Archive pour juin, 2014

A CINQUANT’ANNI DALL’ENCICLICA HAURIETIS AQUAS DI PAPA PIO XII. UNA MEDITAZIONE DEL CARDINALE CARLO MARIA MARTINI – 2006

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A CINQUANT’ANNI DALL’ENCICLICA HAURIETIS AQUAS DI PAPA PIO XII. UNA MEDITAZIONE DEL CARDINALE CARLO MARIA MARTINI – 2006

La devozione al Sacro Cuore di Gesù
Lo scorso 15 maggio papa Benedetto XVI ha inviato al generale della Compagnia di Gesù una lettera in occasione dei cinquant’anni dell’enciclica Haurietis aquas. Pio XII a sua volta aveva scritto quell’enciclica per celebrare e ricordare a tutti il primo centenario dell’estensione all’intera Chiesa della festa del Sacro Cuore di Gesù. In questo modo, approfittando della concatenazione degli anniversari, il Papa ha voluto riallacciarsi al filo ininterrotto di quella devozione che da secoli accompagna e conforta tanti cristiani nel loro cammino. In questa occasione abbiamo chiesto alcune riflessioni al cardinale Martini, ed egli ci ha inviato il testo che segue.

del cardinale Carlo Maria Martini sj
Apparizione del Sacro Cuore a santa Margherita Maria Alacoque, mosaico di Carlo Muccioli, Basilica di San Pietro, Città del Vaticano
Apparizione del Sacro Cuore a santa Margherita Maria Alacoque, mosaico di Carlo Muccioli, Basilica di San Pietro, Città del Vaticano
Ricordo molto bene il tempo in cui uscì l’enciclica Haurietis aquas in gaudio. Io ero allora studente di Sacra Scrittura e membro della comunità del Pontificio Istituto Biblico, dov’era professore l’illustre biblista padre Agostino Bea, poi fatto cardinale da papa Giovanni XXIII. Padre Bea era uno stretto collaboratore di papa Pio XII, e si diceva nella comunità, penso con buone ragioni, che egli avesse contribuito a preparare questo documento. Certamente colpiva l’impostazione biblica di tutto il testo, a partire dal titolo, che è una citazione dal libro di Isaia (12, 3). Perciò l’enciclica (che portava la data del 15 maggio 1956) fu letta con molta attenzione dalla comunità dell’Istituto Biblico, che ne apprezzava in particolare il fondamento sui testi della Scrittura. Nel passato invece tale devozione, che di per sé ha una lunga storia nella Chiesa, si era sviluppata tra il popolo a partire soprattutto da cosiddette “rivelazioni” di tipo privato, come quelle a santa Margherita Maria nel secolo XVII. La percezione di come in essa venisse sintetizzato concretamente il messaggio biblico dell’amore di Dio era qualcosa che ci riavvicinava a questa devozione tradizionale, che nel passato recente era stata molto sentita soprattutto nella Compagnia di Gesù, in particolare nella sua lotta contro il rigorismo giansenista.
Il fatto che papa Benedetto abbia voluto scrivere una lettera per ricordare questa enciclica proprio al superiore generale della Compagnia di Gesù si deve certamente anche al fatto che i Gesuiti si consideravano particolarmente responsabili della diffusione di questa devozione nella Chiesa. Ciò veniva anche affermato da santa Margherita Maria, secondo la quale questo incarico era stato voluto dallo stesso Signore che si manifestava a lei.
Fu così che la devozione al Sacro Cuore mi fu presentata nel noviziato dei Gesuiti, negli anni Quaranta del secolo passato. Ciò mi portava a riflettere sul modo con cui fosse possibile vivere questa devozione e d’altra parte lasciarsi ispirare nella propria vita spirituale dalla ricchezza e dalla meravigliosa varietà della parola di Dio contenuta nelle Scritture.
Benedetto XVI con il cardinale Carlo Maria Martini
Benedetto XVI con il cardinale Carlo Maria Martini
E questa domanda si poneva con tanta più insistenza in quanto anche il mio personale cammino cristiano si era imbattuto in qualche modo fin dalla fanciullezza con questa devozione. Essa mi era stata instillata da mia madre con la pratica dei primi venerdì del mese. In questo giorno la mamma ci faceva alzare presto per andare alla messa nella chiesa parrocchiale e fare la comunione. C’era la promessa che chi si fosse confessato e avesse fatto la comunione per nove primi venerdì del mese di seguito (non era permesso saltarne uno!) poteva essere certo di ottenere la grazia della perseveranza finale. Questa promessa era molto importante per mia madre. Ricordo che per noi ragazzi c’era anche un altro motivo per recarsi così presto alla messa. Infatti si prendeva allora la colazione in un bar con una buona brioche.
Una volta fatta la comunione per nove primi venerdì di seguito, era opportuno ripetere la serie, per essere sicuri di ottenere la grazia desiderata. Ne venne poi anche l’abitudine di dedicare questo giorno al Sacro Cuore di Gesù, abitudine che poi da mensile era divenuta settimanale: ogni venerdì dell’anno era dedicato in qualche modo al Cuore di Cristo.
Così era nel mio ricordo la devozione di allora. Essa era concentrata soprattutto sull’onore e sulla riparazione al Cuore di Gesù, visto un po’ in sé stesso, quasi separato dal resto del corpo del Signore. Alcune immagini riproducevano infatti soltanto il Cuore del Signore, coronato di spine e trafitto dalla lancia.
Uno dei meriti dell’enciclica Haurietis aquas era proprio di aiutare a porre tutti questi elementi nel loro contesto biblico e soprattutto di mettere in risalto il significato profondo di tale devozione, cioè l’amore di Dio, che dall’eternità ama il mondo e ha dato per esso il suo Figlio (Gv 3, 16; cfr. Rm 8, 32, ecc.).
Così il culto del Cuore di Gesù è cresciuto in me col passare del tempo. Forse si è un po’ affievolito per quanto riguarda il suo simbolo specifico, cioè il cuore di Gesù. È diventato, per me e per tanti altri nella Chiesa, una devozione verso l’intimo della persona di Gesù, verso la sua coscienza profonda, la sua scelta di dedizione totale a noi e al Padre. In questo senso il cuore viene considerato biblicamente come il centro della persona e il luogo delle sue decisioni. È così che vedo come questa devozione ci aiuta ancora oggi a contemplare ciò che è essenziale nella vita cristiana, cioè la carità. Comprendo anche meglio come essa è in stretta relazione con la Compagnia di Gesù, la quale è generata spiritualmente dagli Esercizi di sant’Ignazio di Loyola. Infatti gli Esercizi sono un invito a contemplare a lungo Gesù nei misteri della sua vita, morte e resurrezione, per poterlo conoscere, amare e seguire.
