti a Lui”. La fede se ne è andata per un percorso solitario e dall’altra parte l’arte si è rinchiusa in ricerche stilistiche, di elaborazioni del tutto autoreferenziali che hanno cercato la provocazione, che si è rinchiusa, o meglio diretta, anche in forme esoteriche, stravaganti, incomprensibili. Abbiamo parlato di estetica simbolica, estetica della parola, di estetica della carne e cioè dell’immagine e allora, lasciamo in finale la parola a loro, ai grandi, alcuni tra i mille che si potrebbero citare. Ne ho scelti tre, l’ultimo obbligatoriamente, perché era il punto di partenza: Dostoevskij. Cerchiamo qualche altra voce un po’ strana. Conoscete tutti Herman Hesse? Secondo lui, arte significa: “dentro ogni cosa mostrare Dio”. Questa è arte. Non diranno mai la parola di Dio ma mostreranno la trascendenza, l’invisibile. Un altro scrittore americano , lontano e ostile al cristianesimo, Henry Miller, diceva che la croce di Cristo è segno di umiliazione. Noi dobbiamo combattere tali asserzioni. Egli, in un suo saggio, affermava che l’arte non insegna niente, tranne il senso della vita. E allora “la bellezza salverà il mondo”: abbiamo bisogno dell’arte perché ci insegna il senso, la vita. L’arte appare inutile da un punto di vista pratico, è come la poesia, ma non si può vivere senza, come l’amore. Ci fa diventare apparentemente stupidi davanti agli occhi degli altri, ci fa scialare sia sui sentimenti, sia sugli aspetti economici. Ma si può vivere senza amore? Può anche capitare, ma in tal caso è una vita disgraziata. L’ultima parola la lasciamo a Dostoevskij, che ci dice una verità; lasciamoci con le sue parole, con i due volti, i due tagli della bellezza: gioia ed angoscia, quella bellezza che taglia il cuore, che trafigge, ma anche la bellezza tremenda e orribile, la bellezza simbolica, dove gli opposti si toccano, là vivono tutte insieme le condizioni, là si muovono le tenebre, là risplende la luce.