LETTERA AGLI EFESINI 1, 3-23

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LETTERA AGLI EFESINI 1, 3-23

San Paolo benedice Dio in quanto Padre del Signore nostro Gesù Cristo, perché per mezzo di Lui ci sono sopraggiunte tutte le benedizioni divine. L’azione di Dio a favore degli uomini è comune alle tre Persone divine e perciò il di­segno eterno di Dio, contemplato qui da Paolo, ha la sua origine nella santissi­ma Trinità. «Non bisogna pensare», insegna l’XI concilio di Toledo, «che que­ste tre persone siano separabili, poiché non si deve credere che l’una fu od operò prima di un’altra, o l’una dopo l’altra, o una senza l’altra, essendo inse­parabili nella loro essenza e in ciò che operano»1. Nella realizzazione di questo progetto divino di salvezza si attri­buisce al Figlio l’opera della Redenzione e allo Spirito Santo il compito della santificazione. «Possiamo immaginare – per avvicinarci in qualche modo a questo insondabile mistero – che la Trinità, nella sua intima e ininterrotta re­lazione d’amore infinito, decida eternamente che il Figlio unigenito di Dio Pa­dre assuma la condizione umana, caricandosi delle nostre miserie e dei nostri dolori, per finire inchiodato a un legno»2.
San Paolo chiama benedizioni spirituali i doni che l’attuazione del piano salvi­fico ha portato con sé, perché questi doni sono distribuiti agli uomini median­te l’azione dello Spirito Santo. Dicendo «nei cieli» e «in Cristo» l’Apostolo in­dica il modo in cui siamo stati benedetti: tramite Cristo risorto e innalzato al cielo, che ha introdotto anche noi nel mondo di Dio3. L’espressione benedictus (benedetto) rivolta a Dio implica il riconoscimento da parte dell’uomo della grandezza e bontà divine e manifesta la gioia per i do­ni ricevuti4. Così san Tommaso commenta il senso di questo passo: «L’Apostolo dice “Benedictus” per parte mia, vostra e di altri; con il cuore, con la bocca e con le opere lo loda come Dio e come Padre, poiché è Dio per essenza e Padre per la sua potenza generatrice»5. La lode a Dio nostro Signore, alla quale così spesso ci invita la Sacra Scrittura6 si esprime non solo con le parole, ma anche con le opere: «Chiunque con le mani compie opere buone, inneggia a Dio col salte­rio. Chiunque confessa Dio con la bocca, canta a Dio. Canta con la bocca! Sal­meggia con le opere!»7.
4 In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità,
Nel corso dell’inno l’Apostolo specifica ciascuna delle benedizioni o benefi­ci contenuti nel disegno eterno di Dio. La prima di queste benedizioni è la scelta, precedente la creazione del mondo, di coloro che avrebbero fatto parte del­la Chiesa. L’espressione usata da san Paolo, tradotta con «ci ha scelti», è la stessa utilizzata nella versione greca dell’ Antico Testamento per designare l’elezione di Israele. La Chiesa, nuovo Popolo di Dio, è costituita dalla riunione in Cristo di coloro che sono stati eletti e chiamati alla santità. Ciò significa che la Chiesa, benché fondata da Cristo in un preciso momento storico, ha ori­gine nel disegno eterno di Dio. «L’eterno Padre, con liberissimo e arcano dise­gno di sapienza e di bontà ( … ] tutti gli eletti fin dall’eternità “li ha conosciuti nella sua prescienza e li ha predestinati a essere conformi all’immagine del Fi­glio suo, affinché Egli sia il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8, 29). I creden­ti in Cristo li ha voluti convocare nella santa Chiesa, la quale, già prefigurata fin dal principio del mondo, mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’Antica Alleanza, e istituita “negli ultimi tempi”, è stata manife­stata dall’effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei seco­li»8. L’elezione ha lo scopo di renderci «santi e immacolati al suo cospetto». Come nell’Antico Testamento la vittima offerta a Dio doveva essere pura e senza macchia9, la santità alla quale Dio ci ha destinati deve essere pie­na, immacolata. Benché già nel battesimo siamo stati santificati e durante la vita cerchiamo, con l’aiuto di Dio, di crescere nella santità ri­cevuta, tuttavia la pienezza della santità la raggiungeremo solo nella gloria del cielo. La santità ricevuta è un dono gratuito di Dio, senza alcun merito da parte no­stra, dal momento che non esistevamo ancora quando Dio ci ha scelti. «Ci ha scelti prima della creazione del mondo perché fossimo santi. So che questo non ti riempie di orgoglio né ti fa considerare superiore agli altri». «Questa scelta, radice della tua chiamata, deve esse­re la base della tua umiltà. Si innalza forse un monumento ai pennelli di un grande pittore? Sono serviti per dipingere dei capolavori, ma il merito è dell’artista. Noi cristiani siamo soltanto strumenti del Creatore del mondo, del Redentore di tutti gli uomini»10. «Nella carità»: si riferisce anzitutto all’amore di Dio per noi. Se Dio ci ha onorato Con un’infinità di benefici, ciò lo si deve al suo amore e non al valore dei nostri meriti. Il nostro fervore e la nostra forza, la nostra fede e la nostra unità sono frutto della benevolenza di Dio e della nostra corrispondenza alla sua bontà. Nella elezione e nella chiamata alla santità, così come nel dono della filiazione divina, si rivela che Dio è amore11, poiché in questo modo siamo divenuti partecipi della natura divina12 e dell’amore di Dio. L’espressione «nella carità» comprende l’amore del cristiano verso Dio e verso gli altri. La carità è dunque partecipazione dell’amore di Dio ed è l’essenza del­la santità, la legge del cristiano13.
