Jesus is the bridge

http://www.novena.it/mattutino/mattutino03.htm
IL FOGLIO E IL PUNTO NERO
Gianfranco Ravasi
Un maestro indù mostrò un giorno ai suoi discepoli un foglio di carta con un punto nero nel mezzo. «Che cosa vedete?», chiese. «Un punto nero!» risposero.
«Nessuno di voi è stato capace di vedere il grande spazio bianco!», replicò il maestro. È questa la legge che fa riempire di cronaca nera i giornali e le televisioni: un solo delitto ha più peso di mille atti di generosità e d’amore, secondo i parametri dell’informazione. Anche noi siamo pronti a cogliere la pagliuzza nell’occhio dell’altro e ignoriamo la luminosità sorridente di tanti sguardi. È normale elencare tutte le amarezze dell’esistenza e ignorare la quiete e le gioie che pure accompagnano la maggior parte dei nostri giorni.
Il nostro pensiero si fissa con più facilità sui punti neri del cielo della storia che non sulle distese di azzurro e di luce. Certo, non si deve essere così ottimisti o ingenui da ignorare il male che pure costella le vicende umane, ma non è giusto considerare come marginali la meraviglia delle albe e dei tramonti, lo stupore del sorriso dei bambini, il fascino dell’intelligenza, il calore dell’amore. Il sì è più forte del no.
E in questa linea vorremmo aggiungere un’altra nota. Ce la offre Pirandello nel suo dramma Il piacere dell’onestà (1918) quando il protagonista dichiara: «È molto più facile essere un eroe che un galantuomo. Eroi si può essere una volta tanto; galantuomini si dev’essere sempre». Anche nel bene può, quindi, vigere la stessa legge: il punto più luminoso dell’eroismo attira tutta l’attenzione, facendo dimenticare che è ben più mirabile il tenue filo di luce che percorre tutte le giornate di un genitore dedicato alla sua famiglia, forse con un figlio disabile. C’è un eroismo quotidiano che non fa suonare le trombe davanti a sé, ma che ha in sé una grandezza ben più gloriosa.
http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=1%20Pietro%202,4-9
BRANO BIBLICO SCELTO – 1 PIETRO 2,4-9
Carissimi, 4 stringendovi a Cristo, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, 5 anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo. 6 Si legge infatti nella Scrittura: Ecco io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso.
7 Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato
è divenuta la pietra angolare, 8 sasso d’inciampo e pietra di scandalo.
Loro v’inciampano perché non credono alla parola; a questo sono stati destinati. 9 Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce.
COMMENTO
Il sacerdozio dei credenti
La Prima lettera di Pietro è uno scritto cristiano della fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma che secondo gli studiosi moderni è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire in qualche modo a Pietro o al suo ambiente. Essa non è una lettera vera e propria, ma un’omelia a sfondo battesimale. Lo scritto si apre con il prescritto e una benedizione (1,1-5). Il corpo si divide in tre sezioni: 1) Identità e responsabilità dei rigenerati (1,6 – 2,10); 2) I cristiani nella società pagana (2,11 – 4,11); 3) Presente e futuro della Chiesa (4,12 – 5,11). La prima di queste tre sezioni si divide a sua volta in due parti: la prima (1,3-25) contiene un’esortazione generale sui temi della vigilanza, della santità e dell’amore vicendevole, e termina con un richiamo al tema iniziale della rinascita (1,23; cfr. 1,3); nella seconda l’autore tratta della crescita spirituale, prima da un punto di vista personale, con l’immagine dello sviluppo biologico (2,1-3), e poi sotto un profilo comunitario, rappresentando la chiesa come una comunità sacerdotale (2,4-10). La liturgia propone alla riflessione quest’ultimo brano, che a sua volta si articola in quattro momenti: il sacerdozio dei cristiani (vv. 4-5); Cristo «pietra d’angolo» (v. 6); Cristo «pietra d’inciampo» (vv. 7-8); il sacerdozio del popolo di Dio (vv. 9-10).
Il sacerdozio dei cristiani (vv. 4-5)
Il brano si collega mediante il relativo pros hon (a lui) con l’ultimo termine della frase precedente (ho Kyrios, il Signore). Esso inizia con queste parole: «Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi, come pietre vive, venite [da Dio] costruiti come edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali, a Dio graditi, per mezzo di Gesù Cristo» (v. 4-5). Il participio «stringendovi» (proserchomenoi, avvicinandovi), indica il rapporto personale con Cristo in cui i credenti sono entrati mediante la conversione e il battesimo. Cristo è qui designato come la «pietra» di cui parlano le Scritture (cfr. le citazioni ai vv. 6-8). Questa pietra è «viva» in quanto si tratta di una persona, ma più ancora perché Cristo è il vivente (cfr. At 3,18 e 4,10-11) e da lui la vita è comunicata ai credenti. Essa è «rigettata dagli uomini» (cfr. v. 7: Sal 118,22), sia in passato, da parte dei capi del popolo ebraico (cfr. At 4,5-11), sia al presente (cfr. v. 8; 4,17). Ma è «scelta e preziosa agli occhi di Dio», come è detto in Is 28,16 (cfr. v. 6): Dio infatti, resuscitando Cristo ed esaltandolo alla sua destra (cfr. 3,16.22), lo ha riabilitato e lo ha costituito «pietra d’angolo».
Come Cristo, il vivente, anche i cristiani sono «pietre vive», rigenerati «per una speranza viva» (cfr. 1,3) e partecipi della «grazia della vita» (cfr. 3,7). L’immagine è orientata all’affermazione centrale: «(su di lui) siete edificati…». Il passivo implica l’azione di Dio: egli ha posto la pietra d’angolo, Cristo, e su di essa costruisce la comunità dei credenti quale «casa o edificio (oikos) spirituale». L’aggettivo «spirituale» (pneumatikos) si riferisce allo Spirito che vivifica e santifica la comunità cristiana (cfr. 1,2; 4,6-10). Alla luce di numerosi testi sparsi nel NT (Mt 16,18; 1Cor 3,9-17; 2Cor 6,16s; Ef 2,20-22; 1Tm 3,15; Eb 3,2-6; 10,21; cfr. anche 1Pt 4,17; 2,9) è certo che l’immagine dell’edificio e il tema della costruzione si riferiscono alla Chiesa, comunità unita dalla fede nell’unico Signore, opera di Dio che continuamente la edifica e vi dimora. E’ probabile che, dato l’accostamento a «sacerdozio» e «sacrifici», l’edificio sia connotato come nuovo «tempio» (per cui cfr. Mc 11,17 par.; 14,58 par.; Gv 2,19-21; At 7,48).
