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BENEDETTO XVI – IL « GRANDE HALLEL », SALMO 136 (135)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20111019_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

PIAZZA SAN PIETRO

MERCOLEDÌ, 19 OTTOBRE 2011

IL « GRANDE HALLEL », SALMO 136 (135)

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei meditare con voi un Salmo che riassume tutta la storia della salvezza di cui l’Antico Testamento ci dà testimonianza. Si tratta di un grande inno di lode che celebra il Signore nelle molteplici, ripetute manifestazioni della sua bontà lungo la storia degli uomini; è il Salmo 136 – o 135 secondo la tradizione greco-latina.
Solenne preghiera di rendimento di grazie, conosciuto come il “Grande Hallel”, questo Salmo è tradizionalmente cantato alla fine della cena pasquale ebraica ed è stato probabilmente pregato anche da Gesù nell’ultima Pasqua celebrata con i discepoli; ad esso sembra infatti alludere l’annotazione degli Evangelisti: «Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi» (cfr Mt 26,30; Mc 14,26). L’orizzonte della lode illumina così la difficile strada del Golgota. Tutto il Salmo 136 si snoda in forma litanica, scandito dalla ripetizione antifonale «perché il suo amore è per sempre». Lungo il componimento, vengono enumerati i molti prodigi di Dio nella storia degli uomini e i suoi continui interventi in favore del suo popolo; e ad ogni proclamazione dell’azione salvifica del Signore risponde l’antifona con la motivazione fondamentale della lode: l’amore eterno di Dio, un amore che, secondo il termine ebraico utilizzato, implica fedeltà, misericordia, bontà, grazia, tenerezza. È questo il motivo unificante di tutto il Salmo, ripetuto in forma sempre uguale, mentre cambiano le sue manifestazioni puntuali e paradigmatiche: la creazione, la liberazione dell’esodo, il dono della terra, l’aiuto provvidente e costante del Signore nei confronti del suo popolo e di ogni creatura.
Dopo un triplice invito al rendimento di grazie al Dio sovrano (vv. 1-3), si celebra il Signore come Colui che compie «grandi meraviglie» (v. 4), la prima delle quali è la creazione: il cielo, la terra, gli astri (vv. 5-9). Il mondo creato non è un semplice scenario su cui si inserisce l’agire salvifico di Dio, ma è l’inizio stesso di quell’agire meraviglioso. Con la creazione, il Signore si manifesta in tutta la sua bontà e bellezza, si compromette con la vita, rivelando una volontà di bene da cui scaturisce ogni altro agire di salvezza. E nel nostro Salmo, riecheggiando il primo capitolo della Genesi, il mondo creato è sintetizzato nei suoi elementi principali, insistendo in particolare sugli astri, il sole, la luna, le stelle, creature magnifiche che governano il giorno e la notte. Non si parla qui della creazione dell’essere umano, ma egli è sempre presente; il sole e la luna sono per lui – per l’uomo – per scandire il tempo dell’uomo, mettendolo in relazione con il Creatore soprattutto attraverso l’indicazione dei tempi liturgici.
Ed è proprio la festa di Pasqua che viene evocata subito dopo, quando, passando al manifestarsi di Dio nella storia, si inizia con il grande evento della liberazione dalla schiavitù egiziana, dell’esodo, tracciato nei suoi elementi più significativi: la liberazione dall’Egitto con la piaga dei primogeniti egiziani, l’uscita dall’Egitto, il passaggio del Mar Rosso, il cammino nel deserto fino all’entrata nella terra promessa (vv. 10-20). Siamo nel momento originario della storia di Israele. Dio è intervenuto potentemente per portare il suo popolo alla libertà; attraverso Mosè, suo inviato, si è imposto al faraone rivelandosi in tutta la sua grandezza ed, infine, ha piegato la resistenza degli Egiziani con il terribile flagello della morte dei primogeniti. Così Israele può lasciare il Paese della schiavitù, con l’oro dei suoi oppressori (cfr Es 12,35-36), «a mano alzata» (Es 14,8), nel segno esultante della vittoria. Anche al Mar Rosso il Signore agisce con misericordiosa potenza. Davanti ad un Israele spaventato alla vista degli Egiziani che lo inseguono, tanto da rimpiangere di aver lasciato l’Egitto (cfr Es 14,10-12), Dio, come dice il nostro Salmo, «divise il Mar Rosso in due parti […] in mezzo fece passare Israele […] vi travolse il faraone e il suo esercito» (vv. 13-15). L’immagine del Mar Rosso “diviso” in due, sembra evocare l’idea del mare come un grande mostro che viene tagliato in due pezzi e così reso inoffensivo. La potenza del Signore vince la pericolosità delle forze della natura e di quelle militari messe in campo dagli uomini: il mare, che sembrava sbarrare la strada al popolo di Dio, lascia passare Israele all’asciutto e poi si richiude sugli Egiziani travolgendoli. «La mano potente e il braccio teso» del Signore (cfr Deut 5,15; 7,19; 26,8) si mostrano così in tutta la loro forza salvifica: l’ingiusto oppressore è stato vinto, inghiottito dalle acque, mentre il popolo di Dio “passa in mezzo” per continuare il suo cammino verso la libertà.

