The grieving Virgin cannot be consoled by John, the Apostle, who looks up in consternation at a saddened God.

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“GLORIA” E “CRETA” UNO SPECCHIO PER LE CHIESE (SAN PAOLO)
Di TECLE VETRALI
Il rapporto fra il tesoro e la creta è un’immagine molto efficace per illustrare il rapporto fra ciò che vale e ciò che non vale, fra ciò che è centrale e ciò che è accessorio, fra ciò che permane e ciò che è perituro e, in definitiva, fra ciò che merita il nostro interesse e la nostra concentrazione e ciò che, invece, può solo sviare e ingannare. Paolo applica l’immagine nella difesa del suo apostolato, considerato come un tesoro glorioso, portato, però, nel vaso fragile e umile della natura umana, fatta di carne ed esposta a numerose debolezze. Questa debolezza umana, però, non deve trarre in inganno, né indurre a screditare il suo ministero apostolico, che rimane splendido in quanto trasmette la gloria di Dio. E’ proprio in questo contrasto fra la gloria che ha la sua origine in Dio e la debolezza di chi la trasmette che si manifesta l’autenticità del ministero. La gloria di Dio si è manifestata nella debolezza dell’incarnazione. Così nell’apostolo e nell’annunciatore del vangelo coesistono la potenza e la gloria di Dio e la debolezza del trasmettitore. Questa debolezza, anziché offuscare, mette in maggiore risalto la sublimità e la potenza della presenza della gloria di Dio. Con questo concetto e con questa immagine Paolo traccia l’identikit dell’opera di Cristo e del proprio ministero, ma anche della vita della chiesa e dell’esperienza cristiana.
Ci si può chiedere perché è stato scelto questo passo biblico come tema per la settimana di preghiere per l’unità dei cristiani del 2002. Gli estensori del programma si esprimono chiaramente: “L’unità dei cristiani deve costituire il paradigma dell’unità del genere umano. I cristiani posseggono ‘un tesoro in vasi di creta’ (2 Cor 4,7) che è la gloria di Gesù Cristo, il Signore, vincitore sopra il peccato, la morte, la persecuzione e l’odio. Questo tesoro è, come dice Paolo in 2 Cor 4,5-6, la conoscenza della gloria di Dio che risplende in Gesù, poiché egli ha rivelato la profondità dell’amore di Dio e la misericordia per l’intera creazione, in special modo per i poveri della terra. Il testo 2 Cor 4,5-18 ci invita a riconoscere che disponiamo di un tesoro che non ci appartiene ma che è dono di Dio per rafforzarci nei momenti di angoscia e infonderci coraggio nella tristezza. Portiamo questo tesoro nella fragilità della nostra natura umana affinché sia chiaro che tale dono ha origine in Dio e non è opera nostra. Dio ci invita a dargli testimonianza tramite la nostra debolezza umana”. E’ opportunamente richiamato alla memoria un principio di grande portata e urgenza nel campo ecumenico: nessun dono ricevuto diventa proprietà del beneficiario, che permane nella sua debolezza e in tutti i suoi limiti.
Il tema richiama pure il titolo di un documento che la commissione teologica “Fede e Costituzione” ha presentato all’assemblea del Consiglio ecumenico delle chiese ad Harare (Zimbabwe) nel 1998 dal titolo: A Treasure in Earthen Vessels. An Instrument for an ecumenical hermeneutics (Faith and Order Paper n. 182), WCC, Ginevra 1998; traduzione italiana: Un tesoro in vasi d’argilla, in Il Regno – Documenti 45 (2000) 3, 117-126. Nella prima parte il documento sottolinea come il mistero di Dio ci è stato trasmesso in una maniera molto fragile, le chiese devono riflettere insieme sulle varie espressioni di fede, poiché il vangelo viene annunciato in contesti diversi suscitando reazioni diverse. Emerge sempre la consapevolezza della inadeguatezza di ogni realizzazione umana, compresa la chiesa, ad esprimere tutta la pienezza e ricchezza del regno. Questa consapevolezza, oltre che fugare ogni orgoglio e pretesa di autosufficienza, porta all’ammirazione della grandezza dell’opera di Dio e, insieme, all’apertura e al dialogo fra tutti coloro ai quali si manifesta la gloria di Dio. Dall’ermeneutica o interpretazione che le singole chiese e i singoli cristiani fanno dell’unica opera di Dio nasce così, spontaneo, il riconoscimento dell’unica opera gloriosa di Dio. In questa maniera, la fragilità dei numerosi vasi non fa che mettere in risalto la sorgente della forza e della grandezza.
1. Qual è il tesoro delle chiese?
Paolo sottolinea con forza: “Noi portiamo in noi stessi questo tesoro come in vasi di creta, perché sia chiaro che questa straordinaria potenza viene da Dio e non da noi” (2 Cor 4,7). Di fronte alla forte affermazione di Paolo viene subito da porsi la domanda: qual è il tesoro delle chiese? Non è una domanda retorica perché, tradotta in termini concreti essa significa: che cosa devono desiderare e a che cosa aspirare? Quando si sentono soddisfatte e gioiose e quando frustrate e incomprese? Quando ricche e quando povere? Quando predomina l’ottimismo e quando il pessimismo? Quando si sentono investite dalla gloria di Cristo e quando se ne sentono prive?
E’ abituale scandire la storia in momenti gloriosi e in momenti bui. Naturalmente, momenti positivi sono considerati quelli nei quali le chiese sono riconosciute e onorate, quando esse sono reputate all’altezza delle esigenze degli uomini, quando con la loro voce possono dirigere o condizionare le vicende sociali o politiche: quando esse sono rivestite di gloria. Infatti, è troppo facile esporsi al rischio di confondere la gloria di Dio con quella delle chiese. Però, è una identificazione che si pone in palese contrasto con la visione offerta da Gesù e prospettata da Paolo: dalla loro prospettiva e secondo il loro metro i momenti gloriosi delle chiese sono quelli contrassegnati dalla testimonianza e dal martirio.
Il rischio continuo è quello di non tenere chiaramente distinti i due termini del binomio: tesoro – creta, dimenticando che a noi appartiene solo la creta. Invece, la tendenza è quella di impossessarsi anche del tesoro, facendolo proprio e identificandosi con esso. Ne esce, così, un’immagine falsata di chiesa. Si tende a rivestire di gloria propria e autonoma ogni forma concreta della propria esistenza, innegabilmente necessaria, perché la chiesa vive il suo mistero di incarnazione; si deve, però, ricordare sempre che il suo tesoro non è dato da queste forme o formule terrene.
Un’altra appropriazione possibile è nei confronti della verità, spesso assimilata a una sapienza umana, gestita come cosa propria, così lontana da quella sapienza della croce che è quel metodo di Dio che capovolge ogni logica naturale e che richiede un continuo cammino alle spalle di Colui che si reca al luogo della crocifissione.
L’attenzione delle chiese, quindi, deve essere rivolta a non rivestire di gloria propria le loro forme di esistenza e la comprensione della verità che è loro donata. Per questo esse si devono rispecchiare in Cristo il quale nella sua incarnazione ha manifestato il vero tesoro, che è il regno di Dio. Proprio nella povertà, nell’umiltà, nella fragilità, nel rifiuto, nell’impotenza dell’incarnazione abbiamo potuto contemplare il tesoro dell’amore e della misericordia di Dio.
2. Dov’è riposta la speranza?
L’esperienza della fragilità porta naturalmente all’aspirazione verso una situazione più stabile e sicura, alla ricerca di un riferimento rassicurante. Si muove così la speranza che ci concentra verso un punto sul quale confidiamo di appoggiarci per conseguire le nostre aspirazioni. Ed è proprio nella scelta di questo punto sul quale si concentra la speranza che si rivela la scelta fondamentale dei cristiani e delle chiese. Paolo afferma chiaramente: “Noi non fissiamo lo sguardo su ciò che vediamo, ma su ciò che non vediamo” (2 Cor 4,18). Solo questo sguardo acuto della fede permette di porre al centro della propria attenzione e della propria esistenza la realtà divina della salvezza, che non è intaccata da nessuna povertà o limitatezza umana, ma che, al contrario, brilla con maggiore evidenza nella precarietà della condizione esteriore. Il mistero pasquale, che vede la vita e la gloria della risurrezione nascere dalla morte, è la legge della vita di Cristo, ma anche del cristiano e della chiesa. Per questo, nessuna tribolazione o persecuzione o misconoscimento può portare alla disperazione o alla mancanza di fiducia.