Alcuni episodi della vita di Gesù tratti dalla Maestà di Duccio di Buoninsegna, Museo dell’Opera, Siena; qui sopra, l’ultima cena, particolare
Alcuni episodi della vita di Gesù tratti dalla Maestà di Duccio di Buoninsegna, Museo dell’Opera, Siena; qui sopra, l’ultima cena, particolare
Grande merito di questa devozione è stato dunque quello di avere portato l’attenzione sulla centralità dell’amore di Dio come chiave della storia della salvezza. Ma per cogliere questo era necessario imparare a leggere le Scritture, a interpretarle in maniera unitaria, come una rivelazione dell’amore di Dio verso l’umanità. L’enciclica Haurietis aquas segnò un momento decisivo di questo cammino.
Come si è avuto e si avrà ancora in futuro uno sviluppo positivo dei semi lanciati dall’enciclica nel terreno della Chiesa? Penso che un momento fondamentale è stato quello del Concilio Vaticano II, nella sua costituzione Dei Verbum. Essa ha esortato l’intero popolo di Dio a una familiarità orante con le Scritture. Di qui anche le diverse “devozioni” ricevono approfondimento e nutrimento solido.
Il punto di arrivo odierno lo potremmo vedere nella enciclica di papa Benedetto XVI Deus caritas est. Egli scrive: «Nella storia d’amore che la Bibbia ci racconta, Dio ci viene incontro, cerca di conquistarci – fino all’Ultima Cena, fino al Cuore trafitto sulla croce, fino alle apparizioni del Risorto…»; e conclude dicendo: «Allora cresce l’abbandono in Dio e Dio diventa la nostra gioia (cfr. Sal 73 [72], 23-28)». Si tratta perciò di leggere con sempre maggiore intelligenza spirituale le Sacre Scritture, tenendo desta l’attenzione a ciò che sta alla radice di tutta la storia di salvezza, cioè l’amore di Dio per l’umanità e il comandamento dell’amore del prossimo, sintesi di tutta la Legge e dei Profeti (cfr. Mt 7,12).
In questo modo saranno messe a tacere anche oggi quelle che sono state lungo i secoli le obiezioni al culto del Sacro Cuore, che lo accusavano di intimismo o di fomentare un atteggiamento passivo, a scapito del servizio del prossimo. Pio XII ricordava e confutava queste difficoltà, che non sono scomparse neppure ai nostri tempi, se Benedetto XVI può scrivere nella sua enciclica: «È venuto il momento di riaffermare l’importanza della preghiera di fronte all’attivismo e all’incombente secolarismo di molti cristiani impegnati nel lavoro caritativo» (n. 37).
Un altro merito dell’enciclica Haurietis aquas consisteva nel sottolineare l’importanza dell’umanità di Gesù. In questo riprendeva le riflessioni dei Padri della Chiesa sul mistero dell’Incarnazione, insistendo sul fatto che il cuore di Gesù «dovette indubbiamente palpitare d’amore e d’ogni altro affetto sensibile» (cfr. nn. 21-28). Perciò l’enciclica aiuta a difendersi da un falso misticismo che tenderebbe a superare l’umanità di Cristo per avvicinarsi in maniera in qualche modo diretta al mistero ineffabile di Dio. Come hanno sostenuto non solo i Padri della Chiesa, ma anche i grandi santi come santa Teresa d’Avila e sant’Ignazio di Loyola, l’umanità di Gesù rimane un passaggio ineliminabile per comprendere il mistero di Dio. Non si tratta quindi di venerare soltanto il Cuore di Gesù come simbolo concreto dell’amore di Dio per noi, ma di contemplare la pienezza cosmica della figura di Cristo: «Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui… perché piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza» (Col 1, 17.19).
Crocifissione, particolare
Crocifissione, particolare
La devozione al Sacro Cuore ci ricorda anche come Gesù abbia donato sé stesso “con tutto il cuore”, cioè volentieri e con entusiasmo. Ci viene dunque detto che il bene va fatto con gioia, perché «vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20, 35) e «Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9, 7). Ciò tuttavia non deriva da un semplice proposito umano ma è una grazia che Cristo stesso ci ottiene, è un dono dello Spirito Santo che rende facile ogni cosa e ci sostiene nel cammino quotidiano, anche nelle prove e nelle difficoltà.
Infine vorrei far menzione di quello che è chiamato Apostolato della preghiera, che è nato nel secolo XIX, a opera di padri gesuiti, in stretta connessione con la devozione al Sacro Cuore. Ritengo che esso metta a disposizione di tutti i fedeli, con l’offerta quotidiana della giornata in unione con l’offerta eucaristica che Gesù fa di sé, uno strumento molto semplice per mettere in pratica quanto dice san Paolo nell’inizio della seconda parte della Lettera ai Romani, dando una sintesi pratica della vita cristiana: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12, 1).
Tante persone semplici possono trovare nell’apostolato della preghiera un aiuto per vivere il cristianesimo in maniera autentica. Esso ci ricorda anche l’importanza della vita interiore e della preghiera. A Gerusalemme si sente in maniera particolare come la preghiera, e in particolare l’intercessione, costituisca una priorità. Non naturalmente soltanto la povera preghiera di ciascun singolo, ma una preghiera unita all’intercessione di tutta la Chiesa, la quale a sua volta non è che un riflesso dell’intercessione di Gesù per tutta l’umanità.
Quest’intercessione si eleva senza interruzione da parte di Gesù al Padre per la pace tra gli uomini e per la vittoria dell’amore sull’odio e sulla violenza. Abbiamo tanto bisogno di questo ai nostri giorni, soprattutto in questa “città della preghiera” e “città della sofferenza” che è Gerusalemme.

