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LA GRAZIA E LA GIUSTIFICAZIONE NEL PENSIERO DI SAN PAOLO
Por Paul O’Callaghan
Paul O’Callaghan, La grazia e la giustificazione nel pensiero di San Paolo, en M. Sodi, P. O’Callaghan (eds.), Paolo di Tarso. Tra Kerygma, cultus e vita, LEV, Città del Vaticano 2009, pp. 103-116
I. Contestualizzando la dottrina paolina: la grazia giustificante e le ‘buone opere’
La dottrina paolina sulla grazia si situa soprattutto all’interno del tentativo dell’Apostolo di evitare e superare l’umana tendenza — frutto del peccato — verso l’auto-giustificazione. Secondo gli scritti paolini, l’uomo è peccatore e creatura, e per questa ragione le sue opere sono in qualche modo disordinate in partenza. Perciò soltanto la divina misericordia, gratuitamente comunicata, può salvare l’uomo e dare valore alle sue opere. La grazia, in altre parole, si oppone alle buone opere quando queste vengono considerate e vissute come mezzo necessario per la salvezza, con cui l’uomo può presentarsi davanti a Dio ed esigere riconoscenza.
Paolo adopera il termine ‘grazia’ (cháris) un centinaio di volte. Lo fa sempre al singolare, per designare in genere il favore divino, e in modo specifico l’evento escatologico che ha avuto luogo in Gesù Cristo e che produce il rinnovamento interiore dell’uomo credente. La vita cristiana parte e si incentra sulla donazione di Dio agli uomini e solo secondariamente — come conseguenza, pur necessaria — sull’etica. Gli uomini sono peccatori e hanno bisogno di essere redenti da Gesù Cristo: “perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù” (Rm 3,23s.).
II. Il cammino della grazia: Gesù Cristo
La giustizia ha origine esclusivamente in Dio, secondo Paolo. Però l’unico cammino per raggiungerla è per la fede in Gesù Cristo.
Sono molti i testi che indicano questa dottrina. “Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio” (Rm 5,1-2). “Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono” (Rm 3,21s.). In Romani 4,24 ss., Paolo spiega che nell’Antico Testamento Abramo veniva giustificato non per mezzo delle sue opere, ma per la fede in Dio (cf. Gn 15,6) in base ad una promessa ancora non vista né verificata; il cristiano, similmente, è giustificato per mezzo della fede in Gesù Cristo.
Nel contempo, ciò che rende possibile la redenzione (o salvezza) per mezzo della grazia, è il fatto che tutti siamo stati creati in Cristo e a causa di Cristo, un tema ricorrente in Paolo (1 Cor 8,6; Col 1,15-20; Eb 1,2-3.10). In altre parole, Cristo viene a salvare un mondo già creato da Lui e indirizzato sin dall’inizio verso di Lui; la grazia, perciò, non è qualcosa di violento, di invadente, di artificialmente aggiuntivo; esiste ed agisce in continuità con il dono divino della creazione.
Bisogna aggiungere, però, che il Cristo non può essere considerato come un mero mezzo che rende disponibile la grazia, perché secondo gli scritti paolini il dono di Dio agli uomini è Gesù Cristo stesso. Vivere nella grazia vuole dire ‘essere (o vivere) in Gesù Cristo’. In un brano famoso della lettera ai Gàlati, Paolo dichiara che “sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Questa incorporazione o rivestimento di Cristo, secondo Paolo, ha luogo per mezzo del Battesimo con l’invio dello Spirito Santo. Siamo stati “battezzati in Cristo Gesù” (Rm 6,3). “Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27; cf. 2 Cor 5,2; Ef 4,24).