Se la croce è lo specchio sul quale le chiese devono proiettare la propria immagine per riconoscere e verificare la loro identità e genuinità, esse dovrebbero porsi immediatamente una domanda: su che cosa o in chi ripongono la loro speranza? Una risposta teorica non è difficile da dare. La fede ci insegna che ogni nostra speranza è riposta in Dio. Ma se poi si penetra nel vissuto quotidiano si può constatare che molti punti di appoggio sono chiaramente terrestri. Sono molti i centri di potere ai quali ci si affida, senza mettere in discussione l’onestà e la rettitudine delle intenzioni: molte alleanze con poteri terreni non hanno nulla a che fare con l’alleanza stretta da Dio con gli uomini; la ricerca di una convincente visibilità esteriore non sempre è testimonianza di quella potenza e sapienza della croce di cui parla S. Paolo (1 Cor 1,17-25). La chiesa è nata dalla croce (At 20,28; Tit 2,14; Ef 2,14-16), che deve essere la sorgente e il fondamento della sua vita. Solo di fronte alla croce si comprende ciò che è veramente potente e sapiente (1 Cor 1,25). Solo da questa angolatura si possono giudicare le cose nel loro rapporto con il regno di Dio.
Si capisce, così, perché Paolo ricorre al discorso stoltezza/sapienza della croce quando è compromessa l’unità della chiesa: la sapienza e la potenza umane sono fonte di divisione, la sapienza e la potenza della croce sono principio di unità. La stoltezza della croce è un elemento portante e un punto di riferimento ineludibile per la vita della comunità cristiana. Ciò vale anche e soprattutto per l’evangelizzazione. Dove prevale la forza e la saggezza umana l’annuncio del regno rimane offuscato. La chiesa si presenta come la famiglia di Gesù Cristo quando in essa è visibile la croce, cioè quella debolezza umana che fa trasparire la potenza e la gloria di Dio.
Questo significa avere lo sguardo fisso su ciò che non si vede e riporre la fiducia nei valori del regno, anziché in quelli terreni. Ciò significa che le chiese non devono riporre la loro fiducia in se stesse e nelle loro forze. Neppure nei loro meriti indiscussi, nelle loro virtù e nei loro santi. La santità è una nota eccelsa e caratterizzante per la chiesa, ma i santi e gli stessi martiri non possono essere assunti come bandiere o stendardi per decorare le chiese e consolidarne la posizione nei loro confronti reciproci. E’ una funzione o strumentalizzazione alla quale gli stessi santi, se potessero, si ribellerebbero. La santità, invece, è quella porzione di regno invisibile che dovrebbe testimoniare la relatività delle realtà terrene visibili.
3. Le chiese vasi di creta
L’immagine del vaso di creta suggerisce un molteplice riferimento, e ciò in rapporto sia all’idea del vaso che a quella della creta.
L’immagine del vaso ci mette a contatto con uno strumento che esaurisce o caratterizza la sua esistenza nella funzione di contenere, raccogliere, accogliere, distinguendosi nettamente dal contenuto che, ordinariamente, è più prezioso di lui, anzi, è proprio il contenuto che giustifica l’esistenza del vaso contenitore. La finalità e la consistenza del vaso è stabilita dal vasaio: “Un vasaio, infatti, trattando terra molle con fatica, forma vasi, ciascuno per nostro uso; ma dallo stesso fango forma vasi per usi decenti e altri no, tutti in eguale maniera. Quale di ciascuno di questi sia l’uso, giudice è chi tratta l’argilla” (Sap 15,7). Il popolo di Dio è nelle mani del Signore come un vaso nelle mani del vasaio: “Forse non potrei agire con voi, casa di Israele, come questo vasaio? Ecco, come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa di Israele” (Ger 18, 6). Dio ha gratuitamente scelto le chiese per riempirle gratuitamente della sua grazia e dei suoi doni. Essere vuoti di sé è condizione indispensabile per poter essere riempiti della presenza di Dio e dei suoi doni. Per questo Paolo invita i cristiani a mantenere il vaso del proprio corpo con santità e rispetto, in rapporto a Dio che dona il suo Spirito Santo (1 Tes 4,4.8). Paolo stesso è definito vaso di elezione, cioè strumento eletto per portare il nome di Dio a tutte le nazioni (At 9,15).
Essere vuoti di sé non significa assenza o povertà di contenuto, ma apertura a una pienezza che viene dal di fuori, cioè dalla presenza di Cristo. E’ questo contenuto che deve trasparire come prima evidenza e senza ambiguità e che, contemporaneamente, conferisce valore e nobiltà al vaso che lo contiene. Non è cosa facile, per il cristiano e per le chiese, vivere di questa trasparenza e sussidiarietà. Praticamente significa vivere di accoglienza.
Prima di tutto significa accogliere nella propria vita incarnata nel terrestre la realtà dell’incarnazione, con tutte le scelte concrete che l’hanno accompagnata. Per esigenze di trasparenza, quindi, si addicono alla chiesa la povertà e l’inospitalità di Betlemme, l’assenza di un rifugio dove posare il capo, e il cammino verso un’esaltazione che avverrà sulla croce.
Ma accogliere Cristo significa accogliere anche tutto ciò che gli appartiene e lo esprime. Ciò significa riconoscerne la presenza e valorizzarne i doni dovunque siano presenti. E’ chiara, quindi, l’esigenza non solo di aprirsi e di accogliere il bene chiaramente manifesto nelle altre chiese, ma anche quello di ricercarlo per una verifica della propria autenticità e per un arricchimento della propria esperienza di Dio. In questa maniera la sapienza e la potenza della croce si rivelano come via che porta all’unità.
L’accoglienza di Cristo porta all’accoglienza dello Spirito. Ciò significa disponibilità al continuo rinnovamento, superando il rischio di incrostazione e di irrigidimento al quale sono esposte tutte le strutture. Sono proprio le incrostazioni e gli irrigidimenti che spesso ostacolano l’accoglienza dell’azione dello Spirito Santo, al quale sono affidate le cose future e la loro lettura (cf. Gv 16,13) e la progressiva introduzione nel cuore della verità rivelata di Gesù (cf. Gv 14,26; 16,13). L’azione rinnovatrice dello Spirito farà sì che la vita delle chiese esprima la sua fedeltà a Cristo in forme e strutture sempre vive e significative, segnate dalla freschezza della novità, in una varietà che esprima la ricchezza della vita nuova instaurata dalla risurrezione di Gesù e che fa capire che nessuna forma o formula concreta esaurisce la ricchezza della vita rinnovata. La progressiva penetrazione nel cuore della verità, operata dallo Spirito, aiuterà a capire come l’unica parola di Gesù assuma toni e messaggi sempre nuovi, rapportati alla novità delle situazioni della storia, e quindi ha bisogno di una continua attenzione sia all’espressione originale delle parole di Gesù, sia alla nuova eco e comprensione operata dallo Spirito.
Tutta questa pienezza di presenza efficace di Cristo e dello Spirito attende di trovare uno spazio nella vita delle chiese, vasi aperti e accoglienti. Quanto spazio c’è in chi non è pieno di se stesso!