5 predestinandoci a essere suoi figli adotti vi per opera di Gesù Cristo,
L’Apostolo continua a contemplare l’eterno disegno di Dio: per far parte della Chiesa, gli eletti sono stati anche, come in una seconda benedizione, predestinati a essere figli adottivi di Dio. «Questo popolo messianico ha per condizione la dignità e libertà dei figli di Dio, nel Cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio»14. La predestinazione di cui parla l’Apostolo consiste nel fatto che Dio, secondo il suo libero beneplacito, stabilì fin dall’eternità che i membri del nuovo Popo­lo di Dio attingessero la santità mediante il dono della filiazione adottiva. Dio vuole che tutti gli uomini si salvino15 e fornisce a ciascuno i mezzi necessari per raggiungere la vita eterna. Nessuno, pertanto, è predestinato alla condanna16. La filiazione divina del cristiano ha la Sua origine in Gesù Cristo: il Figlio uni­genito, consustanziale al Padre, ha assunto la natura umana per rendere gli uo­mini figli adottivi di Dio17. Ciascun membro del­la Chiesa può dire: «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiama­ti figli di Dio, e lo siamo realmente!»18. La relazione di adozione non è un rapporto esclusivamente giuridico, estrinse­co e meramente accidentale. L’adozione divina attiene a tutto l’essere dell’uo­mo e lo introduce nella stessa vita di Dio, dato che per mezzo del battesimo di­veniamo figli di Dio, partecipi della natura divina19. La filiazione divina è dunque il più grande dei doni che Dio ha concesso all’uomo. «Bene­detto sia Dio», possiamo esclamare con san Paolo (v.3) considerando questa gioiosa realtà, poiché è proprio dei figli manifestare apertamente riconoscenza e amore al loro Padre. La filiazione divina è fonte di conseguenze feconde per la vita spirituale. «Un figlio di Dio tratta il Signore come Padre. Non con ossequio servile né con ri­verenza formale, ma Con sincerità e fiducia. Dio non si scandalizza degli uomi­ni, non si stanca delle nostre infedeltà. Il Padre del cielo perdona qualsiasi of­fesa, quando il figlio torna a Lui, quando si pente e chiede perdono. Anzi, il Si­gnore è a tal punto Padre da prevenire il nostro desiderio di perdono: è Lui a farsi avanti aprendoci le braccia Con la sua grazia»20.
6 secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto;
Il dono della filiazione divina è la manifestazione Suprema della gloria di Dio, poiché in questo dono si rivela la pienezza dell’amore di Dio. San Paolo pone in risalto la finalità di quel progetto eterno di Dio: «a lode e gloria della sua grazia». La gloria di Dio si è rivelata attraverso il suo amore misericordioso, con il quale ci ha resi suoi figli, secondo il disegno eterno della sua volontà. Questo disegno «scaturisce dall”’amore fontale”, cioè dalla carità di Dio Padre che, essendo il principio senza principio, da cui il Figlio è generato e lo Spirito Santo attraverso il Figlio procede, per la Sua immensa e misericordiosa bene­volenza liberamente creandoci e inoltre gratuitamente chiamandoci a parteci­pare nella vita e nella gloria, ha effuso con liberalità e non cessa di effondere la divina bontà, sicché lui che di tutti è il Creatore, possa anche essere “tutto in tutti”21, procurando insieme la Sua gloria e la nostra felicità»22. La grazia di cui parla san Paolo, e per mezzo della quale si manifesta la gloria di Dio, si riferisce in primo luogo al carattere gratuito delle benedizioni divine, e comprende anche i doni della santità e della filiazione divina, di cui è gratifi­cato il cristiano. «Nel suo Figlio diletto»: l’Antico Testamento insiste ripetutamente sul concet­to che Dio ama il suo popolo e che Israele è il popolo prediletto da Dio23. Nel Nuovo Testamento i cristiani sono de­signati con l’espressione «amati da Dio»24. Tuttavia, «l’Amato», «il diletto», in senso stretto è solo nostro Signore Gesù Cristo. Lo rivelò Dio Padre nella nube luminosa della Trasfigurazione: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto»25. Il Figlio del suo amore ha ottenuto la redenzione degli uomini, il perdono dei peccati26 (e, con la sua grazia, ci rende accetti a Dio, capaci di venire amati con lo stesso amore con cui ama suo Figlio. Nell’Ultima Cena, Gesù pregò il Padre proprio per questo: perché «il mondo sappia che Tu [ ... ] li hai amati come hai amato me»27. «Vedi», rileva san Giovanni Crisostomo, «come Paolo non dica che questa grazia ci sia stata concessa senza fine alcuno, ma che ci è stata data per renderci graditi e amabili agli occhi di Dio, una volta purificati dai nostri peccati»28.