III. Lo stato nuovo del cristiano
Il credente in Cristo, secondo san Paolo, vive in un nuovo stato. Il ‘vivere in Cristo’ non equivale ad una mera assimilazione dello stile di vita e l’esempio del Maestro (Fil 2,5), con un’imitazione, tramite le proprie forze, delle sue virtù e dei suoi atteggiamenti. La realtà è più forte: “Cristo vive in me” (Gal 2,20). Per questa ragione Paolo può dire: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Cor 12,9). Cristo si rende presente ed attivo nel cristiano, che perciò vive in Lui, con Lui, per Lui.[1] Paolo impiega una ricca varietà di espressioni, fortemente collegate tra di loro, per spiegare questa nuova vita che scaturisce dal Cristo e si fa sempre più presente nella vita del credente. Ne possiamo elencare sei.
1. In primo luogo, la ‘nuova creazione’.[2] La vita che risulta dal dono di Dio viene chiamata da Paolo una ‘nuova creazione’ (Gal 6,15).
Il ‘nuovo uomo’ è “creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,24). “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove” (2 Cor 5,17). L’opera di Dio nell’uomo è quella di essere “creati in Cristo Gesù per le opere buone” (Ef 2,10). L’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,26) viene ‘ri-creato’ in Cristo secondo la sua immagine (Rm 8,29). Da una parte, questa spiegazione fa riferimento alla ‘creazione in Cristo’, già menzionata. La ‘nuova creazione’ quindi è qualcosa di più di una mera metafora. È una vera e propria opera di Dio, l’Unico Creatore. Dall’altra parte, il radicalismo di questa ‘nuova’ creazione ha come punto di arrivo la santità e quindi come punto di partenza il peccato, ovvero le ‘cose vecchie’.
2. La filiazione divina. Il risultato della vita di Cristo nel cristiano, della nuova creazione, è la filiazione divina, perché Cristo è il Figlio di Dio e la sua vita in noi ci rende figli del Padre. Paolo lascia intendere però che non si tratta di una filiazione naturale, originaria, ma del frutto della nuova creazione, come una seconda e successiva fase dell’esistenza umana. Per questo, adopera apertamente il termine ‘figli di adozione’ (Gal 4,6; Rm 5,15-16; Ef 1,3s.).[3] Nel contempo, è chiaro che la filiazione ricevuta per grazia produce una realtà non dissimile a quella di Cristo. Per questa ragione il cristiano, figlio di Dio, diventa co-erede con Lui (Rm 8,17). Cristo è la causa di questa vita filiale (Rm 8,29), che ci ha meritato sulla croce (Gal 4,5).
La realtà della filiazione divina viene resa presente nel credente, secondo Paolo, dallo Spirito Santo, in qualche modo sperimentato dai cristiani (Rm 8,14.16). Per mezzo dello Spirito possiamo chiamare Dio ‘Padre’ (Rm 8,15; Gal 4,6). Si può dire che l’agire dello Spirito, la nuova vita in Cristo e la filiazione divina interagiscono tra di loro nel modo seguente: Cristo Risorto, entrato nella pienezza della sua Filiazione, è Colui che invia lo Spirito, per trasformarci (Tit 3,6); a sua volta, lo Spirito ha il compito specifico di assimilare il cristiano a Cristo, affinché “Cristo sia formato in voi” (Gal 4,19); perciò si dice che nello Spirito possiamo gridare ‘Abbà, Padre’ (Rm 8,14-16). In poche parole: “Per mezzo di lui [Cristo] possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2,18).
3. La presenza dello Spirito. Diverse volte Paolo parla della presenza dello Spirito nell’uomo come un aspetto specifico e qualificante della nuova vita. “La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5).
In effetti, lo Spirito viene inviato (Gal 4,6) e ‘concesso’ (Gal 3,5) al credente, ‘riversato’ (Tit 3,5) su di lui. Viene ad abitare in lui: “Lo Spirito di Dio abita in voi” (Rm 8,9). Dio abita in mezzo al Popolo dell’Antico Testamento come in un tempio.[4] In modo simile il tempio dello Spirito Santo è ora il credente cristiano. “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui” (1 Cor 3,16 s.). “O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?” (1 Cor 6,19). La presenza dello Spirito, in altre parole, consacra l’uomo a Dio, e costituisce un invito pressante a vivere una vita santa. Allo stesso tempo, dice Paolo, la presenza dello Spirito è soltanto un inizio, ‘le primizie’ (2 Cor 1,22; 5,5; Ef 1,14; Rm 8,23). Cristo è la ‘pietra angolare’ perché l’edificio possa crescere bene, “per essere tempio santo nel Signore. In lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,21-2).