A questo cammino fa ora riferimento il nostro Salmo ricordando con una frase brevissima il lungo peregrinare di Israele verso la terra promessa: «Guidò il suo popolo nel deserto, perché il suo amore è per sempre» (v. 16). Queste poche parole racchiudono un’esperienza di quarant’anni, un tempo decisivo per Israele che lasciandosi guidare dal Signore impara a vivere di fede, nell’obbedienza e nella docilità alla legge di Dio. Sono anni difficili, segnati dalla durezza della vita nel deserto, ma anche anni felici, di confidenza nel Signore, di fiducia filiale; è il tempo della “giovinezza”, come lo definisce il profeta Geremia parlando a Israele, a nome del Signore, con espressioni piene di tenerezza e di nostalgia: «Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in terra non seminata» (Ger 2,2). Il Signore, come il pastore del Salmo 23 che abbiamo contemplato in una catechesi, per quarant’anni ha guidato il suo popolo, lo ha educato e amato, conducendolo fino alla terra promessa, vincendo anche le resistenze e l’ostilità di popoli nemici che volevano ostacolarne il cammino di salvezza (cfr vv. 17-20).
Nello snodarsi delle «grandi meraviglie» che il nostro Salmo enumera, si giunge così al momento del dono conclusivo, nel compiersi della promessa divina fatta ai Padri: «Diede in eredità la loro terra, perché il suo amore è per sempre; in eredità a Israele suo servo, perché il suo amore è per sempre» (vv. 21-22). Nella celebrazione dell’amore eterno del Signore, si fa ora memoria del dono della terra, un dono che il popolo deve ricevere senza mai impossessarsene, vivendo continuamente in un atteggiamento di accoglienza riconoscente e grata. Israele riceve il territorio in cui abitare come “eredità”, un termine che designa in modo generico il possesso di un bene ricevuto da un altro, un diritto di proprietà che, in modo specifico, fa riferimento al patrimonio paterno. Una delle prerogative di Dio è di “donare”; e ora, alla fine del cammino dell’esodo, Israele, destinatario del dono, come un figlio, entra nel Paese della promessa realizzata. È finito il tempo del vagabondaggio, sotto le tende, in una vita segnata dalla precarietà. Ora è iniziato il tempo felice della stabilità, della gioia di costruire le case, di piantare le vigne, di vivere nella sicurezza (cfr Dt 8,7-13). Ma è anche il tempo della tentazione idolatrica, della contaminazione con i pagani, dell’autosufficienza che fa dimenticare l’Origine del dono. Perciò il Salmista menziona l’umiliazione e i nemici, una realtà di morte in cui il Signore, ancora una volta, si rivela come Salvatore: «Nella nostra umiliazione si è ricordato di noi, perché il suo amore è per sempre; ci ha liberati dai nostri avversari, perché il suo amore è per sempre» (vv. 23-24).
A questo punto nasce la domanda: come possiamo fare di questo Salmo una preghiera nostra, come possiamo appropriarci, per la nostra preghiera, di questo Salmo? Importante è la cornice del Salmo, all’inizio e alla fine: è la creazione. Ritorneremo su questo punto: la creazione come il grande dono di Dio del quale viviamo, nel quale Lui si rivela nella sua bontà e grandezza. Quindi, tener presente la creazione come dono di Dio è un punto comune per noi tutti. Poi segue la storia della salvezza. Naturalmente noi possiamo dire: questa liberazione dall’Egitto, il tempo del deserto, l’entrata nella Terra Santa e poi gli altri problemi, sono molto lontani da noi, non sono la nostra storia. Ma dobbiamo stare attenti alla struttura fondamentale di questa preghiera. La struttura fondamentale è che Israele si ricorda della bontà del Signore. In questa storia ci sono tante valli oscure, ci sono tanti passaggi di difficoltà e di morte, ma Israele si ricorda che Dio era buono e può sopravvivere in questa valle oscura, in questa valle della morte, perché si ricorda. Ha la memoria della bontà del Signore, della sua potenza; la sua misericordia vale in eterno. E questo è importante anche per noi: avere una memoria della bontà del Signore. La memoria diventa forza della speranza. La memoria ci dice: Dio c’è, Dio è buono, eterna è la sua misericordia. E così la memoria apre, anche nell’oscurità di un giorno, di un tempo, la strada verso il futuro: è luce e stella che ci guida. Anche noi abbiamo una memoria del bene, dell’amore misericordioso, eterno di Dio. La storia di Israele è già una memoria anche per noi, come Dio si è mostrato, si è creato un suo popolo. Poi Dio si è fatto uomo, uno di noi: è vissuto con noi, ha sofferto con noi, è morto per noi. Rimane con noi nel Sacramento e nella Parola. E’ una storia, una memoria della bontà di Dio che ci assicura la sua bontà: il suo amore è eterno. E poi anche in questi duemila anni della storia della Chiesa c’è sempre, di nuovo, la bontà del Signore. Dopo il periodo oscuro della persecuzione nazista e comunista, Dio ci ha liberati, ha mostrato che è buono, che ha forza, che la sua misericordia vale per sempre. E, come nella storia comune, collettiva, è presente questa memoria della bontà di Dio, ci aiuta, ci diventa stella della speranza, così anche ognuno ha la sua storia personale di salvezza, e dobbiamo realmente far tesoro di questa storia, avere sempre presente la memoria delle grandi cose che ha fatto anche nella mia vita, per avere fiducia: la sua misericordia è eterna. E se oggi sono nella notte oscura, domani Egli mi libera perché la sua misericordia è eterna.
Ritorniamo al Salmo, perché, alla fine, ritorna alla creazione. Il Signore – così dice – «dà il cibo a ogni vivente, perché il suo amore è per sempre» (v. 25). La preghiera del Salmo si conclude con un invito alla lode: «Rendete grazie al Dio del cielo, perché il suo amore è per sempre». Il Signore è Padre buono e provvidente, che dà l’eredità ai propri figli ed elargisce a tutti il cibo per vivere. Il Dio che ha creato i cieli e la terra e le grandi luci celesti, che entra nella storia degli uomini per portare alla salvezza tutti i suoi figli è il Dio che colma l’universo con la sua presenza di bene prendendosi cura della vita e donando pane. L’invisibile potenza del Creatore e Signore cantata nel Salmo si rivela nella piccola visibilità del pane che ci dà, con il quale ci fa vivere. E così questo pane quotidiano simboleggia e sintetizza l’amore di Dio come Padre, e ci apre al compimento neotestamentario, a quel “pane di vita”, l’Eucaristia, che ci accompagna nella nostra esistenza di credenti, anticipando la gioia definitiva del banchetto messianico nel Cielo.
Fratelli e sorelle, la lode benedicente del Salmo 136 ci ha fatto ripercorrere le tappe più importanti della storia della salvezza, fino a giungere al mistero pasquale, in cui l’azione salvifica di Dio arriva al suo culmine. Con gioia riconoscente celebriamo dunque il Creatore, Salvatore e Padre fedele, che «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Nella pienezza dei tempi, il Figlio di Dio si fa uomo per dare la vita, per la salvezza di ciascuno di noi, e si dona come pane nel mistero eucaristico per farci entrare nella sua alleanza che ci rende figli. A tanto giunge la bontà misericordiosa di Dio e la sublimità del suo “amore per sempre”.
Voglio perciò concludere questa catechesi facendo mie le parole che San Giovanni scrive nella sua Prima Lettera e che dovremmo sempre tenere presenti nella nostra preghiera: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente» (1Gv 3,1). Grazie.

