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L’AUTOCOSCIENZA CRISTIANA E IL POPOLO EBRAICO di Bruno Forte

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L’AUTOCOSCIENZA CRISTIANA E IL POPOLO EBRAICO

di

Bruno Forte

Il raduno escatologico d’Israele è – secondo diversi esegeti – la causa per la quale Gesù, ebreo ed ebreo per sempre, ha speso la Sua vita: a sua volta l’Apostolo Paolo avverte come questione decisiva per il suo essere discepolo di Cristo quella del misterioso disegno per cui questo raduno è dilazionato nel tempo (cf. Rom 9-11). Già questi semplici dati basterebbero per motivare il singolare interesse della fede cristiana al popolo ebraico, cui si aggiunge – sul piano culturale e spirituale – la consapevolezza dell’enorme apporto che l’ebraismo ha dato alla formazione della coscienza europea e della civiltà in generale. Radicati nella tradizione ebraica sono alcuni paradigmi di fondo dell’ethos dell’Occidente, come il senso di una storia orientata all’éschaton e la relazione al Dio unico e personale. Innumerevoli sono i pensatori e i protagonisti della nostra crescita culturale, morale e sociale, che vengono dall’ebraismo, quali – per fare solo qualche nome significativo del nostro secolo – Martin Buber, Franz Rosenzweig, Emmanuel Lévinas…
Come va dunque concepito il rapporto fra ebraismo e cristianesimo? Quale “riconciliazione” va perseguita come possibile e doverosa nei rapporti fra l’autocoscienza cristiana e il popolo ebraico? Secondo Paolo la vera e piena riconciliazione fra i due popoli appartiene al tempo della fine: essa coinciderà con qualcosa paragonabile a una “risurrezione dai morti” (Rom 11,15). Questo significa che nel tempo intermedio fra il primo e l’ultimo avvento del Signore Gesù ciò che è possibile e doveroso cercare è un cammino verso la riconciliazione, più che una riconciliazione compiuta, riconoscendo che questa apparterrà al tempo che il Dio della promessa riserva per tutti noi. Questa chiarificazione libera subito da attese azzardate: salvi restando gli itinerari individuali possibili, che rispondono ai disegni particolari dell’Eterno su ciascuno, Israele e la Chiesa dovranno camminare inconfusi, anche se inseparabili, fino all’integrazione finale operata dal Signore, in quello “shalom” escatologico, che è l’oggetto della speranza messianica di entrambi i popoli.
L’idea di una riconciliazione in cammino, piuttosto che compiuta, supera definitivamente ogni ipotesi di sostituzione, secondo cui la Chiesa avrebbe semplicemente preso il posto d’Israele nel piano divino della salvezza: è lo stesso Paolo che mette in guardia dal vanificare quello che egli chiama il “mistero” (Rom 11,25), in base al quale Israele – nella misura in cui mantiene la fede dei Padri – resta il testimone dell’elezione e delle promesse di Dio e richiama alla Chiesa la “radice santa” (cf. Rom 11,16 e 18) su cui essa è innestata e dalla quale non è mai lecito prescindere. Nell’unità dell’economia della salvezza c’è Israele, il popolo dell’alleanza mai revocata anche se non ancora pienamente compiuta, e c’è la Chiesa, il popolo stabilito nell’alleanza posta dal sangue di Cristo: unico è il disegno salvifico, ma diverse le alleanze, da quella con Noé, a quella con Abramo e i patriarchi, dall’alleanza mosaica a quella stabilita nella morte e resurrezione del Signore Gesù. Unica è la struttura fondamentale della relazione attuata mediante la rivelazione, per la quale l’Eterno si è destinato nell’amore al suo popolo e questo è chiamato a destinarsi a Lui nella fede, ma diverse sono le tappe e le forme dell’economia.
Non ci sarà allora autentico cammino di riconciliazione fra la Chiesa e Israele senza il riconoscimento del valore irrinunciabile della “radice santa”, e perciò senza un effettivo, forte amore dei cristiani nei confronti della promessa fatta ai Padri, dei testi in cui essa si esprime e del popolo che ne è stato e ne è testimone nella storia a prezzo anche della vita. Ma non sarà nemmeno autentico un cammino di riconciliazione che escludesse per i cristiani la confessione di Gesù come Signore e Cristo, resa dimostrando con la parola e con la vita che è lui la pietra di scandalo posta in Sion, ma che «chi crede in lui non sarà deluso» (Rom 9,33). In altre parole, i due popoli devono camminare uniti verso la stessa meta, ma la Chiesa, riconoscendo Israele come la radice che la precede e la fonda, non potrà far a meno di guardare allo stesso Israele e al futuro della promessa attraverso la rivelazione del Signore Gesù.
Questa idea è espressa dall’immagine patristica, tratta dalla Scrittura, degli esploratori inviati da Mosé nel paese di Canaan, che «giunsero fino alla valle di Escol, dove tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono in due con una stanga» (Num 13,23) per mostrarlo al popolo e accendere il desiderio della conquista. Nel legno da cui pende il grappolo i Padri hanno riconosciuto la Croce da cui pende Cristo: «Figura Christi pendentis in ligno» (Evagrio, Altercatio inter Theophilum et Simonem: PL 20,1175). Nei due portatori dell’asta hanno visto invece la Chiesa e Israele, che guardano entrambi verso la stessa meta, uniti dalla stessa speranza. La differenza sta nel fatto che mentre Israele precede e vede perciò davanti a sé l’aperto orizzonte, la Chiesa, che segue, guarda sì allo stesso orizzonte, ma lo fa attraverso il grappolo appeso e il legno dell’asta, oltre che attraverso chi la precede, attraverso cioè il Signore Crocefisso ed il popolo e i testi dell’alleanza mai revocata (cf. ib.).
Camminare all’unisono, anche se nella diversità, è dunque il compito da assolvere in vista della riconciliazione finale: il che richiede alla Chiesa di coniugare la confessione del Signore Gesù all’amore verso Israele, nella consapevolezza di una dualità ed anche di una scissione che non devono essere ignorate, e sono anzi fonte di una sofferenza motivata dall’amore, ma possono essere vissute nel profondo rispetto reciproco, nella comune testimonianza del Dio unico e nella comune attesa del compimento delle Sue promesse, quando ci sarà riservato il dono dello “shalom” finale. Sappiamo, tuttavia, che non sempre la relazione fra ebraismo e cristianesimo è stata pensata così: la storia passata è anzi colma di pregiudizi e di incomprensioni dei cristiani nei confronti del popolo ebraico. Ecco perché per avanzare nel cammino della riconciliazione occorre la “teshuva”, parola ebraica che significa “ritorno”, “conversione”.
Essa si pone a differenti livelli: in primo luogo occorre individuare e riconoscere con precisione le colpe commesse contro il popolo ebraico e i loro effettivi responsabili. Ciò non va fatto solo in rapporto alla Shoah, ma anche più in generale in relazione a quell’“insegnamento del disprezzo”, che è stato alla base di tanto antisemitismo e di tante sofferenze del popolo eletto. In tal senso si è mossa la riflessione della Commissione Teologica Internazionale nel documento “Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato” (cf. 5.4.); in tal senso soprattutto si pone la testimonianza di Giovanni Paolo II, resa molte volte ed in particolare nella Sua visita a Israele (marzo 2000). In questo spirito, a tutti i discepoli di Cristo va chiesta quella larghezza di cuore che li renda capaci di chiedere perdono anche a nome di quanti sono stati effettivamente colpevoli negli eventi della Shoah, consumatasi nell’Europa cristiana.
Questa larghezza di cuore dovrebbe estendersi ad abbracciare tutti gli olocausti di cui la famiglia umana si è resa responsabile, anche nel nostro secolo. In altre parole, la ferma condanna dell’antisemitismo deve portare i cristiani a riconoscerne le radici nel proprio passato e – lì dove necessario – nel proprio presente per purificarsene, ma deve coniugarsi anche a una più profonda sensibilità nei confronti di tutte le forme di violazione dei diritti umani, per vivere un’effettiva solidarietà verso i vinti e gli oppressi. Questo atteggiamento di autentica “teshuva” è richiesto peraltro anche al popolo ebraico attuale, che proprio così può mostrare l’eccellenza della sua elezione e la singolarità della misericordia del Signore di cui ha fatto esperienza. Al tempo stesso, la “teshuva” non potrà confondere l’amore a Israele e il riconoscimento del suo significato di testimone del Dio unico anche nell’oggi con un indiscriminato sostegno alla linea politica che di volta in volta potranno avere i governanti dello Stato d’Israele. Anzi, la “teshuva” – proprio a partire dall’obbedienza alla Parola del Signore – potrà a volte richiedere un atteggiamento critico nei confronti di scelte che non siano rispettose dei diritti di tutti, specie dei più deboli.
In questa prospettiva di veracità e crescita comune davanti a Dio, mi pare importante che i cristiani rivolgano domande a se stessi ed anche all’interlocutore ebraico. A se stessi i discepoli di Cristo dovranno porre almeno queste questioni: quale valore ha per essi l’esistenza del popolo ebraico fino ai nostri giorni? come definire e riconoscere con onestà la responsabilità dei cristiani nei confronti dell’antisemitismo? come coniugare l’amore alla “santa radice”, che è Israele, alla novità rappresentata dal Signore Gesù? in che senso la fede ebraica fa parte costitutivamente dell’identità cristiana? come una più profonda conoscenza della tradizione ebraica vivente può favorire una migliore comprensione della rivelazione e della fede cristiana? come si può perseguire un vero cammino di riconciliazione fra cristiani ed ebrei, nell’attesa dello “shalom” finale, da entrambi sperato? Anche all’interlocutore ebraico i cristiani dovranno porre domande, incoraggiati a farlo da alcune voci particolarmente incisive provenienti dallo stesso Israele odierno, che sperimenta la condizione del tutto nuova dopo duemila anni di essere maggioranza forte in un paese libero: che cosa è possibile ed è giusto chiedere ai nostri fratelli maggiori, gli Ebrei, perché questo cammino sia più facile e spedito per tutti? in che senso e in quali forme la “teshuva” può riguardare anche loro, ad esempio nei confronti della minoranza araba, islamica e cristiana, presente in Israele?
Nel desiderio che il cammino di riconciliazione avanzi su queste premesse, possono essere compiuti alcuni gesti significativi, che servano da richiamo costante all’importanza decisiva del rapporto di riconoscenza e d’amore che lega i cristiani alla loro “radice” ebraica: ne segnalo due, che sono stati proposti e fatti propri dalle diverse comunità cristiane in Italia e in Europa. Il primo è l’appello a non pronunciare il tetragramma, sia per rispetto ai fratelli ebrei, sia per una coerente ed integrale accettazione della rivelazione, che nella proibizione di pronunciare il Nome santo veicola il rispetto e l’adorazione verso la trascendenza divina. La fede dell’ebreo Gesù, che non ha mai pronunciato il Nome, dovrebbe essere esemplare e normativa per i suoi discepoli. Il secondo gesto è l’invito (sorto nella Chiesa italiana e fatto proprio anche dall’assemblea ecumenica europea a Graz nel 1997) rivolto a tutti i cristiani d’Europa a celebrare una “giornata dell’ebraismo”, tesa a favorire la conoscenza del mondo ebraico da parte dei cristiani e il dialogo con l’Israele presente. Gesti simbolici, certamente, e tuttavia capaci di tener viva la coscienza dei credenti in Cristo circa il rapporto costitutivo ed essenziale che li lega alla “santa radice” della loro fede, rappresentata dalla fede del popolo eletto Israele secondo un’alleanza voluta dall’Eterno e mai revocata.

