Archive pour mai, 2014

Ornate Holy Doors at Ipatiev Monastery, Kostroma, Russia

 Ornate Holy Doors at Ipatiev Monastery, Kostroma, Russia dans immagini sacre Ipatios_monastery_Kostroma_14
http://en.wikipedia.org/wiki/Royal_doors

Publié dans:immagini sacre |on 8 mai, 2014 |Pas de commentaires »

«Questo tesoro lo portiamo in vasi d’argilla» – (2 Cor 4,7) – Chiara Lubich

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/parola_gen03.htm

«Questo tesoro lo portiamo in vasi d’argilla» – (2 Cor 4,7).

Chiara Lubich

I cristiani di Corinto mettevano a confronto l’apostolo Paolo con altri predicatori contemporanei che parlavano con maggiore eloquenza ed erudizione. A loro piacevano i bei discorsi, le speculazioni filosofiche, mentre Paolo si presentava con semplicità, senza grandi parole suggerite dalla sapienza umana , debole e provato nel fisico. Eppure a lui Gesù, sulla via di Damasco, si era pienamente rivelato, e da allora Dio aveva continuato a fargli brillare in cuore la luce del Figlio suo e lo aveva inviato a portare a tutti quella luce . Paolo era però il primo a rendersi conto della sproporzione tra la preziosità inestimabile della missione affidatagli e l’inadeguatezza della sua persona: un tesoro in un povero vaso di terracotta.
Quante volte anche noi avvertiamo la nostra povertà, i limiti, l’insufficienza davanti ai compiti che ci sono affidati, l’incapacità di rispondere pienamente alle esigenze della nostra vocazione, l’impotenza di fronte a situazioni che sono più grandi di noi. Percepiamo inoltre inclinazioni e attrattive che ci orientano più facilmente al male che al bene, alle quali facciamo fatica a resistere per la debolezza della nostra volontà. Anche noi come Paolo ci sentiamo vasi di creta.
Ci è facile riscontrare le stesse debolezze e fragilità anche nelle persone che ci stanno accanto, in famiglia, così come nella comunità o nel gruppo di cui facciamo parte.
E come non pensare a queste parole di Paolo in questo mese in cui si celebra la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani? Noi cristiani nei secoli non siamo riusciti, nonostante il tesoro che Dio ci ha dato, a vivere in unità.

«Questo tesoro lo portiamo in vasi d’argilla»
Se guardassimo soltanto al vaso d’argilla che siamo noi, ci sarebbe proprio da scoraggiarsi. Ciò che invece vale, e su cui dobbiamo volgere tutta l’attenzione, è il tesoro che portiamo dentro! Paolo sapeva che il suo vaso d’argilla era inabitato dalla luce di Cristo: era Cristo stesso a vivere in lui e questo gli dava l’audacia di tutto osare per la diffusione del suo Regno.
Anche noi possiamo sperimentare il tesoro infinito che, in quanto cristiani, portiamo dentro di noi: è la Trinità Santissima. Mi guardo dentro e scopro come una voragine d’amore, come un abisso, come l’immenso, come un sole divino dentro di me.
Mi guardo attorno e anche negli altri, al di là del loro vaso di creta, che subito mi appare davanti con evidenza, imparo a scorgere il tesoro che lì inabita. Non mi fermo all’apparenza esteriore. La luce della Trinità che abita in noi, ci ha ricordato Giovanni Paolo Il, « va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto » .

«Questo tesoro lo portiamo in vasi d’argilla»
Come vivere questa Parola di vita?
Essa è rivolta a noi. Un noi che non esclude nessuno. « I cristiani devono far conoscere insieme questo tesoro che risplende glorioso nel volto del Risorto. » Però, per diventare pienamente consapevoli del tesoro che abbiamo, occorrerà entrare in comunione con esso. Sì, possiamo imparare a convivere con la Santissima Trinità, fino a perderci in essa. Possiamo avere un rapporto personale con ognuna delle tre divine Persone, col Padre e col Figlio e con lo Spirito Santo, in modo che sia Dio stesso a vivere e ad agire in noi.
Abbiamo il Padre. Nel nostro vaso di creta è presente un Padre. Possiamo gettare ogni sollecitudine in lui, ogni preoccupazione, come ci suggerisce l’apostolo Pietro . Perché così si fa con un padre: ci si affida a lui, in tutto e per tutto, con piena fiducia. E questo è un padre: il sostegno, la certezza del figlio che, come un bambino, si butta spensierato fra le sue braccia.
C’è anche il Figlio dentro di noi: il Verbo che, incarnato, è Gesù. C’è Gesù dentro di noi. Abbiamo imparato ad amarlo profondamente nelle sue diverse presenze: nell’Eucaristia, nella Parola, quando siamo uniti nel Suo nome, nel povero, nell’autorità che lo rappresenta…, nel profondo del nostro cuore. Possiamo persino imparare ad amarlo nei limiti, nelle debolezze, nei fallimenti, perché Egli ha assunto la nostra debolezza e la nostra fragilità pur non essendo peccatore. Per questo Gesù, Verbo incarnato, avendo condiviso tutto di noi, può sostenerci in ogni prova della vita, suggerendoci come superarla, per ridarci e luce e pace e forza.
E lo Spirito Santo. Quello Spirito in cui, come ad altri noi stessi, ci confidiamo sicuri. Che sempre risponde quando lo invochiamo e ci suggerisce parole di sapienza. Che ci dà conforto, che ci sostiene, e ci ama come vero amico, dandoci la luce.
Che vogliamo di più? Un solo Amore ha preso stanza nel nostro cuore: è il nostro tesoro. Il vaso di argilla, il nostro come quello degli altri, non sarà più un ostacolo, non ci scoraggerà più. Ci ricorderà soltanto che la luce e la vita che Dio vuole sprigionare in noi e attorno a noi non è tanto frutto delle nostre capacità umane, ma effetto della sua presenza operosa in noi, riconosciuta ed amata.
Allora, come Paolo, anche noi potremo tutto osare per il Regno di Dio e con più forza tendere alla mèta della piena e visibile comunione tra i cristiani, perché come lui possiamo ripetere: « Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi » (2 Cor 4,7).

