Archive pour juin, 2014

SHAVUOT E PENTECOSTE

http://www.nostreradici.it/sephirath-ha-omer.htm

SHAVUOT E PENTECOSTE

Ariel Di Porto, su shalom.it di aprile 2003 (note a cura di LnR)

(*) L’anno ebraico è scandito da varie ricorrenze che ricordano gli eventi succedutisi dalla creazione e che ricordano la storia degli ebrei. Le principali feste ebraiche sono legate alle stagioni e ad antiche tradizioni agricole pastorali. Il calendario ebraico comprende cinque feste maggiori di origine biblica.

:: Shavuot e Pentecoste
Il periodo che va da Pesach a Shavuot è caratterizzato dalla mitzwà della sefirath ha-’omer = conta dell’Omer [1] (in questa circostanza dell’orzo), che è basata sulla considerazione che il fondamento dell’esistenza del popolo d’Israele risiede nella Torà. L’uscita dall’Egitto, che viene celebrata attraverso la festa di Pesach, chiamata nella Tefillà zeman cherutenu (tempo della nostra libertà), acquisisce significato solamente in relazione alla ricezione della Torà, che ricordiamo con la festa di Shavuot, zeman matan toratenu (tempo del dono della nostra Torà). [2] Nel libro di Shemot (3,12) troviamo un accenno a tale idea: « Io sarò con te, e la riprova che Io ti ho dato l’incarico, sarà che una volta avvenuta l’uscita del popolo dall’Egitto, questi adorerà il Signore su questo monte ».
L’uscita dall’Egitto, e tutti i miracoli che il Signore ha compiuto per liberare i figli d’Israele, non sono altro che un segno che deve portare al servizio del Signore. D.o mostra ai figli d’Israele lo scopo della redenzione dalla schiavitù egiziana prima ancora di liberarli.
Contiamo i giorni dell’Omer poiché da sola la liberazione dalla schiavitù ha un valore relativo, ed acquisisce veramente senso solamente se sfocia nell’accettazione della Torà, che costituisce il suo scopo reale. Il legame tra Pesach e Shavuot è talmente tanto stretto che la Torà, a differenza delle altre festività, non indica una data specifica per la festa di Shavout, che cade nel cinquantesimo giorno dall’inizio della conta dell’Omer.
Nel linguaggio dei maestri la festa di Shavuot è chiamata ‘atzeret (chiusura), termine che richiama immediatamente Sheminì ‘atzeret, il giorno successivo a quelli di mezza festa di Sukkot. Anche per questa festività la Torà non ci fornisce una data, ma la lega a Sukkot; Shavuot è per Pesach ciò che Sheminì ‘atzeret è per Sukkot, e tutti i giorni dell’Omer sono paragonabili ai giorni di mezza festa di Sukkot. La stessa idea del contare richiede una spiegazione: alcuni hanno sostenuto che si dovevano contare i giorni che vanno da Pesach a Shavuot poiché le persone erano occupate nel lavoro nei campi, e forse non sarebbe arrivata loro notizia dell’imminenza di Shavuot.
Se così fosse, la Torà avrebbe potuto ordinarci di comprarci un calendario e tenerlo con noi, e non sarebbe servito contare. In realtà la conta ha un significato diverso, e mostra la nostra insoddisfazione nei confronti della situazione attuale, ed in generale la precarietà del presente. Il conteggio dei giorni che separano un evento dall’altro è simile a quello dello schiavo che deve essere liberato.
