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Sant’Atanasio

Sant'Atanasio dans immagini sacre athanasius

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Publié dans:immagini sacre |on 2 mai, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – SANT’ATANASIO DI ALESSANDRIA – 2 MAGGIO

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20070620_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 20 giugno 2007

SANT’ATANASIO DI ALESSANDRIA – 2 MAGGIO

Cari fratelli e sorelle,

continuando la nostra rivisitazione dei grandi Maestri della Chiesa antica, vogliamo rivolgere oggi la nostra attenzione a sant’Atanasio di Alessandria. Questo autentico protagonista della tradizione cristiana, già pochi anni dopo la morte, venne celebrato come «la colonna della Chiesa» dal grande teologo e Vescovo di Costantinopoli Gregorio Nazianzeno (Discorsi 21,26), e sempre è stato considerato come un modello di ortodossia, tanto in Oriente quanto in Occidente. Non a caso, dunque, Gian Lorenzo Bernini ne collocò la statua tra quelle dei quattro santi Dottori della Chiesa orientale e occidentale – insieme ad Ambrogio, Giovanni Crisostomo e Agostino –, che nella meravigliosa abside della Basilica vaticana circondano la Cattedra di san Pietro.
Atanasio è stato senza dubbio uno dei Padri della Chiesa antica più importanti e venerati. Ma soprattutto questo grande Santo è l’appassionato teologo dell’incarnazione del Logos, il Verbo di Dio, che – come dice il prologo del quarto Vangelo – «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Proprio per questo motivo Atanasio fu anche il più importante e tenace avversario dell’eresia ariana, che allora minacciava la fede in Cristo, riducendolo ad una creatura «media» tra Dio e l’uomo, secondo una tendenza ricorrente nella storia, e che vediamo in atto in diversi modi anche oggi. Nato probabilmente ad Alessandria, in Egitto, verso l’anno 300, Atanasio ricevette una buona educazione prima di divenire diacono e segretario del Vescovo della metropoli egiziana, Alessandro. Stretto collaboratore del suo Vescovo, il giovane ecclesiastico prese parte con lui al Concilio di Nicea, il primo a carattere ecumenico, convocato dall’imperatore Costantino nel maggio del 325 per assicurare l’unità della Chiesa. I Padri niceni poterono così affrontare varie questioni, e principalmente il grave problema originato qualche anno prima dalla predicazione del presbitero alessandrino Ario.
Questi, con la sua teoria, minacciava l’autentica fede in Cristo, dichiarando che il Logos non era vero Dio, ma un Dio creato, un essere «medio» tra Dio e l’uomo, e così il vero Dio rimaneva sempre inaccessibile a noi. I Vescovi riuniti a Nicea risposero mettendo a punto e fissando il «Simbolo della fede» che, completato più tardi dal primo Concilio di Costantinopoli, è rimasto nella tradizione delle diverse confessioni cristiane e nella Liturgia come il Credo niceno-costantinopolitano. In questo testo fondamentale – che esprime la fede della Chiesa indivisa, e che recitiamo anche oggi, ogni domenica, nella Celebrazione eucaristica – figura il termine greco homooúsios, in latino consubstantialis: esso vuole indicare che il Figlio, il Logos, è «della stessa sostanza» del Padre, è Dio da Dio, è la sua sostanza, e così viene messa in luce la piena divinità del Figlio, che era negata dagli ariani.