L’azione di Dio tende a un risultato, che si precisa come realtà personale e comunitaria («sacerdozio santo») da cui scaturisce un agire etico-esistenziale («per offrire…»). Alla luce di Es 19,6 (LXX, citato al v. 9), la comunità cristiana è presentata come un «corpo di sacerdoti» (hierateuma) capace di offrire a Dio il culto autentico, cioè «sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo». L’aggettivo «santo» (hagion) sottolinea l’elezione e consacrazione a Dio (cfr. commento al v. 9). L’autore pensa certamente ai sacrifici delle religioni pagane, ma soprattutto il culto ebraico con i suoi diversi sacrifici: olocausto, sacrifici di comunione, sacrifici di espiazione. Già l’AT documenta un processo di spiritualizzazione del culto, considerato legittimo solo se è accompagnato dalla «giustizia», mentre il concetto di sacrificio si estende alla preghiera, alla penitenza, alla carità.
I sacrifici che i credenti offrono a Dio sono «spirituali» non perché sono immateriali, ma perché, ad analogia dell’«edificio spirituale», sono resi possibili dall’azione dello Spirito, sono da esso animati. Essi si identificano con l’insieme della vita cristiana, in quanto esprime la santità costitutiva dei credenti (cfr. v. 9), e in particolare le opere dell’amore fraterno (cfr. 1,22; 3,8-12), la condotta esemplare nella società (2,11-3,7), la pazienza nelle avversità subite a motivo della fede (2,19-21). Questi, e non altri, sono i sacrifici «graditi a Dio»: lo stesso culto di Israele è obiettivamente superato per la novità definitiva del nuovo patto. Essi gli sono offerti «per mezzo di Gesù Cristo», non solo perché è lui l’unico mediatore (cfr. Rm 8,34; Eb 7,25; 1Gv 2,1), ma anche perché i cristiani sono a lui uniti e «in lui» (cfr. 3,16) compiono quelle opere indicate come «sacrifici spirituali».
Cristo pietra angolare (v. 6)
Le affermazioni riportate nella prima parte del brano sono ora confermate con un riferimento esplicito all’AT: «Si legge infatti nella Scrittura: Ecco, io pongo in Sion una pietra scelta angolare preziosa, e chi crede in essa non sarà confuso» (v. 6; cfr. Is 28,16). Con questa citazione l’autore intende sottolineare non solo che quanto ha affermato è contenuto nella stessa parola di Dio scritta, ma anzi che questa si realizza compiutamente solo in riferimento a Cristo e alla Chiesa. Con le parole di Is 28,16 si porta anzitutto l’attenzione sul rapporto tra Cristo, pietra angolare posta da Dio, e la Chiesa che su di lui è costruita come edificio fatto di «pietre vive».
Sul monte, che è sede del suo tempio, Dio ha posto una «pietra scelta, di grande valore», che precedentemente (cfr. v. 4) è già stata identificata con Cristo; egli è la «pietra d’angolo», ossia il fondamento di quell’edificio che è la comunità del nuovo popolo di Dio, con la funzione di darle stabilità e compattezza. Ne segue che («e» con valore consecutivo) «chi in essa crede», ossia poggia fermamente, è fondato su di essa (cfr. il significato della radice ebraica ’mn che denota fermezza, stabilità) «non resterà confuso»: questa espressione, intesa in senso obiettivo e con probabile allusione al giudizio (cfr. 1Gv 2,28), significa «non andare in rovina» (cfr. anche Rm 9,33). La fede richiesta è certo ormai la fede cristiana, di cui si parla fin dall’inizio della lettera (1,2.7-8.21).
Cristo pietra d’inciampo (vv. 7-8)
L’autore prosegue ora contrapponendo la funzione positiva esercitata da Cristo, pietra angolare, nei confronti della comunità cristiana a quella negativa riguardante i non credenti: «Onore dunque a voi che credete; ma per i non credenti la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra d’angolo, pietra d’inciampo e sasso di scandalo; essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola; a ciò sono stati destinati» (vv. 7-8). Ai credenti «l’onore» è dovuto sia nel presente, come dignità inerente allo statuto di popolo eletto, sia in futuro al momento della parusia (cfr. 1,7). Per i non credenti invece si avvera quanto è affermato in altri due testi nei quali ricompare l’immagine della pietra: Cristo è «la pietra che i costruttori hanno scartato» e che Dio ha posto come «pietra d’angolo» (Sal 118,22; cfr. Is 28,16 citato al v. 6); per quanti lo respingono egli diventa «pietra d’inciampo e rupe da cui si precipita» (cfr. Is 8,14). La Scrittura dunque getta luce sull’esperienza della prima missione cristiana: per i giudei come per i gentili Cristo è «scandalo», sasso nel quale s’inciampa (cfr. 1Cor 1,23; Rm 9,32-33), «segno di contraddizione» che causa la «rovina di molti» (Lc 2,34), perché contraddice le attese e le pretese umane.
Gli increduli «inciampano perché non credono alla parola», ossia al vangelo (v. 8b; cfr. 3,1; 4,17): respingendo l’iniziativa salvifica di Dio in Cristo, i non credenti «disobbediscono» a lui, così come un tempo aveva fatto «il popolo disobbediente e ribelle» (cfr. Is 65,2 citato in Rm 10,21). L’autore soggiunge: «a questo stati destinati» (v. 8c). In linea di principio, si afferma che la stessa incredulità rientra nel disegno salvifico di Dio. Il concetto di (pre)-destinazione solleva un difficile problema teologico: occorre però ricordare che la destinazione a inciampare, quindi a cadere e ad andare in rovina, va di pari passo con la responsabilità dell’uomo e con la destinazione di Cristo a «pietra angolare» per tutti (cfr. v. 6). Chi lo respinge dunque non è escluso, ma si autoesclude dalla salvezza. Il tema della pre-destinazione appare anche altrove nel NT (per es. Rm 9,19-24; 11,25-27) con lo scopo non solo di affermare l’assoluta signoria di Dio nella storia della salvezza, ma anche di ammonire circa la serietà del rifiuto opposto all’annuncio evangelico e di confermare nella fede quanti hanno accolto il messaggio cristiano.