Jesus Christ – Blessed Silence (Mother Anastasia)

 Jesus Christ - Blessed Silence (Mother Anastasia) dans immagini sacre 02884_jesus_christ_blessed_silence_mother_anastasia_monastery_press

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Publié dans:immagini sacre |on 21 mai, 2014 |Pas de commentaires »

SAN PAOLO ALLE ORIGINI DELL’EUROPA

http://www.radicicristiane.it/fondo.php/id/167/ref/5/Speciale/San-Paolo-alle-origini-dell%5C-Europa

SAN PAOLO ALLE ORIGINI DELL’EUROPA

Intervista a Michael Heseman

Michael Heseman è uno studioso e scrittore tedesco che ha già pubblicato alcuni libri ben noti anche in Italia, come Titulus Crucis, in cui dimostra come le più moderne ricerche confermano la veridicità storica di alcune delle reliquie che la tradizione ha tramandato. In questo caso, appunto, il frammento del “titolo”(o tavoletta) affissato per ordine di Pilato sulla Croce di Cristo e conservato nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma. Più recentemente ha scritto un libro, dal titolo Paolo di Tarso – archeologi sulle orme dell’apostolo delle Genti, sulle recenti scoperte che riguardano la figura di san Paolo. Proprio sulla figura dell’Apostolo delle Genti Radici Cristiane lo ha voluto sentire.

di Matthias von Gersdorff
Cosa l’ha particolarmente affascinata nell’apostolo san Paolo sia come cattolico che come storico?
Per uno storico è stupefacente come un solo individuo abbia potuto raggiungere ciò che Paolo ha raggiunto. Per chi poi è un cristiano credente è un indizio chiaro dell’operare della Provvidenza divina. Gesù stesso lo scelse come Apostolo dei Gentili giustamente perché riuniva tutti i requisiti.
Ma più di tutto mi sono sentito attirato sentendo la sua presenza nei luoghi dove ha operato. Ciò l’ho scoperto visitando assieme a un amico ecclesiastico i luoghi paolini di Filippi, Atene e Corinto, prima del viaggio in Grecia del Papa Giovanni Paolo II.
Per noi era una continua e grata sorpresa constatare come san Luca è un buon cronista. Paolo, più che qualsiasi altra figura biblica, lasciò una sua impronta. Così iniziò la mia ricerca durata otto anni e i cui risultati sono in questo libro.
Paolo è a volte una figura controversa per cristiani e teologi. Qualcuno si sente in imbarazzo per quanto dice sul ruolo della donna in chiesa, altri giungono persino ad accusarlo di avere falsato la purezza della dottrina di Cristo.
La “gente di Cloe” – probabilmente si parla di impiegati di una imprenditrice di buona posizione – stabilirono il contatto con Corinto durante il suo soggiorno a Efeso. E quando si parla di Prisca e Aquila sono menzionate prima le donne perché quasi sicuramente guidavano le comunità domestiche.
Durante 8 anni lei ha viaggiato nel Mediterraneo sulle impronte dell’Apostolo delle Genti. Quali furono le sue esperienze più toccanti?
Guardando questi posti ho nutrito la convinzione che si trattava di un racconto fatto da qualcuno che aveva presenziato ai fatti.
Emozionante è anche la forma in cui è stato scoperto il sarcofago di san Paolo, che verrà aperto in un prossimo futuro a San Paolo fuori le Mura.
Ma dove ho sentito più la presenza di san Paolo fu a Malta. Il Papa Paolo VI con tutta ragione la definì “l’isola di san Paolo”. In nessuna parte, eccettuando Roma, si trovano così fresche e ben conservate le orme di Paolo come a Malta.
Sotto l’ampia dimora di Publio, il “primo dell’isola”, è stata scoperta una chiesa cristiana. Pochi anni fa alcuni palombari trovarono quattro ancore di una nave alessandrina che trasportava cereali, la quale potrebbe ben essere quella sulla quale Paolo naufragò a Malta. Ora si cerca, con l’aiuto di palombari locali, di trovare i resti della nave stessa.
Nessuna figura biblica ha lasciato le orme in tanti luoghi storici come san Paolo. Da questo fatto si possono trarre deduzioni sull’importanza che ebbe l’Apostolo sulla Chiesa in quei giorni?
Giustamente un problema con cui s’imbattono le ricerche paoline è che la Chiesa primitiva era molto cristocentrica e non aveva una grande considerazione per i luoghi dove agirono gli Apostoli.
Ciò nonostante sono sopravvissute molte tradizioni locali. Ma è stata una grande sorpresa la riscoperta di luoghi caduti nell’oblio, perché molti di essi si presentano così come san Paolo li ha visti. Soltanto nel secolo IV si costruirono chiese sul Bema di Corinto (la tribuna delle arringhe), la sinagoga di Antiochia di Pisidia e il carcere di Filippi.
Qualche esegeta ha messo in dubbio l’autenticità di alcune epistole di san Paolo. Anche la verità storica di alcuni fatti degli Atti degli Apostoli sono stati messi in discussione. Tuttavia dagli archeologi arrivano continue conferme dei racconti biblici. Come si spiega?
Si spiega anche la fine un tanto repentina degli Atti dopo i due anni di cattività di san Paolo a Roma, dicendo che l’autore già conosceva il suo martirio ma non ha voluto inserirlo. Se leggo una biografia su Giovanni Paolo II che finisce col suo viaggio in Polonia del 2002, ciò significa per me che quella biografia è stata scritta non oltre il 2003; non certo che l’autore l’ha scritta nel 2008, ma ha voluto risparmiare ai lettori la drammaticità della morte di quel grande Papa.
Molti luoghi menzionati nelle epistole di san Paolo non sono stati ancora scavati o lo sono stati in modo parziale. Potrebbe l’Anno Paolino servire da spinta in questo senso?
Io lo vorrei ma ne dubito. Il motivo è semplice: i luoghi paolini non scavati ancora – e fra questi alcuni molto importanti come Listra e Iconio – si trovano in un Paese, la Turchia, che non si interessa particolarmente per il suo passato cristiano. Gli scavi sull’altopiano di Anatolia non offrono neppure una grande prospettiva di sviluppo turistico.
L’unica possibilità è che qualche grande università straniera se ne occupi, ma di norma i loro budget per scavi archeologici sono molto limitati.
L’arcivescovo di Colonia, cardinale Meisner, vuole incentivare la costruzione di un centro per pellegrinaggi a Tarso, luogo della nascita di san Paolo. Come vede questa iniziativa?
Per noi cristiani avere una chiesa a Tarso sarebbe un segno di buona volontà. Da noi le moschee proliferano dappertutto e per la Turchia concedere una chiesa non sarebbe troppo…
Un’ottima opportunità anche per il governo di Erdogan, che si sta dando da fare tanto per l’ingresso nell’Unione Europea, di far vedere che la libertà religiosa non esiste solo sulla carta.
Poi il fatto che questa iniziativa parta dal cardinale Meisner, il mio vescovo, perché io sono di Düsseldorf, mi rallegra in modo particolare.
Che si attende lei concretamente dell’anno paolino 2008/2009?
Theodor Heuss, il primo Presidente della Repubblica federale tedesca, in una certa occasione disse che l’Europa era stata costruita su tre colline: l’Aeropago, simbolo del pensiero e della democrazia, il Campidoglio, simbolo del diritto e il Golgotha, simbolo della visione cristiana dell’uomo.
Bene, nella persona di Paolo troviamo insieme questi tre elementi per la prima volta: il Vangelo che trova la filosofia e conquista Roma. La cultura dell’Occidente è una luce da mettere sul lucernario, non sotto il moggio. Profittiamo di questo Anno Paolino per riscoprire questa grandiosa eredità.
Il suo libro Paolo di Tarso è appena apparso. Quando avremo un altro libro suo e quale sarà la tematica?
Presto, sto facendo ricerche che mi riportano nel secolo XX. Il mio prossimo libro tratterà di un grande Papa vissuto in un momento difficile, a volte mal compreso e persino diffamato vilmente: Pio XII.
Dall’apertura degli archivi vaticani e dal processo di beatificazione, giunto alla fase finale, arrivano elementi notevoli che ricollocano la sua opera sotto una luce completamente nuova.
Ci vedo almeno due grandi opportunità. La prima è invitare ogni cristiano a meditare sulle origini della propria fede, anzi, a trovarle in modo vivo. D’altra parte vediamo che Europa si trova in un processo di ricerca e definizione e quest’anno paolino può aiutarla a riscoprire le radici della sua identità culturale. È una iniziativa meravigliosa, anche perché a Tarso dovrebbe esistere un centro di pellegrinaggi già da molto tempo. Nel luogo della nascita di san Paolo non esiste neppure una chiesa. La cappella che si trova sulla casa dove nacque, è divenuta museo.
Tarso si trova in riva al Mediterraneo, si può raggiungere da Antalya (Attalia) e quindi interessa ai fini del turismo, cosa che il governo turco già ha capito, e almeno negli ultimi anni lì sono stati realizzati scavi. Siamo giunti al paradosso per cui gli storici e gli archeologi credono più alla verità delle epistole paoline che qualche teologo ed esegeta. A volte mi viene da pensare che questi teologi neppure si interessano ai ritrovamenti archeologici, perché potrebbero smentire le ipotesi da loro costruite sul Nuovo Testamento.
Certe speculazioni sono talmente lontane dalla realtà da sembrare uno scherzo. Così qualcuno trova, ad esempio, che gli autori degli Atti sono diverse persone e non solo Luca. Perché? Per che a volte il racconto cambia alla prima persona del plurale, usa il “noi”. Come se a Luca, cronista geniale, non fosse possibile adattare il linguaggio alle circostanze.Mi sono sorpreso di ritrovarmi in diverse esperienze piccole e grandi dicendo a me stesso: “Eureka!”, ovvero in quei momenti in cui, con gli Atti degli Apostoli in mano, mi recavo ad un luogo paolino e trovavo tutto tale e quale l’ha descritto san Luca, il nostro tanto affidabile cronista.
Ciò è molto chiaro, ad esempio, quando si vedono gli scavi – realizzati negli ultimi anni a Cesarea, in Israele – del Pretorio che include il carcere di san Paolo, il tribunale dove fu interrogato, la sala delle udienze dove fu presentato dal governatore Festo al Re Agrippa II. Le femministe moderne l’hanno dichiarato “nemico della donna” perché dice che devono restare zitte in Chiesa e devono sottomettersi al marito. Ma per un ebreo del I secolo queste erano cose normali. La prima esigenza in questo senso proveniva dalla Torah. Se egli avesse detto qualcosa di diverso, sarebbe stato molto più incompreso.
Ma egli agì in modo ben diverso! Il suo primo battesimo fu quello di una commerciante di porpora, Lidia. In genere si direbbe che simpatizzava con “donne forti”. A Cencre mise «la nostra sorella Febe» (Rm. 16,1-2) a capo della comunità e la inviò con l’Epistola ai Romani come “ambasciatrice” nella capitale. Paolo di Tarso è niente meno che il padre dell’Europa cristiana, cioè della nostra civiltà. A lui dobbiamo che da un movimento quasi esclusivamente giudaico attorno alla figura di Gesù sia sorta una religione di ampiezza mondiale.
Egli osò gettare un ponte verso la cultura greco-latina ed ebbe successo, anche perché proveniva da Tarso, città di studi dove si trovavano i due mondi: quello ebreo e quello greco-latino. (RC n. 36 – Luglio 2008)