Morto il Vescovo Alessandro, Atanasio divenne, nel 328, suo successore come Vescovo di Alessandria, e subito si dimostrò deciso a respingere ogni compromesso nei confronti delle teorie ariane condannate dal Concilio niceno. La sua intransigenza, tenace e a volte molto dura, anche se necessaria, contro quanti si erano opposti alla sua elezione episcopale e soprattutto contro gli avversari del Simbolo niceno, gli attirò l’implacabile ostilità degli ariani e dei filoariani. Nonostante l’inequivocabile esito del Concilio, che aveva con chiarezza affermato che il Figlio è della stessa sostanza del Padre, poco dopo queste idee sbagliate tornarono a prevalere – in questa situazione persino Ario fu riabilitato –, e vennero sostenute per motivi politici dallo stesso imperatore Costantino e poi da suo figlio Costanzo II. Questi, peraltro, che non si interessava tanto della verità teologica quanto dell’unità dell’Impero e dei suoi problemi politici, voleva politicizzare la fede, rendendola più accessibile – secondo il suo parere – a tutti i sudditi nell’Impero.
La crisi ariana, che si credeva risolta a Nicea, continuò così per decenni, con vicende difficili e divisioni dolorose nella Chiesa. E per ben cinque volte – durante un trentennio, tra il 336 e il 366 – Atanasio fu costretto ad abbandonare la sua città, passando diciassette anni in esilio e soffrendo per la fede. Ma durante le sue forzate assenze da Alessandria, il Vescovo ebbe modo di sostenere e diffondere in Occidente, prima a Treviri e poi a Roma, la fede nicena e anche gli ideali del monachesimo, abbracciati in Egitto dal grande eremita Antonio con una scelta di vita alla quale Atanasio fu sempre vicino. Sant’Antonio, con la sua forza spirituale, era la persona più importante nel sostenere la fede di sant’Atanasio. Reinsediato definitivamente nella sua sede, il Vescovo di Alessandria poté dedicarsi alla pacificazione religiosa e alla riorganizzazione delle comunità cristiane. Morì il 2 maggio del 373, giorno in cui celebriamo la sua memoria liturgica.
L’opera dottrinale più famosa del santo Vescovo alessandrino è il trattato su L’incarnazione del Verbo, il Logos divino che si è fatto carne divenendo come noi per la nostra salvezza. Dice in quest’opera Atanasio, con un’affermazione divenuta giustamente celebre, che il Verbo di Dio «si è fatto uomo perché noi diventassimo Dio; egli si è reso visibile nel corpo perché noi avessimo un’idea del Padre invisibile, ed egli stesso ha sopportato la violenza degli uomini perché noi ereditassimo l’incorruttibilità» (54,3). Con la sua risurrezione, infatti, il Signore ha fatto sparire la morte come se fosse «paglia nel fuoco» (8,4). L’idea fondamentale di tutta la lotta teologica di sant’Atanasio era proprio quella che Dio è accessibile. Non è un Dio secondario, è il Dio vero, e tramite la nostra comunione con Cristo noi possiamo unirci realmente a Dio. Egli è divenuto realmente «Dio con noi».