LA BELLEZZA FERISCE – Gianfranco Ravasi

http://www.cultura.va/content/cultura/it/organico/cardinale-presidente/recensioni/art.html

LA BELLEZZA FERISCE

Gianfranco Ravasi

Discorso al Teatro durante il Cortile dei Gentili a Berlino

Nel suo ormai celebre film del 1987, Wim Wenders ha fatto volare nel cielo grigio di Berlino un angelo, pronto a perdere le ali della sua immortalità per stare vicino a un’artista di circo, ripetendo la vicenda di un altro ex-angelo, anch’egli sceso in questa città che è un grande emblema di vitalità artistica e culturale, soprattutto teatrale. Infatti, come non ricordare in questa sede la figura di Bertolt Brecht la cui opera conobbi nella mia città, Milano, attraverso le mirabili regie di Giorgio Strehler? È, quindi, con emozione che parlo in questo teatro, davanti a personalità di rilievo internazionale come quelle che tra poco ascolteremo.
Nella religione ebraico-cristiana la metafora estetica o ludica è divenuta una via analogica per rappresentare Dio stesso. È quella che già nel Medio Evo era chiamata la via pulchritudinis, ossia l’analogia della bellezza per cui – come si legge nel libro biblico della Sapienza – «dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia (analógôs) si contempla il loro Artefice» (13,5). In un altro testo scritturistico la Sapienza divina creatrice è rappresentata come una fanciulla che «gioca [o danza] in ogni istante, gioca [o danza] sul globo terrestre ponendo la sua felicità tra i figli dell’uomo» (Proverbi 8,30-31).
Così come esiste l’homo ludens, cioè la persona umana che libera le sue potenzialità creative, artistiche, culturali e sportive, attraverso le sue opere estetiche e atletiche condotte nella gratuità, libertà e creatività, così Dio crea l’universo e, come suggerisce il libro della Genesi nella sua pagina d’apertura, si ferma stupito a contemplare la sua opera: «Dio vide che era cosa bella/buona». L’aggettivo ebraico tôb ha, infatti, un’accezione sia estetica sia etica: è espressione del “bello” ma anche del “buono” e dell’“utile”.

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In questa luce fede e arte sono sorelle perché di loro natura – come diceva Paul Klee per l’arte – «non rappresentano il visibile ma l’Invisibile che è nel visibile». Henry Miller, lo “scandaloso” autore del Tropico del cancro, in suo saggio, La sapienza del cuore, affermava che, come la religione, l’arte «non insegna nulla, tranne che a mostrare il senso della vita». E non è certamente poco. La stessa liturgia ha una dimensione “drammatica”, come è evidente nella sua ritualità, nella scenografia del tempio, nell’apparato degli oggetti, delle vesti, degli atti. Essa è contemporaneamente numen e lumen, cioè mistero, trascendenza, sacro; ma è anche luce, visibilità, spettacolo, coinvolgimento dei sensi.
Si comprende, perciò, perché nel “secolo d’oro” della letteratura spagnola le rappresentazioni di un Calderon de la Barca o di un Lope de Vega venissero classificate nel genere degli Auto sacramental, con chiaro rimando al sacramento liturgico. Un altro celebre personaggio di quell’epoca storica, Francisco de Quevedo, allargava teologicamente il simbolismo teatrale: «La vita umana è una commedia, il mondo un teatro, gli uomini sono gli attori, Dio è l’autore. A lui tocca distribuire le parti, agli uomini recitarle bene».
Come accade nell’esistenza e nella stessa esperienza di fede, due sono i registri fondamentali del teatro: il dolore e la gioia, il dramma e la commedia. Per usare la mitologia greca, Dioniso e Apollo procedono insieme sulla strada della vita, della musica, dell’arte, del teatro. In modo folgorante Dostoevskij dichiarava che «la tragedia e la satira [commedia] sono sorelle e vanno di pari passo e tutte due insieme si chiamano verità». L’arte autentica cerca di esprimere questa verità anche nel suo aspetto oscuro.
Infatti, nella prima delle sue Elegie duinesi Rainer M. Rilke ricordava che «das Schöne ist nichts als des Schrecklichen Anfang». E a lui faceva eco Virginia Woolf nella sua opera Una stanza tutta per sé (1929) quando affermava in modo lapidario che «la bellezza ha due tagli, uno di gioia, l’altro di angoscia e taglia in due il cuore». L’allora card. Joseph Ratzinger in un testo del 1992 andava oltre affermando che «la bellezza ferisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo».
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La ferita si rivela, allora, come una feritoia che – similmente a quanto accadeva per i tagli delle tele di Lucio Fontana – si affaccia sull’infinito e sull’eterno, sull’assoluto, sul mistero, sul divino, a prescindere dalla fede o meno dell’artista. Purtroppo, a partire dal secolo scorso, si è assistito a un divorzio tra arte e fede. Da un lato, in ambito ecclesiale si è spesso ricorsi al ricalco di moduli, di stili e di generi di epoche precedenti, oppure ci si è orientati all’adozione del più semplice artigianato o, peggio, ci si è adattati alla bruttezza che imperversa nei nuovi quartieri urbani e nell’edilizia aggressiva innalzando chiese simili a garage sacrali ove è parcheggiato Dio e vengono allineati i fedeli.
D’altro lato, però, l’arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religiosi, i simboli, le narrazioni, le figure e tutto quel “grande codice” che era stata la Bibbia. Ha abbandonato come pericolosa ogni proposta di un messaggio, considerandolo un capestro ideologico, si è consacrata a esercizi stilistici sempre più elaborati e provocatori, si è rinchiusa nel cerchio dell’autoreferenzialità, si è affidata a una critica esoterica incomprensibile ai più, e si è asservita alle mode e alle esigenze di un mercato non di rado artificioso ed eccessivo.
Ora si sta registrando un avvicinamento. Il Pontificio Consiglio della Cultura da me presieduto ha presentato, proprio quest’anno, un Padiglione della S. Sede alla Biennale d’Arte di Venezia – che si è chiusa la scorsa domenica – con una trilogia tematica che si lega alle pagine di apertura della Genesi biblica, affidandole alla libera rielaborazione di tre artisti dalle diverse esperienze anche personali: l’italiano Studio Azzurro, il boemo Josef Koudelka, l’australiano Lawrence Carroll. I temi proposti sono stati la creazione, la de-creazione, la ri-creazione.
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Persino certe espressioni blasfeme o dissacranti che hanno recentemente avuto una forte eco rivelano, in ultima analisi, non solo l’impatto forte che i grandi simboli e i temi religiosi conservano anche in una società secolarizzata, ma manifestano forse la nostalgia di segni e immagini che hanno costituito una straordinaria fonte d’arte e di cultura per due millenni. Come confessava Chagall, «per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che sono le S. Scritture.».
È per questo che riserviamo una particolare attenzione al dialogo che ora seguirà. E anche se discussa e non aliena da rischi, accettiamo l’esaltazione della gratuità dell’arte presente in una considerazione che ancora Bertolt Brecht – la citazione in questa sede è obbligatoria – faceva nel suo Breviario di estetica teatrale: «Da che mondo è mondo, compito del teatro, come di tutte le altre arti, è ricreare la gente. Questo compito gli conferisce sempre la sua speciale dignità».