PACE NELL’ANTICO TESTAMENTO

http://www.rivistazetesis.it/Pace_file/AT.htm

PACE NELL’ANTICO TESTAMENTO

In ebraico i valori fondamentali di šālôm (שלום) si articolano in tre direzioni specifiche: 1. ‘salvezza, incolumità’ (sia come salvezza dei singoli sia come prosperità di poli e regni); 2. ‘pace’ (sia fra singoli sia fra popoli); 3. ‘pace come sommo bene divino’. Il termine per ‘pace’ ha nel mondo semitico una connotazione materiale quasi completamente assente nelle corrispondenti parole del mondo pagano. Per ripetere le parole di von Rad, « è difficile trovare nell’AT un altro concetto così trito e comune nella lingua quotidiana, e tuttavia non di rado carico di pregnante contenuto religioso e capace di elevarsi al di sopra del piano delle immagini comuni, come šālôm … il significato fondamentale della parola è quello di ‘benessere’, con una chiara preponderanza dell’aspetto materiale » (art. cit., 195-196). La parola indica spesso la salute fisica e materiale o la soddisfazione che ne consegue. Questo suo valore ne favorisce l’uso nelle formule di saluto, di augurio e di benedizione (« Va in pace »). Cfr. p.es. Ps. 122, 6 ss. « Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano, sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: « Su di te sia pace! ». Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene ». In alcuni testi šālōm passa dal valore di ‘benessere (materiale e spirituale)’ a quello puro e semplice di ‘buon augurio’. Ad es. in I Sam. 16, 4 gli anziani di Betleem chiedono a Samuele le sue intenzioni dicendo: « è šālōm la tua venuta? » e Samuele risponde semplicemente « šālôm », che qui indica non tanto uno stato attuale quanto la prefigurazione di un’intenzione. Ancora più interessante Ier. 6, 14 « Essi curano la ferita del mio popolo, ma solo alla leggera, dicendo: « Bene, bene! » ma bene non va » (le parole in corsivo sono la traduzione di ebr. šālōm). A partire da questo valore si capisce il senso della formula ‘morire in pace (bešālōm)’, che ricorre p.es. in Ier. 34, 5; Gen. 15, 15 e altrove, ed è alla base dell’espressione formulare cristiana requiescat in pace.
All’interno della vasta gamma di valori di šālōm sta anche quello di ‘accordo fra due contraenti’, analogo insomma a quello riscontrato nell’equivalente latino, e col termine berît šālôm si indica il trattato che dà inizio alla pace: cfr. p.es. I Re 5, 26 « Fra Chiram e Salomone regnò la pace e i due conclusero un’alleanza ».
È stato notato che questo uso del termine è minoritario e appare soprattutto in testi recenti, perché l’AT « non parla della pace tra gli uomini, ma della Signoria di Dio ». Ma più che accordo fra gli uomini o scopo da raggiungere la pace è intesa nell’AT soprattutto come dono divino.
[Sono stati studiati con molto interesse i rapporti che esistono fra la concezione veterotestamentaria della pace e l’idea della pace che emerge nei testi egiziani o mesopotamici (si veda per esempio il capitolo iniziale di H. Schmid). In questi testi spesso la pace è intesa come "qualcosa di divino a cui è ammesso il mondo" (Schmid, p. 41). Nel testo sumerico in cui si descrive la costruzione di un tempo da parte del re Gudea, è il diretto intervento divino che porta a una condizione di pace, i cui contenuti specifici sono l’assenza di ostilità, il benessere materiale e lo stato di uguaglianza tra tutti i cittadibni, senz<a più distinzioni sociali. Tra i compiti del re vi è anche quello di assicurare pace al popolo. Nel prologo del suo codice Hammurabi scrive "io lo ho sempre governati in pace, sempre li ho protetti nella mia sapienza": ma al dovere di garantire benessere e sicurezza ai propri sudditi si contrappone la necessità di mostrarsi inflessibili coi nemici, ed è questa l’altra faccia dell’antico re orientale, che nelle iscrizioni spesso si presenta come "terrore dei nemici", sui quali non esiterà a scatenare la distruzione e dai quali riscuoterà pesanti tributi.]
Basti citare, fra i molti, I Re 2, 33
Su Davide e sulla sua discendenza, sul suo casato e sul suo trono si riversi per sempre la pace da parte del Signore.
Lo stretto collegamento che si ha nell’AT fra pace, benessere e giustizia appare da luoghi come i seguenti: Is. 32, 17 ss.
Effetto della giustizia sarà la pace, frutto del diritto una perenne sicurezza. Il mio popolo abiterà in una dimora di pace, in abitazioni tranquille, in luoghi sicuri, anche se la selva cadrà e la città sarà sprofondata.
o Is. 9, 5-6
Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e sempre; questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.
o Ps. 72, 1-7
Dio, da al re il tuo giudizio, al figlio del re la tua giustizia; regga con giustizia il tuo popolo e i tuoi poveri con rettitudine. Le montagne portino pace al popolo e le colline giustizia. Ai miseri del suo popolo renderà giustizia, salverà i figli dei poveri e abbatterà l’oppressore. Il suo regno durerà quanto il sole, quanto la luna, per tutti i secoli. Scenderà come pioggia sull’erba, come acqua che irrora la terra. Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna.
La giustizia, o addirittura la correzione del prossimo, come condizione necessaria per la pace è ribadita ad es. in Prov. 10, 10
Chi chiude un occhio causa dolore, chi riprende a viso aperto procura pace,
da cui la conclusione radicale che « non vi è pace per i malvagi » come afferma con forza Is. 48, 22, e anche Ps. 28, 3 avvertono: « Non travolgermi con gli empi, con quelli che operano il male. Parlano di pace al loro prossimo, ma hanno la malizia nel cuore ». L’uomo di pace (šālōm) è l’esatto contrario dell’empio, e soltanto il primo ha un futuro, perché l’empio è inesorabilmente avviato verso la distruzione (Ps. 37, 37). Anche il collegamento fra pace e verità ha un rilievo importante nell’AT: la formula šālōm we-’emet s’incontra p.es. in 2 Re 20, 19; Is. 39, 8; Jer. 33, 6; Est. 9, 30. E poiché in ’emet è compresa l’idea della verità come cosa stabilita in maniera definitiva e stabile, nell’espressione šālōm we-’emet può affermarsi l’idea della stabilità anche materiale: con « pace e sicurezza » sono tradotte queste parole ebraiche nella versione italiana corrente.
Ancora, šālōm viene ad assumere un’importanza rilevante nel contesto messianico. Il patto tra YHWH e l’uomo viene definito come immutabile patto di pace: Ez. 34, 25 e 37, 26 usa il termine tecnico berît šālōm per indicare quest’alleanza fra Dio e l’uomo; Is. 54, 10 (« Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace; dice il Signore che ti usa misericordia ») aggiunge all’espressione qualcosa di ancora più intenso affettivamente con l’uso del possessivo (berît šelômî ‘il patto della mia pace’). Principe della pace è il futuro Messia (Is. 9, 5 nel testo ebr. śar šālōm: come scrive von Rad, art. cit., col. 206, « il Messia, in quanto mandato da Dio, è il garante e custode della pace nel futuro regno messianico »), e « disciplina per la nostra pace » la sua passione (Is. 53, 4 môsar šelômnû nel testo ebraico, paideía eêrÔnhj (paideía eirēnēs) nella versione dei LXX: un’espressione pregnante ed efficace, che purtroppo è andata completamente perduta nella versione italiana della Bibbia approvata dalla CEI: « Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti »).
È stato osservato che nei libri dell’AT la cui redazione originaria è in greco eêrÔnh (eirēnē) ha un valore più attenuato, e viene a significare solamente ‘assenza di guerra’. Si è pensato anche a un possibile influsso del pensiero ellenistico su questi testi, ma è più naturale pensare che le cose siano andate diversamente, e che si abbia a che fare con una serie incrociata di interferenze che ha agito sui due termini. Da una parte l’utilizzazione di eêrÔnh per tradurre šālōm rappresenta in qualche modo un ripiego, in quanto l’opposto di eêrÔnh nel parlante greco di epoca ellenistica è pólemoj (pólemos), mentre l’opposto di šālōm è il male in tutte le sue possibili accezioni. Siamo insomma di fronte a un processo di calco semantico che porta ad ampliare considerevolmente la sfera di significati connessa originariamente con eêrÔnh. Ma se la sovrapposizione, peraltro non del tutto completa, fra le due parole ha finito per conferire al termine greco una serie di significati che non gli appartenevano in precedenza e che si svilupperanno pienamente nella successiva letteratura cristiana: d’altronde, non è possibile pensare che ei;rh[nh in ambienti di lingua aramaica (e soprattutto nelle sfere più colte di questi ambienti) sia servita esclusivamente per come riproduzione passiva di šālōm senza alcun rapporto con gli usi che la parola aveva in greco: si tratta di vicende del tutto comprensibili in individui e comunità linguistiche bilingui o plurilingui (ad esempio nelle opere di Filone l’uso di ei;rh[nh corrisponde pienamente a quello del greco ellenistico: cfr. Foerster, art. cit., col. 219). Il diretto riflesso di quest’evoluzione si coglie anche negli usi rabbinici di šālōm, che spesso viene a significare ‘assenza di discordia (fra individui o fra popoli)’: cfr. Foerster, art. cit., col. 215.
Nei testi giudaico-ellenistici eêrÔnh viene ad assumere un significato che tramezza fra quello di ‘perdono’ e quello di Þgáph (agápē) ‘amore (che Dio ha nei confronti degli uomini)’, come appare dal seguente passo di un apocrifo dell’AT, il cosiddetto Enoch etiopico 1, 7 s.:
Tutto ciò che vi è sulla terra perirà, e vi sarà il giudizio di ogni cosa e (il Signore) porrà la pace sui giusti, e per gli eletti vi sarà il perdono e la pace, e per l ro vi sarà la pietà e tutti saranno di Dio e darà loro la sua benevolenza e tutti benedirà e ricambierà ogni cosa e ci aiuterà e apparirà loro la luce e opererà su di loro pace.
Per quanto fra idea della pace semitica e idea della pace greca si abbia l’impressione di cogliere qualche affinità, in realtà la distanza che le tiene separate è enorme. Per riassumere le conclusioni a cui perviene E. Bellini in un breve, ma penetrante esame dei due termini greco ed ebraico (nello scritto collocato in appendice, pp. 129 e ss., al vol. G. di Nazianzo, Teologia e chiesa, Milano, Jaca Book, 1971), due sono fondamentalmente i caratteri che li rende diversi: mentre per i Greci la pace è uno stato di tranquillità, e il benessere è visto come una sua filiazione, sia pure spontanea e naturale, nell’AT la pace è innanzitutto uno stato di benessere o addirittura di perfezione; ancora, mentre per i Greci la pace rappresenta una conquista dell’uomo, nell’AT la pane è un dono divino. Soprattutto potremmo aggiungere con von Rad (art. cit., col. 206) che « non si saprebbe indicar nessun testo in cui la parola šālōm designi lo specifico atteggiamento spirituale della ‘pace interiore’. Anzi si può constatare facilmente che šālōm vien riferito molto più spesso a più persone che non al singolo ». E ancora richiamiamo quanto scrive H. Schmid, a proposito dei riflessi che la lettura dell’AT può avere sul dibattito attuale circa la pace: « Oggi si sente dire che quello della pace appare come il problema per eccellenza, o anche il problema teologico del nostro tempo. Invece nella Bibbia il tema della pace non sta al centro delle riflessioni, come lo è per noi … Che peculiare del mondo sia o debba essere, la condizione di pace, e che l’uomo sia chiamato a realizzarla, è detto in tutti i modi, sia pure con differenze nei particolari. La cosa non è specificamente biblica o cristiana, ma risponde a un postulato umano generale, come sarebbe facile mostrare dando uno sguardo ad altre civiltà. … La pace di Dio e la pace e del mondo, dunque, per l’antico Oriente coincidono e sono divise allo stesso tempo. Questa difficile determinazione delle loro rapporto si può considerare come un prodotto degno di attenzione dello spirito dell’antichità. » (pp. 98 ss.).