Tra le altre opere di questo grande Padre della Chiesa – che in gran parte rimangono legate alle vicende della crisi ariana – ricordiamo poi le quattro lettere che egli indirizzò all’amico Serapione, Vescovo di Thmuis, sulla divinità dello Spirito Santo, che viene affermata con nettezza, e una trentina di lettere «festali», indirizzate all’inizio di ogni anno alle Chiese e ai monasteri dell’Egitto per indicare la data della festa di Pasqua, ma soprattutto per assicurare i legami tra i fedeli, rafforzandone la fede e preparandoli a tale grande solennità.
Atanasio è, infine, anche autore di testi meditativi sui Salmi, poi molto diffusi, e soprattutto di un’opera che costituisce il best seller dell’antica letteratura cristiana: la Vita di Antonio, cioè la biografia di sant’Antonio abate, scritta poco dopo la morte di questo Santo, proprio mentre il Vescovo di Alessandria, esiliato, viveva con i monaci del deserto egiziano. Atanasio fu amico del grande eremita, al punto da ricevere una delle due pelli di pecora lasciate da Antonio come sua eredità, insieme al mantello che lo stesso Vescovo di Alessandria gli aveva donato. Divenuta presto popolarissima, tradotta quasi subito in latino per due volte e poi in diverse lingue orientali, la biografia esemplare di questa figura cara alla tradizione cristiana contribuì molto alla diffusione del monachesimo, in Oriente e in Occidente. Non a caso la lettura di questo testo, a Treviri, è al centro di un emozionante racconto della conversione di due funzionari imperiali, che Agostino colloca nelle Confessioni (VIII,6,15) come premessa della sua stessa conversione.
Del resto, lo stesso Atanasio mostra di avere chiara coscienza dell’influsso che poteva avere sul popolo cristiano la figura esemplare di Antonio. Scrive infatti nella conclusione di quest’opera: «Che fosse dappertutto conosciuto, da tutti ammirato e desiderato, anche da quelli che non l’avevano visto, è un segno della sua virtù e della sua anima amica di Dio. Infatti non per gli scritti né per una sapienza profana né per qualche capacità è conosciuto Antonio, ma solo per la sua pietà verso Dio. E nessuno potrebbe negare che questo sia un dono di Dio. Come infatti si sarebbe sentito parlare in Spagna e in Gallia, a Roma e in Africa di quest’uomo, che viveva ritirato tra i monti, se non l’avesse fatto conoscere dappertutto Dio stesso, come egli fa con quanti gli appartengono, e come aveva annunciato ad Antonio fin dal principio? E anche se questi agiscono nel segreto e vogliono restare nascosti, il Signore li mostra a tutti come una lucerna, perché quanti sentono parlare di loro sappiano che è possibile seguire i comandamenti e prendano coraggio nel percorrere il cammino della virtù» (93,5-6).
Sì, fratelli e sorelle! Abbiamo tanti motivi di gratitudine verso sant’Atanasio. La sua vita, come quella di Antonio e di innumerevoli altri Santi, ci mostra che «chi va verso Dio non si allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino» (Deus caritas est, 42).