MIchelangelo, “Christ crucified between the Virgin and Nicodemus”

MIchelangelo, “Christ crucified between the Virgin and Nicodemus” dans immagini sacre Michelangelo_Christ_Crucified_between_the_Virgin_and_Nicodemus

http://ctktexas.com/2013/09/

Publié dans:immagini sacre |on 7 mai, 2014 |Pas de commentaires »

TRIPLICE GLORIA DELLA CROCE

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20010911_vincenzo-ferrer_it.html

TRIPLICE GLORIA DELLA CROCE

Dai «Discorsi» di san Vincenzo Ferrer, sacerdote (Disc. suIla Croce, Festivale, serm .44, ed. Ehrard, 1729, p. 145 ss).

« Lungi da me di gloriarsi se non dalla croce di nostro Signore Gesù Cristo ». Così sta scritto nella lettera ai Galati (6,14). Questo è il tema del nostro discorso. Anzitutto le parole «Lungi da me» vanno applicate alla stessa persona di Cristo che muore in croce. Appare chiaro dalla sacra Scrittura che Cristo fu molte volte in pericolo di morte da parte dei Giudei, che fecero vari attentati alla sua vita,
ma a lui non piacque alcun altro modo di moire se non in croce, sottraendosi agli altri modi con la fuga o con altri mezzi. Una prima volta fu in pericolo di morte appena nato. Regnava allora lo straniero Erode, che col favore dell’imperatore romano ottenne il dominio dei Giudei. Costui, udita dai Magi la nascita del re dei Giudei e informatosi del luogo dai rabbini ebraici, decise di ucciderlo… Ma l’angelo del Signore apparve a Giuseppe e gli disse di fuggire in Egitto col Bambino e con sua Madre. Così Cristo fu salvo. E si adempì la profezia di Giobbe: «Colpirono i bambini di spada, e io solo scampai» (cfr. Gb 1,15).
Egli cominciò a predicare e a operare miracoli nella città di Cafarnao. Allora i Giudei dissero: «Le grandi cose che abbiamo sentito operate da te in Cafarnao, falle anche qui nella tua patria» (Lc 4,23). Gesù rispose loro con un proverbio che non le meritavano, perché non credevano in lui, anzi lo disprezzavano dicendo: «Non è costui il figlio dell’artigiano e di sua moglie Maria?» (Mt 13,55). E tutti pieni di ira, si sollevarono, lo cacciarono fuori di città, e lo menarono sul ciglio del monte, dove era costruita la loro città, per precipitarlo giù. Egli però si rese invisibile; onde essi l’andavano in cerca ripetendo: E dov’è? «Gesù invece se ne andava passando in mezzo a loro» (Lc 4,30). Perché non volle morire in questo modo? Se l’avesse voluto, anche con tale morte avrebbe salvato tutto il mondo. Ma non volle morire così per darci una lezione. Una terza volta corse il pericolo di morire lapidato. Come scrive l’evangelista Giovanni. Fu quando Cristo predicava ai Giudei della sua città dicendo: «In verità, in verità vi dico, se uno osserverà la mia parola, non vedrà la morte in eterno» (Gv 5.24).
Infine Cristo incorse nel rischio di morire in croce, cioè crocifisso. Questo modo di morirgli piacque, l’accettò. Vedendo i Giudei che non avevano potuto ucciderlo precipitandolo, lapidandolo, né avvelenandolo, dissero: «Muoia crocifisso, ossia confitto in croce» (Gv 19,6), e gli apparecchiarono una croce. Allora Cristo predicava nella regione della Galilea, e sapendo che ormai i Giudei gli avevano apparecchiato una croce, disse ai discepoli:
«Sù, saliamo a Gerusalemme, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti agliscribi, e lo condanneranno a morte» (Mc 10,33). Quindi non per forza, ma per sua concessione andò alla morte di croce e, pronunziata la sentenza da Pilato, non si appellò, né si scusò, ma Giovanni dice che « portandosi la croce uscì verso il luogo detto del Calvario » (Gv 19,17).
Perché questo modo di morire lo preferì a tutti gli altri? Già lo sapete, ogni male sia delle anime —come l’ignoranza, le prave inclinazioni — sia anche dei corpi — come le malattie, i travagli, le fatiche, e infine la morte — tutto deriva dal peccato di Adamo e di Eva, perché il peccato nacque dall’aver colto il frutto proibito. Cristo quindi venne a riparare tutti i mali e delle anime e dei corpi. Egli è appunto quel frutto, di cui è detto alla Vergine Maria: «Benedetto il frutto del tuo grembo» (Lc 1,42). Questo frutto è tornato al suo albero. Perciò antiche storie greche riferiscono che l’albero della croce era ricavato dalla stessa pianta, da cui Adamo colse il frutto. Quindi quando Cristo fu su l’albero della croce, allora fu restituito all’albero il frutto, ed egli riparò tutti i mali derivati dal peccato di Adamo nel giusto ordine, prima quelli dell’anima, poi quelli del corpo. Sicché Cristo eliminò i mali delle anime, dando come rimedio il battesimo, per cui sono rimessi tutti i peccati, e ci restituì la scienza, annunciadoci la gloria del paradiso. Quando poi ritornerà, e ben presto, per il giudizio universale, allora eliminerà anche i mali dei corpi, giacché risorgeremo impassibili e immortali. Ecco perché volle morire in croce. »