La ricchezza della pienezza risalta in maniera ancora più evidente se si tiene presente che il vaso è di creta, cioè fragile e senza consistenza o nobiltà autonoma. E di questo ogni cristiano e ogni chiesa deve essere consapevole. Se, alla luce della parola di Dio e dell’esperienza, questa fragilità è evidente, non sempre le chiese esprimono la consapevolezza di questa loro radicale realtà con altrettanta evidenza. Più che vasi contenenti un tesoro prezioso ricevuto gratuitamente in dono esse danno spesso l’impressione di essere realtà autonome, che si fregiano come ornamento del tesoro prezioso che esse contengono. La distinzione non è solo nominale o un gioco di parole, perché si traduce in rivendicazioni e atteggiamenti concreti che esprimono chi sta al centro e chi alla periferia, chi è al servizio di chi, chi è il tesoro e chi il vaso. La consapevolezza della propria fragilità e della propria inadeguatezza a far trasparire e a comunicare la pienezza della ricchezza del dono ricevuto è la via che mette in giusta luce il valore e la qualità del tesoro del regno di Dio. In questo contesto assumono significato e valore i ripetuti riconoscimenti della fragilità, degli errori e dei peccati commessi dalla chiesa nel corso della storia.
Conclusione
Possiamo dire che l’immagine paolina del tesoro racchiuso in vasi di creta può servire da specchio per riflettere la situazione attuale delle chiese. E’ un discorso ormai ritrito quello sulla crisi in cui versa l’ecumenismo. Ma crisi dell’ecumenismo significa crisi delle chiese. L’immagine di Paolo ci può guidare all’identificazione di una delle cause di questa crisi. L’accanito irrigidimento che manifestano alcune situazioni fa sospettare che le chiese abbiano identificato la gloria di Dio con la propria gloria e che si attendano che l’adesione a Dio delle altre chiese passi attraverso l’adesione alla loro chiesa. La loro attenzione e la loro speranza sembrano concentrate nel consolidamento e nel riconoscimento della loro concretezza e visibilità. Una maggiore consapevolezza di essere differenti vasi di creta dell’unico tesoro potrebbe spingere le chiese a un migliore discernimento fra il vaso e il tesoro, fra la gloria e la creta.
E qui non si può non fermare l’attenzione sul valore simbolico della realtà terrestre che noi viviamo. Parlare di valore simbolico di ciò che è terrestre e visibile non significa svuotarlo di contenuto positivo e salvifico, ma collegarne e scoprirne il senso in rapporto a una realtà che gli dà un vero contenuto. Il valore assoluto sta in questa realtà superiore e invisibile. Il limite delle chiese sta spesso nel considerare assolute molte o tutte le concretizzazioni storiche presenti nella propria o nell’altrui storia. Recepirle nel loro valore simbolico significa ricercare e concentrarsi sul loro senso profondo, che oltrepassa la modalità concreta. Così si prenderebbe coscienza della relatività di alcune modalità della propria struttura e del valore profondo che esprimono modalità diverse.
Ma forse c’è anche un altro elemento, sempre legato all’immagine di Paolo, che spiega la situazione ecumenica attuale. Sappiamo che il tesoro ha un valore commerciale, ma soprattutto un ruolo affettivo: “dov’è il tuo tesoro sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,21; Lc 12,34). La sola valutazione intellettuale del tesoro ricevuto non condurrà mai le chiese a svuotarsi di se stesse per riempirsi di esso. Solo un movimento del cuore e un innamoramento nei confronti di quel tesoro potrà spingere ad osare qualunque cosa, a svuotare completamente se stesse e godersi della vista del tesoro, senza relegarlo in una cassaforte, tenendone aperta solo la registrazione. Come alla vita dei cristiani, così anche alle chiese manca spesso la passione amorosa, il bisogno di vedere e seguire la persona amata dappertutto dove essa è presente. Spesso si ha l’impressione che l’unità nell’unico regno di Dio più che un tesoro appassionante sia un’azione finanziaria che si cerca di gestire con accortezza.
Sommario
L’autore, partendo dall’immagine di San Paolo del tesoro portato in vasi di creta, ne cerca una verifica nell’attuale situazione di crisi dell’ecumenismo. Le chiese, per fare risplendere con evidenza la gloria del tesoro che hanno ricevuto da Dio, dovrebbero seguire la via della fragilità e dell’impotenza umana percorsa da Cristo nell’incarnazione e riporre la loro fiducia e speranza più nelle cose invisibili che in quelle visibili: è questa la via che conduce all’unità. Inoltre, per compiere veri passi verso l’unità, esse devono innamorarsi del tesoro ricevuto da Dio come dono.
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CATECHESI SU S. PAOLO DI PADRE ROBERTO ZAMBOLIN
La personalità dell’Apostolo Paolo è una personalità poliedrica e complessa che tuttavia noi possiamo leggere per un dato importante perché Paolo ha posto come obiettivo nella sua vita, quello che la propria vita avesse un senso cioè tutta la sua vita è stata centrata , tutta la sua vita le sue passioni le sue esperienze sono state centrate attorno ad un obiettivo che per lui è diventato il senso della sua vita e questo obiettivo è Gesu’ Cristo; questo già secondo me è un dato molto importante, a volte noi, ecco, nella nostra vita siamo molto divisi, la mente và per conto suo, il cuore và per conto suo, gli istinti vanno per conto loro; facciamo fatica ad essere delle personalità unificate, a ritrovare un senso di ciò che facciamo, facciamo fatica a dare un orientamento preciso alla nostra vita, per questo a volte siamo un po’ smarriti, scissi, anche noi stessi divisi, noi possiamo comprendere qualcosa della personalità di Paolo perché Paolo ha trovato un centro unificatore nella sua vita che è Gesu’ Cristo; questo è un dato importante anche nella psicologia cioè ché se noi vogliamo essere persone autentiche, ognuno di noi deve avere un centro attorno al quale unifica e da senso a tutto ciò che fa ed è bellissimo pensare che Cristo sia stato il senso del suo essere uomo e del suo essere credente ed evangelizzatore.
Credo che il primo dato che appare sia proprio questo : Paolo che era un uomo passionale è diventato Paolo e non ha cambiato temperamento o carattere ma con l’aiuto della grazia di Dio Paolo ha saputo orientare le sue passioni , le sue energie fisiche e spirituali verso una nuova meta quella di conquistare Cristo dopo essere stato conquistato da Lui ( Fil. 3,8 ) ed io credo che qui sta tutto il segreto della felicità per ogni essere umano, quello di cercare e trovare un centro unificato attorno al quale fare girare tutta la propria vita; allora tutto diventa più chiaro, tutto finisce col piacere e anche riusciamo a superare le prove più terribili che immancabilmente la vita ci riserva se abbiamo davanti a noi un obiettivo ben preciso.