L’ATTIVITÀ DI PIETRO SECONDO GLI ATTI DEGLI APOSTOLI

http://www.storialibera.it/epoca_antica/cristianesimo_e_storicita/simon_pietro/articolo.php?id=558

L’ATTIVITÀ DI PIETRO SECONDO GLI ATTI DEGLI APOSTOLI

tratto da: Paolo BREZZI, Il Papato, Studium, Roma 1967, p. 17-23.

Il gruppo dei superstiti discepoli di Gesù si ritrovò a Gerusalemme dopo le turbinose vicende della Pasqua e dei quaranta giorni successivi; resi forti dall’infusione dello Spirito, questi uomini, che fino a quel momento non avevano ancor dimostrato di comprendere appieno quale fosse il loro compito, incominciarono a svolgere opera di apostolato. Pietro ne dirigeva i movimenti.
Una narrazione storica, gli Atti degli Apostoli, ci permette di seguire da vicino l’attività di Pietro almeno fino all’anno 50 d.C.; gravi dubbi vennero elevati da esegeti razionalisti sulla validità di quella fonte, ma ormai anche queste difficoltà sono state quasi completamente superate da una sana critica storica e l’attendibilità delle informazioni degli Atti è sicura. Gli episodi principali della vita di Pietro qui registrati sono: l’iniziativa del completamento del collegio dei dodici (anteriore alla discesa dello Spirito Santo); il grande discorso dopo la Pentecoste ed altri tenuti in varie occasioni e davanti a pubblici diversi per razza e per preparazione; numerosi miracoli; la difesa davanti al Sinedrio; la condanna di Anania e Saffira, che erano dei fedeli che avevano tentato di ingannare gli Apostoli sul ricavato della vendita di un loro podere; la prigionia e la liberazione miracolosa; la scelta dei diaconi; la missione insieme a Giovanni nella Samaria e le severe parole rivolte ad un Simone che aveva tentato di comprar con denaro le virtù carismatiche degli Apostoli; i primi contatti con il neo convertito Paolo; altre missioni a Lidda e a Joppe con miracoli e conversioni; l’accoglienza nella comunità del centurione Cornelio e le vivaci polemiche che ne seguirono sull’opportunità o meno di estendere anche ai Gentili la predicazione della parola di Dio; una nuova prigionia per opera del re Erode Agrippa ed una nuova miracolosa liberazione.
A questo punto gli Atti, dopo aver detto che Pietro «partitosi andò altrove», incominciano a seguire Paolo nelle sue peregrinazioni e nominano ancora l’altro apostolo soltanto in occasione del concilio di Gerusalemme, di cui riparleremo; di conseguenza è possibile fissare soltanto pochi punti della successiva biografia di Pietro sulla base di altre fonti o di indicazioni indirette, ma, prima di proseguire, è necessario ritornare sul già detto, per sottolineare l’importanza di alcuni atteggiamenti da lui assunti in quei primi anni, decisivi per tutto l’ulteriore orientamento della vita della a chiesa».
[...]
è noto che alcuni studiosi hanno imbastito un vero romanzo storico sull’ipotetico contrasto di tendenze tra i giudaizzanti e gli ellenizzanti in seno alla primitiva comunità ed hanno considerato Pietro come uno degli esponenti della prima corrente.
Le cose sono più semplici, anche se non meno interessanti; già in Gesù vi è una predicazione a carattere universalistico, ma tra i suoi discepoli vi furono quelli che pretesero una iniziazione al Giudaismo come premessa indispensabile per diventar cristiani e continuarono a conservare l’antico sospetto che era nutrito dai membri del «popolo eletto» verso i Gentili. Pietro, avendo visto per chiari segni divini che tutti potevano essere chiamati alla penitenza ed alla nuova vita (Atti, II, 18), accettò senz’altro la conversione dei Gentili, ma più tardi ritenne più opportuno seguire la prassi normale, facendo precedere la circoncisione al battesimo, ed infine, dopo uno scambio di vedute con Paolo, che non fu privo di momenti drammatici, ritornò al suo primo modo d’agire facendolo sanzionare ufficialmente da un solenne consesso. Si tratta di alternative naturali, data la delicatezza della decisione da prendere, né queste oscillazioni rendono meno simpatico il loro protagonista, anzi lo avvicinano a noi, lo presentano in tutto il suo aspetto umano senza intaccare, con questo, le sue prerogative, non essendo egli mai caduto in errore né avendo insegnato il falso.