A cura dell’Istituto di Spiritualità:
Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino 

LA LIBERTÀ DALLA LEGGE E NELLO SPIRITO/2 – COMMENTO A ROM 8, 14-17

http://www.atriodeigentili.it/lectio/1999_00/200002.htm

Associatio Sanctus Benedictus Patronus Europae

Lectio Divina
Chiamati a libertà: il Giubileo tempo di Grazia
Stella Morra – 14 febbraio 2000
Monastero Cistercense – Fossano

LA LIBERTÀ DALLA LEGGE E NELLO SPIRITO/2 – COMMENTO A ROM 8, 14-17

Il testo di questa sera è tratto dal capitolo 8 della lettera ai Romani e scherzosamente mi verrebbe da dire che è inutile che io faccia la lectio questa sera in quanto Padre Cesare, commentando il capitolo 6, lo scorso mese, ha debordato su molti temi che sono centrali anche in questo testo, ma sono temi di una tale rilevanza che ripetere non guasta.
Cercherò di dire alcune cose, sentendomi anche più libera, in quanto la volta scorsa appunto padre Cesare ha trattato con completezza una grossa riflessione sulla questione della libertà dal peccato, del passaggio dalla condizione di schiavi alla condizione di figli.
Dunque il capitolo 8: vi propongo di leggerlo tutto in quanto il testo è molto strutturato, poi ci fermiamo in particolare su alcuni versetti e non su tutti perché sarebbe impossibile. (lettura)
Mi rendo perfettamente conto che questo testo, letto così tutto di fila, fa spavento; presenta inoltre alcuni problemi: è un testo abbastanza usato nella liturgia, per cui l’abbiamo un po’ nell’orecchio, soprattutto alcune citazioni più famose, quindi sono parole “automatiche”, parole che siamo abituati a sentire nella Scrittura, che rischiano di rimanere scolpite, ma senza vita; secondo perché qui, in modo particolare, Paolo usa molto fortemente delle parole del suo tempo e, in particolare, in questo testo, parole che noi usiamo ancora, ma in modo completamente diverso, rispetto all’uso che ne fa san Paolo, il che è peggio che usasse parole ormai a noi sconosciute. Ad esempio, per la parola “dracma”, che non si usa più abitualmente nel nostro linguaggio, ci è stato spiegato il significato. Al contrario, quando ad esempio Paolo dice “carne” noi abbiamo la sensazione di sapere che cosa sta dicendo perché questa è una parola che si usa anche oggi, però il modo in cui Paolo la usa è talmente diverso che rischiamo di capire tutto il contrario. Dunque questa è la difficoltà: Paolo usa delle parole molto proprie della sua cultura, ma sono parole di uso comune che a noi sembra di riconoscere. Poiché questo testo è molto costruito (noi diremmo: non è scritto di getto) se ci perdiamo sulle parole, o le comprendiamo al contrario, tutto il testo perde il suo senso.
Visto che ci sono tutti questi limiti, perché è stato scelto questo testo? Mi sembra che questo testo, una volta “tradotto” è di una tale modernità nel suo contenuto, di una tale lucidità rispetto ad alcuni temi problematici su cui ci stiamo provando a riflettere che, forse, vale la pena di fare questa fatica di tradurre per poter entrare nel senso.
Noi stiamo tentando di fare una specie di itinerario intorno al tema del Giubileo, trattato come una chiamata a libertà e abbiamo visto la fondazione ebraica dell’evento del Giubileo, la sua fondazione storica, poi l’annuncio di Cristo (cap. 4 di Luca) quando Gesù si alza in piedi nella sinagoga e legge il testo di istituzione del Giubileo in Isaia e dice: “oggi questa parola si è adempiuta”. La volta scorsa e questa sera il passo che stiamo facendo, con questi due testi di Paolo, è: qual è, in fondo, la differenza tra il messaggio di conversione predicato dal Giubileo ebraico e il messaggio di chiamata a libertà e di ritorno al Padre predicato dal Giubileo cristiano?
Mi pare che valga la pena di fermarsi un po’ in quanto su queste domande su cui c’è spesso confusione. Un po’ perché non sapendo come spiegare il Giubileo ci si richiama all’uso ebraico, equiparando il Giubileo solamente a un percorso di ricostituzione della giustizia. Anche nel Giubileo cristiano l’esito deve essere visibile: non è un teorico ricostituire la giustizia; il giubileo chiede che sia instaurato un anno di giustizia, un anno, un tempo, nel senso di un nuovo inizio di giustizia, una nuova possibilità. Nel Giubileo cristiano tuttavia questa non è l’identità del Giubileo, ma ne è la logica conseguenza. Qui il passaggio è importante ed è un passaggio che Paolo nella tradizione religiosa definisce come il passaggio dalla legge allo spirito.
Padre Cesare vi ha già parlato a lungo di che cosa vuol dire che “non siete più sotto la legge, ma siete nella libertà dello spirito” Questo è il punto in cui si colloca questo brano. Ne parliamo a partire da lì. Faccio una esemplificazione a margine: questa questione può sembrare teorico-culturale, ma ha una rispondenza molto forte e concreta nelle nostre vite. In sostanza, con tante sfumature, ma, se il cristianesimo è una religione della legge, allora si tratta di fare alcune cose per provare ad essere cristiani; se il cristianesimo non è, come non è, una religione della legge, allora essere cristiani vuol dire altre cose. E’ una questione molto concreta: riguarda che cosa si mette al centro di una esperienza di fede. E’ vero che viviamo in una cultura che nei fatti ha interpretato che la questione centrale di un cristiano come non peccare, cioè non infrangere una serie di leggi.