Quali sono i tratti della personalità di Paolo mi sembra di poterli riassumere così, di individuarne sostanzialmente quattro: innanzitutto è una persona estremamente volitiva, solo una persona come lui poteva reggere per esempio all’urto subìto a Damasco dove la sua umanità è stata messa a dura prova, c’è stato uno sconvolgimento pieno della sua umanità, un cambiamento totale della sua vita, lì ha fatto un’esperienza che ha trasformato completamente lui come uomo; pensate per esempio questa sua aggressività, il suo andare contro i cristiani, questo suo mettersi d’impegno per dire:io devo andare a cercare i seguaci di Cristo.Dunque Paolo era uno, in un certo senso,che metteva come centro anche se stesso;l’esperienza di Damasco l’ha reso umile,docile e gli ha fatto capire che anche lui ha bisogno di essere condotto dagli altri;gli ha fatto capire che il suo passato forse aveva bisogno di essere illuminato da un’ altra luce, allora si è fatto condurre da Anania, si è fatto condurre anche lui per mano per strada; Paolo che mentre prima aveva fatto di se stesso il centro della sua vita, ora lui non era più il centro di se stesso, lui si è messo alla periferia di se stesso e ha messo Cristo come centro di se stesso; dunque per un cambiamento del genere è possibile se davvero una persona cerca, trova e rimane fedele a ciò che ha trovato. Quì però dobbiamo dire che Paolo è estremamente onesto, Paolo è sì un passionale però attenzione, a volte capita che quando noi siamo passionali ed emotivi noi stravolgiamo la verità. A Paolo premeva mettersi a servizio della verità e una volta scoperta si sente anche in dovere di cambiare strada nella propria vita; l’onestà di Paolo la potremmo chiamare un onestà a prova di bomba, per esempio questa forza di volontà, questa onestà di Paolo la esprime quando entra in polemica con i suoi avversari, non certo per odio contro di loro ma piuttosto per un amore incondizionato alla verità.Di questo amore alla verità Paolo è un testimone credibile, per esempio nella lettera agli Efesini 4,14-15, quando Paolo vuole esortare i cristiani di Efeso a costruire la chiesa dell’unità, scrive così:questo affinchè non siamo più come fanciulli, sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina secondo l’inganno degli uomini, con quell’astuzia che tende a trarre nell’errore, al contrario vivendo e servendo la verità nella carità.Cerchiamo di crescere in ogni caso verso di Lui che è il capo ,Cristo. Ecco, fare la verità nella carità ,una passione quella di Paolo,al servizio della verità; il testo greco dovrebbe essere tradotto “più che fare la carità nella verità” potremmo tradurlo in “verare la verità”, cioè non può esistere una carità se non c’è una verità, la prima forma di carità è il servizio alla verità.Quella di Paolo era una passione al servizio della verità e quindi viveva nell’amore autentico nel senso che Paolo non ha mai disgiunto la verità dalla carità. Attenzione alla falsa forma di carità io li distinguo anche nell’evangelizzazione, cioè un conto è l’attenzione, la conoscenza della persona umana nei suoi tempi, nei suoi ritmi, ma per questo noi non possiamo stravolgere la verità; va offerta secondo la comprensione, secondo la possibilità di ognuno ma non possiamo passare una fede facile.Così per essere accettati, per essere accolti, per sentirsi moderni, a volte questo purtroppo succede e noi pensiamo di vivere la carità e non curando la verità e così non facciamo un servizio né alla carità ne alla verità. Quindi Paolo estremamente volitivo, ma anche estremamente angusto, estremamente sincero, un ricercatore della verità, sincero al punto tale che di fronte alla verità cambia completamente centro della sua vita, non è più se stesso ma è di Cristo. Ancora un altro elemento della personalità di Paolo l’abbiamo già accennato, un temperamento passionale nel bene e nel male, sentite cosa dice Paolo nella 1° lettera a Timoteo 1,13:io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento, bene questo, la violenza di un tempo Paolo l’ha messa a servizio del Vangelo, sapendo sopportare anche le prove più tremende.E’ molto bello quello che dice Paolo quando parla anche delle sue esperienze, delle prove che lui ha sopportato e che ha sopportato per amore di Cristo ed è proprio per questo suo temperamento passionale che l’ apostolo delle genti ha speso il resto dei suoi anni in una serie interminabile di viaggi missionari che caratterizzano il suo servizio apostolico,perché poi la verità unita alla volontà,unita alla passione per ciò che si fa ti spinge ad uscire fuori,ti spinge a donare,ti spinge a camminare;una persona che ha la passione alla verità, altamente sentirà il desiderio di poterla dire, di poterla evangelizzare,di poterla comunicare. Il guaio a volte di molti credenti è che credono senza passione,,è che credono in modo scontato, è che credono senza contemplazione, senza godere in ciò in cui credono.Attenzione che, un conto è la passione, un conto è l’emozione;avete presente quando si va ai pranzi di nozze.si beve un po’ di vino e ci si sente un pochino tutti allegri;il mondo sembra tutto allegro ,poi passa l’effetto del vino e si torna come prima.L’emozione è questa, è quella fascia delle sensazioni che dura finchè dura l’emozione e poi tutto finisce.La passione è invece un motore che spinge la macchina, è una specie di forza che ti porta avanti nella vita e tu vivi proprio con gioia, con bellezza, gustando quella verità che tu hai e cerchi di coinvolgere il più possibile nella conoscenza, nella testimonianza di questa verità.Questo è temperamento passionale, un altro elemento che noi troviamo in Paolo, che emerge dai suoi scritti è una persona di un’intelligenza eccezionale, non solo da un punto di vista logico, ma anche da un punto di vista relazionale, cioè Paolo sa entrare in contatto con tutti, all’occorrenza sa anche entrare in polemica con gli avversari che negano la verità, come sa discorrere serenamente con chi è disposto al dialogo per amore della verità, Paolo sa interpretare correttamente la profezia dell’Antico Testamento, mostrando che Cristo ha attualizzato quella profezia; come sa dimostrare la ragionevolezza nell’ andare in Cristo e la libertà nell’ atto di fede; sa confutare chi pretende di dire la verità mentre sta seminando menzogna e zizzania, come per esempio, Paolo, sa esortare con la parola, ma soprattutto con l’esempio di una vita totalmente dedita al Vangelo. Paolo sa scrivere pagine di arte di ispirazione poetica,pensate agli Inni Paolini, sublimi e profondi, come l’addentrarsi in discussioni teologiche più specialistiche, quindi è un’intelligenza molto acuta quella di Paolo. Possiamo dire che Dio lo ha dotato di doni di natura e di doni di grazia,uomo difficilmente uguagliabile, ma tutto viene messo al servizio della carità e della verità . Mi pare che Paolo possa dirsi anche un amico fedele,ci sono delle cose molto belle anche di questa affettività di Paolo,intanto fedele nei confronti della verità che non è una verità teorica, quella di San Paolo, la verità ha un nome che si chiama Gesù Cristo che è una persona; non avrebbe senso rimanere fedeli ad una verità per la verità, ma quando quella verità è divenuta una persona, allora solo un rapporto culturale (dobbiamo stare attenti perché alle volte un rapporto relazionale con Cristo rischia di trasformare il Vangelo in cultura) non è sempre detto che un teologo sia per forza un credente, per essere credente si deve stabilire una relazione con Gesù Cristo, non solamente una deduzione intellettuale razionale, ecco perché l’importante è che accanto alla profondità teologica ci sia questa dimensione relazionale, affettuosa con Cristo.Una volta che Paolo ha conosciuto Cristo Signore attraverso una relazione che Cristo ha avuto con lui perché sapete che nella fede il primo passo lo fa sempre il Signore.é stato proprio Dio che ha incontrato Paolo, una volta che Paolo si è lasciato incontrare da Dio, Paolo non ha mai cessato di coltivare questa amicizia straordinaria e di onorarla anche a costo di pagare di persona.Paolo lo ha dimostrato in diverse circostanze ,anche con il martirio e a questo proposito è bene che ascoltiamo proprio lui nella 2° lettera di Timoteo 4,6-8 “Quanto a me, dice Paolo,il mio sangue sta per essere sparso in libagione, ed è giunto il momento di sciogliere le vele, ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede; mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto Giudice, mi consegnerà in quel giorno.” Vedete che sono parole estremamente chiare che indicano il percorso di vita di Paolo, e soprattutto sarà una profezia di quello che capiterà, non molti anni dopo, a Roma quando sarà decapitato intorno all’anno 64 d.C.; ebbene, con queste pennellate essenziali io penso un pochino di avere colto qualche cosa della psicologia di Paolo.