Tra Pietro e Paolo, anche quando più vivo fu il contrasto, non si trattò mai di radicale diversità di dottrina, ma di differente attitudine, di divergenze tattiche; Paolo non aveva torto a rimproverare al confratello le contraddizioni della sua condotta pratica, ma non pensò mai, per questo, di contestare la legittimità della posizione di primo piano goduta dall’altro; anzi, anche questo episodio conferma l’importanza di Pietro, il peso da lui rappresentato nella vita della comunità, le conseguenze derivanti da ogni suo gesto, il valore attribuito alle sue decisioni. Ma quest’autorità eccezionale, che tutti gli riconoscevano, doveva derivare da qualche ragione profonda; il prestigio goduto era effetto di una prerogativa speciale, e questa non poteva essere fondata che sulla scelta fatta da Gesù, sul mandato affidatogli personalmente dal Maestro e ben presente nel cuore di tutti i discepoli.
Poiché si è già fatto incidentalmente più volte riferimento a Paolo, è doveroso ricordare la cura particolare da lui posta nel mantenere i contatti con Cefa (è questo il nome aramaico grecizzato che ricorre nelle lettere paoline, che furono scritte anteriormente al Vangelo di Matteo e possono quindi costituire una riprova dell’autenticità dei passi di questo sopra esaminati); in quella specie di autodifesa premessa all’epistola ai Galati, l’apostolo delle genti dichiara infatti che dopo la sua conversione ed il ritiro di preparazione «tre anni dopo andai a Gerusalemme per visitare Pietro e stetti presso di lui quindici giorni: non vidi alcun altro degli Apostoli, ma solo Giacomo fratello del Signore» (Gal., I, 18).
Dove andò Pietro allorché dovette allontanarsi da Gerusalemme per motivi prudenziali? Più volte è stata ripresa dagli storici l’ipotesi che egli si sia diretto a Roma e, sulla base di scarne notizie di S. Girolamo e di Eusebio, si è dissertato a lungo circa un primo soggiorno romano dell’Apostolo. Sia permesso di lasciare molto in forse la cosa limitando la menzione ai dati più certi; così, ad esempio, è indubbia la permanenza ad Antiochia di Siria ed è più che probabile che Pietro si sia spinto nelle regioni del Ponto, della Galazia e della Cappadocia perché in caso contrario non si comprenderebbe la ragione che lo mosse più tardi ad indirizzare «agli eletti stranieri della diaspora» di quelle sole terre una lettera; anche il tono di questa fa pensare che l’autore fosse già noto ai corrispondenti. Forse Pietro fu pure a Corinto, dato che in questa città si era formato un partito di Cefa, come attesta Paolo, benché potrebbe trattarsi solamente di immigrati che, giungendo colà, si stupirono del grande ascendente goduto a Corinto da quest’ultimo e si richiamarono invece all’autorità dell’altro apostolo.
Intorno all’anno 50 Pietro era di nuovo in Palestina, e presiedette quello che fu chiamato il concilio di Gerusalemme, convocato per risolvere la questione dell’obbligatorietà dell’osservanza delle leggi mosaiche; il suo discorso è molto esplicito e non privo di durezza contro i rigidi: «Dio non fece differenza alcuna tra loro (Gentili) e noi, purificando con la fede — cioè non con i riti giudaici — i loro cuori. Perché tentate voi Dio per imporre sul collo dei discepoli un giogo che né i padri nostri né noi abbiamo potuto portare?». Ma gli effetti furono immediati e decisivi: «tutta la moltitudine si tacque» ed anche Giacomo aderì, salvo qualche riserva, all’indirizzo fissato «di non imporre altro peso fuori delle cose necessarie», come aveva appunto suggerito Pietro. Si tratta di una riunione importante, che non dovette essere priva pure di una certa solennità, vedendo raccolti tutti gli esponenti più autorevoli della nuova società cristiana; era in gioco l’interpretazione di tutto il messaggio di Gesù e non si poteva tardar oltre ad imboccare la via giusta. Anche in questo caso Pietro agì con franchezza ed audacia, dimostrandosi autorizzato a risolvere le questioni più delicate che insorgevano nella vita delle comunità, pur mantenendo una forma collegiale all’esercizio dei poteri, per tenere conto dei privilegi spettanti anche agli altri apostoli; ciò dimostra che esisteva un doppio ordine di giurisdizioni, quella primaziale, che il Maestro aveva conferito individualmente a Pietro, e quella pastorale, che era propria di tutto il collegio apostolico. Non ebbe torto il protestante Heiler a dire che in tutto questo vi è già «il cattolicesimo in divenire» nel senso che embrionalmente si scoprono qui presenti i vari elementi caratteristici della costituzione cattolica quale apparirà in piena luce dopo aver raggiunto la sua completa efficienza nel corso dei secoli.