L’IMPORTANZA DELLA STORIA NATURALE E DELLA FILOSOFIA SPERIMENTALE (1691) (commemorare le opere della creazione)

http://www.disf.org/Documentazione/66.asp

JOHN RAY, L’IMPORTANZA DELLA STORIA NATURALE E DELLA FILOSOFIA SPERIMENTALE (1691)

(commemorare le opere della creazione)

Ci accontentiamo della conoscenza delle lingue, e di alcune nozioni di filologia, di storia, e dimentichiamo ciò che a me sembra più importante, cioè la storia naturale e le opere della creazione. Io non disapprovo gli altri campi di studio; se lo facessi tradirei solo la mia ignoranza e debolezza. Vorrei solamente che essi non escludessero la storia naturale, e che anzi la storia naturale fosse portata in auge fra di noi. Vorrei che gli uomini fossero così civili da non disprezzare, deridere e svilire questi studi solo per il fatto di non avere con essi una sufficiente dimestichezza. Nessuno studio può essere più piacevole di questo, nessuno come questo soddisfa e nutre lo spirito; in confronto, lo studio delle parole e delle frasi sembra insipido e sterile. Questa erudizione, che (come dice un prelato saggio e osservante) consiste unicamente nella forma e nella pedagogia delle arti, o nelle nozioni critiche sulle parole e sulle frasi, ha in sé una tale imperfezione che è difficile stimare come possa condurre alla conoscenza delle cose, non essendo altro che una sorta di pedanteria capace solo di infondere nell’uomo un eccesso di orgoglio, affettazione e curiosità, sì da renderlo inidoneo a grandi occupazioni. Le parole non sono che immagini della materia, abbandonate al loro studio. Pigmalione si innamorò di un’immagine. L’oratoria, che è l’arte del miglior uso delle parole, è stimata da alcuni uomini saggi come un’arte voluttuaria, come la cucina, che rovina i cibi e li rende insalubri con la varietà di salse che servono più al piacere della gola che la salute del corpo.
Potrebbe far parte (come ha pensato qualche teologo) delle nostre occupazioni contemplare in eterno le parole di Dio, glorificare la sua sapienza, potenza e bontà manifestate nella loro creazione. Sono certo che queste pratiche debbano far parte delle occupazioni della domenica, che è un simbolo dell’eterno riposo. La domenica pare sia stata istituita originariamente per commemorare le opere della creazione, poiché sta scritto che Dio si fermò il settimo giorno.
Non ci basti apprendere dai libri, né leggere ciò che altri hanno scritto, e non accordiamo più fiducia al falso che al vero. Esaminiamo noi stessi le cose che ci capita di incontrare e accostiamoci alla natura come ai libri. Cerchiamo di incrementare e promuovere questo sapere, di fare nuove scoperte, senza diffidare delle nostre membra e delle nostre abilità come faremmo se credessimo che il nostro industriarci non possa aggiungere nulla alle invenzioni degli antichi o non possa correggere i loro errori. Non pensiamo che i confini della scienza siano fissati come le colonne d’Ercole e che portino l’iscrizione Non plus ultra . Non pensiamo, una volta che li abbiamo conosciuti, di interrompere le nostre ricerche. I tesori della natura sono inesauribili. C’è lavoro sufficiente per tutti noi, per gli zelanti, infaticabili e per gli indolenti più indisturbati. Molto si potrebbe fare per tentativi e nulla resiste alla pazienza. Io so che di primo acchito un nuovo campo di studio appare sempre molto vasto, intricato e difficile; ma dopo un piccolo progresso, quando s’inizia ad averne qualche piccola conoscenza, l’intelletto viene meravigliosamente rischiarato, le difficoltà svaniscono e le cose divengono facili e familiari. Come incoraggiamento in questo studio si veda il Salmo 111, 2: «Grandiose sono le opere del Signore, degne d’esser meditate da quanti le amano». Queste parole, che si riferiscono alle opere della provvidenza, possono essere verificate anche rispetto alle opere della creazione. Mi dispiace che in questa università si dia così poca importanza alla filosofia sperimentale e che si neghino le ingegnose scienze matematiche. Esorto ardentemente i giovani, e specialmente i laureandi, a coltivare questi studi. Essi potrebbero inventare o scoprire qualcosa di molto utile e vantaggioso per il mondo. Una sola di queste scoperte giustificherebbe e ricompenserebbe il lavoro di tutta una vita. Comunque, sarebbe sufficiente conservare e continuare quello che già c’è; né vedo a quale migliore impiego si possa volgere l’ingegnosa attività umana; la storia naturale, infatti, tende alla soddisfazione della mente e alla rappresentazione della gloria di Dio, il quale è meraviglioso in tutte le sue opere.
Non c’è uomo che abbia scavalcato le sue inclinazioni o che abbia intrapreso un metodo di studio cui non era adatto, o contrastante con i fini che gli sono stati attribuiti dai suoi amici dopo matura riflessione. Ma chi ha agio e naturale disposizione per questi studi, sia questo dovuto alla forza o alla grandezza del suo corpo, sarà in grado di concepire e comprendere l’intera estensione del sapere.
Né coloro che sono designati per la teologia debbono temere questi studi o pensare che essi possano essere sterili se non vi si dedica un’attenzione esclusiva. La nostra vita è sufficientemente lunga e possiamo trovare in essa abbastanza tempo se lo amministriamo come si conviene: «non accipimus brevem vitam sed fecimus, nec inopes eius sed prodigi sumus» come ha detto Seneca [De brevitate vitae, I, 1: «Non riceviamo una vita breve ma l’abbiamo fatta tale e non ne siamo sprovvisti, ma spreconi». Se i giovani non trascorressero tutta la loro vita in questi studi, che incombono e gravano su di loro e li assillano sul modo del loro trapasso, si potrebbe fare molto. Non c’è niente di meglio dello studio della vera fisica come vera propaideia, o preparazione, alla teologia.

da La sapienza di Dio manifestata nelle opere della creazione, tr. it. a cura di Andrea Balzarini, Marietti 1820, Genova-Milano 2004, pp. 146-148.

HONOR PETER, HONOR PAUL and prayer

Sts Peter & Paul

 

Honor Peter, honor Paul;
Separated in the body,
Joined as one in faithful call.
Peter, foremost Gospel witness,
Paul, with labors without cease,
Both now stand in robes of glory
At the throne of Christ our Priest.

Let us now with hymns of gladness

Honor their apostolate,
Sing their glorious Epistles,
Laud their common martyr’s fate:
Peter, who for love of Jesus
Bore his death upon the cross,
And the headsman’s cruel sword-stroke
Brought for Paul his gain, not loss.
Let us now with endless glory
Praise the Father and the Son
And the everlasting Spirit,
Ever Three and ever One.
From the mouth of Paul and Peter,
From the choir of saints, ascend
Hymns of glory, praise, and blessing,
Sounding now and without end.

http://communio.stblogs.org/index.php/2010/06/page/2/

 

 

PAOLO VI: QUESTO È IL CREDO DEI CATTOLICI di Andrea Tornielli

http://www.kattoliko.it/leggendanera/modules.php?name=News&file=article&sid=955

PAOLO VI: QUESTO È IL CREDO DEI CATTOLICI

di Andrea Tornielli

Anno 1968: in un momento di confusione dottrinale, sbandamento e autodemolizione della Chiesa, papa Montini riafferma con forza il contenuto della fede.

[Da "Il Timone" n. 27, Settembre/Ottobre 2003]