Il sacerdozio del popolo di Dio (vv. 9-10)
A questo punto l’autore trasferisce alla Chiesa i titoli che definiscono lo statuto di Israele come popolo santo di Dio: «Ma voi [siete] la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché annunciate le opere meravigliose di colui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce» (v. 9). Gli attributi della Chiesa, ripresi dal testo classico di Es 19,6 nonché da Is 43,20, si riassumono nell’espressione «popolo di Dio» (v. 10; cfr. Os 1-2), del quale mettono in rilievo diversi aspetti.
La Chiesa è anzitutto «stirpe eletta» (genos eklekton) (cfr. Is 43,20) in senso non più etnico ma spirituale, in quanto ormai Abramo è il padre di tutti i credenti, circoncisi e non circoncisi (cfr. Gal 3,7-9; Rm 4,11-12.16-17). Attraverso l’esperienza della salvezza, Israele ha scoperto l’amore di predilezione che JHWH aveva per lui (cfr. Dt 7,6-8; 14,2) e ha riconosciuto di essere stato «scelto» tra tutti i popoli; allo stesso modo e in senso più alto la Chiesa, fatta di ebrei e gentili, sa di dovere la propria esistenza all’amore e alla elezione divina.
Alla Chiesa viene poi applicato il titolo «sacerdozio regale» (basileion hierateuma), ricavato da Es 19,6. Questa espressione può essere tradotta, come fa la Vg (regale sacerdotium) e la CEI, «sacerdozio regale», ove basileion (regale) è considerato un aggettivo che qualifica il sostantivo hierateuma (sacerdozio). A favore di tale traduzione si può portare il fatto che nel contesto appaiono altri binomi formati da un sostantivo accompagnato da un aggettivo o da un complemento con valore di attributo. La comunità cristiana, in qualità di vero ed escatologico popolo di Dio, costituirebbe dunque un organismo o «corpo di sacerdoti» al quale compete la qualifica di «regale» perché è dedicato al servizio di Dio, considerato come re: forse è sottintesa una punta polemica nei confronti del culto dell’imperatore, cui erano addette corporazioni di sacerdoti pagani.
Ma l’espressione può anche significare «casa/dimora del re (e) corpo di sacerdoti»: basileion sarebbe allora un sostantivo indipendente, accostato asindeticamente a hierateuma. A favore di questa lettura, che negli ultimi tempi ha guadagnato terreno, si portano tre fatti: sia nel greco profano che nei LXX basileion è per lo più sostantivo (= regno, sovranità, monarchia, città reale, palazzo reale); nella tradizione interpretativa ebraica ai due termini del binomio è spesso riconosciuto un valore autonomo; infine anche in Ap 1,6; 5,10 «regno» (basileia) e «sacerdoti» (hiereis) sono considerati come sostantivi indipendenti. Si avrebbe pertanto che la comunità cristiana è la dimora di Dio, il luogo della sua presenza (cfr. il termine oikos nel v. 5) e, al tempo stesso, un organismo sacerdotale consacrato al suo servizio.
I credenti sono inoltre la «nazione santa» (ethnos hagion) (cfr. Es 19,6): Dio aveva scelto Israele di mezzo alle genti separandolo da esse perché appartenesse a Lui solo, che è il «santo» per eccellenza; a livello escatologico la Chiesa è il popolo santo di Dio, partecipe della sua santità, scelto e separato dal mondo, e i cristiani sono «santi» e chiamati alla santità. L’ultimo titolo, «popolo che (Dio) si è acquistato» (laon eis peripoiêsin) (cfr. Is 43,21), pone l’accento sulla iniziativa di Dio nella redenzione (cfr. 1,18; 3,18.21) e sulla radicale appartenenza della comunità cristiana a Dio (cfr. il concetto ebraico di segullâ in Es 19,6).
La divina elezione sollecita una risposta che, alla luce di quanto già si leggeva in Is 43,21 (cfr. 42,12 e Sal 107,22), consiste nella proclamazione della sua salvezza: «affinché annunciate le opere meravigliose di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce» (v. 9b). Questa risposta è parallela e complementare ai «sacrifici spirituali» (cfr. v. 5) e come questi riconducibile al «sacerdozio santo» della comunità cristiana. Si tratta di una proclamazione cultica, come già nell’AT e nella tradizione giudaica. Nelle prime comunità cristiane l’esperienza della salvezza si riflette nelle confessioni di fede (omologesi), nell’innologia, nelle narrazioni cultuali, e soprattutto nell’Eucaristia, il «sacrificio di lode» per eccellenza, il cui nucleo è costituito dalla berakâ, eulogia-eucharistia rivolta a Dio per la salvezza che egli ha realizzato e manifestato in Cristo. Queste risonanze sono certo presenti nella 1Pt (cfr. la «benedizione» iniziale: 1,3-5), dove si attira l’attenzione anche sulla testimonianza che i credenti debbono ai pagani, sia col «rendere ragione della speranza» cristiana (3,15), sia con la condotta santa (2,12).
Oggetto e motivo dell’annuncio-proclamazione-testimonianza sono le «opere meravigliose» (aretas, nobili gesta) di Dio. Nell’AT queste opere sono principalmente quelle dell’esodo, ma altresì l’insieme degli interventi di Dio a salvezza del suo popolo, in particolare il nuovo esodo, il ritorno dall’esilio; nel NT si tratta ovviamente dell’agire di Dio in Cristo, soprattutto della sua resurrezione, come evento in cui si è manifestata la potenza di Dio (cfr. Ef 1,9-11) e dal quale scaturisce la salvezza dei credenti (le megaleia tou Theou, nella Vg. magnalia Dei, di cui si parla in At 2,11).
Queste opere potenti di Dio sono evocate con una formula, che pone al centro dell’attenzione l’iniziativa della grazia divina nella conversione di quelli che oggi sono credenti e formano il suo popolo santo. Egli infatti è «colui che vi ha chiamati…», ossia ha concretizzato la sua elezione e ha efficacemente avviato il processo che conduce alla gloria con l’appello alla fede (cfr. 1Ts 2,12; Rm 8,28-30). Accogliendo questa vocazione, i cristiani sono passati «dalle tenebre alla sua (di Dio stesso) ammirabile luce». L’espressione, di matrice isaiana (cfr. Is 9,2; 40,1-3.14-15), è usata comunemente negli scritti neotestamentari (cfr. 1Ts 5,4-5; Col 1,12-13; At 26,18) per indicare la conversione e il passaggio dalla vita pagana alla sfera di salvezza, cui apre la fede in Cristo.