4. La liberazione dal male. Spesso Paolo parla della salvezza in Cristo come un’opera di liberazione e di redenzione.[5] “L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,19-21).
L’agire dello Spirito raggiunge lo stesso effetto: “Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà” (2 Cor 3,17). Anche nella lettera ai Gàlati, Paolo parla della “libertà che abbiamo in Cristo Gesù” (2,4). Di fronte a coloro che vogliono sottomettere i credenti alla schiavitù delle ‘opere della legge’, Paolo ricorda ai cristiani che “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1). Allo stesso tempo, insiste che questa nuova libertà non può mai offrire al credente il pretesto di peccare. “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne” (Gal 5,13).
Paolo, malgrado lo sfondo linguistico di tipo stoico che caratterizza i suoi scritti, non si interessa apertamente alla questione filosofica del libero arbitrio, cioè la capacità umana di scegliere tra diverse opzioni. Parla piuttosto della liberazione dell’uomo — che vive sotto la schiavitù del male/peccato, della legge, della morte, della concupiscenza, del fatalismo — che è il frutto della grazia divina. Consideriamo ora questi particolari della liberazione cristiana.
Prima di tutto, si tratta di una liberazione dal peccato, perché l’uomo, secondo Rm 7, ne è dominato, anche se è stato rigenerato dalla grazia di Cristo, secondo l’insegnamento delle grandi lettere paoline (Gal 5, Rm 8). Dovuto a questa liberazione possiamo trionfare sulla ‘carne’, sull’uomo vecchio, anche se sarà necessaria una battaglia che durerà fino alla morte (Col 3,5-9; Rm 6,12-23; 8,5-13; Ef 4,17s.). Si capisce comunque che non si tratta semplicemente di una lotta contro la mera debolezza della carne, ma una vera e propria lotta spirituale, contro le forze del male. “La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12).
Più complesso poi è la liberazione dalla legge di cui parla Paolo specialmente nella Lettera ai Gàlati (3,1-5,12). Certamente l’Apostolo non incoraggia i cristiani a trascurare il compimento della volontà di Dio. Anche la legge giudaica scritta (il Talmud) è una guida per la retta condotta. Tuttavia essa non è in grado di produrre la giustificazione dell’uomo. La legge non è fonte di peccato, non ne è l’equivalente, anche se può diventare uno strumento del peccato, perché rivela l’agire peccaminoso dell’uomo e perché l’uomo tende a vantarsi orgogliosamente delle opere compiute in conformità con la legge. Secondo l’Apostolo, la legge è il Pedagogo (Gal 3,24), in quanto preparazione per la venuta del Cristo. Con eccezionale insistenza Paolo insegna che il neo-converso dal paganesimo non ha più bisogno di aggrapparsi alla legge giudaica, ai riti, alle regole alimentari, alla circoncisione, ecc. Tuttavia, il cristiano è obbligato a vivere una vita santa, seguendo in tutto la volontà di Dio (Gal 5,1-6; Col 2,16-23). È lo Spirito Santo ad interiorizzare in ciascuno la volontà divina: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge” (Gal 5,22 s.); “ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la legge” (5,18).
L’uomo viene liberato anche dalla morte. Come nell’Antico Testamento (Gn 3,17-19; Sap 1,13 s.; 2,23), Paolo collega strettamente la morte con il peccato. “Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato” (Rm 5,12). E dopo: “Il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 6,23). In effetti, così come la morte è entrata nel mondo a causa del peccato, essa sarà superata nella risurrezione finale (1 Cor 15,3-58).