Paolo uomo estremamente volitivo, passionale, di un’intelligenza eccezionale, uomo di relazione, uomo fedele. Mi vorrei fermare un pochino di più sull’incontro di Paolo a Damasco perché lì c’è proprio di mezzo la sua vita, il coinvolgimento della sua vita, potremmo dire lo sconvolgimento della sua vita. Che cosa rivela quell’incontro di Paolo a Damasco? Rivela delle qualità eccezionali per un’uomo che non è facile riscontrare; rivela innanzitutto una capacità di rimettersi in discussione, di non vivere una vita scontata, di aprirsi alla novità, di tendere sempre al futuro, di cercare una qualità migliore della sua vita; cioè direi veramente che Paolo voleva vivere una vita in pienezza per un uomo che amava la vita,voleva gustare la vita in pienezza e tutto questo lo ha portato a rendersi disponibile a qualche cosa di nuovo, a qualche cosa di profondo, di misterioso, a qualche cosa che lo superava che era la rivelazione di DIO; un confronto che lo ha cambiato spiritualmente; è diventato un uomo nuovo difatti Paolo, una nuova creatura, amico di Gesù, missionario del Vangelo, fratello universale; ma se Paolo fosse stato una persona introversa, una persona chiusa nelle sue certezze, chiusa nella sua sicurezza, una persona non disposta all’ascolto, al dialogo, all’accoglienza della novità, soprattutto chiusa nel mistero, Paolo probabilmente non si sarebbe lasciato inondare dalla luce di Cristo. Uno studioso morale contemporaneo ha scritto che per comprendere la teologia di Paolo non è sufficiente partire da Tarso, città nella quale Paolo è nato ed ha ricevuto la sua prima formazione, non basta nemmeno partire da Gerusalemme, città nella quale Paolo è stato educato ed ha potuto confrontarsi con gli apostoli, in modo particolare con Pietro; non è sufficiente neanche partire da Antiochia che è stato il punto di riferimento di tutti i suoi viaggi missionari; certo queste città hanno avuto importanza nella formazione di Paolo, hanno contribuito alla sua crescita morale e spirituale, ma per entrare nel pensiero di Paolo dobbiamo capire l’approccio che lui ha avuto con Cristo perché il rapporto con Cristo ha sconvolto la sua vita ed è stato al centro della sua evangelizzazione; che cosa è capitato in quell’avvenimento? – qui ci sono delle cose formidabili: Innanzitutto a Damasco Paolo ha capito che tra Gesù e i cristiani vi è una identità spirituale nella quale stà il segreto, il fondamento del nostro essere Chiesa, del nostro essere comunità, del nostro essere fraternità, del nostro amore alla Chiesa; Che cosa ha sperimentato in quell’avvenimento, che cosa dice l’esperienza che ha vissuto, ha sentito quelle parole “ Io sono quel Gesù che tu perseguiti “ , oggi molti dicono “ Cristo sì la Chiesa no”; Io sono quel Gesù che perseguiti ,dunque, nella persona dei suoi discepoli è il Signore ad essere perseguitato e allora voi capite che un elemento importante nella personalità di Paolo era quello che noi potremmo chiamare l’empatìa non la simpatia; cioè Paolo era uno che sapeva farsi carico della comunità, della fraternità, sapeva farsi carico degli altri; probabilmente se non avesse avuto questa empatia non avrebbe colto nei cristiani che lui perseguitava la presenza stessa di Gesù Cristo; dunque tra Gesù e i Cristiani c’è un’identità spirituale ; nella persona dei credenti Gesù stesso è perseguitato, quindi la Chiesa è il prolungamento della sua Umanità, la Chiesa è la sposa amata da Cristo e non si può separare la Chiesa da Cristo come non si può separare una persona dal suo corpo, come non si può dividere la sposa dallo sposo; sarebbe questa una violenza assurda; come si può separare la persona dalla unicità di se stessa? Paolo era una persona che aveva molto forte il senso dell’unità dell’uomo, io quando parlo di persona umana faccio un riferimento molto banale, ma se volete molto efficace: – a casa nostra abbiamo tutti delle credenze, dei comò e sono quasi tutti a cassetti; io tiro un cassetto, mi apro solo quel cassetto gli altri rimangono chiusi; la persona umana non è fatta a cassetti; la persona umana è fatta di un’unità, di una totalità! Se io sono stressato, se io ho un problema , se ho mal di testa, l’aspetto fisico, l’aspetto psichico, l’aspetto spirituale della persona umana funzionano insieme, non si può scindere e oggi il concetto di salute che non è più la salute fisica ma è la salute psicofisica; se io ho mal di dente, il dente è un elemento piccolissimo della persona, eppure se uno ha mal di dente, non ha voglia di fare niente, non ha voglia di pregare, non ha voglia di abbandonarsi a Dio, per dire come anche la nostra esperienza di fede deve essere così: si prega con tutto noi stessi anche la propria corporeità; voi pensate quanto danno abbiamo fatto anche nella nostra vita spirituale escludendo il corpo a volte dalla preghiera, escludendo la bellezza del corpo anche dalla nostra vita spirituale
perché il corpo veniva visto come fonte di passioni e mai invece come possibilità di espressione, come linguaggio, come ricchezza di linguaggio.
Paolo ad un certo punto era una persona che ha colto l’unità della persona umana; la testa senza il corpo non ha senso, il corpo senza la testa non è una cosa unita, perciò lui ha colto questa identità spirituale tra Gesù e i cristiani; non si può separare la Chiesa da Cristo, non si può separare la persona dal corpo, non si può separare la sposa dallo sposo, sarebbe una violenza assurda ed è per questo che lui ha compreso, che Gesù di Nazaret è il vero Messia, destinato a diventare il Salvatore di tutti gli uomini, di tutta l’umanità, di tutti i peccatori. Ecco, care sorelle, cari fratelli, io penso che forse Paolo qui ci insegna un grande principio fondamentale della psiche umana, cioè quello di imparare una unificazione nella nostra vita, oggi noi invece notiamo proprio questa continua separazione tra le persone; si pensa una cosa se ne dice un’altra e se ne fa un’altra ancora; a volte scherzando dico che se ci guardassimo allo specchio veramente, la nostra vita diventa un carnevale perché utilizziamo una maschera quando siamo soli, ne utilizziamo un’altra quando siamo in famiglia, ne utilizziamo un’altra quando siamo in parrocchia, ne utilizziamo un’altra quando siamo con altre persone, cioè noi procediamo nella vita per diversità, per distinzioni, invece Paolo era se stesso ovunque, sia quando era persecutore, sia quando ha fatto la scelta di Cristo; essere nella totalità del proprio essere, vivere nella totalità del proprio essere, e Paolo una volta fatta la scelta di Cristo a questa scelta è rimasto fedele ; soprattutto Paolo ha fatto una scelta importante, la scelta del dono della vita per i fratelli, dell’uscire da sé per andare verso gli altri, a Damasco Paolo ha avuto il dono di comprendere che della vita quello che vale di più non è l’affermazione di sé stessi a scapito degli altri ma il dono di sé stessi a colui per il quale possiamo ritrovare la nostra vita e amare il nostro prossimo. L’amore per il prossimo per Paolo è diventato inseparabile dall’amore di Gesù perché l’amore unifica, la centralità di sé divide; quante volte ci siamo trovati di fronte a persone che hanno voluto affermare la centralità di sé stessi e hanno diviso le comunità, hanno diviso le famiglie; l’amore invece unifica; invece vi capita che l’amore non è il piacere delle sensazioni, ad amare si impara, si impara accogliendo anche la diversità, accogliendo anche ciò che magari noi non abbiamo, noi non possediamo; ecco, su questo tema Paolo ha composto un bell’inno, pensate questo Paolo passionale, questo Paolo che ad un certo punto diventa anche molto polemico, molto forte, questo Paolo razionale. Andatevi a leggere questo inno alla carità: ritrovate questo Paolo calmo, sereno, semplice, profondo nello stesso tempo, la carità è paziente; secondo me l’inno alla carità è frutto di un percorso umano; andate a vedere tutti quegli elementi che Paolo ci
trasmette: ci sono elementi estremamente umani; se noi volessimo proporre alle persone un cammino di formazione anche umano, di equilibrio umano, basterebbe solo che gli proponessimo di vivere l’inno alla carità. La carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si compiace della verità; tutto copre, tutto crede, tutto sposa, tutto sopporta; A volte io questo testo lo propongo come esame di coscienza; se non dobbiamo esaminarci sulla carità, su cosa ci dobbiamo esaminare? Ecco, sull’amore e conclude poi Paolo “ la carità non avrà mai fine”; Paolo ha capito che c’è qualcuno al di sopra di tutti che merita di essere servito e amato sopra ogni altra cosa o persona: Gesù di Nazaret. Solo se noi impariamo a decentrarci possiamo fare la scoperta di qualcuno da amare profondamente; in fondo la persona autocentrata è una persona che ama solo sé stessa; la persona capace di decentrarsi è la persona che sa scoprire la bellezza di un amore che la può rendere più felice.