Al termine del brano l’autore, riecheggiando Os 1-2, sottolinea il contrasto tra la condizione antecedente e quella attuale: «Voi che un tempo eravate non popolo, ora invece [siete] il popolo di Dio, [un tempo] esclusi dalla misericordia, ora [siete] oggetto del [suo] amore» (v. 10). Le parole del profeta, ora applicate ai gentili divenuti «popolo eletto», sono calate nell’antitesi temporale «un tempo… ora…». Il passato corrisponde alle «tenebre» del v. 9b: è il tempo dell’«ignoranza» (cfr. 1,14) e della lontananza da Dio, «il tempo trascorso nel soddisfare le passioni del paganesimo» (4,3). Il presente è il tempo determinato dalla redenzione (cfr. 1,18-19) e dalla rigenerazione dei credenti (cfr. 1,3.23). Più ancora che l’antico Israele nelle circostanze descritte da Osea, i gentili erano «non popolo», non oggetto dell’amore di Dio e pertanto «esclusi dalla misericordia» (ouk êleêmenoi) (cfr. Ef 2,12: «esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa…»). «Ora invece», grazie alla chiamata divina, alla fede e al battesimo, gli «eletti» a cui è indirizzata la lettera, benché «dispersi» nel mondo pagano (1,1), formano il «popolo di Dio» e sono divenuti «oggetto del suo amore» (eleêthentes; CEI: avete ottenuto misericordia). La Chiesa nasce dall’amore del Padre ed è il nuovo e vero Isrele.
Linee interpretative
L’autore si rivolge alle prime comunità disperse in un ambiente ostile e le incoraggia nella fede ponendo davanti ad esse la dignità della vocazione cristiana. Questa viene delineata con le parole stesse della Scrittura, dalle quali sono definiti il ruolo di Cristo e la relazione della Chiesa con lui. Cristo è la «pietra d’angolo» rigettata dagli uomini ma scelta da Dio, su cui poggia la comunità dei credenti. La Chiesa è l’edificio che Dio costruisce, il tempio nel quale è presente; essa è al tempo stesso un «corpo di sacerdoti» che offre a Dio il vero culto, i sacrifici spirituali a lui graditi. L’immagine dell’edificio e il linguaggio cultico si saldano con la categoria classica del «popolo di Dio», ormai trasferita da Israele alla Chiesa. Il ruolo decisivo di Cristo nella storia della salvezza e nella edificazione della dimora escatologica di Dio si riflette nello scandalo dei non credenti e nell’esperienza del rifiuto, che i cristiani condividono con il loro Signore.
Tra i temi sviluppati nel brano merita particolare attenzione quello del sacerdozio dei fedeli, ritornato di viva attualità negli ultimi decenni. Nell’età patristica si afferma concordemente, sulla base della 1Pietro, ma altresì di Ap 1,6; 5,10 (e 20,6), il sacerdozio comune o universale dei credenti, sottolineandone il legame con il sacerdozio di Cristo e senza affatto negare la realtà dei ministeri nella Chiesa. Al tempo della Riforma protestante la concezione del sacerdozio universale fu riscoperto ed enfatizzato, in funzione anche polemica nei confronti della mediazione ministeriale. Lutero mise l’accento sulla responsabilità di tutti i cristiani quanto all’annuncio dell’evangelo e sui sacrifici spirituali che consistono nel servizio del prossimo. Superata la diffidenza verso tutto ciò che sapeva di protestante, negli ultimi decenni anche la teologia cattolica ha nuovamente messo in luce questo tema biblico, che è stato autorevolmente assunto dal Concilio Vaticano II.
Parlando dei fedeli laici, il Concilio dice: «Tutte le loro opere, le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e persino le molestie della vita, se sono sopportate con pazienza, diventano sacrifici spirituali graditi a Dio per Gesù Cristo (cfr. 1Pt 2,5), i quali nella celebrazione dell’Eucaristia sono piissimamente offerti al Padre insieme all’oblazione del Corpo del Signore. Così anche i laici, operando santamente dappertutto come adoratori, consacrano a Dio il mondo stesso» (Lumen gentium, 34).
Adattamento da F. Mosetto, Sacerdozio regale (1Pt 2,4-10), in A. Sacchi e coll., Lettere paoline e altre lettere (Logos 6), Elle Di Ci, Leumann (TO) 1995, pp. 571-582.
http://www.perfettaletizia.it/archivio/anno-A/nuove_omelie_html/V_pasqua.html
LETTURE ED OMELIA V DOMENICA DI PASQUA
I Lettura (At 6,1-7)
Dagli Atti degli apostoli
In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove.
Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: « Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola ».
Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani.
E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede.
Salmo (32)
Rit.Il tuo amore, Signore, sia su di noi: in te speriamo.
Esultate, o giusti, nel Signore;
per gli uomini retti è bella la lode.
Lodate il Signore con la cetra,
con l’arpa a dieci corde a lui cantate. Rit.
Perché retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra. Rit.
Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame. Rit.
II Lettura (1Pt 2,4-9)
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo
Carissimi, avvicinandovi al Signore, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: « Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso ».
Onore dunque a voi che credete; ma per quelli che non credono la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo e sasso d’inciampo, pietra di scandalo.
Essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola. A questo erano destinati. Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa.
Rit. Alleluia, alleluia.
Io sono la via, la verità e la vita, dice il Signore:
nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.
Rit. Alleluia.
Vangelo (Gv 14,1-12)
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: « Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: ‹Vado a prepararvi un posto›? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via ».
Gli disse Tommaso: « Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via? ». Gli disse Gesù: « Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto ».
Gli disse Filippo: « Signore, mostraci il Padre e ci basta ». Gli rispose Gesù: « Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: ‹Mostraci il Padre›? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere.
Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.
In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre ».
OMELIA
Quello che non deve mai cessare, subire rallentamenti, è l’annuncio del Vangelo. Abbiamo ascoltato il caso del malcontento nelle mense della comunità di Gerusalemme. Un caso grave perché conteneva una trappola per il Vangelo; infatti, la soluzione proposta era indubbiamente quella di coinvolgere direttamente gli apostoli, con il conseguente rallentamento della loro azione evangelizzatrice. La “trappola”, così mi piace chiamarla poiché certamente vi era interessato il Diavolo, fu sventata con l’istituzione, comandata dallo Spirito, di sette diaconi, alle dirette dipendenze degli apostoli. Così l’azione evangelizzatrice della Chiesa non subì rallentamenti, e si rese adeguata anche quanto alle opere.
“Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense”; dunque l’annuncio della Parola ha il primato sulle opere, che certamente vanno fatte, poiché esse scaturiscono dalla Parola. Va notato pure che insieme all’annuncio della Parola gli apostoli evidenziarono il valore della preghiera: “Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola”.
L’azione della Chiesa prolunga così l’azione del Cristo che annunciò il Vangelo, pregò il Padre, compì le opere.
Centro della Chiesa è Cristo, dal quale prende essere e vita. “Stringetevi a Cristo” ci dice san Pietro, poiché solo in tal modo la Chiesa cresce nella compattezza diventando costantemente quello che è nel disegno del suo fondatore: un edificio di pietre vive in cui egli è la pietra angolare.
Cristo, dunque, deve essere incessantemente ascoltato, obbedito, imitato, creduto, annunciato.
Stringersi a Cristo è trovare la forza di superare i momenti di paura, di turbamento di fronte agli ostacoli posti dal mondo, di fronte alle reazioni violente del mondo.
Quante volte si perde l’audacia, ci si lascia prendere dallo sgomento; quante volte ci viene la voglia di battere in ritirata e di costruirci “un castello” protettivo, rassicurante.
Guardiamo i discepoli. L’ebbrezza dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme è terminata. C’è pesantezza nei discepoli, si aspettavano un crescendo di trionfo e invece niente. I discepoli sono smarriti; Gesù ha denunciato la presenza di un traditore in mezzo a loro, mentre a Pietro ha rivelato che egli, il Cristo, sarebbe stato da lui rinnegato per tre volte. La loro consistenza sarà scossa, ma Gesù li invita a reggere, a non turbarsi, a stringersi attorno a lui, a lasciare i sogni di grandezza in questa terra perché la grandezza l’avranno in cielo. “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore”.
Ma, come abbiamo ascoltato, Tommaso è lontano dal cogliere il parlare di Gesù: “Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?”. Filippo, parimenti sembra non ricordare più quanto aveva udito da Gesù più volte: (Gv 8,19) “Se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio”; (12,44) “Chi vede me, vede colui che mi ha mandato”; (13,20) “Chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato”. All’udire che “nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”, domanda di poter vedere il Padre, vorrebbe l’evidenza del Padre, e così la sua fede sarebbe sazia (“e ci basta”, dice), senza pensare che l’evidenza gli annullerebbe la fede; infatti, ciò che è evidente, palese, non ha bisogno di essere creduto sulla base della parola di uno; in questo caso di quella di Gesù; così Filippo vuole essere autonomo da Gesù, vuole credere senza la parola di Gesù. Filippo chiedendo una visione del Padre slega dal Padre Gesù, e così mette da parte l’unità di natura tra la persona di Gesù e quella del Padre; e Gesù lo richiama subito: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come tu puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?”. Credere in Gesù significa vedere Gesù, e vedere Gesù significa vedere il Padre. “Credete a me” – dice ancora Gesù -; “Se non altro, credetelo per le opere stesse”. Le opere, i miracoli di Gesù, chiari, evidenti, sono stati una prova di credibilità delle sue parole, poiché Dio non compie miracoli accreditando un menzognero (Cf. Gv 10,31). “Se non altro”, dice Gesù, cioè in fase minimale, ma si può ben meglio accedere alla fede in lui, vedendo lui, l’agire di lui, le parole di lui, la carità, la dolcezza di lui, la preghiera di lui. Importanti i miracoli, ma bisogna poi arrivare a cogliere lui, a questo conduce la fede viva, solo così si vede il Padre.
Stringersi attorno al Cristo, come c’invita Pietro significa credere in Gesù, con una fede viva.
A questo punto voglio fare una serie di considerazioni perché noi viviamo in un tempo dove la fede è attaccata da ogni parte; e, dico, non è tanto il pericolo dell’ateismo, ma quello del razionalismo, niente affatto scomparso nei suoi rivoli più astuti, meno facili da cogliersi.
Noi sappiamo, dalla parola di Dio, che la fede senza le opere è morta in se stessa (Cf. Gc 2,17). Ora la morte segue le infermità, e le infermità della fede si hanno quando poco si hanno le opere, cioè poco si imita Cristo, poco si obbedisce alla sua parola, e spesso si tronca la vita di grazia con il peccato. Così si ha una fede smorta, languente. Chi è in queste condizioni sostiene la sua fede con le prove di credibilità: miracoli, storicità dei Vangeli, esistenza dei campioni della fede nella Chiesa, coerenza dogmatica lungo i secoli da parte della Chiesa. Crede, ma crede per ragionamento, il che non vuol dire che l’intelligenza sia soppressa nel credere, ma, voglio dire, ciò non accede alla fede viva, che vive di un’intima unione con Cristo nel dono dello Spirito Santo. A chi ha fede languente, e nello stesso tempo è pieno di cultura, di letture le più varie, le difficoltà si presentano con la forza del dubbio, non sapendo che scarsamente vederle come problema, che la fede può risolvere. Costui si condanna a non essere un “convinto di Dio”, cioè ad avere una vera fede, non disgiunta dall’amore operante. I dubbi lo assalgono ed egli in fondo li macina, fino ad accoglierli come test positivi della sua intelligenza; si vanta di avere dubbi, si sente intelligente proprio perché ha dubbi. E quando vede chi crede veramente, poiché la fede esclude il dubbio, definisce quel credente un mistico, dimenticando che ogni cristiano vero é un mistico, anche se non ha doni mistici straordinari. E che la dottrina della Chiesa e tutti coloro che hanno doni mistici straordinari dichiarano d’avere solo la grande certezza comunicata dalla fede, la quale è bene espressa dalle parole della lettera agli Ebrei (11,1): “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”; e, dunque, non sono fuori della necessità di credere, di aderire e obbedire alla Parola, sapendo bene che i misteri della fede per quanto sondati restano tali; solo nella visione beatifica di Dio essi non saranno più tali, e per questo cesserà la fede (Cf. 1Cor 13,10-12). Il fatto è che il vero cristiano non macina e macina sulle prove di credibilità; una volta esaminate le trattiene nel cuore, poiché sono importantissime, ma non macina e macina, poiché vive l’incontro con Cristo, e in questo incontro nello Spirito Santo cresce la sua fede; e si rinnega secondo la parola del Vangelo, prende la sua croce e segue il Signore, cioè lo imita (Mt 16,24).