Rimane la legge, rimane la preoccupazione di non peccare, ma non sono il centro: se la questione è “lo spirito” e non la legge, il non peccare è una conseguenza. La riduzione del cristianesimo alla classificazione dei comportamenti su di sé e, peggio ancora, sugli altri, è una valutazione non lecita. Il cristianesimo non è l’analisi e la valutazione dei comportamenti.
In questo ragionamento il cap.8 comincia con un versetto che è di una limpidezza, di una durezza molto forte. Siamo abituati ad avere, nella Bibbia di Gerusalemme, ma anche in altre edizioni, una divisione oltre che in versetti, anche in paragrafi con dei piccoli titoli: questo è dovuto all’uso moderno di avere titoli nei libri, titoli di capitoli, di paragrafi, ecc., Questo non era un uso antico. Gli antichi avevano un altro modo di “segnalare” l’argomento: scriverlo nelle prime righe. Il primo versetto di una sezione, in genere, dice che cosa ci sta dentro. Quando leggiamo la Scrittura dovremmo sempre tenere conto di questo e non leggere istintivamente, da moderni, il titolo, che in genere è extrascritturale, cioè aggiunto dall’edizione, e poi tendiamo a sottovalutare l’inizio, perché nel nostro modo di scrivere, all’inizio, in genere, c’è la premessa, mentre verso la metà c’è il centro del ragionamento. Perciò leggendo la Scrittura spesso ci perdiamo il segnale che ci viene dato dall’autore nella prima riga.
Dunque, nel versetto 1, Paolo inizia questa unità di ragionamento con parole molto secche: “Non c’è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù”. Non dice: non c’è più nessuna legge, dice: non c’è più nessuna condanna, il che è diverso, ovviamente. Ma lo dice in un modo fuori da ogni possibilità di equivoco. Su questo versetto c’è poco da interpretare, almeno sull’intenzione di Paolo.
Questo sarebbe il titolo, ma anche il punto di partenza. Da qui in poi tutti i ragionamenti di Paolo sono a partire da questo versetto, a partire dal fatto che per quelli che sono in Cristo Gesù non c’è più nessuna condanna. Si noti anche che qui Paolo, per indicare la fede, non usa l’espressione “credere in Cristo Gesù” che, pure conosce e usa, ma “essere” in Cristo Gesù. In modo semplificato potremmo dire che questo versetto ci introduce in un altro “campo di gioco”. Tutto quello che abbiamo in testa su quello che vuol dire essere credenti, sforzarsi di essere buoni, di fare i conti di quanto si è stati buoni, e poi “ammorbidito” in quanto dopo il Vaticano II non siamo più così moralisti, ma sostanzialmente si rimane sull’idea che tutta la questione si gioca su come ci comportiamo, perché questa poi rimane la struttura fondamentale e sul fare giusto o sbagliato: tutto questo è qui radicalmente messo in discussione. E questo non esclude un giudizio o una valutazione sui comportamenti: i comportamenti possono essere comunque buoni o cattivi: quello che non c’è più è la condanna. Noi siamo in Cristo redenti. E dunque la conversione che ci è richiesta dal Giubileo non è la “condizione per”, la conversione del Giubileo è “il segno di”. Il passare dall’idea che i comportamenti sono la condizione per qualcosa, e cominciare a pensare che i comportamenti, la storia, la vita, le cose che accadono sono il “segno” di qualcosa, è un cambiamento radicale. Questo è un modo per dire concretamente la differenza tra legge e spirito. E’ chiaro che ci sono comportamenti che possono essere segno di un male. Esattamente come certi sintomi sono segni di un certo tipo di malessere. Quando il medico mi chiede i sintomi, ha il problema di definire un quadro per capire qual è il male da curare. Nessuno di noi si sente valutato migliore o peggiore malato in base ai sintomi che ha. I sintomi non hanno di per sé un valore: ci sono sintomi più gravi e sintomi meno gravi, sintomi chiari o meno chiari, sintomi che richiedono interventi urgenti, altri no. Così i comportamenti, giusti o sbagliati, il ritrovarsi nella comunione con lo spirito della legge, o no, è sempre soltanto il sintomo di qualcosa che accade altrove. Dunque quando un comportamento è un male in genere è segno di qualcosa da curare. Ma il problema di Gesù è curarlo, non giudicarlo.
“Non c’è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” è l’indicazione che da Cristo in poi il male è il segno di qualcosa, e di qualcosa su cui la misericordia di Dio in Cristo si è chinata, e che vuole curare, ma non la curerà senza di noi.
Ci fermiamo ora su una coppia di termini: carne e spirito. Già padre Cesare diceva l’altra volta che quando Paolo dice carne non intende la corporeità, con tutto ciò che è ad esso collegata, ma intende la dimensione fragile dell’umanità. Da questo punto di vista culturalmente noi siamo esattamente capovolti rispetto a quello che intende Paolo.