Secondo un’altra bellissima immagine è come se si dicesse ad un carcerato che sarà liberato e sposerà la figlia del re. Il carcerato inizialmente è incredulo, ma quando vede che la prima insperata cosa si avvera, inizia a credere che si verificherà anche la seconda, e conta il tempo che lo separa dalla sua realizzazione. Quando viene detto ai figli di Israele che usciranno dall’Egitto e riceveranno la Torà, non ci credono; quando vedono realizzata la prima cosa, attendono con fervore anche la seconda, contando il tempo che li separa dal suo ottenimento. Troviamo un accenno a ciò proprio nel verso di Shemot citato sopra: la parola ta’avdun (adorerete) ha una nun di troppo. Il valore numerico di questa lettera è proprio 50, quanti sono i giorni che separano l’uscita dall’Egitto dal matan Torà.
Perché dal secondo giorno e non dal primo? Se la conta dell’Omer unisce concettualmente Pesach e Shavuot bisogna spiegare un’altra apparente stranezza: perchè si inizia a contare dal secondo giorno di Pesach e non dal primo? In base ad un principio generale, che a volte s’incontra nella Halachà, non si mescolano delle gioie fra loro.
Il primo giorno di Pesach è legato ad un certo tipo di gioia, quella dell’uscita dall’Egitto, che costituisce una prova « forte » della creazione del mondo da parte di D.o e della provvidenza che esercita nei confronti degli uomini. Avvenimenti come le dieci piaghe, l’apertura del Mar Rosso, la caduta della manna sono eventi che sconvolgono profondamente le leggi naturali. I figli di Israele che hanno assistito all’uscita dall’Egitto sono arrivati ad una fede completa nel Signore (prestò piena fede al Signore e a Mosè suo servo), determinata proprio da tali eventi miracolosi. Questo caposaldo della fede ebraica, che D.o abbia creato il mondo ed eserciti la propria provvidenza sulle creature, non può essere mescolato con nessun’altra cosa. Per questo la conta dell’Omer non inizia dal primo giorno di Pesach, ma dal secondo, che, quando c’era il Bet ha-Miqdash, era caratterizzato da una particolare offerta, chiamata appunto ‘Omer. [3]
Il midrash percepisce dietro quest’offerta un messaggio diverso da quello che ci viene dato dal primo giorno di Pesach, un altro tipo di fede: la mano di D.o è presente anche negli eventi che a noi sembrano perfettamente naturali.
Quando un uomo prepara una qualsiasi pietanza deve compiere diverse operazioni che gli comportano fatica. Se al contrario si tratta di operazioni agricole non è proprio così: anche quando il contadino sta a letto, D.o in qualche modo lavora per lui, facendo splendere il sole, scendere la pioggia, soffiare il vento, ecc.
Attraverso l’offerta dell’Omer gli uomini riconoscono questa « collaborazione » divina, e mostrano di avere una fede basata non solo sugli interventi divini più manifesti, ma anche su quelli apparentemente nascosti.
Nachmanide sostiene persino che un tipo di miracolo sia funzionale all’altro: lo scopo dei miracoli manifesti è mostrare che ci sono miracoli nascosti, ed il fondamento della fede è nei miracoli nascosti.
Nella penultima berachà della ‘amidà (modim anachnu) parliamo dei miracoli che il Signore quotidianamente compie per noi, in ogni momento della giornata. In questo caso non si tratta dei miracoli manifesti, dei quali molti di noi probabilmente non sono stati testimoni, ma di quelli nascosti, che dobbiamo scovare continuamente. Questa continua ricerca del nascosto costituisce una grossa prova per la nostra fede: tante e tante cose ci sussurrano continuamente che tutto quello che ci succede è completamente naturale, tutti gli eventi della nostra vita sembrano essere determinati dal caso, ogni nostro risultato sembra essere solo farina del nostro sacco. Non sempre è così. Basta solamente guardare le cose con un occhio diverso e cercare come si manifesta il continuo intervento di D.o nella natura, nella storia, nella nostra vita.