4 MAGGIO 2014 | 3A DOMENICA DI PASQUA : « STOLTI E TARDI DI CUORE NEL CREDERE ALLA PAROLA DEI PROFETI! »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/4-Pasqua-A-2014/Omelie/03-Domenica-Pasqua-A-2014/12-3a-Domenica-A-2014-SC.htm

4 MAGGIO 2014 | 3A DOMENICA DI PASQUA A | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

« STOLTI E TARDI DI CUORE NEL CREDERE ALLA PAROLA DEI PROFETI! »

C’è ancora tanto fremito di « gioia » per l’indicibile evento pasquale che abbiamo appena celebrato e che si sta tuttora svolgendo sotto i nostri occhi. Ce ne dà testimonianza l’antifona d’ingresso (Sal 65,1-2) e soprattutto la Colletta odierna: « Esulti sempre il tuo popolo, o Padre, per la rinnovata giovinezza dello Spirito, e come ora si allieta per il dono della dignità filiale, così pregusti nella speranza il giorno glorioso della risurrezione ». È tutta una luminosa traiettoria di gioia e di speranza per il cristiano che vive il suo inserimento in Cristo, che va dalla Pasqua che celebriamo nel tempo a quella che celebreremo nell’eternità.
Ma accanto alla gioia, anche uno sforzo di « penetrazione », alla luce della fede, del significato permanente della Pasqua per ciascuno di noi: uno sforzo che hanno fatto i primi cristiani e che dobbiamo continuare a fare anche noi nelle situazioni diverse in cui dobbiamo testimoniare che Dio « ha risuscitato Cristo dai morti e gli ha dato gloria », di modo che « la nostra fede e la nostra speranza siano fisse in Dio » (1 Pt 1,21).
Mi sembra che in questa linea si muovano tutte e tre le bellissime letture bibliche, che ci danno esempi concreti di interpretazione e di approccio « vitale » al mistero sempre nuovo della Pasqua.

« Ma Dio lo ha risuscitato… Dice infatti Davide a suo riguardo… »
La prima lettura è tratta dal lungo discorso di Pietro, in occasione della Pentecoste, per chiarire ai suoi ascoltatori il significato di quell’evento: esso si capisce solo come « perfezionamento » dell’opera salvifica compiuta da Cristo. Direi che la discesa dello Spirito è la dimostrazione, in chiave di intuizione teologica, della « verità » della risurrezione del Signore: proprio perché egli è risuscitato dai morti, ha potuto inviarci il « suo » Spirito da presso Iddio. Era quanto ci ricordava già domenica scorsa san Giovanni (20,22-23).
Ma, oltre a questo, san Pietro si sforza di far capire che tutto quello che era successo a Gesù di Nazaret rientrava in un « disegno già prestabilito » da Dio: quello che a molti era potuto apparire come un fallimento e uno smacco, in realtà era l’esaltazione dell’onnipotenza e dell’amore « preveggente » del Padre verso gli uomini.
Basta rileggere certi testi dell’Antico Testamento alla luce di Cristo per comprenderne la portata « profetica » e come lentamente Iddio preparava l’umanità ad accettare la « sbalorditiva » realtà della morte e risurrezione del suo Figlio: qualcosa che rimarrà per sempre incredibile, se il cuore dell’uomo non si arrende all’amore immenso e alla sapienza imperscrutabile dell’Altissimo!
Il ricorso alla « prova » della Scrittura, perciò, non è tanto un’argomentazione di carattere dimostrativo, quanto un desiderio di cogliere armonie e convergenze, di scoprire le linee di un disegno che, visto in controluce, poteva anche apparire un indecifrabile groviglio di assurda fatalità. Il riferimento alla Scrittura diventa in tal modo non solo persuasivo, ma soprattutto consolante: vi si rileggono le varie tappe e le linee di avanzamento del misterioso disegno salvifico di Dio in Cristo.
Ma ascoltiamo il discorso di Pietro: « Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete – dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mani di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere. Dice infatti Davide a suo riguardo: « Contemplavo sempre il Signore innanzi a me; poiché egli sta alla mia destra, perché io non vacilli. Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia lingua…, perché tu non abbandonerai l’anima mia negli inferi, né permetterai che il tuo Santo veda la corruzione. Mi hai fatto conoscere le vie della vita, mi colmerai di gioia con la tua presenza »" (At 2,22-28).
La citazione qui riportata è presa dal Salmo 16,8-11, attribuito a Davide, ed è fatta secondo la traduzione greca dei Settanta, che esprime più chiaramente l’idea della risurrezione: « perché tu non abbandonerai l’anima mia negli inferi, né permetterai che il tuo Santo veda la corruzione » (in ebraico abbiamo invece « fossa », cioè il sepolcro). Nonostante una evidente e drammatica situazione di morte, il « Santo », di cui qui si parla, e che nell’interpretazione di san Pietro si identifica con Gesù, viene come riassorbito nella vita, perché Iddio è alla sua « destra » e difende la sua causa (v. 25).