La fede non è un fatto statico, o cresce o decresce. La fede viva va sempre esercitata. Chi macina e macina sulle prove di credibilità senza slanciarsi nell’incontro con Cristo ha una fede in stato di coma profondo. Certo ogni credente si trova di fronte ad interrogativi, ma appunto sono tali e chi ha fede viva sa che la parola di Dio lo illuminerà e riuscirà a sciogliere gli interrogativi, e che rimane sempre la consultazione di sacerdoti di sana dottrina e profonda preghiera; e, in ogni caso, li scioglierà nei cieli.
La fede, fratelli! Conserviamola veramente viva perché è il nostro bene supremo. Essa ci unisce a Cristo il quale è la via che ci conduce al Padre e ai fratelli; è la verità che ci libera dalle menzogne; è la vita che ci dona la comunione viva con il Padre nel dono dello Spirito Santo, e che ci lancia nelle strade per portare ad ogni uomo il Vangelo. Nessuna avarizia in Gesù, nessuna grettezza: “Chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre”. Amen, fratelli e sorelle! Ave Maria. Beata te, Maria, che hai sempre creduto (Cf. Lc 1,46).
http://www.tempidifraternita.it/archivio/bodratoweb/bodrato13.htm
QUANDO L’INIZIO FA CORTOCIRCUITO CON LA FINE, AD ANDARE A FUOCO SIAMO NOI
Si consiglia di leggere questo articolo tenendo presenti i sequenti passi biblici: Romani 5, 12- 21 e 8, 18-27; I Corinti 15, 20-28; Filippesi, 2, 5-11; Colossesi 1, 15-20; Apocalisse, cap. 21-22.
Proprio perché comincia coi racconti dell’origine e termina con le immagini di una rivelazione (apocalisse), che adombrano la conclusione ultima, la Bibbia non può non contenere pagine che tentano un incontro tra questi suoi due estremi. L’inizio preordina in qualche modo la fine e la fine inevitabilmente rimanda alle grandi attese e ai fondamentali valori dell’inizio. Lo abbiamo chiarito in termini generali in uno dei nostri primi interventi, ma qui ora dobbiamo tornarci con maggiore attenzione. Infatti la ripresa neotestamentaria del tema delle origini si caratterizza proprio per lo stretto rapporto posto tra primo e ultimo nell’interpretazione della figura di Gesù, anzi quasi traforma la loro potenziale relazione in una sorta di cortocircuito cristologico.
Tutto ciò solleva un’infinità di questioni esegetiche e teologiche tutt’altro che semplici, come abbiamo visto durante la rilettura del prologo del Vangelo di Giovanni. Se in Gesù si incontrano, infatti, l’originaria potenza creatrice del Verbo, quella storico-rivelatrice dello Spirito e, in ultimo, la realizzazione escatologica della pienezza in Dio della creazione e della storia, Gesù è la sintesi del tutto, la verità di Dio e la verità dell’uomo, il compimento che riassume in sè ogni altro essere e ogni altra attesa, ma, come Crocefisso-Risorto, ne è anche la radicale problematizzazione.
L’esegesi tipologica come strumento neotestamentario di lettura e di scrittura biblica
Tutti sappiamo che le pagine che compongono il Nuovo Testamento nascono dal bisogno di tradurre in annuncio e in testimonianza scritta la fede cristologica dei primi seguaci di Gesù. Potremmo anche tentare di articolare in tempi e livelli diversi le tappe che hanno portato alla professione esplicita di tale fede, per meglio comprendere che essa non forma un blocco unico e non corrisponde, sic et cimpliciter, alla predicazione di Gesù. Ma questo ci condurrebbe lontano. Ci basti qui tenere presente il fatto che tutto il Nuovo Testamento è frutto di una riflessione sull’esperienza del proprio incontro, diretto o indiretto, col Nazareno che, per tradursi in scritto teologicamente orientato e orientante, in cristologia appunto, si vale di una profonda rilettura dell’Antico Testamento, di una sua continua rivisitazione per mezzo di citazioni esplicite e implicite, di rimandi e rielaborazioni. In sostanza si potrebbe quasi dire che i libri cristiani della Bibbia nascono come ricucitura di quelli ebraici intorno alla figura di Gesù di Nazaret detto il Cristo.
Anche questa è una caratteristica della Bibbia, quella di essere un libro che mette in scena la propria stesura, che tematizza ed esplicita la propria natura aperta, capace di continui aggiornamenti e completamenti. Per di più dovuti ad una lettura che si fa scrittura, che genera pagine nuove, degne di diventare compagne delle antiche e sorgente di altre infinite riletture e riscritture.
E’ così che hanno operato Paolo, Giovanni e le loro scuole, che ha operato l’autore della lettera agli Ebrei e quello dell’Apocalisse. Quando hanno cercato di dare corpo teologico e forma letteraria e simbolica alla propria convinzione di fede che Gesù era il Cristo, hanno evocato i temi teologici, le forme letterarie, i simboli portanti della fede veterotestamentaria, hanno utilizzato le grandi figure della Scrittura per convogliarle e raccoglierle intorno alla persona del loro eroe. Hanno dato vita ad una straordinaria operazione esegetico-creativa che va sotto il nome di tipologia.
Ce lo documenta con straordinaria chiarezza Earle Ellis nel suo studio sull’uso de L’antico Testamento nel primo cristianesino (Brescia, 1999). « L’esegesi tipologica era già stata impiegata nel giudaismo, ma per il cristianesimo primitivo essa divenne la chiave fondamentale per l’interpretazione scritturistica della figura e della missione di Gesù. » Essa si basa, infatti, sulla convinzione che gli eventi cristiani della salvezza si spiegano come realizzazione di analoghi eventi testimoniati dalla storia passata di Israele. Considera questi ultimi come anticipazioni e figure, come tipi o antitipi del Cristo. Tratta anzi a sua volta il Cristo stesso come prefigurazione e anticipazione, come tipo profetico del compimento futuro dell’intero processo redentivo (p. 141).
Ora, in generale, nel Nuovo Testamento la tipologia si presenta come tipologia della creazione e tipologia dell’alleanza. La prima presenta Adamo come « tipo di colui che doveva venire » (Rom 5, 14) e Gesù come nuovo Adamo, capace di rovesciarne l’umano destino di morte in destino di vita (I Cor 15, 22). La seconda fa di Gesù il nuovo Mosè e degli eventi dell’Esodo dei « tipi » della nuova alleanza, dei « tipi » che « vennero messi per scritto quale ammonimento per noi su cui è giunta la fine dei tempi » (I Cor 10, 6-11). Il che porta ad un terzo genere di tipologia, quella escatologica. Poiché, infatti la nuova alleanza, associata alla morte e resurrezione di Gesù, sfocia in una nuova creazione, le due prime tipologie non solo possono intrecciarsi, ma di necessità si incontrano nell’immediata apertura ad una dimensione nuova e diversa del creato e della storia.