7 nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia. 8 Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi con ogni sapienza e intelligenza,
San Paolo ferma ora la sua attenzione sull’opera redentrice di Cristo ­terza benedizione, mediante la quale si è realizzato nella storia il disegno eterno di Dio descritto nei versetti precedenti. Redimere significa liberare. La redenzione da parte di Dio si manifesta già nell’Antico Testamento, quando il popolo d’Israele viene liberato dalla schiavitù d’Egitto29. Allora, mediante il sangue dell’agnello sparso sugli stipiti delle case degli Ebrei, i primogeniti furono liberati dalla morte. In ricor­do di questa salvezza gli Israeliti celebravano il rito della Pasqua, sacrificando l’agnello pasquale30. La redenzione dalla schiavitù d’Egitto era fi­gura della Redenzione operata da Cristo. «Quest’opera della redenzione uma­na e della perfetta glorificazione di Dio, che ha il suo preludio nelle mirabili ge­sta divine operate nel popolo del Vecchio Testamento, è stata compiuta da Cristo Signore, specialmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione da morte e gloriosa ascensione»31. Gesù, mediante il proprio sangue versato sulla croce, ci ha riscattati dalla schiavitù del peccato e dal dominio del demonio e della morte; è Cristo il vero agnello pasquale32. «Da ciò si rileva che quante volte noi ricorderemo di essere stati riscattati non a prezzo di dena­ro, ma a prezzo del sangue di Gesù, agnello purissimo e senza macchia33, dovremo anche riflettere che Dio non ci poteva concedere nulla di più prezioso, nulla di più salutare di questa potestà del perdono dei peccati; dono che mette in evidenza tutta la misteriosa provvidenza di un Dio pieno d’amo­re verso di noi»34. Il frutto della Redenzione di Cristo è la liberazione dalla schiavitù del peccato. In realtà «l’uomo si trova incapace di superare efficacemente da sé medesimo gli assalti del male, così che ognuno si sente come incatenato. Ma il Signore stesso è venuto a liberare l’uomo e a dargli forza, rinnovandolo nell’intimo, e scacciando fuori “il principe di questo mondo”35, che lo teneva schiavo del peccato. Il peccato è, del resto, una diminuzione per l’uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza»36. Cristo Gesù operò la redenzione spinto dal suo infinito amore verso gli uomi­ni. La ricchezza di questo amore gratuito si rivela soprattutto nella generosità del perdono divino, poiché «laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbonda­to la grazia»37; questo perdono, ottenuto con la morte di Cristo sulla croce, è la più grande prova dell’amore di Dio, poiché «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici»38. Se Dio Padre consegnò suo Figlio alla morte per la remissione dei peccati degli uomini, «lo fece per rivelare l’amore, che è sempre più grande di tutto il creato», ricorda Giovanni Paolo II, «l’amore che è Lui stesso, perché “Dio è amore”39. E soprattutto, l’amore è più grande del peccato, della debolezza, della “caducità del creato”40, più forte della morte»41. Per mezzo della Redenzione, Cristo ci ottiene il perdono dei peccati, restaurando la vera dignità dell’uomo. «La Chiesa, che non cessa di contemplare l’in­sieme del mistero di Cristo», insegna ancora Giovanni Paolo II, «sa, con tutta la certezza della fede, che la Redenzione, avvenuta per mezzo della Croce, ha ridato definitivamente all’uomo la dignità e il senso della sua esistenza nel mondo, senso che egli aveva in misura notevole perduto a causa del peccato»42. Si rivelano così la sapienza e la prudenza divine riguardo all’uomo.