IL CARATTERE COSMICO DELLA LITURGIA

http://www.zenit.org/it/articles/il-carattere-cosmico-della-liturgia

IL CARATTERE COSMICO DELLA LITURGIA

Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi

10 Giugno 2009

ROMA, mercoledì, 10 giugno 2009 (ZENIT.org).- Trattiamo oggi del «carattere cosmico» della liturgia cristiana, un tema molto rilevante sia degli studi liturgici dell’allora teologo J. Ratzinger, sia del magistero del Sommo Pontefice Benedetto XVI. L’articolo di oggi, tradotto qui dalla lingua inglese, offre una breve esposizione su alcuni aspetti del carattere cosmico della liturgia. Data l’importanza di questo tema, è auspicabile che in futuro possiamo tornarvi di nuovo, per svilupparlo ulteriormente (Mauro Gagliardi).
***

Nella presentazione al primo volume pubblicato delle sue opere complete, dal titolo Teologia della Liturgia, Papa Benedetto XVI richiama la sua importante monografia Introduzione allo spirito della liturgia, pubblicata nell’anno 2000, identificando in essa tre cerchi (Kreise), ossia le tre aree tematiche principali del libro, nel quale vengono trattati numerosi aspetti particolari. I primi due “cerchi” sono stati trattati precedentemente in questa rubrica liturgica. Il terzo “cerchio” riguarda «il carattere cosmico della liturgia, che rappresenta qualcosa che va oltre il semplice riunirsi di un gruppo più o meno grande di persone; piuttosto, la liturgia è celebrata dentro l’ampiezza del cosmo, abbraccia la creazione e la storia allo stesso tempo».
Il teologo Joseph Ratzinger ha spesso riflettuto su quell’articolo del Credo che professa Dio come Creatore, perché egli lo considera essenziale per la comprensione della fede cristiana nel suo insieme. Dio è il Creatore di tutto il cosmo e mantiene ogni cosa nell’essere. Nella storia del popolo di Israele, l’aver capito che il mondo non è il prodotto di un puro caso, e che tutto ciò che esiste ha la propria origine solo dalla ragione e dall’amore di Dio, ha condotto all’“illuminismo” nel suo senso più profondo. Pertanto, la ragione umana è fondata «stabilmente sulla base originaria della Ragione creatrice di Dio, allo scopo di fondarla sulla verità e sull’amore» [1]. «Dio è il Signore di tutte le cose perché Egli è il loro Creatore e solo in base a ciò noi possiamo pregarlo. Poiché questo significa che la libertà e l’amore non sono idee astratte, ma piuttosto che esse sono forze che sostengono la realtà» [2].
Nel Libro della Genesi, la creazione ed il culto sono intimamente connessi: Dio ha creato il mondo in sei giorni e nel settimo si riposò (cf. Gen 2,2-3), orientando in questo modo la creazione verso il giorno del riposo, il quale è anche il segno dell’alleanza tra Dio e l’uomo. Commentando il prologo del Vangelo secondo Giovanni: «In principio era il Verbo», un’espressione che si rifà all’inizio del Libro della Genesi (cf. Gv 1,1 con Gen 1,1), Benedetto XVI afferma: «All’inizio il cielo parlò. E così la realtà nasce dalla Parola, è “creatura Verbi”. Tutto è creato dalla Parola e tutto è chiamato a servire la Parola. Questo vuol dire che tutta la creazione, alla fine, è pensata per creare il luogo dell’incontro tra Dio e la sua creatura, un luogo dove l’amore della creatura risponda all’amore divino, un luogo in cui si sviluppi la storia dell’amore tra Dio e la sua creatura» [3]. Il nostro incontro privilegiato con Dio è la sacra liturgia, nella quale noi siamo immersi nella comunione con il Signore, che ci benedice con il dono della sua presenza sacramentale.
Non sarebbe esagerato affermare che la teologia di Joseph Ratzinger è animata dalla profonda consapevolezza della bontà e bellezza della creazione di Dio. Nel contesto della dimensione cosmica della liturgia, il Papa si è rivolto ancora una volta al tema della direzione presa dal sacerdote celebrante e dai fedeli durante la liturgia eucaristica. Sin dai tempi più remoti, si è sempre considerata cosa ovvia per i cristiani il pregare insieme, sacerdote e fedeli, nella direzione del sole che sorge, simbolo di Cristo risorto, che tornerà nella gloria per giudicare il mondo e per raccogliere i suoi fedeli nella nuova, celeste Gerusalemme [4]. L’intera assemblea è unita nel «volgersi al Signore», come ci si esprime nelle preghiere spesso usate da sant’Agostino dopo i suoi sermoni, che cominciano con le parole Conversi ad Dominum… La direzione comune della preghiera liturgica divenne poi decisiva per la liturgia cristiana nonché per l’architettura sacra…
Nella sua presentazione al libro Teologia della liturgia, Benedetto XVI considera importante che questo simbolismo cosmico sia stato incorporato all’interno della celebrazione comunitaria: «Questo era ciò che si intendeva volgendosi ad est per la preghiera: che il Redentore che noi preghiamo è anche il Creatore, e per questo rimane sempre nella liturgia l’amore per la creazione e la responsabilità verso di essa».
Quest’ultimo aspetto riflette una preoccupazione che il Papa ha espresso in diverse occasioni, specialmente durante la sua visita in Australia per la Giornata Mondiale della Gioventù del 2008: Dio ha affidato la sua creazione a noi in quanto custodi, non padroni, e questo implica che noi non dobbiamo sfruttare le sue risorse secondo interessi egoistici, ma piuttosto che dobbiamo utilizzarle responsabilmente. Da una prospettiva cristiana, l’ecologia è radicata nella fede nel Dio creatore [5].
Da ultimo, un bell’esempio della comprensione propria al Santo Padre del carattere cosmico della liturgia è la raccolta di meditazioni «Il significato del Corpus Domini» [6], in cui egli richiama lo splendore della processione del Corpus Domini nella sua terra natale, la Baviera. Nel portare il Signore stesso, il Creatore, attraverso città e villaggi, su prati e su laghi, diviene tangibile che nella liturgia «si stratta di ciò che il cielo e la terra racchiudono, dell’umanità e di tutta la creazione» [7].