The Lord’s Descent into Hades

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DISCESE AGLI INFERI – (1Pt 3,18-19)

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DISCESE AGLI INFERI

“Anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito. E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione” (1Pt 3,18-19).

La morte di Gesù è un evento reale; in modo lapidario il Simbolo niceno-costantinoplitano afferma: “morì e fu sepolto”. Come tutti gli uomini che muoiono.
La dipartita di Gesù da questo modo sembra dunque subire la stessa sorte, la stessa modalità di tutti se non fosse per il fatto che egli, il Pastore “quello bello”, è colui che si inoltra nel sentiero della “valle oscura” (Sal. 22,4) non come tutti i morti, ma come il Signore della Vita. È dunque il Cristo Signore che entra nel regno dei morti e lo attraversa chiamando a seguirlo le sue pecore, cioè le anime dei giusti che attendevano la redenzione.
Il “Simbolo degli Apostoli” aggiunge un particolare interessante: “discese agli inferi”.
Cosa dobbiamo intendere con questa espressione?
Il Catechismo ci ricorda che la Scrittura chiama inferi, shèol o ade il soggiorno dei morti dove Cristo morto è disceso, perché quelli che vi trovano sono privati della visione di Dio. Tutti i morti, sia cattivi che giusti, abitano questo “luogo”, ma ciò – ricorda ancora – non significa che la loro sorte sia identica, come ci insegna Gesù con la parabola di Lazzaro.
Per questo il catechismo afferma: “Gesù non è disceso negli inferi per liberare i dannati né per distruggere l’inferno della dannazione, ma per liberare i giusti che l’avevano preceduto” (CCC 633).
Non dobbiamo intendere la discesa negli “inferi” con l’accezione che ne abbiamo oggi; essa è frutto della tradizione filosofico – teologica detta: “Scolastica”, che lo strutturava in Limbo; purgatorio; inferno dei bambini non battezzati; inferno.
Né possiamo immaginare la sua discesa negli inferi secondo i nostri schemi che si basano inevitabilmente sulle categorie di spazio e tempo.
Nell’aldilà non vi è spazio fisico, né tempo cronologico, ma il “discendere” di Gesù in questo “luogo” va pensato come missione smisuratamente grande e di un reale, effettivo valore, perché l’opera redentrice raggiunge tutti gli uomini di tutti i tempi.
Potremmo pensare che con la morte Gesù abbia portato a compimento il disegno salvifico di Dio. Sbaglieremmo! La fase ultima dell’opera della salvezza è proprio quella di recarsi negli inferi per portare la Buona Novella anche ai prigionieri della morte.
Vi entra dopo aver subito la morte, una morte violenta che gli ha strappato la vita. La sua discesa dalla gloria del Padre lo porta fino all’abisso, punto estremo della distanza dell’uomo da Dio; egli si è spogliato persino della vita per poter assumere quella condizione umana che è la morte, ma il Padre lo ha risuscitato ed egli si avvia, potente e glorioso, fino all’abisso più profondo dove giace l’uomo, schiavo della morte, succube di questo destino e di questo potere, per liberarlo.
L’iconografia bizantina ha saputo rendere questa scena in modo straordinario; il Cristo glorioso, vincitore della morte, scardina le porte degli inferi che giacciono sotto i suoi piedi e, prendendo Adamo ed Eva per i polsi, li strappa dal sepolcro e dalla morte. Essi sono i capostipiti dell’umanità, la rappresentano.

PARTE BIBLICA
“Il sabato santo” è l’indicazione temporale di un evento che rimane di per sé avvolto nel mistero. È l’evento della discesa nel regno dei morti.
Il “segno di Giona” indica da parte di Gesù la consapevolezza della missione agli inferi:
<<Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra>> (Mt 12,39-49).
Non si tratta di semplice solidarietà con i morti; non si tratta solamente di vivere fino in fondo la dimensione umana fino alla morte, così da poter essere accomunato a tutti gli uomini.
La morte di Gesù per poter essere “efficace” deve in un certo senso essere diversa da tutte le altre; in altre parole: per poter essere inclusiva di tutta l’umanità, deve essere esclusiva, unica nella sua forza di espiazione. Andando al di là della comune esperienza della morte, Gesù ne ha misurato tutto lo spessore e ha raggiunto il fondo dell’abisso.
Nell’esperienza della morte, Egli assume tutto il senso della morte, soffrendo ciò che essa infligge al peccatore. In questo senso Gesù fa esperienza della “morte seconda” di cui parla la Scrittura, quell’esperienza di dannazione eterna subita da coloro che rifiutano Dio ostinatamente e dei quali Dio dice: “Via da me maledetti, nel fuoco eterno”.
La Morte allora avvolge con i suoi tormenti coloro che non hanno più nessuna speranza (anzi disperazione assoluta), perché nella totale assenza e privazione di Dio. Gesù arriva fino in fondo all’abisso perché assume su di sé il tormento di questa umanità portandovi la sua luce e spogliandosi di essa a beneficio dei morti, per donare loro la vita, rinunciando alla sua per amore.
Della sofferenza di Gesù in questo abisso possiamo dire che è la sofferenza più grande, infinitamente più grande di quella della croce; è la sofferenza di cui non possiamo immaginare una sofferenza più grande.
È la sofferenza di coloro che, a causa del peccato, sperimentano l’essersi irrimediabilmente smarriti e di aver perduto Dio; Gesù non solo assume su di sé il dolore di tutti costoro, prima di Lui e dopo di Lui, ma sperimenta in sé stesso cosa significa l’ “essere peccato”:
“Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno” (Galati 3,13).
“Colui che non ha conosciuto peccato, egli lo ha fatto diventare peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui” (2Corinzi 5,21).
Di tutto questo Gesù ne era ben consapevole. Egli sapeva bene a cosa sarebbe andato incontro e la percezione dell’abisso di dolore che lo attendeva era presente in Lui quando si paragonava al “servo di Jawhè” descritto nel profeta Isaia: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”. (Is 53,3).
Gesù sa – e lo dice molte volte – che il Figlio dell’Uomo dovrà soffrire, essere ucciso e poi risorgere. Vi è una consapevolezza totale anche su ciò che lo attende dopo la morte; egli sa quale valore debba avere la sua morte e nell’orto degli olivi tocca con mano questa sofferenza morale, quella interiore dello “spirito umano”.
“E disse loro: «L’anima mia è oppressa da tristezza mortale; rimanete qui e vegliate». (Mc 14,34)
Inoltre questa consapevolezza è usata da satana come tentazione per farlo desistere dalla volontà del Padre.
Alla presa di coscienza totale di ciò che lo attende, si aggiunge – come aggravante – la lotta contro la tentazione di Satana. È davvero un agonia nel senso profondo del termine: un agone, una battaglia.. tutto si svolge nel suo cuore, nella sua mente, ma tutto questo è soltanto la premessa, l’anticipazione di ciò che dovrà accadere: un assaggio: ecco allora la sudorazione di sangue.. indizio esterno dell’estrema tensione vissuta nella psiche, nel cuore e nella carne. E tutto questo è solo la premessa: l’impatto distruttivo con la Morte, con il Signore della morte deve ancora arrivare: sulla croce e nel suo regno: gli inferi.
Un grido squarcia il silenzio del Golgota; Gesù, il crocifisso muore. Il Vangelo di Marco riporta così quel tragico momento:
<<Alle tre Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?>> (Mc 15,34).
<< Gesù, dando un forte grido, spirò>> (Mc 15,37).
È una testimonianza scarna, cruda, priva di qualsiasi sentimentalismo. Da questo momento Gesù inizia quella parte della sua missione che lo porta negli “inferi”.
La discesa agli inferi
Vi sono dunque due aspetti della missione di Gesù agli inferi e, anche se complementari e inseparabili tra di loro – sono due aspetti di un’unica azione – tuttavia dovremo considerarli separatamente.
Il primo è relativo l’assunzione del peccato totale che ha come conseguenza la sofferenza più atroce, diventando così “vittima di espiazione” per tutti gli uomini.
Il secondo è la vittoria su satana. Per questo suo umiliarsi, svuotarsi (kenosi) per amore vince il potere di Satana. La forza di Gesù che distrugge il potere di satana non è “violenta”, ma è quella dell’obbedienza, del servizio, dell’amore, del dono totale di sé. La forza di Dio è l’amore!
Vediamo con un po’ più di attenzione questi due aspetti.
Gesù “scende” fino nel più profondo degli inferi. Vi scende come il Servo sofferente di Isaia; l’uomo dei dolori non ha smesso di soffrire con la morte di croce, ma ha solo concluso una parte per lasciare spazio ad un’altra, per certi aspetti ancora peggiore. Qui infatti la sofferenza è immane, eterna.. ed è qui che si devono spezzare le catene della Morte che imprigiona l’umanità. La forza di Gesù sta nell’amore, nel donare la sua vita; un amore unico che lo ha portato a donare la sua stessa vita. Ora così spogliato di sé, obbediente fino alla morte e oltre la morte prende su di sé tutto il male del mondo, il rifiuto, la ribellione, il peccato.
Benedetto XVI nel suo libro “Gesù di Nazaret”, ha un passaggio affascinante quando riprende la teologia proposta dalla lettera agli Ebrei, circa la funzione espiatoria di Gesù.
Infatti nel testo sacro, il corpo di Gesù è paragonato al “hilasteryon” ossia “propiziatorio” che era il coperchio dell’Arca dell’Alleanza, sul quale, una volta all’anno il sommo sacerdote compiva il rito di purificazione dal peccato nel giorno dell’espiazione (Yom Kippur). Su di esso veniva asperso il sangue della vittima sacrificale per propiziarsi Dio e per purificare il popolo dai peccati. Ora – dice la lettera agli Ebrei – abbiamo un nuovo propiziatorio: Gesù. Il suo sangue è offerto per la purificazione dal peccato nel senso che egli lo ha preso su di sé, lo ha assunto. Dio Padre ha donato il suo Figlio che è ciò che di più puro possiamo immaginare perché venendo di mezzo agli uomini e ora scendendo agli inferi, purificasse, espiasse il peccato.
Il dono di Dio fattoci in Gesù è qualcosa di infinitamente puro e per così dire, “purificante” il mondo dal male: basta accostarsi a Lui con fede. In questo senso abbiamo qualcuno che è in grado di vincere il Male.
Scendendo agli inferi vi entra con la purezza assoluta del suo corpo e del suo sangue offerti come sacrificio di espiazione e purificazione. Questo sacrificio vivo e santo, puro e purificante lava l’umanità passata, presente e futura. È il sangue che ci purifica da ogni peccato: <<Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato>> (1Gv 1,7).
Scrive Von Balthasar: L’esplorazione dell’inferno è un evento trinitario. Se il Padre è il creatore dell’umana libertà, allora come ha mandato il Figlio nel mondo per salvarlo e non per giudicarlo, allora deve introdurlo anche nell’inferno (come suprema conseguenza della libertà umana). Questo è necessario se i morti devono ascoltare la voce del Figlio di Dio e, ascoltandola, vivere: “In verità, in verità vi dico: è venuto il momento, ed è questo, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno” Gv 5,25).
Questa discesa è l’inabissarsi nel caos, in quanto di più imperfetto, di deforme possa esserci nella creazione. E siccome lo fa su missione del Padre, veramente assistiamo a una “nuova creazione”; infatti come il Logos di Dio fu mandato nel caos primordiale per creare tutte le cose, per farle passare cioè dal caos all’ordine, così Gesù negli inferi ridona ordine alla libertà dell’uomo dandogli la possibilità della salvezza.
(H.U.von Balthasar: Teologia dei tre giorni; Ed Queriniana 1990; pag. 156 -159).
Gesù porta negli inferi la misericordia di Dio.
Il secondo aspetto è quello relativo la vittoria su Satana; entrando nel suo regno ne spezza le catene, abbatte le porte della prigione, “vince il forte”, gli strappa l’armatura e libera i prigionieri.
Gesù è sempre stato consapevole di dover combattere Satana e il suo potere; lo ha fatto fin dall’inizio della sua missione, nel deserto. Nell’attività esorcistica che svolge durante la missione pubblica dice chiaramente di essere più forte di Satana e che il suo regno sta per finire. Emblematico il racconto di Luca:
<<Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio. Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, tutti i suoi beni stanno al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via l’armatura nella quale confidava e ne distribuisce il bottino>> (Lc 11, 20-22).
L’uomo forte e ben armato è il diavolo, ed egli fa la guardia al suo palazzo, ma Gesù è il “più forte” che penetra nella sua casa per strappargli il potere. Ed è quanto avviene negli inferi. Con i Padri della Chiesa siamo legittimati a leggere in questo senso il fatto della “discesa agli inferi”, dove Gesù vince Satana e libera i prigionieri.
Ora “risale” dagli inferi vittorioso, portando con sé gli uomini: “Per questo sta scritto: Ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini” (Ef 4,8).
Gli antichi legami sono stati infranti dall’amore e Gesù, richiamato dal Padre, risorge a Vita senza fine.