In questo secolo, che è il secolo della psicanalisi, noi facciamo l’esperienza della fragilità sulla psiche, non sul corpo. A torto o a ragione, abbiamo come idea diffusa che il corpo può essere un problema, ma è soprattutto una risorsa, un dato positivo di espressione, di possibilità, salvo poi digerire a fatica ogni menomazione del corpo che ci capita di subire, mentre quando si parla, ad esempio, della depressione, ci rendiamo conto che culturalmente per noi questo senso di fragilità è di una fragilità a cui siamo sottoposti quasi impotenti di fronte alla fatica che questa fragilità può imporci riguardo alla psiche. Al tempo di Paolo era esattamente il contrario. Dal mondo greco Paolo aveva l’idea che quella che noi chiamiamo psiche, l’aspetto razionale dell’uomo, così si diceva allora, era l’aspetto nobile che si educava, si allenava: era la risorsa. Per cui gli uomini si distinguevano tra quelli che avevano un pensiero razionale ed astratto sviluppato e allenato e coloro che erano rozzi da questo punto di vista, perché quella era la grande risorsa. Mentre la cultura in cui Paolo vive lega la carnalità ai ritmi della natura, in modo estremamente più forte rispetto al modo in cui la leghiamo noi. La vita corporea era estremamente fragile e in balia di mille difficoltà, fragile anche nelle sue passioni, nelle sue capacità di interpretazione: c’era una cultura che non sapeva riconoscere che cosa accadeva nel corpo, nella carne.
Quando Paolo contrappone la carne allo spirito in qualche modo, ha dietro questa cultura per cui la carne è la debolezza (e il pensiero greco viene poi passato da Paolo nel pensiero ebraico), quindi la carne è connessa al trema del peccato originale, quindi la fragilità esperienziale, naturale, viene rinforzata dall’idea della ribellione a Dio e quindi la carne rappresenta la totalità dell’uomo nel suo aspetto di fragilità, sia quella naturale, esperienziale, culturale, sia quella poi che è passata attraverso l’AT e il racconto di Genesi, mentre lo spirito rappresenta l’idea culturale della ragione, della razionalità. E la parte nobile, sapiente, dell’uomo, si arricchisce ancora, nel pensiero veterotestamentario di Paolo, dell’idea di sapienza, cioè dell’idea di quella Presenza creatrice e ordinatrice di Dio che organizza il mondo, che lo rende bello da vedere e funzionante Quindi il principio della razionalità umana diventa riflesso del principio ordinatore di Dio rispetto a tutto il cosmo. Quindi si capisce un po’ meglio che cosa dice Paolo quando parla di desiderio della carne e di desiderio dello spirito.
Qui c’è una parola che noi conosciamo molto bene: desiderio. Parola culturalmente reale, molto vera. Noi sappiamo che cosa significa desiderare. Viviamo in una cultura, in un tempo che ha talmente paura della potenza dei desideri che si è inventata mille modi per esorcizzare questa paura, per rimuovere, nascondere, riordinare, organizzare i desideri. Impariamo fin da bambini che esprimere desideri va bene, ma possiamo poi essere delusi. Perché non tutti i desideri possono essere esauditi. Questo indica in genere una realtà che è percepita come molto potente, proprio perché i desideri sono molto potenti. La psicanalisi ci ha insegnato che i desideri ci conformano: fanno di noi quello che siamo. Quando Paolo parla di carne e spirito, della dinamica che si innesta tra carne e spirito, la nostra parte migliore e la nostra parte peggiore, di per sé non sono ancora niente perché sono come una macchina senza un carburante. Il carburante che ci spinge dall’una o dall’altra parte sono i nostri desideri.
Mi pare che questo discorso sia di una modernità incredibile. Quando si hanno quindici anni si pensa che tutto ci è possibile, si hanno tanti amici e ci si vive come tutti uguali, se pensiamo ai nostri compagni di scuola non ricordiamo particolari differenze; poi ci sono dei momenti della vita in cui, intorno a piccoli episodi, uno scopre improvvisamente che gli altri quindicenni, che nel frattempo hanno vent’anni come lui, per esempio erano più ricchi di lui, o più poveri di lui, più felici di lui, o più infelici di lui, che non erano uguali o che comunque diversi sono diventati, per cui si scopre che non si ha più niente da dirsi. Quando Paolo dice che ci sono i desideri della carne e i desideri dello spirito, dice che nella vita non è tutto uguale, che si diventa diversi, e che non si diventa diversi casualmente. Nella vita non accadono le cose perché c’è chi decide al posto nostro; le cose accadono perché si seguono i desideri della carne o quelli dello spirito, cioè i desideri della nostra parte fragile, impaurita, in cui la paura è più forte del coraggio, della nostra parte che non cerca la verità di noi stessi, oppure perché si seguono i desideri di quella parte che ha più coraggio che paura, non che non ha paura, perché non c’è nessuna parte di noi che non ha paura, ma siccome in genere abbiamo tanta paura, ci vuole tanto coraggio, quella parte di noi che è disponibile a bruciarsi anche un po’ per trovare quella parte di verità di noi stessi.
Seguire i desideri della carne e i desideri dello spirito fa la nostra vita diversa, e fa la storia diversa. Credo che se mettessimo in questa idea la stessa convinzione che mettiamo nel monitorare in buoni o cattivi, giusti o sbagliati, tutti i singoli pezzetti di comportamento, avremmo la capacità di cambiare il mondo. Il sapere che nella nostra vita quotidiana possiamo fare alcune sciocchezze, ma se l’orientamento di fondo è quello di seguire i desideri dello spirito, queste quotidiane sciocchezze prima o poi, dalla fantasia di Dio, vengono reinglobate per ridonarle alla realtà salvifica. Invece io posso essere anche la persona più corretta di questo mondo (un altro mito di questo secolo, nel quale il centro non è più la giustizia, ma la correttezza, il rispetto di tutte le regole), ma distruggo me e il mondo, anche se materialmente non faccio niente di male.