« Non a prezzo di cose corruttibili foste liberati »
Anche la seconda lettura, ripresa dalla prima Lettera di Pietro, con riferimento alla « redenzione » compiuta da Cristo non sborsando « argento e oro », ma pagando con il suo « sangue prezioso » di « Agnello senza macchia » (1 Pt 1,18-19), parla di un misterioso disegno di Dio riguardo a Cristo: « Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma si è manifestato negli ultimi tempi per voi. E voi per opera sua credete in Dio, che l’ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria, e così la vostra fede e la vostra speranza sono fisse in Dio » (vv. 20-21).
Noi siamo dunque i destinatari di questo disegno di amore di Dio in Cristo e la Scrittura ha il compito di svelarcelo. Tutto questo è sufficiente per farcene sentire la grandezza e per far nascere in noi il bisogno di conoscerla meglio e di meditarla. Non aveva torto perciò san Girolamo quando scriveva, con il suo solito modo incisivo: « Ignoratio Scripturarum, ignoratio Christi est »; cioè, ignorare la Scrittura è ignorare Cristo.1

Le speranze deluse dei discepoli di Emmaus
Anche lo stupendo brano di Vangelo, che ci descrive l’apparizione di Gesù ai due discepoli di Emmaus, trova la sua chiave di soluzione in una attenta rilettura delle pagine dell’Antico Testamento, che già preannunciano e preparano il mistero di Cristo, incomprensibile senza quel messaggio.
E qui l’interprete autorevole della Scrittura è Gesù stesso, che ne è anche l’oggetto. L’episodio è ben noto: senza entrare in tanti particolari, che pur meriterebbero di essere studiati, noi vogliamo rileggere quell’episodio soprattutto alla luce di quanto veniamo dicendo.
Il giorno stesso di Pasqua, dunque, due discepoli del Signore si dirigono da Gerusalemme verso Emmaus, ancora accasciati e disorientati per tutto quello che era successo. Mentre stanno parlando di queste cose, uno sconosciuto si avvicina loro, fingendo di ignorare quello di cui essi stavano discutendo. Essi allora lo informano dettagliatamente ed esprimono la loro desolazione per il crollo di tutte le loro speranze: « Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi di mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto » (Lc 24,21-24).
I due discepoli sono dunque convinti che ormai tutto è finito con la condanna a morte di Gesù: il sospetto, non dico la speranza, della risurrezione non li sfiora neppure. Se anche ricordano i « tre giorni » dalla morte, che forse intendono riferirsi alla predizione fatta da Cristo (cf 10,22), non è per rianimarsi, ma per dire che non c’è più nulla da fare: le « speranze » di una « liberazione » di Israele (v. 21) sono crollate per sempre!
Questo ultimo riferimento sta a dirci quale tipo di Messia i due discepoli, insieme a tutti gli altri, si aspettavano: un Messia potente, che avrebbe schiacciato con estrema facilità i suoi nemici. Tutto il contrario di quello che era avvenuto sulla croce. Di qui la comprensibile crisi, che aveva ottenebrato il loro spirito.