PARTE FRANCESCANA
Guardate – frati – l’umiltà di Dio
È quasi gioco forza pensare a Francesco come a colui che “discende”, intendendo quel processo di umiltà che lo porterà a sentirsi fratello di tutti, persino della creazione. Mentre contempla il discendere di Dio nel grembo di Maria, Francesco rimane stupito per la sua umiltà; dice infatti: “Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio!”. Egli la vede perpetuarsi ogni giorno nell’Eucarestia, esattamente come la prima volta, quando si fece carne nel grembo della Vergine. Se quella discesa umile nella carne fu grande, allo stesso modo ogni giorno compie questa “discesa” umile nel pane consacrato attraverso le mani del sacerdote:
« Ecco – scrive – ogni giorno egli si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine; ogni giorno discende dal seno del Padre sopra l’altare » (FF n. 144); e parlando dell’eucaristia esclama: « Guardate, frati, l’umiltà di Dio! » (FF n. 221).
Guardando Gesù comprende ciò che è chiamato a vivere: scendere per incontrare i fratelli, quelli che stanno “in fondo” alla scala sociale, i poveri, gli ultimi, i lebbrosi.
Non si tratta tanto di una scelta di tipo umanitario o sociale, quanto piuttosto di una scelta teologica, di fede che avrà come risvolto la dimensione umana perché è il desiderio di imitare Cristo e di incontrarlo nell’altro che lo porta a cercare gli ultimi e ad essere “come” loro.
È facile recarsi dagli ultimi ed elargire denaro, aiuti e solidarietà.. più difficile è “diventare-come ” gli ultimi; questo è ciò che ha fatto Gesù e questo è ciò che fa anche Francesco. È questa la “rivoluzione” francescana nella società e nella Chiesa del duecento; ogni posizione di comando, tutto ciò che ha sapere di superiorità, intellettuale, umana, sociale viene da Francesco rifiutata come anti evangelica e quindi diabolica. La soluzione ai conflitti, sia interiori che sociali e anche di religione, sta nell’umiltà di “discendere” al piano dell’altro, come quando si reca in Terra Santa con la crociata. Arrivato a Damietta andrà come fratello dal sultano, per parlare di Dio, con rispetto e amore e ricevendone in cambio stima e amicizia.

LA VITA
Ora proviamo a guardare la nostra vita.. cosa facciamo in questo senso? Cosa potremmo fare che ancora non facciamo?
Ciò che spinge Gesù a discendere fino in fondo alla storia dell’umanità è l’amore per l’uomo e il desiderio di salvarlo.
Ciò che spinge Francesco a discendere è l’amore per Gesù che lo porta a scoprire l’amore per il prossimo in modo nuovo e concreto.
Ciò che spinge entrambi è il desiderio di fare la volontà di Dio.
In primo luogo dunque, ciò che potremmo fare è chiedere al Padre di portarci a compiere la sua volontà. Per poterlo fare credo sia importante riconoscere l’urgente bisogno di permettere a Gesù di “scendere” nella parte più profonda del nostro cuore, della nostra vita, là dove il caos ha bisogno di trovare ordine; là dove lo smarrimento e la sfiducia hanno bisogno di una luce e di una forza liberante.
Gesù deve poter arrivare a quella parte di noi che è peccato, lontananza da Dio e buio; deve poter attraversare quello spazio di miseria. Occorre fare grande verità dentro di noi e solo Lui può aiutarci. Solo così potremo fare esperienza di risurrezione. Con lui dobbiamo scendere anche noi, sapendo che sarà doloroso e faticoso; pensate a tutti quei ragazzi che nelle comunità di Madre Elvira escono dalla droga.. pensate a quale lotta per poter arrivare in fondo alla loro drammatica esistenza, ma lo fanno con Gesù e Gesù con loro cammina e ridona una vita nuova, una vita da risorti.
Questo è il Pastore Bello che cammina con noi nella valle oscura per poter giungere poi alla sala del banchetto.
In secondo luogo occorre crescere nella capacità di farsi prossimo (come nella parabola del buon samaritano) a coloro che sono gli ultimi e magari all’interno della cerchia dei familiari o conoscenti. Quante volte facciamo finta di niente e tiriamo dritto di fronte alle disgrazie o ai problemi altrui. Come il Signore ha fatto con noi così anche noi..

Per la settimana
Risorgere con Cristo. Questo l’obiettivo! Leggerò i vangeli là dove narrano della risurrezione; saranno la mia lettura spirituale e la mia preghiera. Sarà il mio incontro con Gesù Risorto.
Preghiera
Signore, sei sceso nell’abisso del mio cuore dove non c’è vita;
sei sceso là dove tu solo puoi;
sei sceso nella sofferenza dell’amore;
ora vorrei chiederti.
Prendi la mia povertà, il mio peccato, la mia vergogna;
solo con te Gesù potrò avere la Vita.
Solo con te potrò essere amore.
impegno
soccorrere gli ultimi: in famiglia; al lavoro; essere la presenza di Gesù; essere misericordia e amore

VERITÀ DEL CRISTIANESIMO? – JOSEPH RATZINGER 1999

http://www.ratzinger.us/modules.php?name=News&file=article&sid=189

1999: VERITÀ DEL CRISTIANESIMO?

PUBBLICHIAMO LA CONFERENZA “VERITÀ DEL CRISTIANESIMO?”, PRONUNCIATA DAL CARDINAL JOSEPH RATZINGER IL 27 NOVEMBRE 1999
presso l’Università della Sorbona di Parigi, tradotta e pubblicata da “Il Regno-Documenti”, vol. XLV (2000), n. 854, pp. 190-195.

Al termine del secondo millennio, il cristianesimo si trova, proprio nell’arca della sua estensione originaria, l’Europa, in una crisi profonda, che ha la sua ragion d’essere nella crisi della sua pretesa di verità. Questa crisi ha una duplice dimensione. Innanzitutto, si pone sempre più il problema se sia giusto, in fondo, applicare la nozione di verità alla religione: in altri termini, se all’uomo sia dato conoscere la verità propriamente detta su Dio e sulle cose divine. L’uomo contemporaneo può riconoscersi molto bene nella parabola buddhista dell’elefante e dei ciechi.
Un giorno, un re nel nord dell’India riunì tutti i ciechi della città. Poi fece passare davanti a essi un elefante. Lasciò che alcuni ne toccassero la testa, dicendo loro che si trattava di un elefante. Altri riuscirono a toccarne l’orecchio o la zanna, la proboscide, la zampa, il sedere, i peli della coda. Dopodiché il re chiese a ciascuno come fosse un elefante. E, a seconda della parte che essi avevano toccato, risposero: come una cesta intrecciala… come un vaso… come un vomere… come un deposito… come un pilastro… come un mortaio… come una scopa.
Poi – continua la parabola – si misero a discutere gridando: “L’elefante è così, no è così”, si gettarono l’uno sull’altro e fecero a pugni, mentre il re si divertiva. Per gli uomini di oggi, la disputa sulle religioni è analoga a quella dei ciechi dalla nascita. Davanti ai segreti del divino noi saremmo come nati ciechi. Per il pensiero contemporaneo, il cristianesimo non offre affatto maggiori certezze rispetto alle altre: al contrario, con la sua pretesa di verità, sembra ostinarsi nel non vedere il limite che segna ogni nostra conoscenza del divino, caratterizzata da un fanatismo decisamente privo di senso, incorreggibile nel confondere la parte di cui si è avuta esperienza personale con il tutto.
Questo scetticismo generalizzato sulla pretesa di verità in materia di religione e sostenuto anche dai problemi sollevati dalla scienza moderna in relazione alle origini e ai contenuti propri del cristianesimo. La teoria dell’Evoluzione sembra aver surclassato la dottrina della creazione, e le conoscenze acquisite sull’origine dell’uomo quella del peccato originale; l’esegesi critica relativizza la figura di Gesù e pone degli interrogativi sulla sua consapevolezza di Figlio; l’origine della Chiesa in Gesú appare incerta, e così via.
La “fine della metafisica” ha reso problematico il fondamento filosofico del cristianesimo, i moderni metodi storici hanno gettato sulle sue basi storiche una luce ambigua. Diviene facile, pertanto, ridurre i contenuti cristiani a un discorso simbolico, attribuire a essi una verità non superiore a quella del mito nella storia delle religioni, considerarli un tipo di esperienza religiosa che dovrebbe porsi umilmente a fianco delle altre.
In questo senso, sembra che si possa ancora restare cristiani: ci si continua a servire delle espressioni del cristianesimo pur trasformandone la pretesa da cima a fondo, la verità, che era stata per l’uomo una forza obbligante e una promessa affidabile diviene, oramai, un’ espressione culturale della sensibilità religiosa generale, espressione che sarebbe, ci viene fatto capire, il prodotto delle alee della nostra origine europea.