Paolo dice che i desideri della carne, cioè i desideri della parte che non cerca la verità di noi, della parte che ha paura, della parte che non sa stare in piedi nella propria esistenza, sono desideri che uccidono, al di là e prima e dopo la legge.
Padre Cesare diceva la volta scorsa che la legge è pedagogo da una parte e dall’altra svela a noi stessi la nostra stessa malizia, cioè la legge ci aiuta quando rischiamo di confonderci, ci indica quale parte di noi stiamo seguendo. Questa è la funzione della legge: ci deve mostrare per sintomi che se uno si trova in una certa costellazione di comportamenti, c’è una buona probabilità che stia seguendo una parte di sé impaurita e non vera.
In seguito Paolo comincia a scrivere Spirito in maiuscolo, per parlare di Spirito di Gesù. Secondo me qui comincia ad essere un po’ più facile. Paolo dice: i desideri della carne e dello spirito riguardano l’uomo, ma “quelli che vivono secondo lo spirito desiderano le cose dello Spirito”. Cioè anche Gesù, che ha ricevuto una carne simile a quella del peccato per redimere dal peccato, anche Gesù aveva uno spirito e se noi seguiamo i desideri dello spirito stiamo nello spirito delle cose di Gesù. Paolo sa bene che secondo la creazione in noi c’è l’immagine e la somiglianza di Dio e che il Figlio è il volto del Padre. Dunque chi cerca la verità di sé trova Gesù, trova il volto del Padre.
Quello che Paolo sta dicendo è che la redenzione che Cristo ci offre non è un’opera dall’esterno: Gesù prende una carne come noi, per mostrarci, per darci un segno che l’immagine di Dio che è posta in noi, il soffio di Dio che ci è stato dato nella creazione, è lo stesso spirito che è lo Spirito Suo e del Padre, e dunque se seguiamo i desideri dello spirito prima o poi lo incontreremo, porteremo di nuovo in luce quella immagine di Dio che è nascosta nei nostri cuori. La redenzione è questa operazione dal di dentro: non placare un Dio ansioso di vendetta, ma ricostituire la possibilità per noi di ritrovare i desideri dello spirito e di riconoscerli come desideri dello Spirito di Gesù.
E questo non avviene a caso, e non avviene senza di noi. Il nostro volto, cioè ciò che ci identifica di più, non può essere visto da noi stessi se non tramite uno specchio; cioè siamo costruiti in modo che la realtà più profonda di noi ci arriva sempre riflessa da qualche parte. Non potremmo nascere,.vivere e morire da soli in un’isola deserta. C’è qualcuno o qualcosa, sempre, che ci rende a noi stessi. Per esempio, chi ci vuole bene. I credenti sanno che innanzi tutto Dio ci rende a noi stessi. L’esperienza storica quotidiana è che noi siamo quello che siamo perché abbiamo avuto un certo padre, una certa madre, una certa vita familiare che ci hanno rimandato tante cose belle, tante paure, :il bene e il male che ci hanno dato. Ognuno di noi sa, per esempio, che ci sono cose di sé che scopre solo se è amato da qualcuno, perché altrimenti non le avrebbe mai sapute. Le aveva dentro evidentemente da qualche parte, ma erano come disattivate.
Gesù ci dona il suo Spirito: significa che ci pone sotto il suo sguardo, sotto lo sguardo del Padre, perché siano richiamati in vita quella totalità di desideri di noi che non abbiamo disponibili. Per questo si dirà più avanti, verso la fine del capitolo: “ Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto ed essa non è la sola, ma anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli e la redenzione del nostro corpo.”
Spero che questo versetto cominci ad essere più comprensibile. Cioè l’esperienza che noi facciamo nella nostra vita è, in qualche modo, partorire noi stessi. Attraverso le doglie del parto ritrovare la più profonda verità di noi, che è l’immagine di Dio e darle luce, darle vita, partorirla al mondo. E questo richiede gemiti e sofferenze perché non si nasce senza prezzo.
Ci sono poi i versetti 14-17 dei quali ha già detto alcune cose padre Cesare, su figli e schiavi. Anche questa è un’accoppiata molto chiara in una società come quella in cui viveva Paolo. C’era un’esperienza normale, quotidiana della schiavitù: tutti sapevano come vivevano gli schiavi. C’era poi un’esperienza della famiglia per cui dire figlio voleva dire alcune cose. Noi non sappiamo più come vivevano gli schiavi e pensiamo di capire che cosa voglia dire figli, ma comprendiamo nell’idea attuale, che è incomparabilmente diversa da ciò che si dice qui. Non a caso qui figlio è detto in contrapposizione a schiavo, cioè figlio è detto per dire una dignità. Ciò che Paolo dice in questi versetti è: se siamo figli, siamo anche eredi. A noi non verrebbe in mente di accoppiare immediatamente la parola figli alla parola eredità, ci parrebbe anche un po’ di cattivo gusto. Per Paolo invece è normale perché figlio indica una condizione giuridica: non è un dato, come nella società post romantica, di tipo sentimentale, affettuoso; il che non vuol dire che i padri non volessero bene ai figli, ma l’indicazione che Paolo dà è un’indicazione di collocazione giuridica. Cioè dice che in Cristo noi abbiamo un nome socialmente riconoscibile, dice la nostra dignità di fronte a Dio. E’ come se noi acquisissimo un titolo. Quando Paolo dice: figli e non schiavi, dice: avete questa collocazione. Questo è il vostro posto di fronte a Dio, questa è la dignità: figli ed eredi.