Il 30 giugno 2003 ha coinciso con un importante anniversario, passato piuttosto in sordina: il trentacinquesimo del « Credo del popolo di Dio », la solenne professione di fede che papa Montini, nel mezzo della bufera della contestazione post-conciliare, si sentì in dovere di proclamare davanti alla Chiesa e al mondo. Uno dei documenti che testimoniano la grandezza di questo Papa. Ormai ottantenne, quando già presentiva la fine imminente, nell’omelia per la festa dei santi Pietro e Paolo del 29 giugno 1978, Paolo VI ricordava: «Benché ci consideriamo l’ultimo e indegno successore di Pietro, ci sentiamo a questa soglia estrema confortati e sorretti dalla coscienza di aver instancabilmente ripetuto davanti alla Chiesa e al mondo: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente »; anche noi, come Paolo, sentiamo di poter dire: « Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede »». E nella stessa omelia citava proprio il « Credo », spiegandone il contesto e il significato: «Ma soprattutto non vogliamo dimenticare — disse il Papa cinque settimane prima di morire — quella nostra « Professione di fede » che, proprio dieci anni fa, il 30 giugno del 1968, noi solennemente pronunciammo in nome e a impegno di tutta la Chiesa come « Credo del Popolo di Dio », per ricordare, per riaffermare, per ribadire i punti capitali della fede della Chiesa stessa, proclamata dai più importanti Concili Ecumenici, in un momento in cui facili sperimentalismi dottrinali sembravano scuotere la certezza di tanti sacerdoti e fedeli, e richiedevano un ritorno alle sorgenti». «Grazie al Signore — aggiunse — molti pericoli si sono attenuati, ma davanti alle difficoltà che ancor oggi la Chiesa deve affrontare sul piano sia dottrinale che disciplinare, noi ci richiamiamo ancora energicamente a quella sommaria professione di fede, che consideriamo un atto importante del nostro magistero pontificale, perché solo nella fedeltà all’insegnamento di Cristo e della Chiesa, trasmessoci dai Padri, possiamo avere quella forza dl conquista e quella luce di intelligenza e d’anima che proviene al possesso maturo e consapevole della divina verità. E vogliamo altresì rivolgere un appello, accorato ma fermo, a quanti impegnano se stessi a trascinare gli altri, con la parola, con gli scritti, con il comportamento, sulle vie delle opinioni personali e poi su quelle dell’eresia e dello scisma, disorientando le coscienze dei singoli, e la comunità intera, la quale dev’essere anzitutto koinonìa nell’adesione alla verità della Parola di Dio, per verificare e garantire la koinonìa nell’unico Pane e nell’unico Calice». «Li avvertiamo paternamente — concluse —: si guardino dal turbare ulteriormente la Chiesa; è giunto il momento della verità, e occorre che ciascuno conosca le proprie responsabilità di fronte a decisioni che debbono salvaguardare la fede, tesoro comune che il Cristo, il quale è Petra, è Roccia, ha affidato a Pietro, Vicarius Petrae, Vicario della Roccia, come lo chiama San Bonaventura».
Ecco il senso profondo di quella professione di fede, che precedette soltanto di pochi giorni la promulgazione dell’ultima enciclica del pontificato montiniano, la contestatissima Humanae vitae. L’occasione per la solenne professione di fede fu offerta al Papa dalla celebrazione dalla conclusione del XIX centenario del martirio degli apostoli Pietro e Paolo. Montini decise dunque di parafrasare il Credo di Nicea. «Nel far questo — spiegò il Papa nell’omelia che precedette la proclamazione — noi siamo coscienti dell’inquietudine, che agita alcuni ambienti moderni in relazione alla fede. Essi non si sottraggono all’influsso di un mondo in profonda trasformazione, nel quale un cosi gran numero di certezze sono messe in contestazione o in discussione. Vediamo anche dei cattolici — aggiunse Paolo VI — che si lasciano prendere da una specie di passione per i cambiamenti e le novità. Senza dubbio la Chiesa ha costantemente il dovere dì proseguire nello sforzo di approfondire e presentare, in modo sempre più confacente alle generazioni che si succedono, gli imperscrutabili misteri di Dio, fecondi per tutti di frutti di salvezza. Ma al tempo stesso, pur nell’adempimento dell’indispensabile dovere di indagine, è necessario avere la massima cura di non intaccare gli insegnamenti della dottrina cristiana. Perché ciò vorrebbe dire — come purtroppo oggi spesso avviene — un generale turbamento e perplessità in molte anime fedeli». «A tale proposito — ricordò ancora il Papa, riferendosi alle opinioni teologiche che sembrano mettere in discussione anche le verità di fede — occorre ricordare che al di là del dato osservabile, scientificamente verificato, l’intelligenza dataci da Dio raggiunge la realtà (ciò che è), e non soltanto l’espressione soggettiva delle strutture e dell’evoluzione della coscienza; e che, d’altra parte, il compito dell’interpretazione — dell’ermeneutica — è di cercare di comprendere e di enucleare, nel rispetto della parola pronunciata, il significato dì cui un testo è espressione, e non di ricreare in qualche modo questo stesso significato secondo l’estro di ipotesi arbitrarie».
Il « Credo del popolo di Dio » rappresenta dunque una parafrasi con la quale il Papa ripercorre e approfondisce ogni affermazione. Eccone il brano dedicato a Gesù: « Noi crediamo in Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio. Egli é il Verbo eterno, nato dal Padre prima di tutti i secoli, e al Padre consustanziale, homoousios to Patri, e per mezzo di Lui tutto è stato fatto. Egli si è incarnato per opera dello Spirito nel seno della Vergine Maria, e si è fatto uomo: eguale pertanto al Padre secondo la divinità, e inferiore al Padre secondo l’umanità, ed Egli stesso uno, non per una qualche impossibile confusione delle nature, ma per l’unità della persona. Egli ha dimorato in mezzo a noi, pieno di grazia e di verità. Egli ha annunciato e instaurato il Regno di Dio, e in Sé ci ha fatto conoscere il Padre. Egli ci ha dato il suo Comandamento nuovo, di amarci gli unì gli altri com’Egli ci ha amato. Ci ha insegnato la via delle Beatitudini del Vangelo: povertà in spirito, mitezza, dolore sopportato nella pazienza, sete della giustizia, misericordia, purezza di cuore, volontà di pace, persecuzione sofferta per la giustizia. Egli ha patito sotto Ponzio Pilato, Agnello di Dio che porta sopra di sé peccati del mondo, ed è morto per noi sulla croce, salvandoci col suo Sangue redentore. Egli è stato sepolto e, per suo proprio potere, è risorto nel terzo giorno, elevandoci con la sua Resurrezione alla partecipazione della vita divino, che è la vita della grazia. Egli è salito al Cielo, e verrà nuovamente, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, ciascuno secondo i propri meriti; sicché andranno alla vita eterna coloro che hanno risposto all’Amore e alla Misericordia di Dio, e andranno nel fuoco inestinguibile coloro che fino all’ultimo vi hanno opposto il loro rifiuto. E il suo Regno non avrà fine. Ecco il passaggio dedicato alla ferita dei peccato originale: « Noi crediamo che in Adamo tutti hanno peccato: il che significa che la colpa originale da lui commessa ha fatto cadere la natura umana, comune a tutti gli uomini, in uno stato in cui essa porta le conseguenze di quella colpa, e che non è più lo stato in cui si trovava all’inizio nei nostri progenitori, costituiti nella santità e nella giustizia, e in cui l’uomo non conosceva né il male né la morte. È la natura umana così decaduta spogliata della grazia che la rivestiva, ferita nelle sue proprie forze naturali e sottomessa al dominio della morte, che viene trasmessa a tutti gli uomini; ed è in tal senso che ciascun uomo nasce nel peccato. Noi dunque professiamo, col Concilio dì Trento, che il peccato originale viene trasmesso con a natura umana, « non per imitazione ma per propagazione », e che esso per tanto è « proprio a ciascuno » Questo infine il brano dedicato all’unicità salvifica di Cristo: « Noi crediamo che la Chiesa è necessaria alla salvezza, perché Cristo, che è il solo mediatore e la sola via dl salvezza, si rende presente per noi nel suo Corpo, che è la Chiesa. Ma il disegno divino della salvezza abbraccia tutti gli uomini: e coloro che, senza propria colpa, ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, ma cercano sinceramente Dio e sotto l’influsso della sua grazia si sforzano di compiere la sua volontà riconosciuta nei dettami della loro coscienza, anch’essi, in un numero che Dio solo conosce, possono conseguire la salvezza ».
Insomma, non si è trattato null’altro che della fedele riproposizione dell’essenziale della fede cattolica, che il Papa ho ritenuto indispensabile proclamare in un momento di confusione e di sbandamento, quando anche all’interno della Chiesa certe correnti teologiche sembravano mettere in dubbio il depositum fidei. Proprio quattro giorni prima della promulgazione del « Credo », il 26 giugno 1968, Paolo VI durante l’udienza pubblica nella Basilica vaticana annunciò ai fedeli che le reliquie di Pietro erano state ritrovate e identificate. Quella scoperta era il frutto del paziente dell’archeologa Margherita Guarducci. «Abbiamo ragione di ritenere — dice papa Montini — che siano stati rintracciati i pochi, ma sacrosanti resti mortali del Principe degli Apostoli».
Quei resti che testimoniavano la presenza fisica della sepoltura del pescatore galileo al quale Gesù aveva affidato di pascere il gregge, quella « roccia » fonte dell’autorità che permetteva al Papa di ripetere infallibilmente i fondamenti della fede cattolica in un momento buio della storia della Chiesa.

Publié dans:PAPA PAOLO VI |on 25 juin, 2014 |Pas de commentaires »

LA GRAZIA E LA GIUSTIFICAZIONE NEL PENSIERO DI SAN PAOLO

http://www.collationes.org/de-documenta-theologica/theologia-dogmatica/item/141-la-grazia-e-la-giustificazione-nel-pensiero-di-san-paolo-paul-ocallaghan

LA GRAZIA E LA GIUSTIFICAZIONE NEL PENSIERO DI SAN PAOLO

Por Paul O’Callaghan

Paul O’Callaghan, La grazia e la giustificazione nel pensiero di San Paolo, en M. Sodi, P. O’Callaghan (eds.), Paolo di Tarso. Tra Kerygma, cultus e vita, LEV, Città del Vaticano 2009, pp. 103-116

I. Contestualizzando la dottrina paolina: la grazia giustificante e le ‘buone opere’
La dottrina paolina sulla grazia si situa soprattutto all’interno del tentativo dell’Apostolo di evitare e superare l’umana tendenza — frutto del peccato — verso l’auto-giustificazione. Secondo gli scritti paolini, l’uomo è peccatore e creatura, e per questa ragione le sue opere sono in qualche modo disordinate in partenza. Perciò soltanto la divina misericordia, gratuitamente comunicata, può salvare l’uomo e dare valore alle sue opere. La grazia, in altre parole, si oppone alle buone opere quando queste vengono considerate e vissute come mezzo necessario per la salvezza, con cui l’uomo può presentarsi davanti a Dio ed esigere riconoscenza.
Paolo adopera il termine ‘grazia’ (cháris) un centinaio di volte. Lo fa sempre al singolare, per designare in genere il favore divino, e in modo specifico l’evento escatologico che ha avuto luogo in Gesù Cristo e che produce il rinnovamento interiore dell’uomo credente. La vita cristiana parte e si incentra sulla donazione di Dio agli uomini e solo secondariamente — come conseguenza, pur necessaria — sull’etica. Gli uomini sono peccatori e hanno bisogno di essere redenti da Gesù Cristo: “perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù” (Rm 3,23s.).