E’ esattamente per questo che Paolo può parlare di una creazione che attende la propria liberazione dalla rivelazione dei figli di Dio (Rom 8, 19), che gli autori delle lettere ai Colossesi e agli Ebrei possono presentarci Gesù come primizia del creato, capo della chiesa storica e primogenito dei risorti e dei riconciliati con Dio (Col 1, 15-20, Ebr 1-2), che il visionario dell’Apocalisse può aprire la sua prima lettera alle sette chiese qualificando l’emissario, Gesù risorto, come il Primo e l’Ultimo (2, 8) e chiudere la sua opera con una promessa che riassume enfaticamente tutto questo processo di risintetizzazione cristologica e martiriale del processo creativo e redentivo: « Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città. Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omnicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna. » (22, 12-15).
La cristologia come modello deflagrativo del presente
Ora questa ripresa sintetica del tema creativo e redentivo, posti in così stretta relazione con la realizzazione del loro fine ultimo, ci obbliga a renderci conto che il nostro non è affatto un credo pacificamente rassicurante e che la Bibbia cristiana, proprio perché non ci consente di dimenticare il passato, ma continuamente lo rilancia verso il futuro, è un libro esplosivo, un libro che fa del presente una sorgente di infinito e mai esausto dinamismo. Il che è evidente soprattutto per la cristologia, che privata di tale carattere dinamico e dirompente e letta come una dottrina metafisica degli attributi essenziali del Nazareno, diventa un « busillis » indecifrabile.
Il presente cristiano è per definizione un presente inquieto e lacerato, un presente in lotta per diventare quello che già sa di essere, ma ancora non sperimenta in tutta la sua pienezza. Un presente che potremmo paolinamente definire come un presente in corsa o in gara e che nulla esenta da questa situazione agonica di attesa e di tensione: non la storia con la sua specifica conflittualità, ma neppure la natura, con le sue tradizionali prerogative di fissità e perfezione.
Abbiamo in proposito già ricordato il passo in cui Paolo parla della creazione impaziente « Di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio » (Rom 8, 21),. Ma ora dobbiamo capire che quest’opera non consiste solo nella restaurazione di uno stato iniziale, temporaneamente deturpato dal peccato, bensì di qualcosa di totalmente nuovo e rivoluzionario, tanto rispetto all’essere originario del mondo, quanto e al nostro stare post-cristico. « Sappiamp bene, infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno già vede, come ancora potrebbe sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza. » (8, 22-25).
Il che vale anche per il parallelo tipologico Adamo-Cristo. Gesù, come nuovo ed ultimo Adamo, non si limita a cancellare le colpe e i mali introdotti nella vita dalla trasgressione di Adamo, in quanto « il dono di grazia non è come la caduta ». « Se infatti per la caduta di uno solo morirono molti….molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo » (Rom 5, 15-17). Egli è un « tipo » di Adamo che supera il padre naturale di tutti gli uomini, non soltanto perché, « pur essendo nella forma di Dio » (Filippesi 2, 6 e Gen 1, 26), « non considerò lo stato di equaglianza a Dio come una possibile preda » (Fil 2, 6; Gen 3, 5-6), ma anche perché, con la sua scelta di obbedienza fino alla morte, manifestò una vocazione alla signoria ben superiore a quella affidata da Dio ad Adamo e ottenne « un nome che è al di sopra di ogni altro nome…Un nome…di fronte al quale si piega ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra » (Fil 2, 7-11).
Se anche la creazione dove rinnovarsi
Siamo ad un passo dalle affermazioni cristologiche del prologo di Giovanni e delle lettere ai Colossesi e agli Ebrei sulla preesistenza di Gesù Cristo alla natura e sulla sua stessa funzione creatrice; affermazioni che abbiamo esaminato nell’ultimo articolo e che ci sono sembrate davvero problematiche. Ma siamo anche ad un passo dal coglierne, insieme, il limite, la necessità e la paradossalità.
Il limite, perché in nessuna di queste professioni di fede cristologica, Gesù è presentato come Dio per essenza e per pacifica connaturalità, ma sempre e solo in relazione dinamica privilegiata con Lui, in rapporto di vicinanza e prossimità operativa molto stretta, in funzione mediatrice insostituibile nel momento creativo, in quello storico rivelativo e in quello escatologico.
La necessità perché senza una propria forte coloritura cristologica difficilmente la teologia cristiana potrebbe presentarsi come fedele rielaborazione innovativa di quella ebraica: fedele nella linea della progressiva e sempre più radicale interpretazione kenotico-redentiva dell’operare di Dio; innovativa nella scelta incarnazionista ed escatologica.
Paradossale perché proprio ciò che costituisce l’originalità della teologia cristiana, la sua forte enfasi cristologica, non si limita a caricare il Cristo di tutte le tensioni della natura e della storia, ma con lui carica di tali tensioni anche il cristiano e il suo tempo, vale a dire il nostro presente, conducendolo al limite della rottura.
E’ così che ci troviamo sfidati a vivere ogni nostra giornata come se si trattasse dell’attimo in cui il Regno può fare irruzione nella storia, ad esercitare, insieme, la virtu paziente e fiduciosa dell’attesa, l’operosità attiva di chi sa che da essa dipende ben più del suo destino, il coraggio di anticipare nella realtà mondana i segni di un futuro totalmente nuovo. E’ così, infine, che siamo invitati a far nostra la convinzione che il fondamento di tutto ciò non sta nella sicura conoscenza di un passato, ben saldo, ma nello slancio di una fede che tutto proietta al di là del già dato, come speranza: persino il vero essere dei cieli e della terra nuova in cui sognamo di ritrovarci risorti e liberati dalla morte e dal male.
Non abbiamo letto, forse, che coloro, che con bianche vesti, lavate dal sangue dell’Agnello, potranno aver parte all’albero della vita (Ap 22, 14), non si troveranno nel giardino edenico della prima creazione ma in una città martire della storia, trasformata in Gerusalemme celeste (21, 9-27)? Non ci è stato annunciato che tutto ciò comporterà la scomparsa del cielo e della terra di prima e, in forma assoluta e definitiva, del mare (21, 1)? Che analoga sorte toccherà alle tenebre e alla notte e, di conseguenza, allo stesso ritmo quotidiano del loro alternarsi con la luce del giorno (22, 5)?