Shavuot e Pentecoste
Le radici ebraiche del cristianesimo sono riconoscibili anche nella strettissima corrispondenza tra la festa di Pentecoste ebraica (Shavuot), dove si ricorda il dono della Legge, e la Pentecoste cristiana, in cui – cinquanta giorni dopo la Pasqua – celebriamo la discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa radunata nel cenacolo. Sì, perché possiamo dire che nella Pentecoste gli apostoli salgono con Maria al piano superiore, come Mosè sale sulle pendici del Sinai; Dio effonde lo Spirito sulla Chiesa, nuova Legge, lo Spirito del Signore Risorto, iscritta nei cuori dei credenti; così Mosè sulla cima del monte riceve le mizwot Adonai, i precetti della Torah. Lo Spirito con i suoi doni porta la Chiesa alla missione ed all’evangelizzazione, la voce di Dio sull’Horeb rinvigorisce la missione del profeta Elia e gli dona quello slancio definitivo contro l’idolatria dei falsi profeti. Mosè parla faccia a faccia con Dio, lo Spirito ci permette di invocare Dio nei nostri cuori con l’appellativo di Abbà, l’affettuoso “Papà” del fanciullo che si rivolge al proprio padre, perché l’incarnazione, passione, morte e risurrezione del nostro Signore, Gesù, ci ha introdotti nella « famiglia » del Padre.
Abramo non merita Eretz Israel fino a che non mette in pratica la mizvà dell’Omer; gli ebrei non entrano nella Terra Promessa se non nel momento in cui sostituiscono l’Omer di Manna con l’Omer del frumento di Eretz Israel. Noi non entriamo nella vita nuova della Risurrezione se non partecipiamo all’Eucaristia, che è il nuovo Pane disceso dal cielo… e se non ci lasciamo purificare e vivificare dal fuoco dello Spirito che ha raggiunto gli Apostoli nel Cenacolo il giorno di Pentecoste. Come gli Ebrei si riconoscono Popolo al momento dell’accoglimento della Torah, così i Cristiani divengono anch’essi Popolo dell’Alleanza e si riconoscono Chiesa proprio a partire da quella Pentecoste che si rinnova per ogni credente.
Anche noi quindi in questo periodo dell’anno contiamo i giorni della nostra gioia, perché «  »il periodo dell’Omer ha delle diverse e ben più profonde implicazioni. Si tratta del periodo che intercorre tra la festa di Pesach e quella che nella Torah si chiama Azeret, ossia conclusione (stupenda l’idea di compimento), che prende poi il nome di Shavuot o Settimane. Tale definizione è però parziale. Sarebbe corretta se la data di Shavuot fosse esplicitamente fissata. In realtà non è così. Il periodo dell’Omer non è un riempitivo per lo spazio che intercorre tra le due feste, ma è piuttosto una scala che piantata sulla festa di Pesach sale fino a Shavuot. La Torah non dà la data di Shavuot, la festa che commemora il dono della Torah perchè essa è subordinata al conteggio dei giorni/scalini che abbiamo effettuato in direzione della Torah.
Ed in effetti il percorso Pesach-Omer-Shavuot è un percorso che serve a rieducare sia sotto l’aspetto materiale sia sotto quello spirituale. Se è vero che gli ebrei erano prossimi ad oltrepassare la cinquantesima definitiva porta dell’impurità allorché Iddio li trasse fuori dall’Egitto, il periodo del conteggio dell’Omer deve far loro risalire queste cinquanta tappe fino a giungere alla Torah. La Torah non si riceve in eredità, ma la si conquista giorno per giorno. La festa del dono della Torah è quindi senza data, accessibile a coloro che quotidianamente contano i propri successi in direzione della Legge. »" [Tratto dalla Parashat Emor]