II. Il cammino della grazia: Gesù Cristo
La giustizia ha origine esclusivamente in Dio, secondo Paolo. Però l’unico cammino per raggiungerla è per la fede in Gesù Cristo.
Sono molti i testi che indicano questa dottrina. “Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio” (Rm 5,1-2). “Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono” (Rm 3,21s.). In Romani 4,24 ss., Paolo spiega che nell’Antico Testamento Abramo veniva giustificato non per mezzo delle sue opere, ma per la fede in Dio (cf. Gn 15,6) in base ad una promessa ancora non vista né verificata; il cristiano, similmente, è giustificato per mezzo della fede in Gesù Cristo.
Nel contempo, ciò che rende possibile la redenzione (o salvezza) per mezzo della grazia, è il fatto che tutti siamo stati creati in Cristo e a causa di Cristo, un tema ricorrente in Paolo (1 Cor 8,6; Col 1,15-20; Eb 1,2-3.10). In altre parole, Cristo viene a salvare un mondo già creato da Lui e indirizzato sin dall’inizio verso di Lui; la grazia, perciò, non è qualcosa di violento, di invadente, di artificialmente aggiuntivo; esiste ed agisce in continuità con il dono divino della creazione.
Bisogna aggiungere, però, che il Cristo non può essere considerato come un mero mezzo che rende disponibile la grazia, perché secondo gli scritti paolini il dono di Dio agli uomini è Gesù Cristo stesso. Vivere nella grazia vuole dire ‘essere (o vivere) in Gesù Cristo’. In un brano famoso della lettera ai Gàlati, Paolo dichiara che “sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Questa incorporazione o rivestimento di Cristo, secondo Paolo, ha luogo per mezzo del Battesimo con l’invio dello Spirito Santo. Siamo stati “battezzati in Cristo Gesù” (Rm 6,3). “Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27; cf. 2 Cor 5,2; Ef 4,24).

III. Lo stato nuovo del cristiano
Il credente in Cristo, secondo san Paolo, vive in un nuovo stato. Il ‘vivere in Cristo’ non equivale ad una mera assimilazione dello stile di vita e l’esempio del Maestro (Fil 2,5), con un’imitazione, tramite le proprie forze, delle sue virtù e dei suoi atteggiamenti. La realtà è più forte: “Cristo vive in me” (Gal 2,20). Per questa ragione Paolo può dire: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Cor 12,9). Cristo si rende presente ed attivo nel cristiano, che perciò vive in Lui, con Lui, per Lui.[1] Paolo impiega una ricca varietà di espressioni, fortemente collegate tra di loro, per spiegare questa nuova vita che scaturisce dal Cristo e si fa sempre più presente nella vita del credente. Ne possiamo elencare sei.
1. In primo luogo, la ‘nuova creazione’.[2] La vita che risulta dal dono di Dio viene chiamata da Paolo una ‘nuova creazione’ (Gal 6,15).
Il ‘nuovo uomo’ è “creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,24). “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove” (2 Cor 5,17). L’opera di Dio nell’uomo è quella di essere “creati in Cristo Gesù per le opere buone” (Ef 2,10). L’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,26) viene ‘ri-creato’ in Cristo secondo la sua immagine (Rm 8,29). Da una parte, questa spiegazione fa riferimento alla ‘creazione in Cristo’, già menzionata. La ‘nuova creazione’ quindi è qualcosa di più di una mera metafora. È una vera e propria opera di Dio, l’Unico Creatore. Dall’altra parte, il radicalismo di questa ‘nuova’ creazione ha come punto di arrivo la santità e quindi come punto di partenza il peccato, ovvero le ‘cose vecchie’.
2. La filiazione divina. Il risultato della vita di Cristo nel cristiano, della nuova creazione, è la filiazione divina, perché Cristo è il Figlio di Dio e la sua vita in noi ci rende figli del Padre. Paolo lascia intendere però che non si tratta di una filiazione naturale, originaria, ma del frutto della nuova creazione, come una seconda e successiva fase dell’esistenza umana. Per questo, adopera apertamente il termine ‘figli di adozione’ (Gal 4,6; Rm 5,15-16; Ef 1,3s.).[3] Nel contempo, è chiaro che la filiazione ricevuta per grazia produce una realtà non dissimile a quella di Cristo. Per questa ragione il cristiano, figlio di Dio, diventa co-erede con Lui (Rm 8,17). Cristo è la causa di questa vita filiale (Rm 8,29), che ci ha meritato sulla croce (Gal 4,5).
La realtà della filiazione divina viene resa presente nel credente, secondo Paolo, dallo Spirito Santo, in qualche modo sperimentato dai cristiani (Rm 8,14.16). Per mezzo dello Spirito possiamo chiamare Dio ‘Padre’ (Rm 8,15; Gal 4,6). Si può dire che l’agire dello Spirito, la nuova vita in Cristo e la filiazione divina interagiscono tra di loro nel modo seguente: Cristo Risorto, entrato nella pienezza della sua Filiazione, è Colui che invia lo Spirito, per trasformarci (Tit 3,6); a sua volta, lo Spirito ha il compito specifico di assimilare il cristiano a Cristo, affinché “Cristo sia formato in voi” (Gal 4,19); perciò si dice che nello Spirito possiamo gridare ‘Abbà, Padre’ (Rm 8,14-16). In poche parole: “Per mezzo di lui [Cristo] possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2,18).
3. La presenza dello Spirito. Diverse volte Paolo parla della presenza dello Spirito nell’uomo come un aspetto specifico e qualificante della nuova vita. “La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5).
In effetti, lo Spirito viene inviato (Gal 4,6) e ‘concesso’ (Gal 3,5) al credente, ‘riversato’ (Tit 3,5) su di lui. Viene ad abitare in lui: “Lo Spirito di Dio abita in voi” (Rm 8,9). Dio abita in mezzo al Popolo dell’Antico Testamento come in un tempio.[4] In modo simile il tempio dello Spirito Santo è ora il credente cristiano. “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui” (1 Cor 3,16 s.). “O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?” (1 Cor 6,19). La presenza dello Spirito, in altre parole, consacra l’uomo a Dio, e costituisce un invito pressante a vivere una vita santa. Allo stesso tempo, dice Paolo, la presenza dello Spirito è soltanto un inizio, ‘le primizie’ (2 Cor 1,22; 5,5; Ef 1,14; Rm 8,23). Cristo è la ‘pietra angolare’ perché l’edificio possa crescere bene, “per essere tempio santo nel Signore. In lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,21-2).
4. La liberazione dal male. Spesso Paolo parla della salvezza in Cristo come un’opera di liberazione e di redenzione.[5] “L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,19-21).
L’agire dello Spirito raggiunge lo stesso effetto: “Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà” (2 Cor 3,17). Anche nella lettera ai Gàlati, Paolo parla della “libertà che abbiamo in Cristo Gesù” (2,4). Di fronte a coloro che vogliono sottomettere i credenti alla schiavitù delle ‘opere della legge’, Paolo ricorda ai cristiani che “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1). Allo stesso tempo, insiste che questa nuova libertà non può mai offrire al credente il pretesto di peccare. “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne” (Gal 5,13).
Paolo, malgrado lo sfondo linguistico di tipo stoico che caratterizza i suoi scritti, non si interessa apertamente alla questione filosofica del libero arbitrio, cioè la capacità umana di scegliere tra diverse opzioni. Parla piuttosto della liberazione dell’uomo — che vive sotto la schiavitù del male/peccato, della legge, della morte, della concupiscenza, del fatalismo — che è il frutto della grazia divina. Consideriamo ora questi particolari della liberazione cristiana.
Prima di tutto, si tratta di una liberazione dal peccato, perché l’uomo, secondo Rm 7, ne è dominato, anche se è stato rigenerato dalla grazia di Cristo, secondo l’insegnamento delle grandi lettere paoline (Gal 5, Rm 8). Dovuto a questa liberazione possiamo trionfare sulla ‘carne’, sull’uomo vecchio, anche se sarà necessaria una battaglia che durerà fino alla morte (Col 3,5-9; Rm 6,12-23; 8,5-13; Ef 4,17s.). Si capisce comunque che non si tratta semplicemente di una lotta contro la mera debolezza della carne, ma una vera e propria lotta spirituale, contro le forze del male. “La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12).
Più complesso poi è la liberazione dalla legge di cui parla Paolo specialmente nella Lettera ai Gàlati (3,1-5,12). Certamente l’Apostolo non incoraggia i cristiani a trascurare il compimento della volontà di Dio. Anche la legge giudaica scritta (il Talmud) è una guida per la retta condotta. Tuttavia essa non è in grado di produrre la giustificazione dell’uomo. La legge non è fonte di peccato, non ne è l’equivalente, anche se può diventare uno strumento del peccato, perché rivela l’agire peccaminoso dell’uomo e perché l’uomo tende a vantarsi orgogliosamente delle opere compiute in conformità con la legge. Secondo l’Apostolo, la legge è il Pedagogo (Gal 3,24), in quanto preparazione per la venuta del Cristo. Con eccezionale insistenza Paolo insegna che il neo-converso dal paganesimo non ha più bisogno di aggrapparsi alla legge giudaica, ai riti, alle regole alimentari, alla circoncisione, ecc. Tuttavia, il cristiano è obbligato a vivere una vita santa, seguendo in tutto la volontà di Dio (Gal 5,1-6; Col 2,16-23). È lo Spirito Santo ad interiorizzare in ciascuno la volontà divina: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge” (Gal 5,22 s.); “ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la legge” (5,18).
L’uomo viene liberato anche dalla morte. Come nell’Antico Testamento (Gn 3,17-19; Sap 1,13 s.; 2,23), Paolo collega strettamente la morte con il peccato. “Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato” (Rm 5,12). E dopo: “Il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 6,23). In effetti, così come la morte è entrata nel mondo a causa del peccato, essa sarà superata nella risurrezione finale (1 Cor 15,3-58).
Inoltre, Paolo parla della liberazione dalla concupiscenza e dalla debolezza. Dio assiste l’uomo nella sua debolezza. Quando Paolo si lamenta della ‘spina nella sua carne’, il Signore gli risponde: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12,9). Per questo, conclude, “mi vanterò… ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (ibid). Lo spirito dell’uomo lo tira in su, la carne in giù. Però la grazia è più forte del peccato: “Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti” (Rm 5,15).
Infine, l’uomo viene liberato dal fatalismo, dalle oscure forze del male, e dai sofismi filosofici: “così anche noi quando eravamo fanciulli, eravamo come schiavi degli elementi del mondo… Ma un tempo, per la vostra ignoranza di Dio, voi eravate sottomessi a divinità, che in realtà non lo sono. Ora invece che avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, ai quali di nuovo come un tempo volete servire?” (Gal 4,3.8-9). “Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.” (Col 2,8).