Note
[1] Benedict XVI, In the Beginning. A Catholic Understanding of Creation and the Fall, Eerdmans, Grand Rapids 1995, p. 14.
[2] Ibid., p. 18.
[3] Benedetto XVI, Meditazione nel corso della prima congregazione generale della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 6 ottobre 2008.
[4] Cf. Benedetto XVI, Omelia della Veglia pasquale, 22 marzo 2008.
[5] Cf. Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2008.
[6] Cf. J. Ratzinger, La festa della fede. Saggi di teologia liturgica, Jaca Book, Milano 1990, pp. 101-109.
[7] Ibid., p. 108.
[Traduzione dall’inglese di don Mauro Gagliardi]

The Holy Spirit provides the correct understanding.(Scriptura)

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Publié dans:immagini sacre |on 5 mai, 2014 |Pas de commentaires »

NAVIGANDO SULLE ORME INVISIBILI DI PAOLO…NAUFRAGANDO TRA RIFLESSIONI E INTERROGATIVI.

http://www.sanpaolo.org/fc09/paolo.htm

Sui passi di san Paolo

NAVIGANDO SULLE ORME INVISIBILI DI PAOLO…NAUFRAGANDO TRA RIFLESSIONI E INTERROGATIVI.

Testo di don Romano Matrone

O Signore, Signore nostro…
Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi.
Il figlio dell’uomo, perché te ne curi?

Davvero l’hai fatto poco meno di un dio
Di gloria e di onore lo hai coronato. (Sal 8,1.5-6)

Cosi si interroga il salmista, estasiato di fronte al capolavoro di Dio: l’uomo.
Che contrasto con questa riflessione sull’uomo, il grido di Paolo: «Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» (Rom 7,24)

Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza. …e cosi avvenne. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona (Gen 1,26.31 )

L’uomo, immagine di Dio?
L’esperienza di oggi, la storia di millenni, ci presenta molte volte un altro tipo di immagine: brutta.
L’uomo deturpa, violentemente, questo disegno di Dio che lo vuole a Lui somigliante:

l’uomo si fa sapiente, Dio stolto,
l’uomo libero, Dio servo
l’uomo si gonfia, Dio si svuota
l’uomo forte, Dio debole.
(Rom 11,13; 1Co. 1,17-25; 3, 18-20; 13,4; 4, 18-19; Fil 2,8).

Più che come immagine di Dio, l’uomo di oggi sembra volersi affermare, con più decisione del vecchio Adamo, come l’immagine proteica del “superuomo” che costruisce “Torri di Babele” per soppiantare Dio, per cacciarLo dalla sua vita: nel cuore di ogni stolto, risuona il “Via! Via! Crocifiggilo” (Gv 19,15) contro Colui che, unico, lo ama.
—–
La sapienza dell’uomo è stoltezza, la stoltezza di Dio è sapienza.
L’uomo si condisce la vita con un sale che non dà sapore, Dio ci chiama alla felicità attraverso la stoltezza del Kerigma: Cristo crocifisso si è fatto peccato per noi e ci dona il suo Spirito: l’amore.
È l’amore di Dio che dà il vero sapore alla vita: chi fugge dalla croce si tuff nella menzogna, nel non senso, nel buio che ti perde. Che riflessione sprizza fuori dal cuore di Paolo: ciò che è stolto per il mondo Dio lo ha scelto per confondere i sapienti.
L’uomo, oggi, considera stoltezza una sofferenza prolungata, un male incurabile; la croce, segno dell’amore di Dio per noi, non senso, tragedia abnorme.
Nessuno ha sofferto come Paolo: fatiche, prigionie, percosse, pericoli di morte. Cinque volte flagellato, tre volte battuto con le verghe, una volta lapidato, tre volte naufragato, un giorno e una notte in balia delle onde; pericoli sul mare, pericoli dai fratelli, fame, sete (cfr. 2Cor 11).
Tutta questa sofferenza, si fa sintesi di sapienza nella confessione: «Non voglio saper altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo e Cristo crocifisso» (1Cor 2,2).
——-
«Cristo ci ha liberati per la libertà»
L’uomo oggi cerca una libertà politica, sociale, di non ascolto; una libertà dalla legge, dagli altri; una libertà personale che è disporre di sé per sé: insomma, sempre una libertà con aggettivi, mai una libertà in sé e per sé, una libertà assoluta.
«Cristo ci ha liberati, per la libertà» (Gal 5,1).
Adamo nella disobbedienza cerca di liberarsi e diventa schiavo: immagine falsa di libertà.
Cristo, il nuovo Adamo, nella sua obbedienza diventa veramente libero: «Padre non quello che io voglio ma quello che tu vuoi» (Mc 14,36).
Il vecchio Adamo nel soddisfare sé stesso, perde l’immagine di quello che è.
Il nuovo Adamo, buttandosi nel Padre, «nelle tue mani consegno lo Spirito» (Lc 23,46), diventa il Kyrios, il Signore, l’Adonai.
Colui che si è fatto servo, diventa libero per davvero.
——
«Non vi gonfiate d’orgoglio» (1Cor 4,6)
Che cosa possiedi che non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto perché te ne vanti, come se non l’avessi ricevuto?
Il gonfiarsi d’orgoglio è rubare a Dio e ai fratelli.
Sei gonfio d’orgoglio? Ma dimmi che cosa veramente sai fare? (1Cor 4,19).
Sai amare chi è diverso da te? Sai dare la vita al tuo nemico? Sai perdonare a chi ti ha fatto del male? Ti metti ai piedi di chi ami, per testimoniare la tua riconoscenza? Sai considerare l’altro superiore a te?
No? Allora in te non c’è l’immagine di Dio, del Figlio suo, ma del signore delle tenebre, del padre della menzogna!
Paolo ci esorta ad avere gli «stessi sentimenti di Cristo Gesù: Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso, assumendo una condizione di servo» (Fil 2,5).
Chi ha il cuore pieno di sé ha un cuore vuoto d’amore; chi ha un cuore vuoto di sé ha un cuore con gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: vive per te.