9 poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito
Mediante l’opera redentrice di Cristo, Dio non solo ha concesso il perdono dei peccati, ma ha rivelato che il suo piano salvifico abbraccia la totalità della storia e della creazione. Questo disegno divino, che era nascosto e che si è sve­lato in Gesù Cristo, è chiamato da san Paolo «il mistero», la cui rivelazione co­stituisce un’altra benedizione divina. Questo mistero, dunque, oltre alla istitu­zione della Chiesa e al dono della filiazione divina (vv. 4-7), comprende la ri­capitolazione di tutte le cose in Cristo (v. 10) e la chiamata degli Ebrei e dei Gentili a far parte della Chiesa (vv. 11-14; cfr 3, 4-7). Tutto questo è stato rive­lato da Cristo, così che in Lui culmina la Rivelazione di Dio. Il Signore Gesù, «col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio dello Spirito Santo, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e per risusci­tarci per la vita eterna»43. Il fatto che Dio riveli i suoi piani di salvezza è una dimostrazione del suo amo­re e della sua misericordia, poiché l’uomo può così riconoscere l’infinita sa­pienza e bontà divine, e cogliere l’invito a partecipare dei piani di Dio. In real­tà, «piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare sé stesso e manifestare il mistero della sua volontà44, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura45. Con questa rivelazio­ne, infatti, Dio invisibile46 nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici47 e si intrattiene con essi48, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé»49.
10 per realizzarlo nella pienezza dei tempi; il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra.
Il «mistero» rivelato dall’amore di Dio si dispiega in forma armoniosa, seguendo diverse tappe o tempi nel corso della storia. La pienezza dei tempi è iniziata con l’Incarnazione50 e continua a svolgersi, secon­do la sapienza divina, fino a giungere alla comunione definitiva. Per mezzo della Redenzione, Gesù ha ricondotto i tempi a Dio; anzi, è Lui che governa in senso Soprannaturale tutta la storia. Mediante l’opera di Cristo, i disegni divi­ni non solo sono divenuti realtà, ma sono stati rivelati alla Chiesa, a sua volta strumento nell’esecuzione di tali disegni. «Già dunque è arrivata a noi l’ultima fase dei tempi51 e la rinnovazione del mondo è irrevocabilmente fissata e in un certo modo realmente è anticipata in questo mondo: difatti la Chiesa già sulla terra è adornata di vera santità, anche se imperfetta. Ma fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora52, la Chiesa peregrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo, e vive tra le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora e sospirano la manifestazione dei figli di Dio53»54. Il vertice del progetto divino, anteriore alla creazione, sta nel «ricapitolare in Cristo tutte le cose», fare cioè che tutta la realtà abbia Cristo come Capo. Ciò significa che Gesù, mediante la sua opera redentrice, riunisce e riconduce a Dio il mondo creato, prima lacerato dal peccato, così che in Cristo ritrovino il loro vincolo di unità sia gli esseri celesti, sia gli uomini e tutte le realtà terrestri. Insegna san Giovanni Crisostomo che «le cose celesti erano disgiunte dalle ter­restri, non avevano capo [ ... ]. E Dio pose come unico capo di tutte le cose, degli angeli e degli uomini, il Cristo secondo la carne. Diede cioè un unico principio agli angeli e agli uomini [...]; poi si avrà l’unità, la perfetta e necessaria unione, quando cioè tutte le cose, in possesso del vincolo essenziale che procede dal­l’alto, saranno raccolte sotto un solo capo»55. Il primato di Cristo su tutte le cose, pienamente manifesto alla fine dei tempi, si fonda sul fatto che Cristo, vero Dio e vero uomo, è già Capo, primogenito di tutto il creato. Per mezzo della sua risurrezione, Gesù ha trionfato sul peccato e sulla morte ed è stato costituito Signore di tutto l’universo56. Tutti gli esseri, visibili e invisibili, sono sottomessi a Cristo co­me a loro Capo, che si innalza al di sopra di tutto. Questa profonda realtà è sempre stata vissuta nella Chiesa, come mostra per esempio il motto proposto da san Pio X all’inizio del suo pontificato: «se alcu­no da Noi richiede una parola d’ordine, che sia espressione della Nostra volon­tà, questa sempre daremo e non altra: “Restaurare ogni cosa in Cristo”». «Ricapitolare in Cristo tutte le cose»: implica anche mettere Cristo al vertice di tutte le attività umane; come affermava Escriva De Balaguer Josemaria: «Instaura­re omnia in Christo, questo è il motto di san Paolo per i cristiani di Efeso57; informare tutto il mondo con lo spirito di Gesù, mettere Cristo nelle visce­re di ogni realtà:), «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutto a me»58. Cristo, mediante la sua incarnazione, la sua vita di lavoro a Nazaret, la sua predicazione e i suoi mira­coli nelle contrade della Giudea e della Galilea, la sua morte in Croce, la sua ri­surrezione, è il centro della creazione, è il Primogenito e il Signore di ogni crea­tura. «La nostra missione di cristiani è di proclamare la regalità di Cristo, annun­ciandola con le nostre parole e le nostre opere. Il Signore vuole che i suoi fedeli raggiungano ogni angolo della terra. Ne chiama alcuni nel deserto, lontano dal­le preoccupazioni della società umana, per ricordare agli altri, con la loro testi­monianza, che Dio esiste. Ad altri affida il ministero sacerdotale. Ma i più li vuole in mezzo al mondo, nelle occupazioni terrene. Pertanto, questi cristiani devono portare Cristo in tutti gli ambienti in cui gli uomini agiscono: nelle fab­briche nei laboratori, nei campi, nelle botteghe degli artigiani, nelle strade del­le grandi città e nei sentieri di montagna»59.