Solo immagini, certo, non più che figure e simboli, ma simboli, figure e immagini che ci fanno capire che neppure l’opera « molto buona » del primo capitolo di Genesi regge alla prova dell’escaton cristico; che neppure la creazione col suo Dio può da sola essere presa come punto d’appoggio solido e definitivo per aprire, senza problemi, la bella formula di un credo cristiano.
Aldo Bodrato
http://www.sangiuseppespicello.it/catechesi-e-riflessioni/lectio-su-testi.html
II CORINTI 2°- LETTURA MEDITATA 1, 12 –2, 12
Sino al capo VIII la Bibbia di Gerusalemme intitola “Ritorno sugli incidenti passati”, che sono supposti. I versetti citati si possono intitolare “Malintesi da chiarire”.
Nelle relazioni umane ci sono sempre malintesi.
• A volte per colpa nostra. Non si bada a tutto, soprattutto se si hanno molte cose da fare, perciò gli altri possono sentirsi trascurati. Spesso una parola detta in un senso, è capita in un altro.
• A volte è colpa di altri, nei nostri confronti, per gli stessi motivi.
• Il più delle volte per colpa di nessuno. Solo per la complessità della vita, per notizie mal trasmesse, arrivate in ritardo o affatto, a causa di fatti fortuiti che creano sospetti da ogni parte.
Come Paolo reagisce ai malintesi
Forse era stato detto di lui di non essere sincero, di fare il doppio gioco, di agire per motivi umani, di dire una cosa e pensarne un’altra, di predicare bene ma razzolare male. Erano i pettegolezzi della comunità.
• Nei vv. 12-14 in altre parole vuol dire: “Guardate che io sono onesto. Non accetto che si dubiti della mia onestà. Non ci sono in me seconde intenzioni. Si dica quel che si dica, ma io spero che alla fine comprenderete che vi voglio bene, che sono con voi, che sono il vostro vanto”.
• Insegna a noi come comportarci nei malintesi. Si ritira, pur amareggiato, sereno dalle calunnie e offese, che lo toccano nell’intimo in quanto sono relative alla predicazione. Usa accortezza, segno di paternità. Insegna che si diventa veramente padri e madri generando nella sofferenza, nella pazienza, nella perseveranza.
• È, dunque, necessario passare attraverso le prove in genere, e anche dei malintesi, per maturarsi. Entrare in questa fatica senza darsi per vinti, senza cedere alla tentazione di chiudersi.
Entra in un particolare malinteso
È quello di un viaggio rimandato. Cosa che ha dato origine ad un mucchio di speculazioni, di calunnie, d’interpretazioni, di lotte tra diversi partiti, d’offese reciproche anche con espressioni di grave insulto per lui. La situazione ha creato sofferenze per tutti (fino a 2, 4).
• Paolo reagisce riaffermando la propria onestà di fondo. Se ha dovuto cambiare è stato per validi motivi, senza sottintesi.
• Porta, per difendersi, un argomento prettamente paolino (= “Cristo vive in me”) e si eleva ad una contemplazione cristologica. Il Cristo non fu “sì” e “no”.
• Il tutto trasforma in consolazione: “Amen”. Ed ecco, per la nostra riflessione, tre sottolineature.
? Non perdere la testa e la calma in tali situazioni. Non lasciarsi prendere da animosità. Ridurre il fatto ai contenuti essenziali cercando, per quanto possibile, di chiarirli. Aspettare che le cose si plachino, evitare di giudicarle subito. Al momento Paolo rinuncia alla visita pastorale e, solo dopo calmate le acque, scrive questa lettera. È un esempio di prudenza e saggezza.
? Trasformare tutto in occasione d’approfondimento e crescita della fede. Paolo l’approfondisce contemplando Cristo che è il “sì” di Dio, il solo “fedele”, l’unico su cui appoggiarsi. Ecco come la preghiera di Paolo, fatta nella sofferenza, si trasforma in consolazione. Siano, pertanto, benedette le nostre difficoltà, piccole e grandi, se ci portano a questi passi di fede!
? “Non intendiamo far da padroni sulla vostra fede” (v. 24). Indica di non pretendere, di non aver fretta nel vedere il risultato, d’essere pronti a rinunciare al proprio punto di vista. È necessario, prima, guadagnarsi la stima altrui.
Come n’esce Paolo (Capo II, 2-11).
Scrivendo una lettera: “Vi ho scritto…” (v. 4). È questa? (= vi sto scrivendo), è un’altra non conosciuta? (= molto probabilmente), è quella riportata al capitolo 10, di tono vigoroso e violento? (probabile). A noi interessa ricavare delle riflessioni.
? Lo sforzo di esprimersi nella sofferenza, di non restare nella propria amarezza, di non chiudersi in se stessi, scioglie a poco a poco la situazione difficile. È necessario attendere il momento giusto. È necessario il dialogo, senza ferire.
? Infatti, quando un malinteso è portato non a pura accusa o polemica, ma ad espressione umile, autentica, sofferta, nasce la possibilità di una nuova e profonda amicizia. Ecco perché Dio ha permesso incomprensioni e malintesi pure tra i santi.
? “Ritenni opportuno non venire…” (v.1). Siccome deve essere servo della gioia (I°, v. 24), preferisce non andare per niente, per non rattristare com’era avvenuto prima. Se anche Paolo cerca la gioia, dove la trova se non nella comunità? Vi ritornerà quando sarà riacquistata.
? Continua poi a difendersi ricordando lo svolgimento delle cose (la lettera per chiarire un fatto doloroso – la condanna della comunità verso il colpevole – il suo pentimento – il tempo di usare misericordia).
L’ultima risorsa è il perdono (vv. 10-11).
È il momento in cui, dopo essersi spiegati, rimane il perdono. E’ il segno più alto della divinità del cristianesimo. È gratuità assoluta senza alcuna contropartita, è cosa che appartiene solo a Cristo e ai suoi veri seguaci. Però è necessario riconoscere di aver sbagliato, per accogliere il perdono e “per non cadere in balia di Satana”.
Paolo rimane legato con affetto paterno alla comunità. Lo dimostra il fatto di avere atteso notizie da Tito, che aveva portato, probabilmente, la lettera “scritta fra le lacrime”. (vv. 12-13). Lo incontrerà in seguito (7, 5-16) con buone notizie.