«La carità non si gonfia d’orgoglio» (1Cor 13,4)
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«Ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini… Ciò che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti» (1Cor 1, 25.27).
Tu invece dici: sono ricco, non ho bisogno di niente e di nessuno: eppure Dio Padre, nel suo Figlio Gesù Cristo, ha rivelato il debole per eccellenza: ha bisogno di tutto. Ha fame di te. Ha sete di te: è così debole che non ha le cose fondamentali per vivere. Questo debole è stato costituito Signore e Paolo, fedele discepolo, si fa debole con i deboli, e si vanta delle sue debolezze (2Cor 11,29).
E di fronte ad una esperienza di sofferenza che gli ha minato il corpo e lo spirito, dirà con fermezza:
«Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo». Anzi ancora di più: «Mi compiaccio nelle mie debolezze» (2Cor 12,9-10).
Il mondo ci ha educato, ingannandoci, ad essere “super”, uomini da applausi, e non abbiamo il coraggio di guardarci allo specchio; vogliamo solo sentirci forti dell’esaltazione idolatrica degli altri, siamo disposti anche a rendere culto, come Israele, agli idoli dei popoli vicini: religiosità, libertarismo, demonismo, pozioni, magie, purché ci assicurino potere e stima. Siamo disposti anche a pagare, purché il Signore ci tolga la “spina dal fianco“, quella spina che ci umilia e ci fa sentire deboli. Non vogliamo sentire quello che ha sentito Paolo, al culmine della sua debolezza: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). «Quando sono debole è allora che sono forte» (2Cor 12.10).
——
Navigando, in questa crociera, sulle orme invisibili di Paolo, abbiamo cominciato a sperimentare il naufragio di tante certezze umane e l’affermarsi di una rotta sicura tra i marosi della vita, la stella polare che ci conduce alle profondità del nostro essere, là dove riscopriamo la vera immagine di noi stessi: Cristo. «Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1).
«Perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti» ( Fil 3,10-11).
Conformarsi a Cristo, diventare Cristo, dall’io al tu, questa è la vera immagine di Dio in noi..
Racconta un midrash: «Un uomo bussa alla porta dell’amata. L’amata gli chiede dal di dentro: chi sei? L’uomo risponde: sono io. L’amata replica allora: Vattene! Non è giunto per te ancora il momento di entrare. Dopo viaggi estenuanti per mare e per terra, l’uomo bruciato da un fuoco interiore, ritorna e bussa alla porta dell’amata che chiede: chi è alla porta?. E l’uomo risponde: sono tu! E l’amata risponde: Adesso che sei me, puoi entrare».

Don Romano Matrone

RINGRAZIAMO CON GIOIA DIO – COLOSSESI 1, 3. 12-20

http://camminoin.it/2012/08/16/ringraziamo-con-gioia-dio/

RINGRAZIAMO CON GIOIA DIO - COLOSSESI 1, 3. 12-20

oggi facciamo un grande passo avanti nel nostro cammino di fede meditando con attenzione le seguenti parole dell’inno tratto dalla lettera ai Colossesi di San Paolo:

Ringraziamo con gioia Dio, *
Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
perché ci ha messi in grado di partecipare *
alla sorte dei santi nella luce,

ci ha liberati dal potere delle tenebre *
ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto,
per opera del quale abbiamo la redenzione, *
la remissione dei peccati.

Cristo è immagine del Dio invisibile, *
generato prima di ogni creatura;
è prima di tutte le cose *
e tutte in lui sussistono.

Tutte le cose sono state create per mezzo di lui *
e in vista di lui:
quelle nei cieli e quelle sulla terra, *
quelle visibili e quelle invisibili.

Egli è il capo del corpo, che è la Chiesa; *
è il principio di tutto,
il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, *
per ottenere il primato su tutte le cose.

Piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza *
per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose,
rappacificare con il sangue della sua croce, *
gli esseri della terra e quelli del cielo.

Questo inno è un vero e proprio capolavoro che sintetizza in poche parole importantissimi concetti di fede dal contenuto fondamentale. San Paolo inizia ringraziando Dio Padre per il grande beneficio concesso all’umanità di partecipare alla santità celeste grazie a Gesù Cristo. Il ringraziamento di Paolo, oltre ad esprimere una sincera e profonda riconoscenza a Dio Padre per il grande dono della salvezza concessoci tramite il Figlio, introduce con decisione e senza altri preamboli la descrizione della figura di Gesù Cristo. Da questo inno possiamo imparare tutto quello che nella nostra intera vita di fede non abbiamo mai saputo su Gesù Cristo e che invece dovremmo conoscere e ricordare senza alcuna esitazione o dubbio. San Paolo ci illustra Gesù Cristo fornendoci diverse indicazioni tutte concordi tra loro. La prima indicazione ci presenta Gesù Cristo come immagine del Dio invisibile. Dio invisibile in Gesù Cristo ci dà la sua immagine (“Filippo chi ha visto me ha visto il Padre”). Con l’incarnazione del Verbo, Dio si fa uomo, manifestandosi agli uomini, oltre che con la sua natura divina, invisibile agli uomini, anche con una natura umana fatta di corpo e quindi perfettamente visibile per tutti noi. Ma la manifestazione visibile del Dio invisibile non è da ricercare solo nella persona di Gesù: Dio, infatti, si manifesta agli uomini, in tutta la creazione. Il creato porta l’impronta di Dio, in esso è celebrato il suo amore, la sua bellezza, il suo splendore, la sua divinità, la sua forza, la sua onnipotenza, la sua maestà, la sua bontà. Tutti elementi che ci fanno crescere nella conoscenza di Dio, fornendoci un’immagine visibile del Dio invisibile. Questa è la seconda indicazione dataci dall’Apostolo. In questa indicazione San Paolo esplicitamente ci dice che la creazione è stata fatta per mezzo di Gesù Cristo e in vista di Lui. Gesù Cristo essendo Dio è generato dal Padre e non creato, Egli difatti viene prima di ogni cosa e ogni cosa è stata fatta da Lui, ossia per suo mezzo e in vista della sua incarnazione. Inoltre, tutte le cose create continuano a esistere perché in Lui trovano la loro sussistenza. Nella terza indicazione fornita dall’Apostolo, Gesù Cristo è presentato come il Salvatore dell’umanità intera, Colui che ha redento l’umanità, che ha sconfitto la morte e il peccato, che ha liberato l’uomo dal potere delle tenebre eterne per portarlo con sé in Paradiso. La quarta indicazione ci presenta Gesù Cristo come capo del corpo della Chiesa, come tale Egli tramite la Chiesa esercita la sua mediazione per rappacificare con il suo sangue gli esseri della terra e quelli del cielo. Nella quinta indicazione l’Apostolo ci presenta Gesù Cristo come sede di ogni pienezza, ossia del pieno compimento di ogni realtà creata, della convergenza in se stesso dell’universo materiale e spirituale. Egli è colui che ha il primato su tutte le cose, in cui tutte le cose sussistono, in cui tutte le cose si realizzano e in cui tutte le cose trovano il loro vero senso e compimento.

Capo d’Orlando 16/08/2012

Dario Sirna

Publié dans:Lettera ai Colossesi |on 5 mai, 2014 |Pas de commentaires »

Santi Filippo e Giacomo – link alla storia

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PAOLO, GESÙ E IL MATRIMONIO

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PAOLO, GESÙ E IL MATRIMONIO

This entry was posted on 19 marzo, 2009, in Materiali Introduttivi, Per conoscere Paolo.