11 In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto opera efficacemente, conforme alla Sua volontà,
12 perché noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo.
La speranza del popolo giudaico ha avuto compimento in Cristo poiché con lui sono giunti il Regno di Dio e i beni messianici, destinati in primo luogo a Israele, sua eredità60. Lo scopo dell’ele­zione di Israele da parte di Dio era di formarsi un proprio popolo61, che gli rendesse gloria e fosse testimone in mezzo alle nazioni della speranza nella venuta del Messia. «Dio, intendendo e preparando nel suo grande amore la salvezza del genere umano, si scelse con singolare disegno un popolo al quale affidare le promesse. Infatti, mediante l’Alleanza stretta con Abramo62 e col popolo d’Israele per mezzo di Mosè63, Egli si rivelò al popolo che così si era acquistato come l’unico Dio vivo e vero, in modo tale che Israele sperimentasse quali fossero le vie divine con gli uomini e, parlando Dio per bocca dei profeti, le comprendesse con sempre maggiore profondità e chiarezza e le facesse conoscere con maggiore ampiezza alle genti64»65. San Paolo rileva che, già prima della venuta di Gesù Cristo, gli uomini giusti dell’Antica Alleanza coltivavano la fede nel Messia promesso66: ne attendevano la venuta e, accogliendo la promessa, la loro speran­za si nutriva della fede in Cristo. Come esempi di questa fede, più vicini ai tempi del Nuovo Testamento, si possono citare Zaccaria ed Elisabetta, Simeo­ne e Anna, ma soprattutto san Giuseppe. Josemaria Escriva commen­ta che la fede di san Giuseppe fu «piena, fiduciosa, integra; una fede che si ma­nifesta con la dedizione efficace alla volontà di Dio, con l’obbedienza intelli­gente. E, assieme alla fede, ecco la carità, l’amore. La sua fede si fonde con l’amore: l’amore per Dio che compiva le promesse fatte ad Abramo, a Giacob­be, a Mosè; l’affetto coniugale per Maria; l’affetto paterno per Gesù. Fede e amore si fondono nella speranza della grande missione che Dio, servendosi proprio di lui – un falegname della Galilea – cominciava a realizzare nel mon­do: la redenzione degli uomini»67.
13 In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promes­so,
14 il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lo­de della sua gloria.
Se san Paolo riconosce la grandezza del piano salvifico di Dio nella realizzazione delle promesse al popolo giudaico mediante Gesù Cristo, un prodi­gio ancora più grande ravvisa nella chiamata dei Gentili a divenire partecipi delle stesse promesse. Questa chiamata è come una nuova benedizione divi­na. L’incorporazione dei Gentili alla Chiesa avviene per mezzo della predicazione del Vangelo. Ciò significa che la fede inizia con l’ascolto della parola di Dio68. Una volta che sia stata accolta, Dio segna il credente con lo Spirito Santo promesso69, e questo segno costituisce la caparra o garanzia dell’eredità eterna e rappresenta la certezza di essere stati accolti da Dio e uniti alla sua Chiesa, in ordine alla salvezza prima riservata solo a Israele. Si stabilisce come un parallelo tra il «suggello» della circoncisione, che inse­riva il credente dell’Antica Alleanza nel popolo d’Israele, e il «suggello» dello Spirito Santo nel battesimo che, nella Nuova Alleanza, incorpora i cristiani al­la Chiesa70. Dio è, dunque, causa efficien­te della nostra giustificazione: «la misericordia di Dio gratuitamente lava71 e santifica, segnando e ungendo72 con lo “Spirito della promessa”, quello Santo “che è pegno della nostra eredità”73. La caparra è l’importo che si consegna o si riceve in una compravendita come anticipo e garanzia della somma convenuta. In questo caso rappresenta l’im­pegno da parte di Dio di conferire al credente il possesso pieno e definitivo del­l’eterna beatitudine, di cui concede un anticipo in forza del battesimo74. Tramite Gesù Cristo, commenta san Basilio, «riceviamo in do­no il riacquisto del paradiso, l’ascesa al Regno dei cieli, il ritorno all’adozione filiale, la familiarità di chiamare Padre lo stesso Dio. Diveniamo partecipi del­la grazia di Cristo, siamo chiamati figli della luce, godiamo della gloria del cie­lo; in una parola, viviamo in pienezza di benedizione tanto nel mondo presen­te quanto nel venturo [ ... ]. Se questo è il pegno, come sarà la condizione ulti­ma? Se gli inizi sono così grandi, come sarà la fine?»75. Il dono dello Spirito Santo, che inabita nel cristiano in grazia, è il punto culmi­nante nell’attuazione del disegno divino di salvezza. Lo Spirito Santo, che adunò la Chiesa nella Pentecoste76, è il medesimo che anima e vi­vifica i fedeli del nuovo Popolo di Dio nella loro missione apostolica attraver­so i secoli. Il Magistero della Chiesa ci ricorda che lo Spirito Santo «in tutti i tempi “unifica nella comunione e nel servizio, e fornisce dei diversi doni ge­rarchici e carismatici”77 tutta la Chiesa, vivificando co­me loro anima le istituzioni ecclesiastiche e infondendo nel cuore dei fedeli quello spirito della missione, da cui era stato spinto Gesù stesso. Talvolta, an­zi, previene visibilmente