Inoltre, Paolo parla della liberazione dalla concupiscenza e dalla debolezza. Dio assiste l’uomo nella sua debolezza. Quando Paolo si lamenta della ‘spina nella sua carne’, il Signore gli risponde: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12,9). Per questo, conclude, “mi vanterò… ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (ibid). Lo spirito dell’uomo lo tira in su, la carne in giù. Però la grazia è più forte del peccato: “Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti” (Rm 5,15).
Infine, l’uomo viene liberato dal fatalismo, dalle oscure forze del male, e dai sofismi filosofici: “così anche noi quando eravamo fanciulli, eravamo come schiavi degli elementi del mondo… Ma un tempo, per la vostra ignoranza di Dio, voi eravate sottomessi a divinità, che in realtà non lo sono. Ora invece che avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, ai quali di nuovo come un tempo volete servire?” (Gal 4,3.8-9). “Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.” (Col 2,8).
5. Il perdono dei peccati (la giustificazione). Secondo san Paolo, il primo effetto o frutto della nuova vita in Cristo, dell’incorporazione a Lui, è il perdono dei peccati, ovvero la ‘giustificazione’. Si tratta di una questione molto sviluppata lungo le sue lettere, specialmente in Romani e Gàlati. Come abbiamo visto, la schiavitù da cui viene liberato l’uomo non era imposta dalla materia; neppure ha a che vedere con i semplici limiti della condizione creata. Quando parla dell’uomo e del cosmo Paolo non è dualista. Il punto di partenza per la giustificazione invece è il peccato, e perciò l’opera di rigenerazione, o ‘nuova creazione’, ha come primo effetto la salvezza, oppure il perdono dei peccati. Per questa ragione, in Rm 5,12 si insiste che “tutti hanno peccato”.
Paolo parla della ‘riconciliazione’ tra Dio e l’uomo (Col 1,20). Però si deve notare — anche se sembra qualcosa di ovvio — che non si tratta di una colpa simmetrica, perché soltanto l’uomo ha peccato. Perciò in realtà la riconciliazione è un’opera di misericordia divina, di pura grazia, di perdono gratuito. C’è una riconciliazione, certamente, però essa parte esclusivamente da Dio, l’unico offeso, che non può essere placato dall’abbondanza delle ‘opere’ umane. L’uomo non può prendere l’iniziativa né contribuire direttamente alla sua riconciliazione con Dio. Per questo Paolo insiste che “era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione” (2 Cor 5,19). Il testo dice letteralmente: ‘Dio era in Cristo riconciliando a sé il mondo’.
Quando Paolo afferma che Cristo in diversi modi ‘si fece peccato’, non si tratta ovviamente di peccati personali da Lui commessi. Piuttosto si deve dire che Cristo ha addossato su di sé il peccato dell’uomo, riconciliandolo con Dio nel modo più profondo possibile. “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (1 Cor 5,21). E altrove: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto: ‘Maledetto chi è appeso al legno’” (Gal 3,13, citando Dt 27,26). Cristo non era il peccatore, però è stato lui a farsi volontariamente sacrificio e vittima per il peccato, e il sacrificio fu efficace dovuto alla sua completa innocenza. “Camminate nella carità”, si legge nella lettera agli Efesini, “nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato sé stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 5,2). E nella lettera agli Ebrei, “una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli [Cristo] è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di sé stesso” (Eb 9,28).
Scrivendo ai cristiani di Corinto (2 Cor 5,19) Paolo dice che la riconciliazione con Dio implica che le colpe non vengano più ‘imputate’ all’uomo (cf. anche Rm 5,13). Testi di questo genere sono stati interpretati nella tradizione luterana come affermazioni di una giustificazione meramente estrinseca o forense del peccatore.[6] Ovvero, Dio semplicemente dichiarerebbe il peccatore perdonato in base al gesto sacrificale di Cristo. Cristo prende il nostro posto dinanzi al Padre, e viene castigato per noi. Infatti la parola biblica dikaioún, ‘giustificare’, vuole dire in aramaico ‘dichiarare giusto’. Nel Nuovo Testamento, però, la dichiarazione di innocenza esprime solo una parte del significato dell’espressione ‘giustificazione del peccatore’. Per questa precisa ragione si è inventato un neologismo cristiano in lingua latina, iustificatio, che vuole dire letteralmente ‘rendere giusto’.[7] Il peccatore infatti viene dichiarato giusto e perdonato, ma viene anche reso giusto. Con l’opera di Cristo si verifica qualcosa che va più in là dell’efficacia dei riti ebraici della purificazione, che esprimono una purezza perlopiù esteriore. Parlando del Battesimo, Paolo insiste: “siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio!” (1 Cor 6,11).