Prima di affrontare il tema delle riflessioni paoline sul matrimonio, e più in generale sulla sua considerazione dei rapporti fra uomo e donna, è opportuno interrogarsi sull’esperienza concreta e personale dell’apostolo.

Innanzitutto, Paolo era sposato?
A questa domanda, che a prima vista potrebbe apparire oziosa, molti studiosi rispondono affermativamente, sulla base del fatto che il percorso ordinario dell’educazione farisaica, com’è riportato dalle successive fonti rabbiniche, contemplava il matrimonio tra i diciotto e i vent’anni: un’età che si presume che Paolo abbia attraversato prima di diventare seguace di Gesù.
A favore di quest’ipotesi, inoltre, si cita spesso un passaggio – in realtà poco chiaro – della prima lettera ai Corinzi, laddove Paolo rivolge ai propri interlocutori una domanda che ha tutta l’aria di una provocazione: «Non abbiamo forse (io e Barnaba) il diritto di condurre con noi una sorella, come fanno gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?» (1Cor 9,5). Come si evince da un esame del contesto generale della lettera (1Cor 9,1-14), l’interrogativo ha una funzione puramente retorica, e non rivela alcunché sullo “stato civile” dell’apostolo.
Da questo brano, semmai, è possibile ricavare una conferma del fatto che altri apostoli, come Simon Pietro (qui menzionato col soprannome aramaico Cefa) e alcuni membri del gruppo parentale di Gesù, affrontassero viaggi missionari assieme alle mogli, nominate appunto col titolo di “sorelle” in quanto facenti parte del movimento. Paolo, in tal senso, lascia intendere che potrebbe benissimo avvalersi di un tale “diritto” (exousía), ad esempio facendosi accompagnare da una “sorella” ed esigendo ospitalità anche per lei: ma è una cosa che, verosimilmente, non fece mai, e che fu anzi, probabilmente, un suo personale titolo di vanto. Poco prima, nella stessa lettera, l’apostolo aveva addirittura esortato i Corinzi a seguire il suo esempio, mantenendosi liberi dai vincoli coniugali: «Vorrei che tutti fossero come me: ma ciascuno ha il proprio dono (chárisma) da Dio, chi in un modo chi in un altro. Quanto ai non sposati e alle vedove, [dico poi che] è cosa buona per loro rimanere come me» (1Cor 7,7-8).
Dai pochi indizi sparsi nelle lettere, pertanto, si possono trarre almeno tre diverse conclusioni: a) Paolo era sposato, ma aveva lasciato la moglie per dedicarsi completamente all’attività missionaria; b) Paolo era vedovo; c) Paolo era celibe. Cerchiamo di esaminarle rapidamente.
Avendo presente la proibizione esplicita del divorzio formulata da Gesù, riportata da varie fonti proto cristiane (vd. oltre), è improbabile che Paolo si fosse sposato con una “sorella” per poi separarsene. Il matrimonio, se mai ci fu, dovette in ogni caso precedere la “conversione”, supponendo sempre un pieno rispetto del giovane Saulo nei confronti della consuetudine farisaica menzionata più sopra. Il cosiddetto “privilegio paolino”, per cui la separazione tra i coniugi veniva da lui stesso considerata lecita, nel caso di matrimoni “misti” contratti prima dell’ingresso nella comunità (1Cor 7,15), sembrerebbe persino avvalorare una simile ipotesi: ma in quel caso la separazione veniva dichiarata possibile qualora il non credente della coppia ne facesse esplicita richiesta, e rappresentava certamente un caso limite. Il rapporto coniugale era investito di un tale potere, per Paolo, che il marito non credente veniva santificato dalla moglie credente, e la moglie non credente dal marito credente (1Cor 7,14). Di un matrimonio dell’apostolo in giovane età, con successiva separazione, non troviamo tuttavia alcuna traccia nelle lettere.
Anche l’ipotesi per cui Paolo sarebbe stato vedovo, avanzata fra gli altri da Jerome Murphy O’Connor, sembra fondarsi su basi fragilissime. Il matrimonio del fariseo Saulo è ancora una volta dato per scontato: viste le consuetudini giudaiche dell’epoca, «non si può escludere che Paolo non si sia mai sposato». Le eccezioni alla regola, che pure non mancherebbero, vengono trascurate o minimizzate, anche per ciò che riguarda singoli casi ben documentabili: da quello del profeta Geremia, che non volle mai prender moglie per adempiere alla propria vocazione, a quello dello storiografo Giuseppe Flavio, che si risolse al matrimonio in età relativamente tarda (verso i trent’anni), e soltanto su impulso di Vespasiano. La giovinezza inquieta di Giuseppe, spesa alla ricerca di un’esperienza religiosa radicale, potrebbe benissimo essere affiancata a quella di Paolo, che presenta se stesso come «pieno di zelo» nella fede dei padri (vd. ad es. Gal 1,14); senza considerare, poi, il caso di un Giovanni Battista, o dello stesso Gesù, che rimasero entrambi indubbiamente celibi. Da questo punto di vista, la proposta avanzata da Murphy O’Connor non può che suonare immaginosa: il silenzio di Paolo sulla propria condizione di vedovo, secondo lo studioso, andrebbe imputato a un evento traumatico, come la perdita improvvisa della moglie (e forse anche dei figli!) a causa d’un incendio o di un terremoto. Questo avrebbe addirittura orientato una parte della sua successiva elaborazione teologica: «se il dolore e l’angoscia [per una tale perdita] non potevano dirigersi verso Dio», alla cui volontà imperscrutabile bisognava piegarsi, occorreva «trovare un altro obiettivo… una via di sfogo per il desiderio represso di vendetta» (J. Murphy O’Connor, Vita di Paolo, trad. it. Brescia 2003, p. 85). E Paolo li avrebbe trovati: dapprima nei primi discepoli di Gesù, e in seguito nei Giudei che avevano rifiutato il messaggio di Cristo – una spiegazione circolare che, per quanto psicologicamente ingegnosa, lascia francamente perplessi.
L’unica ipotesi sostenibile, in conclusione, resta quella di una scelta celibataria, secondo quanto l’apostolo stesso si preoccupa di esprimere, in termini sufficientemente chiari, nel già citato versetto di 1Cor 7,7: «Vorrei che tutti fossero come me…». Il principio che anima tutta la riflessione di Paolo sui rapporti fra uomo e donna, a questo punto, potrebbe essere letto in riferimento alla sua posizione personale al tempo della vocazione apostolica: «Ciascuno, o fratelli, rimanga davanti a Dio nella condizione in cui si trovava quando venne chiamato» (7,24). Da questa affermazione si può dedurre che Paolo, nel momento in cui ricevette la rivelazione di Cristo sulla via di Damasco, non fosse affatto sposato, e che tale rimase anche dopo.