5. Il perdono dei peccati (la giustificazione). Secondo san Paolo, il primo effetto o frutto della nuova vita in Cristo, dell’incorporazione a Lui, è il perdono dei peccati, ovvero la ‘giustificazione’. Si tratta di una questione molto sviluppata lungo le sue lettere, specialmente in Romani e Gàlati. Come abbiamo visto, la schiavitù da cui viene liberato l’uomo non era imposta dalla materia; neppure ha a che vedere con i semplici limiti della condizione creata. Quando parla dell’uomo e del cosmo Paolo non è dualista. Il punto di partenza per la giustificazione invece è il peccato, e perciò l’opera di rigenerazione, o ‘nuova creazione’, ha come primo effetto la salvezza, oppure il perdono dei peccati. Per questa ragione, in Rm 5,12 si insiste che “tutti hanno peccato”.
Paolo parla della ‘riconciliazione’ tra Dio e l’uomo (Col 1,20). Però si deve notare — anche se sembra qualcosa di ovvio — che non si tratta di una colpa simmetrica, perché soltanto l’uomo ha peccato. Perciò in realtà la riconciliazione è un’opera di misericordia divina, di pura grazia, di perdono gratuito. C’è una riconciliazione, certamente, però essa parte esclusivamente da Dio, l’unico offeso, che non può essere placato dall’abbondanza delle ‘opere’ umane. L’uomo non può prendere l’iniziativa né contribuire direttamente alla sua riconciliazione con Dio. Per questo Paolo insiste che “era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione” (2 Cor 5,19). Il testo dice letteralmente: ‘Dio era in Cristo riconciliando a sé il mondo’.
Quando Paolo afferma che Cristo in diversi modi ‘si fece peccato’, non si tratta ovviamente di peccati personali da Lui commessi. Piuttosto si deve dire che Cristo ha addossato su di sé il peccato dell’uomo, riconciliandolo con Dio nel modo più profondo possibile. “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (1 Cor 5,21). E altrove: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto: ‘Maledetto chi è appeso al legno’” (Gal 3,13, citando Dt 27,26). Cristo non era il peccatore, però è stato lui a farsi volontariamente sacrificio e vittima per il peccato, e il sacrificio fu efficace dovuto alla sua completa innocenza. “Camminate nella carità”, si legge nella lettera agli Efesini, “nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato sé stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 5,2). E nella lettera agli Ebrei, “una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli [Cristo] è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di sé stesso” (Eb 9,28).
Scrivendo ai cristiani di Corinto (2 Cor 5,19) Paolo dice che la riconciliazione con Dio implica che le colpe non vengano più ‘imputate’ all’uomo (cf. anche Rm 5,13). Testi di questo genere sono stati interpretati nella tradizione luterana come affermazioni di una giustificazione meramente estrinseca o forense del peccatore.[6] Ovvero, Dio semplicemente dichiarerebbe il peccatore perdonato in base al gesto sacrificale di Cristo. Cristo prende il nostro posto dinanzi al Padre, e viene castigato per noi. Infatti la parola biblica dikaioún, ‘giustificare’, vuole dire in aramaico ‘dichiarare giusto’. Nel Nuovo Testamento, però, la dichiarazione di innocenza esprime solo una parte del significato dell’espressione ‘giustificazione del peccatore’. Per questa precisa ragione si è inventato un neologismo cristiano in lingua latina, iustificatio, che vuole dire letteralmente ‘rendere giusto’.[7] Il peccatore infatti viene dichiarato giusto e perdonato, ma viene anche reso giusto. Con l’opera di Cristo si verifica qualcosa che va più in là dell’efficacia dei riti ebraici della purificazione, che esprimono una purezza perlopiù esteriore. Parlando del Battesimo, Paolo insiste: “siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio!” (1 Cor 6,11).
6. L’impegno cristiano per la santità di vita. Il campo di prova per i cristiani giustificati e santificati è quello della santità di vita. Certo, gli uomini non si giustificano in base alle buone opere. Però le buone opere devono essere presenti nella vita del giustificato, come frutto e manifestazione della grazia. I cristiani vengono chiamati da Paolo più di trenta volte ‘i santi’,[8] quelli cioè che vivono una vita santa e virtuosa. La vita di Cristo presente in loro li spinge ad una vita virtuosa e a diffondere il bonus odor Christi, ‘il profumo di Cristo’ (2 Cor 2,15) verso le persone che hanno intorno a sé. Il peccato, invece, che non è in grado di produrre le opere buone, indica che la nuova vita non è presente ed attuante (Rm 1,29; Gal 5,18).
7. La grazia, perché? Dopo aver descritto, pur in modo succinto, la ricchissima dinamica della vita della grazia e della giustificazione negli scritti si san Paolo, bisogna chiedersi con quale finalità Dio ha voluto dare questo dono agli uomini che credono al suo Figlio fatto uomo? Perché si è ‘in grazia’, ‘in Cristo’? Perché si è destinati a vivere come figli di Dio, a ricevere il regno di Dio in eredità? Queste domande ci portano alle ultime due questioni attinenti alla teologia paolina della grazia: la finalità apostolica della vita dei credenti in Cristo, e il disegno divino di ‘ricapitolare tutte le cose in Cristo’.