La pretesa di verità
All’inizio di questo secolo Ernst Troeltsch ha formulato in termini filosofici e teologici questo arretramento interno del cristianesimo in relazione alla sua pretesa universale originaria, che non poteva fondarsi che sulla pretesa di verità. Egli aveva maturato la convinzione che non si può prescindere dal dato culturale, e che la religione è legata alle culture. Il cristianesimo è allora soltanto la parte del volto di Dio rivolta all’Europa. Le “particolarità individuali dei Gruppi culturali e razziali” e “le particolarità delle loro grandi formazioni religiose di insieme” acquistano il rango di istanza ultima: “Chi, dunque, oserebbe qui azzardare dei confronti di valori realmente decisivi? Solo Dio, che è all’origine di queste differenze, potrebbe fare una cosa del genere”. Un cieco dalla nascita sa di non essere nato per essere cieco e pertanto continuerà a interrogarsi sul perché della sua cecità e sul modo per uscirne. Solo apparentemente l’uomo si e rassegnato al verdetto di essere nato cieco di fronte all’unica realtà che conti davvero in ultima istanza nella nostra vita. Lo sforzo titanico di prendere possesso del mondo intero, di tirare fuori dalla nostra vita e per la nostra vita tutto quanto è possibile mostra, allo stesso modo che lo sfavillio di un culto estatico, trasgressivo e autodistruttivo, che l’uomo non si accontenta di questa sentenza. Giacché, se non sa da dove viene e perché esiste, non è in tutto il suo essere una creatura fallita? L’addio apparentemente definitivo alla verità su Dio e sull’essenza del nostro io, l’apparente contentezza per il fatto di non doversene più occupare, ingannano. L’uomo non può rassegnarsi a essere e a rimanere come cieco dalla nascita su questioni essenziali. L’addio alla verità non può mai essere definitivo.
Stando così le cose, occorre porre nuovamente la questione fuori moda della verità del cristianesimo, per quanto a molti essa possa sembrare superflua e insolubile. Ma come farlo? Indubbiamente, la teologia cristiana dovrà esaminare attentamente, senza timore di esporsi, le diverse istanze avanzate contro la pretesa di verità del cristianesimo nel campo della filosofia, delle scienze naturali, della storia naturale. D’altra parte, essa dovrà anche cercare di acquisire una visione di insieme del problema della vera essenza del cristianesimo, della sua collocazione nella storia delle religioni e nell’esistenza umana. Vorrei proseguire in questa direzione, mettendo in luce come alle sue origini lo stesso cristianesimo ha concepito la sua pretesa nel cosmo delle religioni.
A mia conoscenza, il testo dell’antichità cristiana più utile a chiarire questi problemi e è il confronto di Agostino con la filosofia religiosa del “più erudito dei romani”, Marco Terenzio Varrone (116- 27 a .C.). Varrone condivideva l’immagine stoica di Dio e del mondo: definì Dio animam motu ac ratione mundum gubernantem (“L’anima che dirige il mondo attraverso il movimento e la ragione”): in altri termini, come l’anima del mondo che i greci definivano cosmo: hunc ipsum mundum esse deum. E vero, questa anima del mondo non riceve culto, non e oggetto di religio: veritá e religione, conoscenza razionale e ordine cultuale si situavano cioè su due piani totalmente differenti. L’ordine cultuale, il mondo concreto della religione, non apparteneva all’ordine della res, della realtà in quanto tale, ma a quella dei mores – dei costumi –. Non erano gli dei che avevano creato lo stato, era lo stato che aveva istituito gli dei, la cui venerazione era essenziale per l’ordine dello stato e la buona condotta dei cittadini. La religione era, nella sua essenza, un fenomeno politico. Varrone distingueva così tre generi di “teologie”, intendendo per teologia la ratio, quae de diis explicatur, la comprensione e la spiegazione del divino, potremmo tradurre noi. Erano la theologia mythica, la theologia civilis e la theologia naturalis.
Mediante quattro definizioni, egli chiariva cosa fossero queste “teologie”. La prima definizione era riferita alle tre tipologie di teologi annoverati sotto queste tre teologie: i teologi della teologia mitica erano i poeti, perché avevano composto dei canti sugli dei ed erano pertanto dei cantori della divinità, i teologi della teologia fisica (naturale) erano i filosofi, e cioè gli eruditi, i pensatori che, andando al di la delle abitudini, si interrogavano sulla realtà, sulla verità. I teologi della teologia civile erano i “popoli”, che avevano scelto di non associarsi con i filosofi (con la verità), ma con i poeti, con le loro visioni, con le loro immagini e con le loro figure.
La seconda definizione concerneva il luogo della realtà nel quale veniva collocata la teologia in questione. Sotto questo aspetto, alla teologia mitica corrispondeva il teatro, che svolgeva un ruolo del tutto religioso, cultuale: a Roma era opinione diffusa che gli spettacoli fossero stati istituiti per volontà degli dei. Alla teologia politica corrispondeva la urbs, mentre lo spazio proprio della teologia naturale sarebbe stato il cosmo.
La terza definizione designava il contenuto delle tre teologie: quello della teologia mitica sarebbe stato costituito dai racconti sugli dei creati dai poeti: quello della teologia dello stato dal culto; la teologia naturale avrebbe dovuto chiarire chi fossero gli dei. Questo punto merita un riferimento più preciso: “Se – come dice Eraclito – sono fatti di fuoco o – come dice Pitagora – di numeri, o – come dice Epicuro – di atomi e di altre cose ancora che le orecchie possono sopportare più facilmente tra le pareti di una scuola che all’esterno, sulla pubblica piazza”.
È evidente che questa teologia naturale corrispondeva a una demitologizzazione o, meglio, a una razionalità che, con il suo approccio critico, guardava a quel che era al di là dell’apparenza mitica e decomponeva quest’ultima con l’aiuto delle scienze naturali.
Culto e conoscenza si separavano completamente l’uno dall’altra. Il culto restava necessario nella misura in cui era una questione di utilità politica; la conoscenza aveva un effetto distruttivo sulla religione e pertanto non avrebbe dovuto essere messa sulla pubblica piazza.
La quarta definizione, infine, riguardava il genere di realtà rappresentato dalle diverse teologie. In merito Varrone affermava che la teologia naturale si occupava della “natura degli dei” (che in realtà non esistono): le altre due teologie trattavano dei divina instituta hominum (delle istituzioni divine degli uomini). Tutta la differenza si riduceva così a quella tra la fisica, nel suo senso antico, e la religione cultuale. “In fin dei conti, la teologia civile non ha nessun dio, ma solo la ‘religione’; la teologia naturale non ha religione, ma solo una divinità”. Non poteva avere nessuna religione, perché non era possibile rivolgere religiosamente la parola a un Dio fatto di fuoco, di numeri e di atomi.
Cosí religio (termine che designa essenzialmente il culto) e realtà (la conoscenza razionale del reale) si collocavano l’una a fianco all’altra come due sfere separate. La religio non traeva la sua giustificazione dalla realtà del divino, ma dalla sua funzione politica. Era un’istituzione di cui lo stato aveva bisogno per la propria esistenza. Indubbiamente, ci troviamo qui davanti a una fase tardiva della religione, nella quale l’ingenuità del mondo religioso era stata infranta e ne veniva pertanto iniziata la decomposizione. Ciò nondimeno, il legame essenziale della religione con la comunità dello stato divenne più profondo. Il culto, in ultima istanza, apparteneva a un ordine positivo che, in quanto tale, non poteva essere misurato sul problema della verità.
Mentre Varrone, in un’ epoca in cui la funzione politica restava sufficientemente forte da trovare giustificazione in quanto tale, poteva ancora difendere il culto motivato politicamente a partire da una concezione piuttosto rozza della razionalità e dell’assenza di verità, il neoplatonismo avrebbe presto cercato un’altra via di uscita dalla crisi, la stessa che l’imperatore Giuliano avrebbe poi intrapreso nel tentativo di ristabilire la religione romana dello stato: i poeti usavano immagini che non dovevano essere interpretate in senso fisico: ma erano nondimeno immagini che esprimevano quel che restava inesprimibile per tutti gli uomini cui era preclusa la strada maestra dell’unione mistica. Le immagini, benché non vere in quanto tali, venivano allora giustificate come un modo per accostarsi a ciò che doveva necessariamente restare per sempre inesprimibile.