Matrimonio e divorzio in 1Cor 7
Il capitolo 7 della prima lettera ai Corinzi è interamente dedicato al tema dei rapporti coniugali [1]. Paolo, nello specifico, risponde ad alcune questioni che gli erano state poste in precedenza dai Corinzi: in primo luogo riguardo al fatto se fosse davvero «bene per l’uomo non toccare donna», come recitava presumibilmente uno “slogan” degli interlocutori. Partendo da qui, l’apostolo espone una rapida serie di istruzioni relative agli “sposati”, ovvero alla disciplina delle relazioni matrimoniali (7,1-16), poi al rapporto fra l’ingresso nel gruppo e i vari “stati di vita” (7,17-24), e infine alla regolamentazione di casi particolari, come quello dei “non sposati”, delle “vergini” e delle “vedove” (7,25-40). Tre diversi ordini di questioni, dunque. Nel cuore del primo, l’apostolo si sofferma sul problema del divorzio, appoggiandosi per l’occasione a una citazione esplicita di Gesù:
«Per gli sposati dispongo, non io ma il Signore, che la moglie non si separi dal marito, e qualora invece si separi, rimanga non sposata o si riconcili col marito, e che il marito non ripudi la moglie» (1Cor 7,10-11).
Molti commentatori sostengono che questo passaggio trasmetta una forma pre-letteraria di un detto di Gesù che ritroviamo nel vangelo di Marco (10,11-12), nella fonte comune ai vangeli di Matteo e di Luca (cf. Mt 5,31-32; 19,9; Lc 16,18) e in altri scritti protocristiani (Erma, Mand. 4,1-11). La formulazione paolina, in effetti, presenta un chiaro legame con la tradizione testimoniata e trasmessa dai sinottici (vd. M. Pesce, Le parole dimenticate di Gesù, Milano 2004, pp. 502-504).
Paolo, come Marco, riporta il detto in forma assoluta, e si distingue da Matteo e da Luca perché prevede la possibilità anche da parte della donna di “separarsi”. L’intera frase viene presentata come un vera e propria norma legale, come una disposizione di Gesù riguardo agli sposati, e ciò costituisce un elemento di forte specificità rispetto al dettato dei sinottici, che non parlano di questo come di un precetto, ma lo presentano piuttosto come una halakah, un’applicazione giuridica della Legge, formulata da Gesù. Al centro dell’interesse di quest’ultimo, più che la questione legale del divorzio, sembra esserci il richiamo a una moralità più alta, più esigente, a partire dall’assunto dell’indissolubilità dell’unione matrimoniale: per questo Gesù si pronuncia sul divorzio includendolo nella categoria morale dell’adulterio. La concezione di Gesù, in proposito, si avvicina a quella espressa da alcuni documenti coevi, come 11QTempl 57,16-19 e CD 4,20-5,2.
L’apostolo, come si è detto, traduce la norma di Gesù per ambienti in cui anche alle donne era consentito divorziare [2]: questo, da una parte, appare in linea con l’immagine che Paolo poteva avere di Gesù, e che non mancava di trasmettere alle proprie comunità, dall’altra apre la strada per supporre un’ulteriore elemento di continuità fra i due, precisamente sul senso trascendente che poteva essere conferito all’unione matrimoniale.