Così è anche per noi, che viviamo il « già e non ancora » del Regno e, ogni giorno, compiamo un passo verso la Risurrezione definitiva, il « mondo a venire » (‘olam ha-ba), che inizia già in questo mondo, per poi sfociare nella pienezza della gloria futura.
Anche la Pentecoste cristiana è connessa strettamente con la Rivelazione di Dio sul Sinai. La omonima festa ebraica, infatti, ricorda la teofania mosaica di nel roveto che arde senza bruciare. Esattamente come arde senza bruciare lo Spirito Santo, in forma di lingue di fuoco, disceso su Maria e gli Apostoli: lo stesso Spirito che feconda e edifica la Chiesa. Noi vediamo dunque il Sinai come evento storico tipologico dell’effusione dello Spirito dopo l’Ascensione.
Allora è possibile comprendere che la Promessa di Dio rimane immutata nel corso della Storia della Salvezza, perché la Sua Alleanza è irrevocabile: ciò vale tanto per i nostri fratelli ebrei, quanto per noi cristiani che ci diciamo figli della Nuova Alleanza, che non annulla la precedente, ma la porta a compimento.
(M.G.)
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(*) L’anno ebraico è scandito da varie ricorrenze che ricordano gli eventi succedutisi dalla creazione e che ricordano la storia degli ebrei. Le principali feste ebraiche sono legate alle stagioni e ad antiche tradizioni agricole pastorali.
Il calendario ebraico comprende cinque feste maggiori di origine biblica. Le tre feste « del pellegrinaggio » o « feste del raccolto » (Pesach, Shavuot e Sukkoth) associate all’esodo dell’Egitto e le due « feste penitenziali » (Rosh HaShanan e Yom Kippur). Pesach (Pasqua) è la festa più importante del calendario ebraico. Si celebra tra marzo e aprile e ricorda la liberazione dalla schiavitù egiziana. Shavuot (pentecoste) si celebra nel periodo della mietitura, cinquanta giorni dopo la Pasqua. Ricorda il dono della legge (Torah) sul monte Sinai, che trasformò gli schiavi fuggiti dall’Egitto in un vero « popolo ».
Altre occasioni come il Purim sono invece feste minori e non hanno una diretta origine biblica.
Lo scopo di un Yom Tov, cioè di un giorno buono è quello di gioire dei piaceri del mondo dati da Dio e di concentrarsi della preghiera e nello studio.
[1] L’ ‘omer è una unità di misura che, nella toràh e nel talmùd, viene utilizzata per quantità alimentari. Come primo significato indica un manipolo di spighe; come secondo significato indica una quantità di grano o cereali e, indirettamente, la farina che se ne può ricavare. In ogni caso è una misura di volume e non di peso. Tra queste diverse definizioni esiste una certa incoerenza: non tutte le spighe hanno lo stesso numero di chicchi; non tutti i chicchi hanno la stessa grandezza; la stessa quantità di farina può derivare da un diverso numero di spighe e di chicchi (cfr. M.Peàh 6:6). Vale a dire: l’ ‘omer è una unità di misura discontinua; inevitabilmente dalle spighe al grano, dal grano alla farina e dalla farina al pane esistono dei salti qualitativi e quantitativi, tanto sicuri quanto imprevedibili. In altri termini: i passaggi e le trasformazioni da frutto della terra a prodotto agricolo ed a manufatto alimentare contrappongono la qualità e la quantità; il lavoro umano modifica la sostanza e le misure del prodotto naturale; molte spighe immangiabili diventano poco pane mangiabile.