Paolo doveva poi far conoscere a tutti questa scoperta perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, in terra e sottoterra e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore e gloria di Dio Padre.
Dunque a Damasco Paolo si è visto costretto a cambiare l’orientamento della sua vita e lo ha fatto in modo così netto e forte da lasciare intravedere che in quel preciso momento in lui ha trionfato la Grazia di Dio; ma Paolo si è aperto alla Grazia di Dio, Paolo ha lasciato che la Grazia di Dio lo lavorasse, lo plasmasse; Paolo si è posto come creta di fronte alla grazia di Dio tanto è vero che lui dice, pensate anche l’autocoscienza che poi ha avuto di se stesso, tanto è vero che dice: “voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo, nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la chiesa di Dio e la devastassi”,ma quando Colui che mi scelse sin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua Grazia si compiaque di rivelare in me suo Figlio perché lo annunziassi ai pagani, non fù più così.Paolo ha saputo fare una attenta riflessione del suo passato alla luce della novità di Cristo. Ognuno di noi può fare i progetti che vuole, può anche illudersi di potere fare tutto da solo, ma quando Dio decide di entrare nella sua vita tutto cambia e cambia in meglio; a volte, diceva un grande filosofo spagnolo “ la mia fede è lottare con Dio”; a volte la fede è anche lotta, però dobbiamo lasciare che sia Dio a vincere perché se Dio vince, veramente la nostra vita può cambiare; dopo una lotta invece, di fronte a dei cristiani a delle persone che dopo una lotta buttano le armi, pensate oggi quanto sia difficile per esempio parlo anche per noi sacerdoti; costruire una relazione, una relazione se gratifica si porta avanti, ma appena quella relazione diventa un po’ conflittuale e difficile subito si molla, subito si chiude, subito si lascia perdere, e così che cosa troviamo noi, noi troviamo delle persone che da un punto di vista affettivo io li chiamo i vagabondi dell’affetto, vagabondaggio affettivo, si gira per trovare un affetto che gratifica ma non si costruiscono relazioni, semplicemente si consumano emozioni; non si può costruire un rapporto su delle emozioni che consumano, ma il rapporto si costruisce sulla roccia e dunque la lotta, il confronto, le difficoltà, i problemi sono molto importanti da questo punto di vista; dunque Paolo lo ha imparato questo, che ad un certo punto anche gli sconvolgimenti della vita possono portare ad una vita migliore. Dovremmo di Paolo capire un’altra cosa: quando qualcosa nella nostra vita si chiude vuol dire che Dio vuole aprire qualche altra cosa, perché qualche cosa di nuovo nasca, questa è la legge della vita , qualche cosa deve morire, quindi se non accettiamo di morire non accettiamo di crescere, di guardare avanti ; Paolo ha accettato di morire a se stesso per potere ritrovare se stesso nell’amore di Dio, questo è anche un’indicazione umana molto importante, io vi consiglio se volete un bel libro sull’Apostolo Paolo, un testo di Albert Wanhoye “ Pietro e Paolo” ; ci sono due capitoli , uno sul carattere di Paolo e uno sulla vita affettiva di Paolo; sono due capitoli della personalità di Paolo, vi leggo semplicemente un passaggio che riguarda la sua vita affettiva : è molto importante questo, dice l’autore, nei suoi rapporti con gli altri Paolo sfruttò veramente tutte le doti della sua affettività a cominciare dai suoi collaboratori. Come Timoteo che egli chiama figlio e a cui scrive: “sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia e anche tante altre persone, uomini e donne suoi collaboratori e collaboratrici a cui mostra molto affetto, alle sue comunità Paolo manifesta un’affetto paterno, un’affetto materno, un’affetto anche sponsale e ai cristiani della Galazia dice persino i miei bambini che partorisco di nuovo nel dolore , egli parla di un amore geloso per le sue comunità, quindi San Paolo ci insegna ad investire pienamente tutte le nostre capacità di azione, di affetto nel nostro amore per Cristo e nell’amore per le persone che Cristo ci affida, Paolo dice infatti : Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza ma di coraggio, di amore e di saggezza ; quindi in Paolo noi troviamo quelli che sono gli elementi che fanno l’umanità vera, l’azione, la passione, l’affetto, la razionalità che sono poi le sfere che costituiscono la struttura della persona umana, le troviamo veramente unificate; se noi le scindiamo noi avremo l’uomo tutta ragione, tutto testa o avremo l’uomo tutto cuore o avremo l’uomo tutto azione, proprio sempre un uomo bilaterale per potere avere una personalità piena questi elementi devono essere unificati insieme e io credo che Cristo possa essere davvero il collante di tutto questo per cui davvero quello che dice anche Giovanni Paolo II nella sua 1° enciclica REDENTIO HOMINI “ chi si avvicina a Cristo diventa anch’egli più uomo; e Paolo è anch’egli una testimonianza di questa bella affermazione.
CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DI PENTECOSTE
OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana
Domenica, 11 maggio 2008
Cari fratelli e sorelle,
il racconto dell’evento di Pentecoste, che abbiamo ascoltato nella prima Lettura, san Luca lo pone al secondo capitolo degli Atti degli Apostoli. Il capitolo è introdotto dall’espressione: « Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo » (At 2,1). Sono parole che fanno riferimento al quadro precedente, nel quale Luca ha descritto la piccola compagnia dei discepoli, che si radunava assiduamente a Gerusalemme dopo l’Ascensione al cielo di Gesù (cfr At 1,12-14). E’ una descrizione ricca di dettagli: il luogo « dove abitavano » – il Cenacolo – è un ambiente « al piano superiore »; gli undici Apostoli vengono elencati per nome, e i primi tre sono Pietro, Giovanni e Giacomo, le « colonne » della comunità; insieme con loro vengono menzionate « alcune donne », « Maria, la madre di Gesù » e i « fratelli di lui », ormai integrati in questa nuova famiglia, basata non più su vincoli di sangue ma sulla fede in Cristo.
A questo « nuovo Israele » allude chiaramente il numero totale delle persone che era di « circa centoventi », multiplo del « dodici » del Collegio apostolico. Il gruppo costituisce un’autentica « qahal », un’ »assemblea » secondo il modello della prima Alleanza, la comunità convocata per ascoltare la voce del Signore e camminare nelle sue vie. Il Libro degli Atti sottolinea che « tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera » (1,14). E’ dunque la preghiera la principale attività della Chiesa nascente, mediante la quale essa riceve la sua unità dal Signore e si lascia guidare dalla sua volontà, come dimostra anche la scelta di gettare la sorte per eleggere colui che prenderà il posto di Giuda (cfr At 2,25).
Questa comunità si trovava riunita nella stessa sede, il Cenacolo, al mattino della festa ebraica di Pentecoste, festa dell’Alleanza, in cui si faceva memoria dell’evento del Sinai, quando Dio, mediante Mosè, aveva proposto ad Israele di diventare sua proprietà tra tutti i popoli, per essere segno della sua santità (cfr Es 19). Secondo il Libro dell’Esodo, quell’antico patto fu accompagnato da una terrificante manifestazione di potenza da parte del Signore: « Il monte Sinai – vi si legge – era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto » (Es 19,18). Gli elementi del vento e del fuoco li ritroviamo nella Pentecoste del Nuovo Testamento, ma senza risonanze di paura. In particolare, il fuoco prende forma di lingue che si posano su ciascuno dei discepoli, i quali « furono tutti pieni di Spirito Santo » e per effetto di tale effusione « cominciarono a parlare in altre lingue » (At 2,4). Si tratta di un vero e proprio « battesimo » di fuoco della comunità, una sorta di nuova creazione. A Pentecoste la Chiesa viene costituita non da una volontà umana, ma dalla forza dello Spirito di Dio. E subito appare come questo Spirito dia vita ad una comunità che è al tempo stesso una e universale, superando così la maledizione di Babele (cfr Gn 11,7-9). Solo infatti lo Spirito Santo, che crea unità nell’amore e nella reciproca accettazione delle diversità, può liberare l’umanità dalla costante tentazione di una volontà di potenza terrena che vuole tutto dominare e uniformare.