IV. Vivendo in Cristo per comunicare la vita di Cristo agli uomini
Paolo parla della ‘grazia’ (cháris) come una realtà semplice, unica, che esprime e contiene il dono di Dio in Gesù Cristo agli uomini. Inoltre, parla della presenza nella vita della Chiesa dei carismi (charísmata), ovvero dei doni divini speciali che facilitano la comunicazione della Buona Novella all’umanità, rendendo possibile la missione universale della Chiesa. Detto diversamente, la grazia cristiana, pur destinata alla giustificazione del singolo, spinge ugualmente verso l’apostolato dei cristiani. Charitas Christi urget nos, ‘la carità di Cristo ci spinge’, dice Paolo (2 Cor 5,14).
1. L’Apostolo Paolo. Certamente Paolo applica questo principio in primo luogo a sé stesso, affermando che “mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22). Egli si sente obbligato ad evangelizzare: “guai a me se non annuncio il Vangelo” (1 Cor 9,16; cf. Rm 1,5; 12,13; 15,15s). Bisogna notare che la grazia della conversione che Paolo ricevette sul cammino di Damasco non era semplicemente quella della conversione personale, ma proprio la conversione per una nuova ed universale missione.[9] Di Paolo Gesù disse ad Ananìa: “egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (At 9,15 s.). E nella lettera ai Gàlati, dice l’Apostolo: “ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Gal 1,15 s.). Questa grazia di Dio in Paolo divenne poi oltremodo feconda (2 Cor 12,5-10).
La contrapposizione paolina tra la fede e le opere, già accennata, fa riferimento a due questioni. Da una parte, alla vita personale in ogni credente: l’uomo non deve considerare le proprie opere in uno spirito di auto-compiacenza, ma sperare la salvezza solo da Dio in cui crede e da cui riceve la giustizia. Dall’altra parte, però, la contrapposizione tra fede e opere indica anche che i credenti non devono agire in modo tale da stabilire delle frontiere nei confronti della parola di Dio,[10] della forza salvifica che Dio ha spiegato in Gesù Cristo. La forza del Vangelo non richiede il compimento preciso e scrupoloso di una serie di regole o azioni di tipo istituzionale, ‘le opere della legge’. Detto diversamente, l’appartenenza meramente passiva alla Chiesa, come comunità salvata, non è sufficiente per assicurarsi la giustificazione individuale. È necessaria la fede, che apre l’uomo ai doni divini per sé ed anche per gli altri.
Quindi si possono fare due letture, complementari tra di loro, della contrapposizione paolina tra fede e opere: una lettura più individuale, che guarda alle opere dell’individuo di fronte a Dio e alla necessità della fede personale, la fiducia, l’umiltà; e una lettura più ecclesiale, o sociale, che guarda piuttosto all’appartenenza comune alla Chiesa, all’adesione alla sua dottrina e specificamente alla qualità intrinsecamente espansiva e contagiosa (missionaria) della fede.
2. L’apostolo cristiano. Ci si può chiedere, comunque, se questo forte legame, nella persona di Paolo, tra l’essere in Cristo e l’essere apostolo, come due aspetti inscindibili dalla sua personale vocazione, si verifichi anche nella vita degli altri cristiani. A questa domanda si può rispondere in un modo sostanzialmente positivo.[11] Tre osservazioni vanno comunque fatte.
In primo luogo, la forza e l’impegno della propria e intrasferibile vocazione come ‘apostolo delle genti’ sembra lasciare all’ombra l’apostolato degli altri cristiani, anche quello degli altri Apostoli (2 Cor 11,22-9). “Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue più di tutti voi” (1 Cor 14,18). “Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,10).
Poi, è chiaro che il singolare impegno apostolico di Paolo non costituisce una negazione dell’apostolato degli altri cristiani e neppure quello degli altri Apostoli. Come dimostrano le sue lettere, Paolo contava su molti collaboratori. Si parla dell’impegno missionario ad esempio di credenti come Priscilla e Aquila che per propria iniziativa istruivano il predicatore Apollo (At 18,26).
Infine, dal punto di vista più teologico, Paolo afferma lo stretto legame tra la grazia (la vita di Cristo nei cristiani) e i ‘carismi’, perché tutti e due hanno l’origine nello stesso Spirito e sono guidati dall’amore, ed indirizzati all’amore. “Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti” (1 Cor 12,4-6). Non si può parlare, quindi, di carismi privati, ricevuti in beneficio proprio; sono tutti per il bene della Chiesa e tramite essa in favore dell’umanità. Lo spiega Paolo a lungo nella prima lettera ai Corinzi (12,7-11).