La conoscenza, base della fede cristiana
In tal modo abbiamo anticipato. Infatti, la posizione neoplatonica era già, da parte sua, una reazione contro la posizione cristiana sulla questione della fondazione cristiana del culto e della fede che ne era alla base. della topografia di questa fede nella tipologia delle religioni. Torniamo dunque ad Agostino. Dove colloca il cristianesimo nella triade delle religoni di Marrone? Meraviglia il fatto che, senza la minima esitazione, egli individuasse il posto del cristianesimo nel campo della “teologia fisica”, nel campo della razionalità filosofica. In questo era in perfetta continuità con i teologi del cristianesimo a lui precedenti, gli apologeti del II secolo, e persino con Paolo e la sua topografia della realtà cristiana nel primo capitolo della Lettera ai Romani. Una topografia che, a sua volta, si basava sulla teologia vetero-testamentaria della sapienza e risaliva anche oltre quest’ultima, sino ai salmi e al loro farsi scherno degli dei. In tale prospettiva, il cristianesimo aveva i suoi precursori e la sua preparazione interna nell’ambito della razionalità filosofica e non in quello delle religioni.
Secondo Agostino e secondo la tradizione biblica, a suo parere normativa, il cristianesimo non era affatto basato su delle immagini e su delle suggestioni mitiche la cui giustificazione si trovava, in fin dei conti, nella loro utilità politica ma, al contrario, guardava alla sfera divina che si può cogliere attraverso l’analisi razionale della realtà. In altri termini, Agostino identificava il monoteismo biblico con le visioni filosofiche sul fondamento del mondo che si erano formate, con diverse varianti, nella filosofia antica. In tal senso il cristianesimo, dall’areopago di san Paolo, si presentò con la pretesa di essere la religione vera.
Questo vuol dire che la fede cristiana non si basa sulla poesia o sulla politica, le due grandi fonti della religione, ma sulla conoscenza. Essa venera quell’Essere che si trova a fondamento di tutto ciò che esiste il “vero Dio”. Nel cristianesimo, la razionalità divenne religione e non più sua avversaria. Stando così le cose, il cristianesimo, comprendendo se stesso come vittoria della demitologizzazione, vittoria della conoscenza e con essa della verità, dovette necessariamente considerarsi come universale ed essere portato a tutti i popoli: non come una religione particolare che ne reprimeva delle altre, non come una sorta di imperialismo religioso, ma piuttosto come la verità che rendeva superflua l’apparenza. Proprio per questo, nell’ampia tolleranza dei politeismi, esso sembrò inevitabilmente intollerabile, e persino nemico della religione, una sorta di «ateismo». Non si limitava a relativizzare e trasformare le immagini, ma nel far questo ostacolava l’uso politico delle religioni e metteva dunque in pericolo i fondamenti dello stato, nell’ambito del quale non voleva essere una religione tra le altre, ma la vittoria dell’intelligenza sul mondo delle religioni.
D’altra parte, la forza di penetrazione del cristianesimo si ricollega con questa topografia del mondo cristiano nell’universo della religione e della filosofia. Già prima che avesse inizio la missione cristiana, alcuni circoli colti dell’antichità avevano cercato nella figura dell’“uomo che teme Dio” un’unione con la fede giudaica. Quest’ultima sembrava loro una figura religiosa del monoteismo filosofico rispondente sia alle esigenze della ragione sia al bisogno religioso dell’uomo. A tale bisogno non poteva rispondere la filosofia da sola: non si prega un Dio semplicemente pensato. Ma laddove il dio trovato dal pensiero si lasciava incontrare nel cuore della religione come un dio che parlava e che agiva, il pensiero e la fede si riconciliavano. In questa unione con la sinagoga vi era ancora un residuo di insoddisfazione: il non ebreo infatti poteva essere soltanto un semplice associato, non poteva arrivare a una totale appartenenza. Questo limite fu superato nel cristianesimo grazie alla figura di Cristo, come fu interpretata da Paolo. Oramai, il monoteismo religioso del giudaismo era divenuto universale, e cosi l’unità tra pensiero e religione, la religio vera, era divenuta accessibile a tutti.
Giustino il filosofo. Giustino martire (+167) è una figura emblematica di questo accesso al cristianesimo: dopo avere studiato tutte le filosofie, egli alla fine riconobbe il cristianesimo come la vera philosophia. Nelle sue convinzioni, solo divenendo cristiano non solo non aveva rinnegato la filosofia, ma era divenuto veramente un filosofo. La convinzione che il cristianesimo fosse una filosofia, la filosofia perfetta. quella che poteva giungere sino alla verità, avrebbe resistito per lungo tempo anche dopo l’età patristica. La ritroviamo ancora nel XIV secolo, nella teologia bizantina di Nicolas Cabasilas, come fatto del tutto normale. Certo, allora non ci si riferiva alla filosofia soltanto come disciplina accademica di natura puramente teorica, ma anche e soprattutto, su un piano più concreto, come arte del vivere e del morire nel giusto, un’arte che tuttavia poteva riuscire soltanto alla luce della verità.

I legami con la metafisica e con la storia
La saldatura tra razionalità e fede, realizzatasi nello sviluppo della missione cristiana e con la costruzione della teologia cristiana, apportò anche alcuni correttivi decisivi all’immagine filosofica di Dio, di cui due almeno vanno menzionati. Il primo era costituito dal fatto che il Dio in cui i cristiani credevano e che veneravano, a differenza delle divinità mitiche e politiche, era realmente natura Deus: e in questo rispondeva alle esigenze della razionalità filosofica.
Ma allo stesso tempo valeva anche un altro aspetto: non tamen omnis natura est Deus (non tutto ciò che è natura è Dio). Dio è Dio per natura, ma la natura in quanto tale non e Dio. Si produceva una separazione tra la natura universale e l’essere che la fondava, che le dava origine. Solo allora si arrivò a distinguere chiaramente tra loro fisica e metafisica. Solo il vero Dio, che il pensiero consentiva di riconoscere nella natura, diveniva oggetto di preghiera. Ma egli era qualcosa di più della natura. La precedeva, ed essa era una sua creatura.
A questa separazione tra la natura e Dio si aggiungeva una seconda scoperta, ancora più decisiva: il dio, la natura, l’anima del mondo o qualunque nome gli si desse, non aveva potuto essere oggetto di preghiera; come abbiamo constatato, non era un “dio religioso”. Adesso, ed e quanto già diceva la fede dell’Antico e ancor più del Nuovo Testamento, quel Dio che precedeva la natura si era volto verso l’uomo. E proprio perché non era semplicemente la natura, non era un Dio silenzioso. Era entrato nella storia, era venuto incontro all’uomo, e per questo l’uomo poteva incontrarlo. L’uomo poteva unirsi a Dio perché Dio si era unito all’uomo.
Le due dimensioni della religione, che erano sempre state separate tra loro, la natura nel suo regno eterno e il bisogno di salvezza dell’uomo che soffre e che lotta, erano state congiunte tra loro. La razionalità poteva diventare religione perché il Dio della razionalità era entrato egli stesso nella religione. In fin dei conti, l’elemento che rivendicava la fede, la parola storica di Dio, non costituiva forse il presupposto perché la religione potesse volgersi oramai verso il Dio filosofico, che non era un Dio puramente filosofico e che nondimeno non respingeva la filosofia, ma anzi la assumeva? Qui si manifestava una cosa stupefacente: i due principi fondamentali apparentemente contrari del cristianesimo – legame con la metafisica e il legame con la storia – si condizionavano e si rapportavano reciprocamente; insieme formavano l’apologia del cristianesimo come religio vera.
Si può dunque dire che la vittoria del cristianesimo sulle religioni pagane fu resa possibile fondamentalmente dalla sua pretesa di intellegibilità. Ma bisogna aggiungere che a questo fatto ne era associato un secondo di non minore importanza. In termini generali, esso consisteva principalmente nella serietà morale del cristianesimo, caratteristica che anche Paolo, del resto, aveva già messo in rapporto con la razionalità della fede cristiana: in fondo, l’oggetto della legge, le esigenze essenziali del Dio unico messe in luce dalla fede cristiana in considerazione della vita dell’uomo, rispondeva alle esigenze del cuore dell’uomo, di ogni uomo, di modo tale che, quando all’uomo veniva presentata questa legge, egli la riconosceva come il Bene. Essa corrispondeva a ciò che “è buono per natura” (Rm 2.14s).
È evidente qui l’allusione alla morale stoica, alla sua interpretazione etica della natura, presente anche in altri testi paolini, come nella lettera ai Filippesi: “Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtú e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 4,8). Così, da allora l’unione di fondo (ancorché critica) con la razionalità filosofica presente nella nozione di Dio, si confermò e si concretizzò nell’unione, anch’essa critica, con la morale filosofica. E come nell’ambito religioso il cristianesimo superava i limiti della saggezza della filosofia di scuo1a, proprio per il fatto che il Dio pensato si lasciava incontrare come un Dio vivente, così in tal caso si verificava un superamento della teoria etica in una prassi morale, vissuta e realizzata in modo comunitario, nella quale la prospettiva filosofica veniva trascesa e trasposta nell’azione reale, in particolare mediante la concentrazione di tutta la morale sul duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo.
Semplificando, si potrebbe dire che il cristianesimo convinceva per il legame della fede con la ragione e per l’orientamento dell’azione verso la caritas, la cura caritativa dei sofferenti, dei poveri e dei deboli, al di là di ogni limite di condizione. Che in ciò stesse la forza del cristianesimo, è particolarmente chiaro dal modo in cui l’imperatore Giuliano cercò di ristabilire, in forme rinnovate, il paganesimo. Lui, il pontifex maximus del ristabilimento della religione degli antichi dei, istituì – cosa mai vista sino ad allora – una gerarchia pagana, fatta di sacerdoti e di metropoliti. I sacerdoti dovevano essere esempi di moralità, dovevano dedicarsi all’amore di Dio (la divinità suprema al di sopra di tutti gli dei) e del prossimo. Erano obbligati a fare atti di carità noi confronti dei poveri, non era loro consentito leggere commedie lassiste e romanzi erotici e, nei giorni di festa, dovevano predicare su un argomento filosofico per istruire e per formare il popolo. Al riguardo Teresio Bosco diceva, a ragione, che l’imperatore, in realtà, cercava in tal modo non di ristabilire il paganesimo, ma di cristianizzarlo, in una sintesi, forzata in direzione del culto degli dei, tra la razionalità e la ragione.
Guardando al passato, possiamo dire che la forza che ha trasformato il cristianesimo in una religione mondiale sta nella sintesi da esso operata tra ragione, fede e vita, brevemente indicata con l’espressione religio vera. Si impone allora la questione del perché oggi questa sintesi non convinca più, e razionalità e cristianesimo siano anzi considerati come contrapposti e persino reciprocamente escludentisi. Cosa è cambiato nella razionalità e cosa è cambiato nel cristianesimo perché sia potuto accadere questo? Un tempo il neoplatonismo, in particolare Porfirio, aveva opposto alla sintesi cristiana un’altra interpretazione del rapporto tra filosofia e religione, un’interpretazione che si proponeva come una rifondazione filosofica della religione degli dei. Essa era alla base del tentativo di Giuliano, che proprio su di essa si arenò.
Ma oggi e proprio quest’altro modo di armonizzare la religione e la razionalità che sembra imporsi come la forma della religiosità più adatta alla coscienza moderna. Porfirio formulava così la sua prima idea fondamentale: latet omne verum (la veritá e nascosta). Ricordiamoci la parabola dell’elefante, che è esattamente ispirata da questa idea sulla quale convergono buddhismo e neoplatonismo. Secondo essa, sulla veritá, su Dio, non esistono certezze, ma solo delle opinioni.
Nella crisi di Roma del tardo IV secolo, il senatore Simmaco – immagine speculare di Varrone e della sua teoria della religione – ricondusse la concezione neoplatonica ad alcune formule semplici e concrete, che possiamo ritrovare nel discorso da lui tenuto nel 384 davanti all’imperatore Valentiniano II a difesa del paganesimo e a favore del ristabilimento della dea Vittoria nel senato romano. Cito soltanto la frase decisiva. divenuta celebre: “Tutti venerano la stessa cosa; noi pensiamo a un’unica cosa, contempliamo le stesse stelle, unico è il cielo sopra di noi, il mondo che ci circonda è il medesimo. Le diverse forme di conoscenza attraverso cui ciascuno cerca la verità non hanno importanza. Non si può giungere a un mistero così grande attraverso una sola via”.
La razionalità di oggi dice esattamente la stessa cosa: noi non conosciamo la verità in quanto tale, attraverso le immagini più diverse puntiamo alla stessa cosa. Un mistero così grande come il divino non può essere ridotto a una sola figura che escluda tutto le altre, a una via obbligata per tutti. Vi sono molte vie, vi sono molte immagini, tutto riflettono qualcosa del tutto e nessuna e in sé il tutto. L’ethos della tolleranza è proprio di chi riconosce in ciascuna immagine una parte del tutto, non pone la propria al di sopra di quella dell’altro e s’inserisce pacificamente nella multiforme sinfonia dell’eterno inaccessibile. Quest’ultimo, infatti, si nasconde nei simboli, ma nondimeno questi simboli sembrano costituire la nostra unica possibilità di giungere in qualche modo alla divinità.
La pretesa del cristianesimo di essere la religio vera sarebbe dunque superata dal progresso della razionalità? Si è costretti ad abbassare il livello delle sue pretese e a inserirsi nella visione neoplatonica o buddhista o induista della verità e del simbolo, ad accontentarsi – come aveva proposto Troeltsch – di mostrare del volto di Dio solo il lato rivolto verso gli europei? Bisogna andare persino al di la di Troeltsch, che ancora considerava il cristianesimo la religione più adatta all’Europa, in considerazione del fatto che oggi la stessa Europa dubita di ciò? È questa la grossa questione con la quale la Chiesa e la teologia devono confrontarsi.
Tutte le crisi interne al cristianesimo osservabili ai nostri giorni sono riconducibili solo secondariamente a problemi di tipo istituzionale. I problemi di tipo sia istituzionale sia personale nella Chiesa derivano, in ultima istanza, da questa questione e dal suo enorme peso. Nessuno può aspettarsi, neanche lontanamente, che questa provocazione fondamentale, al termine del secondo milennio cristiano, trovi una risposta definitiva in una conferenza. Essa non può assolutamente trovare una risposta puramente teorica, nella misura in cui la religione, in quanto modo di essere fondamentale dell’uomo, non è mai soltanto teoria. Esige piuttosto quella combinazione di conoscenza e di azione che era alla base della forza di convinzione del cristianesimo dei padri.
Questo non significa assolutamente che ci si possa sottrarre alle esigenze intellettuali del problema rinviando alla necessità della praxis. Per concludere, cercherò soltanto di aprire una prospettiva che potrebbe indicare la direzione. Avevamo visto che l’unità relazionale tra razionalità e fede, cui in ultima analisi Tommaso d’Aquino diede forma sistematica, fu mandata in frantumi non tanto dagli sviluppi della fede quanto piuttosto dai nuovi processi della razionalità. Quali tappe di questa separazione reciproca si potrebbero citare Cartesio, Spinoza, Kant.
La nuova sintesi inglobante tentata da Hegel non restituì alla fede il suo luogo filosofico, ma cercò di trasporla nella ragione e di abolirla come fede. A questa assolutezza dello spirito, Marx oppose l’unicità della materia, e da allora la filosofia fu del tutto ricondotta alla scienza esatta. Solo alla conoscenza scientifica veniva riconosciuto il titolo di conoscenza. L’idea del divino veniva cosi congedata. La profezia di Auguste Comte secondo cui un giorno vi sarebbe stata una fisica dell’uomo e le grandi questioni sino ad allora lasciate alla metafisica sarebbero state trattate in modo altrettanto “positivo” di tutto quanto era già scienza positiva, ha avuto nelle scienze umane del nostro secolo un’eco impressionante.
La separazione operata dal pensiero cristiano tra fisica e metafisica è stata sempre più abbandonata. Tutto doveva divenire nuovamente “fisica”. La teoria dell’evoluzione si è sempre più consolidata come la via diretta per far scomparire definitivamente la metafisica, per rendere superflua l’“ipotesi di Dio” (Laplace) e formulare una spiegazione del mondo strettamente “scientifica”. Una teoria dell’evoluzione che spiega complessivamente tutto il reale, è divenuta una sorta di “filosofia prima” che rappresenta, per cosi dire, il fondamento vero della comprensione razionale del mondo. Ogni tentativo di mettere in gioco cause diverse da quelle elaborate da una tale teoria “positiva”, ogni tentativo di “metafisica” deve apparire come una caduta al di sotto della ragione, come un’involuzione rispetto alla pretesa universale della scienza. Così, l’idea cristiana di Dio è necessariamente considerata come non scientifica. A questa idea non corrisponde più nessuna theologia physica: l’unica theologia naturalis è in questa visione la dottrina dell’evoluzione, e questa, per l’appunto, non conosce alcun Dio o Creatore nel senso del cristianesimo (dell’ebraismo e dell’islam), né alcuna anima del mondo o dinamismo interiore nel senso della Stoa. Eventualmente si potrebbe, nel senso del buddismo, considerare il mondo intero come un’apparenza e il nulla come il vero reale, e giustificare in questo senso le forme mistiche della religione: perlomeno quelle che non sono in concorrenza diretta con la ragione.