l’azione apostolica, come incessantemente in vari modi l’accompagna e dirige»78. Il popolo nuovo è stato acquistato da Dio con il prezzo del sangue di suo Fi­glio. Al popolo dell’Antico Testamento è succeduto il popolo dei credenti in Cristo, quale che ne sia la provenienza. Tutti formano ormai la Chiesa, il Po­polo degli eletti. Il concilio Vaticano II insegna: «Come già Israele, secondo la carne, peregrinante nel deserto, viene chiamato Chiesa di Dio79, così il nuovo Israele dell’èra presente, che cammina alla ricerca della città futura e permanente80, si chiama pure Chiesa di Cristo81, avendola Egli acquistata col suo sangue82, riempita del suo Spirito e fornita di mezzi adatti per l’unione visibile e sociale. Dio ha convocato tutti coloro che guardano con fede a Gesù, autore della sal­vezza e principio di unità e di pace, e ne ha costituito la Chiesa, perché sia per tutti e per i singoli sacramento visibile di questa unità salvi fica»83.
15Perciò anch’io, avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi, 16 non cesso di render grazie per voi, ricordandovi nelle mie preghiere,
La sollecitudine di san Paolo costituisce uno splendido esempio, in modo particolare per i responsabili della formazione cristiana. Al pari di lui, essi devono pregare per coloro che sono loro affidati, ringraziare Dio per i pro­gressi delle anime e chiedere allo Spirito Santo che conceda loro il dono della sapienza e dell’intelligenza. «Svolgi il tuo incarico con ogni attenzione, di cor­po e di spirito», esorta sant’Ignazio di Antiochia. «Preoccupati dell’unità, non esistendo nulla di meglio. Fatti carico di tutti, come di te si fa carico il Signore. Sopporta tutti con spirito di carità, come già stai facendo. Dèdicati senza pau­se all’orazione. Chiedi ancora più intelligenza di quella che già possiedi. Rima­ni all’erta, come spirito che non conosce il sonno. Parla agli uomini del popolo come Dio parlerebbe loro»84. La «fede nel Signore Gesù» non significa qui credere in Cristo Gesù, ma espri­me qual è il fondamento della vita di fede. Coloro che hanno ricevuto il dono della fede vivono in Cristo, e questa vita con Cristo rende la loro fede realmen­te viva manifestandosi nell’«amore verso tutti i santi». Per mezzo della fede si scopre che ogni battezzato è figlio di Dio e, quindi, l’amore fraterno fra i cri­stiani ne è una logica conseguenza.
17 perché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Pa­dre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazio­ne per una più profonda conoscenza di lui.
Il Dio al quale san Paolo si rivolge è «il Dio del Signore nostro Gesù Cri­sto», cioè il Dio che si è rivelato attraverso Cristo e che Gesù, in quanto uomo, prega invocandone l’aiuto85. Quel Dio che prima – nell’Antico Testamento – era designato come «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» viene ora chiamato «il Dio del Signore nostro Gesù Cristo». È il Dio persona­le, conosciuto per la sua relazione a Cristo, il Figlio che, come mediatore della Nuova Alleanza, ottiene da Dio Padre tutto quanto gli chiede. E così noi se ci uniamo a Cristo, secondo quanto ha promesso: «Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà»86. «Gesù è il Cammino, il Mediatore; in Lui tutto, senza di Lui, nulla. In Cristo, istruiti da Lui, osiamo chiamare Padre nostro l’Onnipotente: Colui che fece il cielo e la terra è questo Padre affettuoso»87. L’Apostolo chiama Dio anche «Padre della gloria». La gloria di Dio ne signifi­ca la grandezza, la potenza, la ricchezza immensa che, nel manifestarsi, susci­tano l’ammirazione e il riconoscimento dell’uomo. Così Dio si era rivelato nel­la storia d’Israele, con azioni salvifiche a favore del suo popolo. Chiedere a Dio di glorificare il suo nome vuol dire chiedergli che si mostri salvatore, inter­venendo con azione potente e benefica88. La più alta manife­stazione della gloria di Dio, della sua potenza, è stata tuttavia la risurrezione di Gesù, e quella del cristiano con Lui89. In questo passo san Paolo invoca Dio come «Padre della gloria» per chiedere che conceda ai cristiani una sapienza soprannaturale con cui possano riconoscere la grandez­za dei benefici che Egli ha elargito loro per mezzo di suo Figlio; perché possano cioè conoscerlo come Padre e origine della gloria. Lo «spirito di sapienza e di rivelazione» che l’Apostolo chiede è un dono soprannaturale: quella sapienza, dono dello Spirito Santo, che penetra i misteri divini: «Chi ha conosciuto il tuo pensiero, se tu non gli hai concesso la sapienza e non gli hai inviato il tuo Santo Spirito dall’alto?»90. Questa sapienza, affidata alla Chiesa91, può essere ricevuta da alcuni fedeli in modo speciale, come dono personale dello Spirito Santo. San Paolo chiede anche che Dio conceda agli Efesini lo «spirito di rivelazione», cioè la grazia di visioni personali, com’era stata con­cessa a lui92 e ad altri fedeli93; si tratta di una par­ticolare illuminazione dello Spirito Santo, perché conoscano con maggiore profondità la verità di fede o la volontà di Dio in una determinata circostan­za.