Se noi rendiamo questa riflessione sulla paternità di Dio come una riflessione post romantica, cioè una riflessione tipo quella che noi facciamo sulla famiglia, poi ci tocca fare la “psicanalisi” su Dio, nel senso che essere figli è sicuramente una gran bella idea, ma non è solo una bella idea, è anche una serie di altre cose: alcune complessità, alcune fatiche. Cioè essere figli, così come essere genitori è il nome relazionale di una situazione amorosa e preziosa certamente, ma anche per questo molto complessa. Ed è vero che poi rispetto a Dio è la stessa cosa, cioè abbiamo una relazione amorosa e preziosa, ma anche complessa. Quando Paolo qui dice figli e non schiavi non addita questa costellazione. Noi spesso interpretiamo “figli o “quando pregate dite Padre”, in un senso affettivo: Dio è padre, quindi vuol dire che è buono, che ci vuole bene, che ha misericordia. Questa è una lettura anacronistica rispetto al testo. Dio ci vuole bene ed è buono: questo ce l’ha dimostrato mandandoci suo Figlio, sacrificando l’erede, che in una civiltà antica è il peggio che ti può succedere nella vita. Il primogenito maschio era quello da salvare a tutti i costi. Dio ci vuole bene e ce l’ha dimostrato sacrificando il figlio. Quando si dice che Dio è Padre nella Scrittura si dice che Dio ha una responsabilità accettata nei nostri confronti e che si prende cura di noi. Il Padre si occupa di noi, lo deve fare, per diritto giuridico. Non ha possibilità di scelta. E non a caso tutta la Scrittura per il paragone del rapporto tra Dio e l’umanità usa il paragone dello sposo e della sposa, in cui l’umanità è sempre la sposa, che dice certamente una relazione amorosa, ma dice anche un dato giuridico. Nella civiltà in cui la Bibbia è stata scritta, la sposa aveva uno stato di minorità giuridica, era totalmente in carico alla responsabilità dello sposo. Così come il figlio era totalmente in carico alla responsabilità del padre. Tutti coloro che erano minores, cioè non maschi adulti, erano sempre in carico a qualcuno, a un padre, a un marito.
Guarda caso la Bibbia usa sempre per l’umanità una terminologia familiare che la pone in carico a Dio. Ciò che la Bibbia dice è che Dio si fa carico di noi. E dunque se siamo figli siamo anche eredi, non solo si fa carico adesso, ma si fa carico anche nel pensare il nostro futuro, che è il senso dell’eredità. Tutto questo non è dato allo schiavo. Lo schiavo è colui che non è in carico a nessuno perché non è persona, è quello su cui il padrone ha diritto di vita e di morte, senza giustificare la scelta che fa. In Cristo noi siamo figli e non più schiavi.
Poi c’è il lungo paragrafo del quale ho già letto un paio di versetti, sulle doglie del parto, e l’attesa dell’adozione a figli e la redenzione del nostro corpo che non a caso Paolo mette insieme: la condizione di essere presi in carico da Dio fa sì che la redenzione di quella parte fragile di noi non è più a carico nostro, ma essendo a carico di Dio, non è più un problema. Poi conclude dicendo: “allo spesso modo, anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio”.
Paolo chiude il cerchio rispetto a “non vi è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù”, cioè dice: non abbiate paura di confondervi sui vostri desideri. La Scrittura non è la psicanalisi, non ci si può sbagliare, perché lo Spirito intercede con gemiti inesprimibili per esprimere ciò che è conveniente chiedere, da una parte, dall’altra “Colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello spirito”, che è il motivo per cui è sempre piuttosto rischioso chiedere a Dio, perché se non si viene ascoltati uno rischia di rimanerci un po’ male, ma se si viene ascoltati uno di solito ci rimane peggio, nel senso che normalmente quando Dio ascolta una richiesta l’esito è tendenzialmente molto diverso da quello che noi avevamo immaginato formulando quella richiesta.
Questo testo è un testo veramente di grande fiducia, e soprattutto è un testo di grande libertà perché quello che sta a noi è vivere. Noi abbuiamo tutte le energie da poter mettere nella fatica e nella gioia della nostra vita, senza doverci stremare nell’autogiudicarci e nel chiederci continuamente se è giusto se è sbagliato, se abbiamo giustamente o malamente interpretato, perché per coloro che sono in Cristo Gesù non c’è più nessuna condanna.
Allora la questione è vivere rimanendo in Cristo Gesù, che è meno difficile di quanto sembri, nel senso che questa è una preghiera che Dio ascolta sempre. Se qualcuna lo desidera e lo chiede Dio ce lo tiene, lo fa rimanere in Cristo Gesù. Perché l’unica cosa da fare per rimanere in Cristo Gesù è desiderare profondamente esserci, come insegnano tutti i mistici. Non è che rimanere in Cristo Gesù voglia dire chissà quale strana cosa, vuol dire una cosa molto semplice. E’ la storia di un amore, fatta di tante cose, ma soprattutto di un grande desiderio.

Publié dans:Lettera ai Romani |on 7 mai, 2014 |Pas de commentaires »

The icon of the Mother of God of Akhtyr

 The icon of the Mother of God of Akhtyr dans immagini sacre Akhtyr

http://www.reginamundi.info/icone/Akhtyr.asp

Publié dans:immagini sacre |on 6 mai, 2014 |Pas de commentaires »
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