[2] La seconda sera di Pesach, la pasqua ebraica, secondo il dettato della Torah, si doveva fare un’offerta delle primizie del raccolto; offerta che doveva essere ripetuta sette settimane dopo, in relazione alla festa di Shavuot. I grani di orzo del nuovo raccolto, fino a che esisteva il Santuario, non potevano essere consumati se non dopo l’offerta; dopo la distruzione del Santuario è rimasto il precetto di contare i giorni che separano Pesach da Shavuot. Tale periodo si chiama “periodo dell’Omer”. È un periodo che viene considerato di lutto, durante il quale non si celebrano matrimoni. In origine la parola Omer indicava un covone, ma viene inteso come unità di misura.
Il trentatreesimo giorno del periodo viene festeggiato Lag Ba-Omer, una festa allegra, che spezza il lutto. Secondo un’interpretazione segna l’inizio in cui la manna iniziò a cadere nel deserto, secondo altri la fine di una epidemia che aveva colpito i discepoli di Rabbì Akiva o un successo durante la rivolta in epoca romana. A Lag Ba-Omer viene venerata la tomba di Shimon Bar Yochai, a cui fu attribuito lo Zohar, il più importante testo di mistica ebraica.
Il 5 del mese di Iyar, durante il periodo dell’Omer, si celebra la ricorrenza della fondazione dello Stato di Israele, in ebraico Yom Ha’hazmaut. In questo giorno nel 1948 fu firmata la dichiarazione d’Indipendenza. Dopo duemila anni di esilio, si è realizzata l’aspirazione degli ebrei di avere uno Stato proprio. È giorno di festa sia in Israele che nella Diaspora.
[3] Il testo dice semplicemente che all’indomani del primo giorno di Pesach (dal testo indicato come « Sabato ») va eseguito un sacrificio denominato « omer » (misura che equivale a circa 43,2 uova medie di farina di orzo), si devono poi contare sette settimane (49 giorni) ed il cinquantesimo si deve presentare l’offerta di due pani (fatti di farina di grano). Quel giorno è la festa di Shavuot. Fino all’offerta dell’omer è proibito usare il nuovo prodotto di uno dei cinque cereali. Nonostante ciò la prima offerta di farina di grano del nuovo prodotto sono i due pani di Shavuot. Risulta quindi che la seconda delle Tre Feste di pellegrinaggio viene fissata secondo l’offerta di due sacrifici farinacei.
Esiste una differenza sostanziale tra le due offerte: l’omer è un offerta di orzo laddove i due pani di Shavuot sono di grano. Il Talmud (TB Pesachim 3b) asserisce che l’orzo è per eccellenza il cibo degli animali mentre il grano è il cibo dell’uomo. L’offerta dell’omer, appena successiva all’uscita dall’Egitto sembrerebbe quindi legata ad un livello « animale » mentre il grano dei due pani di Shavuot andrebbe legato ad un livello umano.
Ed ecco che la differenza sostanziale tra l’uomo e l’animale è la capacità di parlare (cfr. Targum Onkelos su Genesi II,7). Questa capacità, dibbur in ebraico, è talmente caratteristica dell’uomo che soffre con esso per le sue esperienze. Lo Zoar (Parashat Bo 125b) sostiene che il dibbur, la capacità di parlare, in Egitto si trovava in esilio. In effetti fino a che Israele non raggiunge il Sinai e riceve la Torà Mosè stesso è balbuziente, quasi a testimoniare la precaria condizione della umana capacità di parlare in assoluto. La redenzione del « parlare » avviene quando il Signore dona la Torà ad Israele (il decalogo è preceduto da un verso introduttivo nel quale si dice che D-o « parlò tutte queste parole ») Da lì in poi anche Mosè impara a parlare. Rabbi Izchak sostiene nel Talmud (TB Chulin 89a) che il compito dell’uomo in questo mondo è di imparare ad essere muto. L’unica cosa di cui dovrebbe parlare sono « divrè Torah », parole di Torah.