« Societas Spiritus », società dello Spirito: così sant’Agostino chiama la Chiesa in un suo sermone (71, 19, 32: PL 38, 462). Ma già prima di lui sant’Ireneo aveva formulato una verità che mi piace qui ricordare: « Dov’è la Chiesa, là c’è lo Spirito di Dio, e dov’è lo Spirito di Dio, là c’è la Chiesa ed ogni grazia, e lo Spirito è la verità; allontanarsi dalla Chiesa è rifiutare lo Spirito » e perciò « escludersi dalla vita » (Adv. Haer. III, 24, 1). A partire dall’evento di Pentecoste si manifesta pienamente questo connubio tra lo Spirito di Cristo e il mistico Corpo di Lui, cioè la Chiesa. Vorrei soffermarmi su un aspetto peculiare dell’azione dello Spirito Santo, vale a dire sull’intreccio tra molteplicità e unità. Di questo parla la seconda Lettura, trattando dell’armonia dei diversi carismi nella comunione del medesimo Spirito. Ma già nel racconto degli Atti che abbiamo ascoltato, questo intreccio si rivela con straordinaria evidenza. Nell’evento di Pentecoste si rende chiaro che alla Chiesa appartengono molteplici lingue e culture diverse; nella fede esse possono comprendersi e fecondarsi a vicenda. San Luca vuole chiaramente trasmettere un’idea fondamentale, che cioè all’atto stesso della sua nascita la Chiesa è già « cattolica », universale. Essa parla fin dall’inizio tutte le lingue, perché il Vangelo che le è affidato è destinato a tutti i popoli, secondo la volontà e il mandato di Cristo risorto (cfr Mt 28,19). La Chiesa che nasce a Pentecoste non è anzitutto una Comunità particolare – la Chiesa di Gerusalemme – ma la Chiesa universale, che parla le lingue di tutti i popoli. Da essa nasceranno poi altre Comunità in ogni parte del mondo, Chiese particolari che sono tutte e sempre attuazioni della sola ed unica Chiesa di Cristo. La Chiesa cattolica non è pertanto una federazione di Chiese, ma un’unica realtà: la priorità ontologica spetta alla Chiesa universale. Una comunità che non fosse in questo senso cattolica non sarebbe nemmeno Chiesa.
A questo riguardo occorre aggiungere un altro aspetto: quello della visione teologica degli Atti degli Apostoli circa il cammino della Chiesa da Gerusalemme a Roma. Tra i popoli rappresentati a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste, Luca cita anche gli « stranieri di Roma » (At 2,10). In quel momento Roma era ancora lontana, « straniera » per la Chiesa nascente: essa era simbolo del mondo pagano in generale. Ma la forza dello Spirito Santo guiderà i passi dei testimoni « fino agli estremi confini della terra » (At 1,8), fino a Roma. Il libro degli Atti degli Apostoli termina proprio quando san Paolo, attraverso un disegno provvidenziale, giunge alla capitale dell’impero e vi annuncia il Vangelo (cfr At 28,30-31). Così il cammino della Parola di Dio, iniziato a Gerusalemme, giunge alla sua meta, perché Roma rappresenta il mondo intero ed incarna perciò l’idea lucana della cattolicità. Si è realizzata la Chiesa universale, la Chiesa cattolica, che è il proseguimento del popolo dell’elezione e ne fa propria la storia e la missione.
A questo punto, e per concludere, il Vangelo di Giovanni ci offre una parola, che si accorda molto bene con il mistero della Chiesa creata dallo Spirito. La parola uscita per due volte dalla bocca di Gesù risorto quando apparve in mezzo ai discepoli nel Cenacolo, la sera di Pasqua: « Shalom – pace a voi! » (Gv 20, 19.21). L’espressione « shalom » non è un semplice saluto; è molto di più: è il dono della pace promessa (cfr Gv 14,27) e conquistata da Gesù a prezzo del suo sangue, è il frutto della sua vittoria nella lotta contro lo spirito del male. E’ dunque una pace « non come la dà il mondo », ma come solo Dio può darla.
In questa festa dello Spirito e della Chiesa vogliamo rendere grazie a Dio per aver donato al suo popolo, scelto e formato in mezzo a tutte le genti, il bene inestimabile della pace, della sua pace! Al tempo stesso, rinnoviamo la presa di coscienza della responsabilità che a questo dono è connessa: responsabilità della Chiesa di essere costituzionalmente segno e strumento della pace di Dio per tutti i popoli. Ho cercato di farmi tramite di questo messaggio recandomi recentemente alla sede dell’O.N.U. per rivolgere la mia parola ai rappresentanti dei popoli. Ma non è solo a questi eventi « al vertice » che si deve pensare. La Chiesa realizza il suo servizio alla pace di Cristo soprattutto nell’ordinaria presenza e azione in mezzo agli uomini, con la predicazione del Vangelo e con i segni di amore e di misericordia che la accompagnano (cfr Mc 16,20).
Fra questi segni va naturalmente sottolineato principalmente il Sacramento della Riconciliazione, che Cristo risorto istituì nello stesso momento in cui fece dono ai discepoli della sua pace e del suo Spirito. Come abbiamo ascoltato nella pagina evangelica, Gesù alitò sugli apostoli e disse: « Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi » (Gv 20,21-23). Quanto importante e purtroppo non sufficientemente compreso è il dono della Riconciliazione, che pacifica i cuori! La pace di Cristo si diffonde solo tramite cuori rinnovati di uomini e donne riconciliati e fatti servi della giustizia, pronti a diffondere nel mondo la pace con la sola forza della verità, senza scendere a compromessi con la mentalità del mondo, perché il mondo non può dare la pace di Cristo: ecco come la Chiesa può essere fermento di quella riconciliazione che viene da Dio. Può esserlo solo se resta docile allo Spirito e rende testimonianza al Vangelo, solo se porta la Croce come e con Gesù. Proprio questo testimoniano i santi e le sante di ogni tempo!
Alla luce di questa Parola di vita, cari fratelli e sorelle, diventi ancora più fervida e intensa la preghiera, che quest’oggi eleviamo a Dio in spirituale unione con la Vergine Maria. La Vergine dell’ascolto, la Madre della Chiesa ottenga per le nostre comunità e per tutti i cristiani una rinnovata effusione dello Spirito Santo Paraclito. « Emitte Spiritum tuum et creabuntur, et renovabis faciem terrae – Manda il tuo Spirito, tutto sarà ricreato e rinnoverai la faccia della terra ». Amen!
http://www.perfettaletizia.it/archivio/anno-A/nuove_omelie_html/IV_pasqua.html
IV DOMENICA DI PASQUA
I Lettura (At 2,14,36-41)
Dagli Atti degli apostoli
(Nel giorno di Pentecoste), Pietro con gli Undici si alzò in piedi e a voce alta parlò così: « Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso ».
All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: « Che cosa dobbiamo fare, fratelli? ».
E Pietro disse loro: « Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro ».
Con molte altre parole rendeva testimonianza e li esortava: « Salvatevi da questa generazione perversa! ». Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone.
Salmo (22)
Rit.Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia. Rit.
Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza. Rit.
Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca. Rit.
Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni. Rit.
II Lettura (1Pt 2,20-25)
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo
Carissimi, se facendo il bene sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi,
asciandovi un esempio,
perché ne seguiate le orme:
egli non commise peccato
e non si trovò inganno sulla sua bocca;
insultato non rispondeva con insulti,
maltrattato, non minacciava vendetta,
ma si affidava a colui che giudica con giustizia.