6. L’impegno cristiano per la santità di vita. Il campo di prova per i cristiani giustificati e santificati è quello della santità di vita. Certo, gli uomini non si giustificano in base alle buone opere. Però le buone opere devono essere presenti nella vita del giustificato, come frutto e manifestazione della grazia. I cristiani vengono chiamati da Paolo più di trenta volte ‘i santi’,[8] quelli cioè che vivono una vita santa e virtuosa. La vita di Cristo presente in loro li spinge ad una vita virtuosa e a diffondere il bonus odor Christi, ‘il profumo di Cristo’ (2 Cor 2,15) verso le persone che hanno intorno a sé. Il peccato, invece, che non è in grado di produrre le opere buone, indica che la nuova vita non è presente ed attuante (Rm 1,29; Gal 5,18).
7. La grazia, perché? Dopo aver descritto, pur in modo succinto, la ricchissima dinamica della vita della grazia e della giustificazione negli scritti si san Paolo, bisogna chiedersi con quale finalità Dio ha voluto dare questo dono agli uomini che credono al suo Figlio fatto uomo? Perché si è ‘in grazia’, ‘in Cristo’? Perché si è destinati a vivere come figli di Dio, a ricevere il regno di Dio in eredità? Queste domande ci portano alle ultime due questioni attinenti alla teologia paolina della grazia: la finalità apostolica della vita dei credenti in Cristo, e il disegno divino di ‘ricapitolare tutte le cose in Cristo’.
IV. Vivendo in Cristo per comunicare la vita di Cristo agli uomini
Paolo parla della ‘grazia’ (cháris) come una realtà semplice, unica, che esprime e contiene il dono di Dio in Gesù Cristo agli uomini. Inoltre, parla della presenza nella vita della Chiesa dei carismi (charísmata), ovvero dei doni divini speciali che facilitano la comunicazione della Buona Novella all’umanità, rendendo possibile la missione universale della Chiesa. Detto diversamente, la grazia cristiana, pur destinata alla giustificazione del singolo, spinge ugualmente verso l’apostolato dei cristiani. Charitas Christi urget nos, ‘la carità di Cristo ci spinge’, dice Paolo (2 Cor 5,14).
1. L’Apostolo Paolo. Certamente Paolo applica questo principio in primo luogo a sé stesso, affermando che “mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22). Egli si sente obbligato ad evangelizzare: “guai a me se non annuncio il Vangelo” (1 Cor 9,16; cf. Rm 1,5; 12,13; 15,15s). Bisogna notare che la grazia della conversione che Paolo ricevette sul cammino di Damasco non era semplicemente quella della conversione personale, ma proprio la conversione per una nuova ed universale missione.[9] Di Paolo Gesù disse ad Ananìa: “egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (At 9,15 s.). E nella lettera ai Gàlati, dice l’Apostolo: “ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Gal 1,15 s.). Questa grazia di Dio in Paolo divenne poi oltremodo feconda (2 Cor 12,5-10).
La contrapposizione paolina tra la fede e le opere, già accennata, fa riferimento a due questioni. Da una parte, alla vita personale in ogni credente: l’uomo non deve considerare le proprie opere in uno spirito di auto-compiacenza, ma sperare la salvezza solo da Dio in cui crede e da cui riceve la giustizia. Dall’altra parte, però, la contrapposizione tra fede e opere indica anche che i credenti non devono agire in modo tale da stabilire delle frontiere nei confronti della parola di Dio,[10] della forza salvifica che Dio ha spiegato in Gesù Cristo. La forza del Vangelo non richiede il compimento preciso e scrupoloso di una serie di regole o azioni di tipo istituzionale, ‘le opere della legge’. Detto diversamente, l’appartenenza meramente passiva alla Chiesa, come comunità salvata, non è sufficiente per assicurarsi la giustificazione individuale. È necessaria la fede, che apre l’uomo ai doni divini per sé ed anche per gli altri.