18 Possa egli dav­vero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi com­prendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi
19 e qual è la straor­dinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l’efficacia della sua forza
Insieme a una profonda conoscenza di Dio, san Paolo invoca per i cristiani la conoscenza piena e vissuta della speranza, poiché le due realtà – Dio e la nostra speranza _ vanno inseparabilmente unite. Egli già conosce la fede e la carità dei fedeli ai quali scrive (cfr 1, 15); ciò che ora domanda per loro è la spe­ranza: che Dio li illumini interiormente, perché scoprano le conseguenze di es­sere stati eletti _ chiamati – a far parte del popolo santo di Dio, la Chiesa. La speranza è dunque un dono di Dio: «La speranza è una virtù soprannaturale, infusa da Dio nell’anima nostra, per la quale desideriamo e aspettiamo la vita eterna che Dio ha promesso ai suoi servi, e gli aiuti necessari per ottenerla»94. Fondamento della speranza è l’amore e la potenza di Dio, che si è manifestata nella risurrezione di Cristo. Questa potenza di Dio opera anche nel cristiano. Il progetto della nostra santità è eterno: Dio, che ci ha chiamati, ci donerà una vi­ta celeste e immortale. Il fatto che la potenza di Dio operi in noi95 non significa che siamo liberi da ogni difficoltà. Ricorda il beato Josemaria Escriva: «mentre lotti – una lotta che durerà fino alla morte – non escludere la possibilità che insorgano, violenti, i nemici di dentro e di fuori. E, come se questo peso non bastasse, a volte faranno ressa nella tua mente gli errori com­messi, forse abbondanti. Te lo dico in nome di Dio: non disperare. Se ciò av­viene _ non deve succedere necessariamente, né sarà cosa abituale – trasforma la prova in un’occasione per unirti maggiormente al Signore, perché Lui, che ti ha scelto come figlio, non ti abbandonerà. Permette la prova, per spingerti ad amare di più e farti scoprire con maggiore chiarezza la sua continua protezione, il suo Amore»96.
20 che egli manifestò in Cri­sto, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua de­stra nei cieli, 21 al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si pos­sa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro.
San Paolo contempla stupito le meraviglie che la potenza di Dio Padre ha operato in Cristo Gesù. In tal maniera Cristo appare come principio e modello della nostra speranza. Infatti, come la vita di Cristo configura la nostra santità e ne è esempio, così la gloria e l’esaltazione di Cristo adombra la nostra gloria ed esaltazione, e ne è la figura. Essere seduto «alla destra» del Padre significa qui, come in altri passi del Nuovo Testamento97, che Cristo risorto partecipa della potenza regale di Dio. San Paolo si serve di un’immagine ben nota nelle più alte assemblee pubbliche dell’epoca, che l’imperatore presiedeva stando seduto su un trono. Il trono è sempre stato il simbolo del potere supremo. Per­ciò il Catechismo romano spiega che «qui “sedere” non significa la posizione del corpo, ma esprime simbolicamente il fermo e stabile possesso di quella su­prema potestà e di quel trono regale che Cristo ha ricevuto dal Padre»98. La sovranità di Cristo è assoluta su tutta la creazione, sia fisica che spirituale, terrestre come celeste. Principati, Potestà, Potenze o Virtù e Dominazioni so­no gli spiriti angelici che i falsi predicatori ritenevano su­periori a Cristo. San Paolo sottolinea che Gesù, nella risurrezione, è stato glori­ficato da Dio al di sopra di tutti gli enti creati.