Egli portò i nostri peccati nel suo corpo
sul legno della croce, perché,
non vivendo più per il peccato,
vivessimo per la giustizia;
dalle sue piaghe siete stati guariti.
Eravate erranti come pecore,
ma ora siete stati ricondotti al pastore
e custode delle vostre anime.
Rit. Alleluia, alleluia.
Io sono il buon Pastore, dice il Signore;
conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me.
Rit. Alleluia.
Vangelo (Gv 10,1-10)
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse:
« In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore.
Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei ».
Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
Allora Gesù disse loro di nuovo: « In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo.
Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza ».
OMELIA
La parabola dell’ovile è centrata sulla figura del pastore vero che entra per la porta dell’ovile, aperta dal guardiano, mentre i ladri e i briganti vi entrano scavalcando il muro di cinta e immobilizzando, di conseguenza, il guardiano. Ma le pecore non seguono la voce di estranei e quindi si agitano e non li seguono.
Una realtà non difficile da comprendere, anche per noi, che in definitiva di greggi e di pastori ne abbiamo visto pochi e forse nessuno.
Il vero pastore è riconosciuto dalle pecore, che lo seguono, mentre messosi in testa al gregge le dirige verso buoni pascoli. Noi piuttosto abbiamo visto che il pastore sta dietro il gregge, ma questo avviene sul tratturo già definito; ed è quando si tratta di indirizzare il gregge verso un pascolo nuovo che il pastore si pone davanti e le pecore lo seguono.
I pastori veri entrano per la porta dell’ovile e Gesù dichiara di essere lui la porta, il che vuol dire che i pastori d’Israele non passando attraverso la porta di un’autentica attesa messianica, e di un’autentica lettura del Messia, della sua regalità autentica, presentata dalle Scritture, sono diventati dei ladri e dei briganti. Le pecore si sono sbandate; ma ecco esse ora odono la voce del Buon Pastore, la voce che dice la verità, e lo seguono.
Ora egli raccoglie le pecore sbandate, senza pastore: “Erano come pecore senza pastore”, si legge nei Vangeli (Mt 9,36; Mc 6,34).
Così il Buon Pastore, raduna il gregge dando la vita per esso, e lo salva e lo affida a pastori nuovi (Cf Gr 3,15; 23,4; Ef 4,4), i quali dirigono il gregge uniti a lui, il Pastore Supremo (Cf. 1Pt 6,4), e le pecore sentono nei nuovi pastori la presenza del Buon Pastore, poiché essi agiscono passando attraverso di lui, cioè agendo con Cristo, per Cristo e in Cristo.
I ladri e i briganti, cioè le guide cieche di Israele, hanno portato morte e rovina nell’ovile, ma Gesù è venuto per portare vita in abbondanza, e le sue parole e opere lo testimoniano. I ladri e i briganti cercheranno di uccidere il Buon Pastore, e lo faranno, ma non riusciranno ad altro che a far risplendere la Vita, la quale inattaccabile, vincente, gloriosa uscì dalla tomba e si innalzò alla destra di Dio, inviando poi sulla Chiesa lo Spirito che dà la vita (Cf. Gv 6,63; Ap 21,6; 22,1s; Credo).
La gloria che il Figlio aveva dal Padre, era l’amore col quale eternamente, senza cominciamento, egli è generato; quell’amore che nel mistero dell’unità di Dio è il fuoco dello Spirito Santo, che procede dai due ed è il tramite tra i due, glorificava eternamente il Verbo. La gloria che uno riceve è fatta di lode, di stima, d’amore. Così negli eterni splendori della Trinità, il Figlio era glorificato dal Padre mediante lo Spirito della gloria (Cf. 1Pt 4,14), per quel sì pronunciato da tutta l’eternità alla sua incarnazione e morte. Ma il Figlio, abbassatosi a noi in una kenosis (Cf. Fil 2,7) vertiginosa e insondabile per caricarsi delle nostre colpe, e che il Padre ha trattato da peccato (2Cor 5,21; 1Pt 2,24), ha raggiunto, nel durissimo concreto dell’esperienza della morte di croce, l’assoluta perfezione dell’obbedienza, e il Padre lo ha reso gloriosissimo, annientando per lui la morte e facendolo sedere alla sua destra. Il Padre non gli ha ridato la gloria che aveva presso di lui “prima che il mondo fosse” (Cf. Gv 17,5) – in quanto futuro Verbo incarnato – ma gliel’ha data moltiplicata.Noi, fratelli e sorelle, che contempliamo, nella fede, la gloria del Pastore eterno (Cf. Gv 17,24) non dobbiamo esitare ad imitarlo, non dobbiamo esitare a percorrere la strada della vittoria.
“Cristo patì per voi lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme”. Agli oltraggi nessuna risposta di oltraggio. Alle sofferenza nessuna risposta di vendetta, ma un rimettere la sua causa “a colui che giudica con giustizia”.
Ecco il profilo del vero pastore, di ogni battezzato che diffonde il Vangelo nel suo stato di vita e di ogni sacerdote ordinato. Ecco il modello, e chi si modella in esso nella grazia dello Spirito Santo, esprime il Buon Pastore.
Il vero pastore entra in contatto con gli uomini per mezzo del Buon Pastore che ha dato la sua vita per dare vita, e li unisce al gregge, che è la Chiesa, presentando lui, “porta di ingresso”; e guida il gregge, la porzione di gregge che ha di fronte, ai pascoli di vita.
Vediamo Pietro, diventato buon pastore, come chiama a Cristo gli uomini. Il suo messaggio è espresso con franchezza, non sgusciante. Egli parla al cuore degli uomini e li responsabilizza delle proprie colpe. Veramente, fratelli e sorelle, non è un servizio agli uomini rendere sempre più blando il senso del peccato, magari in nome della misericordia di Dio. No, il peccato è peccato, e questo fa risaltare il perdono della misericordia divina. Molti ostacolano un vero pentimento banalizzando il peccato, rendendolo un semplice rimbalzo psicologico in una determinata situazione. Noi cristiani tutte le volte che pecchiamo crocifiggiamo di nuovo Cristo (Cf. Eb 6,6) e dobbiamo, come gli ascoltatori di Pietro, sentirci “trafiggere il cuore” per averlo fatto; ma senza cadere nello sconforto o, peggio, nella disperazione, poiché il Signore è ricco di misericordia e ci aspetta per la riconciliazione.
Ma, poi, perché peccare? Il peccato non ha nessuna ragione di essere posto. Ma poi, perché peccare, noi che conosciamo il Signore? Perché dubitare di lui, visto che il peccato trova la nostra accoglienza in concomitanza all’assenso ad un dubbio circa l’amore di lui?
Egli è il Buon Pastore, perché dubitare di lui? Lui che è fedele e dà sicurezza, come magnificamente esprime il ritornello ripreso dal salmo 22: “Anche se vado per una valle oscura,non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza”.
Quanta pace procura la parabola dell’ovile! Quanta pace comunica il salmo! E quanto disagio, raccapriccio, produce l’immagine dei ladri e dei briganti che scavalcano il recinto per portare morte e distruzione!
In una valle oscura, dice il salmo, buia, perché non vi entra neppure il raggio della luna e per questo il cammino è ricco di insidie per buche profonde o in insidie di uomini. Il bastone in mano al Buon Pastore indica la forza con la quale egli difende il suo gregge, e i lievi colpetti dati con il vincastro richiamano alla retta via qualora si fosse tentati di deviare, finendo così tra gli spini o in una buca profonda.
Un cammino con la prospettiva di una mensa di pace e di letizia, che ci aspetta, sempre pronta anche davanti ai nemici. E, fratelli e sorelle, quella mensa della letizia e della pace noi la possediamo; è l’altare, è la Celebrazione Eucaristica; è Cristo, il capotavola, che si dona, dandoci da mangiare e bere il suo Corpo e il suo Sangue. Amen. Salve Regina, mater misericordiae.