V. Predestinazione e ricapitolazione di tutte le cose in Cristo
Abbiamo appena visto che la grazia di Dio data agli uomini, la nuova vita in Cristo, ha una finalità intrinsecamente missionaria. A ciò si deve aggiungere però che la finalità ultima della grazia sta nella rivelazione definitiva del disegno di Dio in Cristo, ovvero la ricapitolazione di tutta la creazione in Cristo. Questo disegno, nascosto in Dio (il mystérion di cui si parla in Colossesi ed Efesini),[12] sarà rivelato senz’altro alla fine dei tempi, ma è stato rivelato già in Gesù Cristo, centro della storia della salvezza. Perciò, “quando tutto… sarà stato sottomesso [a Cristo], anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15,28). Consideriamo la questione in tre momenti.
Il primo momento. Il punto di partenza del disegno divino, secondo Paolo, è la predestinazione divina. La salvezza operata da Dio nel mondo trova sempre la sua radice nella predestinazione, fondata sul disegno originario di Dio. Egli parla dei cristiani predestinati “a conoscere la sua volontà” (At 22,14), “ad essere conforme all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29), “ad essere per lui [Dio] figli adottivi mediante Gesù Cristo” (Ef 1,5), “secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà” (Ef 1,11). È chiaro comunque che l’oggetto primordiale della predestinazione è Gesù Cristo in persona, il quale, secondo la prima lettera di Pietro, “fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi” (1 Pt 1,20). L’espressione più compiuta di questa dottrina si trova nel primo capitolo delle lettera agli Efesini.
“Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato… il disegno di ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra” (Ef 1,3-10).[13]
Sono quattro gli elementi principali di questo brano. (1) I cristiani sono stati ‘predestinati’, o ‘scelti’ in Cristo. (2) La finalità di questa predestinazione è quella di diventare ‘santi e immacolati’, ‘nella carità’, vivendo come ‘figli adottivi’. Tutto ciò (3) avviene ‘per opera di Gesù Cristo’, ovvero per la grazia ricevuta ‘nel suo Figlio’, e (4) perché ‘sia benedetto Dio’, ‘a lode e gloria della sua grazia’. Con molta frequenza infatti Paolo insiste che la contemplazione cristiana del graduale dispiegarsi di questo progetto si esprime in primo luogo nella necessità imperativa di lodare Dio, di ringraziarlo per i suoi doni,[14] appunto perché tutto sia ‘a gloria del nome di Gesù’.[15]
Il secondo aspetto. Se si parla di predestinazione e del progetto divino di portare tutto sotto il dominio effettivo di Dio in Cristo, ci si potrebbe chiedere se non si trovi un certo determinismo in partenza, basato sul disegno divino in cui tutto sia stato previamente deciso e preordinato? Già abbiamo visto che la libertà di cui parla Paolo non si identifica in primo luogo con il libero arbitrio, ovvero con l’autonoma autodeterminazione di ogni uomo, ma piuttosto con la liberazione dalla schiavitù del peccato. Inoltre, la riflessione di Paolo si deve comprendere alla luce del destino del Popolo Ebreo, oggetto della promessa divina (Rm 9-11), e non tanto degli individui umani. Paolo parla nella lettera ai Romani di Dio che sopporta “con grande magnanimità gente meritevole di collera, pronta per la perdizione” (Rm 9,22). E Dio agisce in questo modo “per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso gente meritevole di misericordia, da lui predisposta alla gloria” (Rm 9,23). Però ancora rimane aperta la domanda: non c’è nella forte dottrina paolina della predestinazione, dell’elezione, della vocazione, una certa insinuazione di predeterminismo? Si possono fare tre osservazioni.
Prima, quando Paolo parla di coloro che si perdono, sta pensando alla perdita della promessa da parte del popolo eletto affinché siano salvati i pagani. Non si tratta invece della perdita ‘sicura’ o necessaria di alcuni individui, prevista da tutta l’eternità, come se fosse il prezzo da pagare per ottenere la salvezza degli altri. Parlando del destino del popolo ebraico, Paolo dice che “i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29). Poi, la predestinazione non implica un processo automatico di salvezza di alcuni individui; in ogni tappa del cammino del credente, la libera risposta dell’uomo viene suscitata: “quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati” (Rm 8,29s.). Terza, infine, la grazia data non è arbitraria nei suoi effetti, ma è destinata a superare il peccato e a portare l’uomo alla salvezza; l’uomo viene pienamente, spesso faticosamente, coinvolto in questo processo. Inoltre, nella lettera agli Efesini la predestinazione è sempre riferita a Cristo oppure, in Lui, alla collettività cristiana. Afferma spesso che Dio gli ha amato personalmente, gli ha salvato, chiamato, inviato. Però no dice mai che gli ha predestinato. L’oggetto della predestinazione è sempre Cristo, e in Lui il ‘noi’ (Ef 1,4-7).
Terzo ed ultimo aspetto. La ‘ricapitolazione’ di tutto in Cristo compromette l’intera creazione e non solo l’uomo, oppure la Chiesa. Con forza Paolo parla de “l’ardente aspettativa della creazione”, che “è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio… Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8,19-23). Il capitolo centrale di questa ricapitolazione sarà la risurrezione corporale dei morti, promessa alla fine dei tempi (1 Cor 15). In quel momento, quando “il Figlio sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15,28).

Miriam and women celebrate the crossing of the Red Sea; Tomic Psalter, 1360/63

Miriam and women celebrate the crossing of the Red Sea; Tomic Psalter, 1360/63 dans immagini sacre 800px-Miriams_Tanz

http://en.wikipedia.org/wiki/History_of_music_in_the_biblical_period

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LA FECONDITÀ DEL PARADOSSO – (EBRAISMO)

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LA FECONDITÀ DEL PARADOSSO – (EBRAISMO)

di Elena Lea Bartolini | settembre-ottobre 2009

Diceva Rabbi Mendel di Kotzk: «Tre cose convengono a un ebreo: una genuflessione in piedi, un grido silenzioso, una danza immobile». È una modalità tipicamente chassidica – da ricondursi quindi ad una famosa corrente mistica dell’ebraismo che dal 1750 ad oggi continua a trovare seguaci – che esprime con questa singolare affermazione una caratteristica fondamentale del modo di pensare semitico: il paradosso non è insensato, è non è neppure un pensiero estremo sebbene rimandi di fatto a due polarità fra loro contrapposte, in quanto per l’ebreo costituisce un criterio di intelligibilità secondo la logica della creazione. Nel libro della Genesi infatti si attesta che Dio crea separando realtà che tra loro si oppongono: luce e tenebra, terra e acqua, luci per il giorno e luci per la notte, e questo deve servire all’uomo per distinguere i giorni, le settimane, i mesi e le stagioni (cfr. Gen 1,1ss.). Tali contrapposizioni sono pertanto finalizzate alla comprensione: capisco cosa è la luce solo in rapporto alla tenebra, distinguo la terra asciutta solo in rapporto al mare e, paradossalmente, anche il bene in rapporto al male (cfr. Gen 3,1ss.). Per questo anche la tradizione rabbinica preferisce non utilizzare il principio aristotelico di «non contraddizione» ritenendo che il paradosso possa favorire meglio una sana dialettica sempre pronta a riaprire discussioni alla luce di nuove domande.
Ne risulta che, proprio in relazione all’uso della libertà la quale presuppone la convivenza nell’uomo di due istinti fra loro contrapposti, si arrivi ad affermazioni come quella del Baal Shem Tov, il fondatore del chassidismo, che precisa: «Il male è sede del bene. Non esiste il male assoluto», e sulla stessa linea Rabbi Mendel di Kotzk aggiunge: «In ogni cosa ci sono scintille divine. Anche nel peccato e nell’empietà». Sono tutte affermazioni che cercano di evitare qualsiasi pensiero dualista che riconduca il male a una sorta di «anti-Dio», preferendo invece la prospettiva biblica nell’orizzonte della quale il male appartiene a un mistero di sofferenza nel quale anche Dio stesso è coinvolto.
Non a caso la tradizione insegna che è necessario «benedire» sia nel bene che nel male, sia nella gioia che nel dolore, proprio perché tutto proviene dall’unico Signore della storia, e anche questo fa parte della logica del paradosso. Pertanto, come ricorda Rabbi Bunam di Peshischa: «Il vero peccato dell’uomo» non tanto compiere il male – che comunque è da condannare – ma consiste soprattutto nel fatto «che potrebbe tornare a Dio in qualsiasi momento e non lo fa»; inoltre, Rabbi Dov Ber di Mesritsch precisa che «la scintilla più santa si trova al livello più basso. Per questo si dice che i perfettamente giusti non possono arrivare là dove stanno coloro che si pentono».
Si tratta allora di dover per forza scegliere di compiere il male per poter sperimentare il bene? Assolutamente no. Si tratta semmai di imparare a scegliere il bene nella consapevolezza che la «perfezione assoluta» non è di questo mondo, che è possibile sbagliare, e che il peccatore non va condannato ma incoraggiato al pentimento, anche nel caso in cui fosse il nostro peggior nemico. In questo sta il vero amore che, se autentico, sa arrivare fino al paradosso. Ricorda al riguardo Rabbi Israel di Wiznitz: «Amo a tal punto il mio nemico, che anche lui sarà costretto ad amarmi». (I detti dei rabbi citati si trovano in: V. Malka, Così parlavano i chassidim, Paoline, Milano 1996).

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 24 juin, 2014 |Pas de commentaires »
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