Il senso trascendente dell’unione coniugale
Vari testi protocristiani presentano il matrimonio come una metafora non semplicemente dell’unione fra Dio e Israele, quanto del rapporto che s’instaura fra il Cristo stesso e l’insieme dei suoi seguaci. Questa metafora nuziale compare anche nella corrispondenza di Paolo ai Corinzi, ad esempio in 2Cor 11,2: «Ardo per voi d’uno zelo divino, avendovi fidanzati a uno sposo, per presentarvi a Cristo come una vergine immacolata».
La relazione fra uomo e donna, nei testi del giudaismo pre-cristiano, era sempre stata utilizzata in riferimento all’Alleanza stipulata tra Dio e Israele, mentre in Paolo, forse sulla scia di analoghe riletture che troviamo attribuite a Gesù e a Giovanni Battista, essa passa ad indicare l’attesa della sposa/comunità nei confronti dello sposo/Cristo.
Nella predicazione dei profeti d’Israele, massimamente in Osea (1-3), la dolorosa vicenda personale del profeta diventava il paradigma stesso dell’amore ferito di Dio per la sua sposa “infedele”, in uno schema di corrispondenze fra adulterio e idolatria, separazione e ripudio, riconquista e conversione. I protagonisti del dramma erano tre: la sposa, che indicava al contempo Israele e la terra; lo sposo, figura dell’unico Dio; e i figli, che rappresentavano i frutti della loro relazione. La sposa/Israele era chiamata ad abbandonare i propri amanti, quei ba‘alim (letteralmente “padroni”, originariamente dèi della fecondità) con i quali si era prostituita, per ricongiungersi al suo ‘ish, il marito che senza di lei non può vivere. Attraverso la voce dei profeti, la stessa vicenda dei “protoplasti”, di Adamo e di Eva, veniva riletta come una traccia del cammino percorso da Dio con l’umanità. Accanto alla minaccia costante di un ripudio, si affacciava dunque l’annuncio di un amore fedele e imperituro, dell’attesa di una “nuova creazione” (in cui «la donna abbraccerà l’uomo»: Ger 31,22), o della celebrazione dell’intimità erotica rivista in chiave “spirituale” (come nel Cantico dei cantici: la cui esegesi allegorica, di fatto, ne avrebbe consentito il futuro inserimento nel canone ebraico e cristiano).
In Paolo, come nella stessa letteratura deutero-paolina (Ef 5,25-29), nei vangeli sinottici (Mt 9,14-15 // Mc 2,18-20 // Lc 5,33-35; Mt 25,1-13), nella tradizione del quarto vangelo (Gv 1,27; 3,29; cf. 12,1-8) o nell’Apocalisse di Giovanni (Ap 3,20; 19,7-9; 21,2.9; 22,17), gli esegeti rilevano però un mutamento significativo: lo sposo non è più il Dio d’Israele, ma Gesù, e la sposa non è più figura d’Israele, ma della comunità degli ultimi tempi; inoltre, come illustrato in riferimento al procedimento nuziale ebraico, ch’era sostanzialmente diviso in due fasi (il fidanzamento e la coabitazione degli sposi), «il passato, il tempo della stipulazione del contratto nuziale coincide con la venuta dello sposo Cristo… La coabitazione dello sposo con la sposa è rinviata, però, al tempo escatologico, quando nessun muro d’ombra potrà frapporsi tra i due amanti» (così R. Infante, Lo sposo e la sposa, Cinisello Balsamo 2004, p. 242).
Nella prospettiva dei detti riferiti dai sinottici, la centralità è assegnata alla presenza attuale di Gesù (basti pensare alla sospensione momentanea del digiuno in Mc 2,18-20, Mt 9,15 e Lc 5,34), al quale viene implicitamente attribuito il titolo di sposo messianico; e la sposa può trovarsi in una situazione di vigile attesa delle nozze, come accade nella parabola delle vergini (Mt 25,1-13) e nel passaggio paolino di 2Cor 11,2. L’apostolo potrebbe pertanto riferirsi, in questo caso, a un insegnamento di Gesù rielaborato e diffuso dai suoi primi discepoli. Il ruolo metaforico dell’apostolo sarebbe quello del padre che presenta allo sposo venturo la propria “vergine immacolata”, custodendone l’integrità (questo, peraltro, getta luce anche sul problema delle “vergini”, cui Paolo allude in 1Cor 7,25 e sgg.).
È assolutamente degno di nota, d’altronde, che in una discussione sul divorzio come quella che troviamo formulata in 1Cor 7, Paolo contro ogni sua consuetudine faccia appello a Gesù, e non alle Scritture: è forse l’indizio di un mancato accordo con esse, a renderlo necessario? È ciò che potrebbe emergere da un’attenta rilettura dei brani evangelici citati, e in particolare da una riconsiderazione del richiamo di Gesù a Genesi 1,27 e 2,24: «Mosè per la durezza del vostro cuore vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; ma in principio non era così» (Mt 19,8; cf. Mc 10,5-6).
Questo richiamo, con tutte le sue profonde implicazioni, può essere infatti spiegato come un netto rifiuto, da parte di Gesù, della norma relativa all’atto di ripudio fissata in Deuteronomio 24, che viene in questo modo apertamente contrapposta all’ordine più alto rappresentato dalla creazione («in principio non era così»). Spiega opportunamente Klaus Berger:
«All’epoca di Gesù il rifarsi all’ordine della creazione è senz’altro motivato anche dal fatto che la filosofia stoica del tempo aveva contrapposto criticamente l’ordine razionale della natura al diritto statale positivo. La radicalizzazione della legge secondo la volontà creatrice di Dio, in Gesù, si incrocia quindi con l’idea stoica dell’ordine razionale nella natura. Entrambe si rafforzano a vicenda. Il divorzio, seguito da un nuovo matrimonio, è contro la natura, perché il mondo è ordinato a coppie di maschio/femmina, e in Dio un solo uomo e una sola donna vengono congiunti a formare qualcosa di nuovo» (K. Berger, Gesù, trad. it. Brescia 2006, pp. 158).
Questo principio, secondo Berger, si integra allora con qualcosa di strettamente collegato alla persona di Gesù:
«Gesù torna sempre ad autodefinirsi lo sposo di Israele rinnovato… Forse si può spiegare così perché la parola di Gesù sul divieto del divorzio (seguito da un nuovo matrimonio) sia il suo detto più frequentemente citato nel Nuovo Testamento. Gesù vede nella fedeltà e nell’amore coniugali un’immagine reale del rapporto tra Messia e popolo. Se il matrimonio tra esseri umani è distrutto, il matrimonio non può più essere un simbolo reale del futuro regno di Dio. È qualcosa di analogo alla riconciliazione: solo quando gli esseri umani si sono perdonati a vicenda anche Dio può perdonare. Come il perdono tra esseri umani è il nucleo e il presupposto del perdono che si spera da Dio, allo stesso modo il risanamento dei matrimoni umani è il presupposto affinché venga rinnovato il matrimonio di Dio con il suo popolo. In entrambi i casi il rapporto sanato tra esseri umani è più di un semplice simbolo, è cioè allo stesso tempo nucleo e presupposto» (ibid., p. 163).
***

Note
[1] Per quanto riguarda le relazioni familiari nel mondo sociale di Gesù e di Paolo, sono fondamentali i due volumi collettivi curati da D. Balch e C. Osiek, Families in the New Testament World: Households and House Churches, Louisville 1997, e Early Christian Families in Context: An Interdisciplinary Dialogue, Grand Rapids 2004; vd. anche, fra gli altri, K.C. Hanson – D.E. Oakman, La Palestina ai tempi di Gesù. La società, le sue istituzioni, i suoi conflitti, trad. it. Cinisello Balsamo 2003 (ed. or. Minneapolis 1998), pp. 33-88. Su matrimonio, divorzio e adulterio per Paolo, una buona panoramica è offerta dalla voce relativa in G.F. Hawthorne et alii, Dizionario di Paolo e delle sue lettere, ed. it. a cura di R. Penna, Cinisello Balsamo (ed. or. Downers Grove 1993), pp. 991-1002, con bibliografia ulteriore, mentre per una trattazione più approfondita si rimanda a R.F. Collins, Divorce in the New Testament, Colledgeville 1992, e W. Deming, Paul on Marriage & Celibacy: The Hellenistic Background of 1 Corinthians 7, Grand Rapids 2004.
[2] Le posizioni del fariseismo contemporaneo a Gesù e a Paolo, per come sono ricavabili dalla letteratura rabbinica posteriore, sono ben rappresentate dalle scuole di Hillel e Shammaj. Del primo si dice che accettasse la richiesta di divorzio da parte del marito anche per un motivo futile come una pietanza bruciata. Del secondo, invece, è nota la posizione leggermente più “liberale”, per cui il marito non poteva ripudiare la moglie senza il consenso di lei. In entrambi i casi, la richiesta di divorzio era comunque un atto unilaterale, riservato al maschio. Per una rassegna di testimonianze papirologiche di ambiente giudaico-ellenistico, vd. D. Instone-Brewer, “1 Corinthians 7 in the Light of the Jewish Greek and Aramaic Marriage and Divorce Papyri”, “Tyndale Bulletin” 52 (2/2001), pp. 225-243.

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