La razionalità del cristianesimo
Ci si può chiedere se con questo sia stata detta l’ultima parola, se la separazione tra ragione e cristianesimo sia oramai definitiva. In ogni caso, non si può fare a meno di affrontare la discussione sulla portata della dottrina dell’evoluzione come filosofia prima e sull’esclusività del metodo positivo come unica modalità di scienza e di razionalità. Una tale discussione dovrà dunque essere intrapresa dall’una e dall’altra parte con serenità e nella disponibilità ad ascoltare, cosa che è tuttora riuscita solo in piccola parte. Nessuno potrà seriamente dubitare delle prove scientifiche dei processi micro-evolutivi.
A questo proposito, R. Junker e S. Sherer dicono sull’evoluzione nel loro «manuale critico» (kritisches Lesebuch): “Avvenimenti del genere (i processi micro-evolutivi) sono ben noti a partire dai processi naturali di variazione e di formazione. Il loro esame mediante la biologia dei processi evolutivi condusse a conoscenze significative riguardanti l’eccezionale capacità di adattamento dei sistemi viventi”. Essi sembrano dunque affermare che la ricerca delle origini si può definire a buon diritto come la disciplina maestra della biologia. La questione che un credente deve porsi di fronte alla ragione moderna non ha a che fare con tutto questo. Riguarda piuttosto l’ambito di estensione di una philosophia universalis che pretende di diventare una spiegazione generale del reale e tende a cancellare ogni altro livello di pensiero. Nella stessa dottrina dell’evoluzione, il problema si pone in relazione al passaggio dalla micro alla macro-evoluzione, passaggio riguardo il quale Szamarthy e Maynard Smith, entrambi convinti partigiani di una teoria inglobante dell’evoluzione, ammettono anch’essi che “non esistono ragioni teoriche che facciano ritenere che delle linee evolutive crescano con il tempo in complessità: né vi sono prove empiriche che questo accada”.
A dire il vero, la questione che qui si pone va più in profondità: si tratta di sapere se la dottrina dell’evoluzione possa presentarsi come una teoria universale di tutto il reale, al di là della quale non sono più permesse, né sono più necessarie, questioni ulteriori sull’origine e la natura delle cose, o se questioni ultime di questo genere non vadano al di là, in fondo, del campo della ricerca aperta alle scienze naturali. Vorrei porre la questione in modo ancora più concreto. Si può dire che tutto è già stato detto con una risposta del genere di quella così formulata da Popper: “La vita quale noi la conosciamo consiste in ‘corpi’ fisici (o meglio, in processi e strutture), che risolvono dei problemi. É quel che le diverse specie hanno ‘imparato’ attraverso la selezione naturale, e cioè attraverso il metodo della riproduzione più variazione; un metodo che, a sua volta, vnne ricavato attraverso lo stesso metodo. É una regressione, ma non è infinita…”. Non lo credo.
In fin dei conti, si tratta di un’alternativa che non si lascia più risolvere semplicemente dalle scienze naturali e neanche, in fondo, dalla filosofia. Si tratta di sapere se la ragione o il razionale si trovino o meno all’inizio di tutte le cose e a loro fondamento. Si tratta di sapere se alla base della realtà sono il caso e la necessità o, con Popper, seguito da But1er, il luck e il cunning ( il caso fortuito e la previsione), e dunque ciò che è senza ragione; se, in altri termini, la ragione è un prodotto secondario, accidentale dell’irrazionale e, in fondo, anche insignificante nell’oceano dell’irrazionale, o se resta vera la convinzione fondamentale della fede cristiana e della sua filosofia: In principium erat Verbum – all’inizio di tutte le cose vi è la forza creatrice della ragione.
La fede cristiana è, oggi come ieri, l’opzione per la priorità della ragione e del razionale. Tale questione ultima non può più, come è stato detto, essere risolta mediante argomenti tratti dalle scienze naturali, e il pensiero filosofico stesso si scontra con i suoi limiti. In tal senso non si può fornire prova ultima dell’opzione cristiana fondamentale. Ma la ragione può, alla fin fine, senza rinnegare se stessa, rinunciare alla priorità del razionale sull’irrazionale, all’esistenza originale del Logos?
Il modello ermeneutico offerto da Popper, che ritorna sotto diverse forme in altre presentazioni della “filosofia prima”, mostra che la ragione non può impedirsi di pensare l’irrazionale secondo la sua misura, e dunque razionalmente (risolvere dei problemi, elaborare dei metodi!), ristabilendo in tal modo implicitamente il primato contestato dalla ragione. Per la sua opzione a favore del primato della ragione, il cristianesimo resta ancora oggi “razionalità”, e credo che una razionalità che si sbarazzi di quell’opzione significherebbe, contrariamente alle apparenze, niente affatto un’evoluzione, bensì un’involuzione della razionalità.
Avevamo visto prima che nella concezione dell’antichità cristiana, le nozioni di natura, uomo, Dio, ethos e religione erano indissolubilmente legate tra loro e che proprio questo legame indissolubile aveva aiutato il cristianesimo a vedere chiaro nella crisi degli de e nella crisi dell’antica razionalità. L’orientamento della religione verso una visione razionale del reale in quanto tale, l’ethos come parte di questa visione, e la sua applicazione concreta sotto il primato dell’amore si saldarono tra loro. Il primato del logos e il primato dell’amore si rivelarono identici. Il logos apparve non solo come la ragione matematica che era alla base di tutte le cose, ma come l’amore creatore che arrivava a diventare compassione nei confronti della creatura.
La dimensione cosmica della religione che, nella potenza dell’essere, venera il Creatore, e la sua dimensione esistenziale, la questione della redenzione, si compenetrarono e divennero un unico problema. Di fatto, una spiegazione del reale che non possa fondare in modo sensato e comprensivo anche un ethos, deve restare necessariamente insufficiente. Ora, è un fatto che la teoria dell’evoluzione, laddove essa si arrischia a estendersi sino alla philosophia universalis, tenta anche di rifondare l’ethos sulla base dell’evoluzione. Ma questo ethos dell’evoluzione, che trova ineluttabilmente la sua nozione chiave nel modello della selezione, e dunque nella lotta per la sopravvivenza nella vittoria del più forte, nell’adattamento riuscito, ha da offrire ben poche consolazioni. Anche laddove si cerchi di imbellirlo in diversi modi, resta sempre un ethos crudele.
Il tentativo di distillare il razionale a partire da una razionalità in se stessa insensata si arena qui in maniera evidente. Tutto questo risponde ben poco a ciò di cui noi abbiamo bisogno: un’etica della pace universale, dell’amore concreto del prossimo e del necessario superamento del bene individuale.
Il tentativo di restituire, in questa crisi dell’umanità, un significato globale alla nozione di cristianesimo come religio vera, deve per così dire puntare parallelamente sull’ortoprassi e sull’ortodossia. Il suo contenuto, oggi come un tempo, dovrà consistere, più profondamente, nella coincidenza tra amore e ragione in quanto pilastri fondamentali propriamente detti del reale: la ragione vera è l’amore e l’amore è la ragione vera. Nella loro unità essi costituiscono il fondamento vero e il fine di tutto il reale.

Joseph Ratzinger

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