« E cominciando da Mosè spiegò loro le Scritture »
Ed è proprio di qui che Gesù incomincia la sua « catechesi » ai due discepoli, facendo loro vedere come la Scrittura proprio questo scandalo aveva preannunciato: « Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui » (vv. 25-27).
Ciò che creava scandalo ai discepoli di Emmaus, faceva dunque parte del disegno salvifico di Dio: quello che a loro era apparso come il fallimento di ogni speranza, in realtà era l’inizio della grande « gloria » che ormai avrebbe per sempre avvolto il Risorto. E qui la « gloria » è da intendersi come la manifestazione della potenza divina in Cristo, a partire dalla sua risurrezione dai morti.
La testimonianza della Scrittura, perciò, dà ragione a Dio e condanna sia la cecità dei Giudei che l’hanno attuata, pur senza volerlo (cf At 3,17), sia la sfiducia e il sospetto dei discepoli che non hanno saputo dar credito alla Parola di Mosè e dei Profeti.
Essi non ignoravano tale Parola, ma l’avevano distorta dal suo significato più vero per piegarla a interpretazioni di comodo, togliendole la sua forza di urto e di sovvertimento degli schemi comuni del pensare e dell’agire. Gesù riporta la Parola della Scrittura al suo significato originario, anche se apparentemente paradossale e sconvolgente: allora essa riacquista tutta la sua potenza e il suo splendore. Direi che diventa « ragionevole », della ragionevolezza di Dio, però, che trascende all’infinito la nostra saggezza. È la Parola che torna ad essere messaggio di fede e che solo in una « disposizione di fede » può essere assimilata in tutta la sua ricchezza.
È quanto i due discepoli di Emmaus esperimentano, mentre il Maestro « spiega » loro le Scritture. Lo confesseranno essi stessi quando, alla fine, avranno scoperto che quello sconosciuto era proprio lui, il Gesù di Nazaret che i Giudei avevano crocifisso: « Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture? » (v. 32). Accolta in prospettiva di fede, la Scrittura diventerà per tutti noi il luogo privilegiato del nostro incontro con Cristo, che in quel momento stesso diventerà anche il nostro più autorevole « esegeta », come fece allora con i discepoli di Emmaus.

« Lo riconobbero nello spezzare il pane »
Ma, accanto alla Scrittura, c’è anche un altro segno da cui riconoscere la presenza del Signore risorto in mezzo a noi: ed è il segno « eucaristico ». Infatti, pur trattandosi di una normale « cena », quella a cui fu invitato l’incognito pellegrino in quel lontano giorno di Pasqua, i gesti da lui compiuti alludono certamente a una celebrazione eucaristica: « Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro » (v. 30). È evidente il rimando che Luca vuol fare al racconto della istituzione dell’Eucaristia (cf 22,19).
D’altra parte, è proprio a questo momento che i discepoli lo riconoscono: « Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista » (v. 31). E quando, ritornati subito a Gerusalemme, riferiranno l’accaduto agli Undici, diranno ancora che « l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane » (v. 35). Doveva perciò trattarsi di un gesto « caratteristico » del Signore, per loro legato a qualche momento particolarmente solenne della sua vita: di nuovo siamo rimandati all’ultima Cena, con quello che di « unico » Gesù vi introdusse all’infuori della normale manducazione pasquale.
« È notevole che il racconto dell’incontro dei discepoli col Risorto, sulla via di Emmaus, termini con le parole: fu da loro riconosciuto nello spezzare il pane. Nella celebrazione dell’Eucaristia la comunità dei fedeli si riunisce per la lettura della Sacra Scrittura, per pronunciare la professione di fede e per spezzare il pane. Mediante la presenza del Signore che si realizza con lo spezzare il pane, Dio concede che il Risorto venga riconosciuto. In tal modo la festa non solo ha l’efficacia di schiudere all’uomo il mistero pasquale, ma è essa stessa un’irradiazione di questo mistero. La fede è un effetto dell’atto con cui Dio ha risuscitato il Cristo. Essa è quindi causa ed effetto insieme, proponendo l’incontro con la risurrezione ed operandola al tempo stesso ».

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola

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