 

Swallow Chicks

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Publié dans:immagini varie |on 3 juin, 2014 |Pas de commentaires »

« GLORIA » DI SAN PAOLO – (Arte)

http://www.centrostudibeppefenoglio.it/PatrimonioArtistico/scultura_scheda.php?ID=1

« GLORIA » DI SAN PAOLO

AUTORE:Audagna Virgilio
SOGGETTO: »Gloria » di San Paolo con Santi e Personaggi
DATAZIONE:1942
UBICAZIONE ATTUALE:Alba, Tempio di San Paolo
TECNICA:basso e alto rilievo in marmo di Carrara

L’opera più imponente che decora l’interno del Tempio di San Paolo è sicuramente la maestosa scultura dell’Altare Maggiore, realizzata da Virgilio Audagna nel 1942, un anno dopo l’inaugurazione dell’Altare. Alto otto metri, larga quattro, con le sue 450 ton. di peso, la possente icona in marmo di Carrara è considerata la più colossale opera statuaria del Novecento. Scolpita a basso ed alto rilievo ha come soggetto principale l’Apostolo Paolo, cui la basilica è dedicata.
La figura del Santo in primo piano, domina sugli altri personaggi, accentrando su di sé lo sguardo del fedele. In piedi su una nuvola, cinto dal svolazzante panneggio della tunica, l’Apostolo solleva la mano destra verso l’alto, puntando l’indice a Cristo, che fa capolino fra un nugolo di angioletti. San Paolo mostra dunque ai discepoli, disposti ai suoi piedi, colui che gli ha indicato la via verso la Gloria. Cristo con sguardo sereno e con regale pacatezza infonde luce e gioia nei cieli; il suo volto così tranquillo contrasta con quello accigliato di San Paolo. In alto a destra, un angelo in volo mostra al Maestro Divino lo stemma della Famiglia Paolina.
Ai piedi dell’Apostolo, sulla stessa nuvola che lo sorregge, ci sono due putti, quello a sinistra ha la spada, quello a destra sorregge un libro aperto, su cui è scritto: Christus heri et hodie, ipse et in specula (Cristo ieri e oggi e nei secoli).
Chiudono la scena in basso, poggiando direttamente sul basamento dell’altare, sei personaggi; partendo da sinistra individuiamo: San Crisostomo, grande ammiratore di San Paolo, che con la mano destra sorregge il pastorale e solleva la sinistra verso il Santo. La sua casula dalle ricche pieghe svolazzanti lambisce la lesena grigia, che incornicia l’opera. Accanto a lui San Luca, avvolto dal manto, in atto di scrivere; egli fu molto legato a San Paolo e gli offrì anche assistenza medica.
L’unica figura femminile, al centro della scena, è quella di Santa Tecla, giovane donna che Paolo fece convertire al cristianesimo. Sopra di lei fa capolino il volto di Mons. Giuseppe Re, vescovo di Alba. Se il suo corpo è appena abbozzato a basso rilievo, molto interessante è il particolare del viso, vero ritratto ad alto rilievo, che emerge con sguardo severo dallo sfondo. Dietro di lui si trova il busto di un altro personaggio albese, don Giacomo Alberione, fondatore della Società di San Paolo, egli, in qualità di erede del Santo, ricopre il ruolo di contemporaneo predicatore del Vangelo. Per accentuarne l’effetto realistico, lo scultore ha inserito sul suo volto un paio di occhiali color oro, vero tocco di originalità. Infine, all’estremità destra, c’è San Timoteo, anch’egli di spalle, con sguardo adorante ammira San Paolo.
Lo stile barocco piemontese, che caratterizza la decorazione interna del Tempio trova forse il suo apice nella scultura dell’altare, maestoso elogio al Santo patrono della basilica. In quest’opera troviamo affiancati San Paolo, il suo Maestro Gesù Cristo e tutti coloro che ne seguirono l’esempio, facendosi portavoce della Sua Parola nel mondo; compresi il committente della chiesa don Alberione e il vescovo di Alba che la consacrò.
Lo scultore coniuga, dunque, nell’opera la tradizione figurativa con la realtà contemporanea, in un linguaggio formale ricco di fascino e di bellezza. L’impianto strutturale realizzato con rigore compositivo, vibra nell’accentuazione dei volumi e nell’eleganza del modellato, che dialoga con lo spazio circostante, coinvolgendo il fedele nella narrazione.
Audagna nasce nel 1903 a Cannes e iscrittosi all’Accademia Albertina di Torino, si perfeziona nell’arte del cesellato e nella lavorazione del marmo sotto la guida del Maestro Gaetano Cellini. Nel 1919 apre lo studio a Torino e nel 1922 partecipa, a soli diciannove anni, alla « Promotrice », dando inizio ad una brillante carriera artistica, rivolta soprattutto alla scultura, che lo vede partecipe di oltre cinquanta mostre nazionali ed internazionali; le sue opere sono esposte in tutto il mondo.