Quindi si possono fare due letture, complementari tra di loro, della contrapposizione paolina tra fede e opere: una lettura più individuale, che guarda alle opere dell’individuo di fronte a Dio e alla necessità della fede personale, la fiducia, l’umiltà; e una lettura più ecclesiale, o sociale, che guarda piuttosto all’appartenenza comune alla Chiesa, all’adesione alla sua dottrina e specificamente alla qualità intrinsecamente espansiva e contagiosa (missionaria) della fede.
2. L’apostolo cristiano. Ci si può chiedere, comunque, se questo forte legame, nella persona di Paolo, tra l’essere in Cristo e l’essere apostolo, come due aspetti inscindibili dalla sua personale vocazione, si verifichi anche nella vita degli altri cristiani. A questa domanda si può rispondere in un modo sostanzialmente positivo.[11] Tre osservazioni vanno comunque fatte.
In primo luogo, la forza e l’impegno della propria e intrasferibile vocazione come ‘apostolo delle genti’ sembra lasciare all’ombra l’apostolato degli altri cristiani, anche quello degli altri Apostoli (2 Cor 11,22-9). “Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue più di tutti voi” (1 Cor 14,18). “Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,10).
Poi, è chiaro che il singolare impegno apostolico di Paolo non costituisce una negazione dell’apostolato degli altri cristiani e neppure quello degli altri Apostoli. Come dimostrano le sue lettere, Paolo contava su molti collaboratori. Si parla dell’impegno missionario ad esempio di credenti come Priscilla e Aquila che per propria iniziativa istruivano il predicatore Apollo (At 18,26).
Infine, dal punto di vista più teologico, Paolo afferma lo stretto legame tra la grazia (la vita di Cristo nei cristiani) e i ‘carismi’, perché tutti e due hanno l’origine nello stesso Spirito e sono guidati dall’amore, ed indirizzati all’amore. “Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti” (1 Cor 12,4-6). Non si può parlare, quindi, di carismi privati, ricevuti in beneficio proprio; sono tutti per il bene della Chiesa e tramite essa in favore dell’umanità. Lo spiega Paolo a lungo nella prima lettera ai Corinzi (12,7-11).
V. Predestinazione e ricapitolazione di tutte le cose in Cristo
Abbiamo appena visto che la grazia di Dio data agli uomini, la nuova vita in Cristo, ha una finalità intrinsecamente missionaria. A ciò si deve aggiungere però che la finalità ultima della grazia sta nella rivelazione definitiva del disegno di Dio in Cristo, ovvero la ricapitolazione di tutta la creazione in Cristo. Questo disegno, nascosto in Dio (il mystérion di cui si parla in Colossesi ed Efesini),[12] sarà rivelato senz’altro alla fine dei tempi, ma è stato rivelato già in Gesù Cristo, centro della storia della salvezza. Perciò, “quando tutto… sarà stato sottomesso [a Cristo], anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15,28). Consideriamo la questione in tre momenti.
Il primo momento. Il punto di partenza del disegno divino, secondo Paolo, è la predestinazione divina. La salvezza operata da Dio nel mondo trova sempre la sua radice nella predestinazione, fondata sul disegno originario di Dio. Egli parla dei cristiani predestinati “a conoscere la sua volontà” (At 22,14), “ad essere conforme all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29), “ad essere per lui [Dio] figli adottivi mediante Gesù Cristo” (Ef 1,5), “secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà” (Ef 1,11). È chiaro comunque che l’oggetto primordiale della predestinazione è Gesù Cristo in persona, il quale, secondo la prima lettera di Pietro, “fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi” (1 Pt 1,20). L’espressione più compiuta di questa dottrina si trova nel primo capitolo delle lettera agli Efesini.
“Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato… il disegno di ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra” (Ef 1,3-10).[13]
Sono quattro gli elementi principali di questo brano. (1) I cristiani sono stati ‘predestinati’, o ‘scelti’ in Cristo. (2) La finalità di questa predestinazione è quella di diventare ‘santi e immacolati’, ‘nella carità’, vivendo come ‘figli adottivi’. Tutto ciò (3) avviene ‘per opera di Gesù Cristo’, ovvero per la grazia ricevuta ‘nel suo Figlio’, e (4) perché ‘sia benedetto Dio’, ‘a lode e gloria della sua grazia’. Con molta frequenza infatti Paolo insiste che la contemplazione cristiana del graduale dispiegarsi di questo progetto si esprime in primo luogo nella necessità imperativa di lodare Dio, di ringraziarlo per i suoi doni,[14] appunto perché tutto sia ‘a gloria del nome di Gesù’.[15]
Il secondo aspetto. Se si parla di predestinazione e del progetto divino di portare tutto sotto il dominio effettivo di Dio in Cristo, ci si potrebbe chiedere se non si trovi un certo determinismo in partenza, basato sul disegno divino in cui tutto sia stato previamente deciso e preordinato? Già abbiamo visto che la libertà di cui parla Paolo non si identifica in primo luogo con il libero arbitrio, ovvero con l’autonoma autodeterminazione di ogni uomo, ma piuttosto con la liberazione dalla schiavitù del peccato. Inoltre, la riflessione di Paolo si deve comprendere alla luce del destino del Popolo Ebreo, oggetto della promessa divina (Rm 9-11), e non tanto degli individui umani. Paolo parla nella lettera ai Romani di Dio che sopporta “con grande magnanimità gente meritevole di collera, pronta per la perdizione” (Rm 9,22). E Dio agisce in questo modo “per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso gente meritevole di misericordia, da lui predisposta alla gloria” (Rm 9,23). Però ancora rimane aperta la domanda: non c’è nella forte dottrina paolina della predestinazione, dell’elezione, della vocazione, una certa insinuazione di predeterminismo? Si possono fare tre osservazioni.
Prima, quando Paolo parla di coloro che si perdono, sta pensando alla perdita della promessa da parte del popolo eletto affinché siano salvati i pagani. Non si tratta invece della perdita ‘sicura’ o necessaria di alcuni individui, prevista da tutta l’eternità, come se fosse il prezzo da pagare per ottenere la salvezza degli altri. Parlando del destino del popolo ebraico, Paolo dice che “i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29). Poi, la predestinazione non implica un processo automatico di salvezza di alcuni individui; in ogni tappa del cammino del credente, la libera risposta dell’uomo viene suscitata: “quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati” (Rm 8,29s.). Terza, infine, la grazia data non è arbitraria nei suoi effetti, ma è destinata a superare il peccato e a portare l’uomo alla salvezza; l’uomo viene pienamente, spesso faticosamente, coinvolto in questo processo. Inoltre, nella lettera agli Efesini la predestinazione è sempre riferita a Cristo oppure, in Lui, alla collettività cristiana. Afferma spesso che Dio gli ha amato personalmente, gli ha salvato, chiamato, inviato. Però no dice mai che gli ha predestinato. L’oggetto della predestinazione è sempre Cristo, e in Lui il ‘noi’ (Ef 1,4-7).
Terzo ed ultimo aspetto. La ‘ricapitolazione’ di tutto in Cristo compromette l’intera creazione e non solo l’uomo, oppure la Chiesa. Con forza Paolo parla de “l’ardente aspettativa della creazione”, che “è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio… Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8,19-23). Il capitolo centrale di questa ricapitolazione sarà la risurrezione corporale dei morti, promessa alla fine dei tempi (1 Cor 15). In quel momento, quando “il Figlio sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15,28).