A Cura di Chiara Borgogno

IL PASSERO E LA RONDINE

http://www.cultura.va/content/cultura/it/organico/cardinale-presidente/recensioni/famiglia-cristiana-articoli0/il-passero-e-la-rondine.html

IL PASSERO E LA RONDINE

(Cardinale Ravasi)

Anche il passero trova una casa e la rondine il suo nido dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mio re e mio Dio! (Salmo 84,4)

Un po’ tutti qualche volta siamo stati catturati dagli arabeschi che i voli degli uccelli disegnano nel cielo, soprattutto quando si tratta di rondini e passeri che fanno parte del nostro paesaggio quotidiano. Secoli fa anche un poeta ebreo era là, col volto fisso in alto, nel cielo limpido di Gerusalemme, a contemplare lo svolazzare di questi uccelli che avevano ricavato spazi per i loro nidi nei cornicioni del tempio di Sion. La dolce e delicata immagine di questi uccelli si era, così, trasformata in poesia, anzi, in preghiera.
È appunto il frammento del Salmo 84 da noi proposto, un piccolo ritaglio contenente quella scena e appartenente a un inno in onore di Sion, il colle gerosolimitano che ospitava il tempio, la sede della presenza del Signore, cittadino tra i suoi concittadini umani. Non ci deve stupire che in un quadretto così intenso, amabile e spirituale entri un’invocazione apparentemente tanto forte e fin dura, «Signore degli eserciti», in ebraico Jhwh seba’ôt. Questo, infatti, era il titolo divino tipico del santuario di Gerusalemme e la prima idea sottesa non era tanto quella delle armate ebraiche guidate dal generale supremo, quanto piuttosto quella cosmica dell’“esercito” delle stelle e degli elementi naturali che obbediscono al loro Creatore. Nel libro del profeta Baruk si legge: «Le stelle brillano nelle loro postazioni di guardia e gioiscono. Il Signore le chiama ed esse rispondono: Eccoci!, sfavillanti di gioia in onore del loro Creatore» (3, 34-35).
Ma ritorniamo all’immagine del nostro versetto. Essa è preparata da un’appassionata invocazione-esclamazione: «Quanto sono amabili le tue dimore, Signore degli eserciti! L’anima mia languisce e si strugge per gli atri del Signore. Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente!» (84,2-3). Il Salmista, a questo punto, invidia passeri e rondini che non si staccano dal tempio, come deve fare lui, pellegrino che ormai sta per lasciare il tempio di Sion, probabilmente dopo una delle tre cosiddette “feste di pellegrinaggio” (in questo caso pare non siano né Pasqua, né Pentecoste, bensì la solennità delle Capanne, legata alla vendemmia: si parla, infatti, nel versetto 7 delle «prime piogge» che sono appunto quelle autunnali). Fortunati, dunque, questi uccelli che hanno qui la loro dimora e non si devono distaccare per ritornare a valle, nella quotidianità.
Dietro di essi l’orante intravede i ministri del tempio che hanno una residenza perpetua e non solo temporanea (come il pellegrino) a Sion, in una costante intimità con Dio. Tuttavia, egli non rimpiange questa manciata di ore che ha trascorso lassù e che adesso è finita, perché «anche un sol giorno nei tuoi atri vale più di mille» altrove. E continua: «Ho scelto di stare sulla soglia del mio Dio piuttosto che dimorare nelle tende degli empi» (84,11). È evidente il contrasto tra due «tende», quella dell’arca dell’alleanza del Signore in Gerusalemme, e i padiglioni dei templi idolatrici o dei palazzi dei potenti.
Solo nella casa del vero Dio c’è la vita, il sole, la protezione contro gli incubi del male: «Sole e scudo è il Signore Dio che concede grazia e gloria e non rifiuta il bene a chi cammina con rettitudine» (84,12). Il clima spirituale è quello che esprime anche un poeta mistico indiano, nella sincerità della sua fede. È Kabir, vissuto nel XV secolo, che cantava: «O cuore mio, non staccarti dal sorriso del tuo Dio, non errare lontano da lui. Colui che veglia sugli uccelli, sulle bestie e gli insetti, colui che ti cura da quand’eri ancora nel grembo di tua madre, non ti proteggerà ora che ne sei uscito?».

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