22 Tutto infatti ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha co­stituito su tutte le cose a capo della Chiesa,
23 la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose.
In Lettere precedenti, san Paolo aveva insegnato che la Chiesa è come un corpo99. L’immagine del corpo e del capo po­ne in risalto la funzione salvifica di Cristo nella Chiesa e la sua supremazia su di essa. Questa realtà riempie di gioia i cristiani che, incor­porati alla Chiesa mediante il battesimo, sono realmente membra del Corpo di nostro Signore. «Oh, non è orgoglio», rilevava Paolo VI, «non è presunzione, non è ostentazione, non è follia, ma luminosa certezza, ma gioiosa convinzio­ne la nostra, d’essere costituiti membra vive e genuine del Corpo di Cristo, d’essere autentici eredi del Vangelo di Cristo»100. Questa immagine esprime, inoltre, la forza dell’unione di Cristo con la sua Chiesa e il suo profondo amore: la «amò tanto», osserva san Giovanni d’Avila, «che, sebbene abitualmente vediamo uno mettere innanzi il braccio per salvarsi da un colpo sul capo, questo Signore benedetto, pur essendo Capo, si an­tepose al colpo della giustizia divina e morì sulla croce per dare vita al suo cor­po, che siamo noi. E, dopo averci vivificato mediante la penitenza e i sacra­menti, ci difende e custodisce come cosa tanto propria da non accontentarsi di chiamarci servi, amici, fratelli o figli; ma, per meglio mostrare il suo amore e darci più gloria, ci dona il suo stesso nome; da ciò, per questa ineffabile unione di Cristo, Capo, con la Chiesa, suo corpo, Lui e noi siamo chiamati tutti un solo Cristo»101. La Chiesa, Corpo di Cristo, viene designata da Paolo anche con la parola «pienezza». Significa che, mediante la Chiesa, Cristo si rende presente e riempie tutto l’universo, al quale sono estesi i frutti della sua opera redentrice. Essendo strumento di Cristo nell’amministrazione universa­le della sua grazia, la Chiesa non si riduce, come l’antico Israele del Vecchio Testamento, a un popolo o a una razza determinata, né limita i suoi confini a una specifica area geografica. Poiché è illimitata nella sua grazia, lo è anche nella chiamata che rivolge a tutti gli uomini affinché, in Cristo, raggiungano la salvezza. Da secoli la Chiesa è diffusa in tutto il mondo, ed è composta da persone di tutte le razze e condizioni so­ciali. Però la cattolicità della Chiesa non dipende dall’estensione geografica, che comunque ne è segno visibile e motivo di credibilità. La Chiesa era cattoli­ca già nella Pentecoste; nasce cattolica dal cuore piagato di Gesù, come un fuo­co alimentato dallo Spirito Santo. «La chiamiamo cattolica», scrive san Ci­rillo, «non soltanto perché è diffusa su tutta la terra, dall’uno all’altro confine, ma perché in modo universale e senza alcun difetto insegna tutti i dogmi che gli uomini devono conoscere, e che riguardano ciò che è visibile e ciò che non lo è, ciò che è celeste e ciò che è terreno. E anche perché unifica nel retto culto tutti gli uomini, governanti e semplici cittadini, dotti e ignoranti. E, infine, perché cura e sana da ogni genere di peccati, dell’anima e del corpo, e perché possiede inoltre – in qualunque modo le si voglia chiamare – tutte le virtù, nei fatti e nelle parole e in ogni specie di doni spirituali»102. Tutta la grazia giunge alla Chiesa per mezzo di Cristo. Il concilio Vaticano Il ci ricorda: «Egli, nel suo Corpo che è la Chiesa, continuamente dispensa i doni dei ministeri, con i quali, per virtù sua, ci aiutiamo vicendevolmente a salvar­ci, e operando nella carità conforme a verità, noi andiamo in ogni modo cre­scendo in Colui che è il nostro Capo»103. Perciò san Paolo chiama la Chiesa «Corpo» di Cristo; e, in questo senso, essa è «pienezza» (pleròma) di Cristo, non perché la Chiesa completi Cristo, ma perché essa è piena di Cristo, formando con Lui un solo corpo, un unico organismo spiritua­le, il cui principio di unione e di vita è Cristo-Capo. Si pone così in evidenza l’assoluta supremazia di Cristo, il cui flusso, allo stesso tempo unificante e vi­vificante, si diffonde alla Chiesa e da questa a tutti gli uomini. Gesù è in realtà Colui che riempie tutto in tutte le cose104. Il fatto che la Chiesa è il Corpo di Cristo costituisce una ragione ulteriore per amarla e servirla. Insegna perciò papa Pio XII: «A ottenere poi che un tal pie­nissimo amore regni negli animi nostri, e di giorno in giorno aumenti, è neces­sario assuefarsi a riconoscere nella Chiesa lo stesso Cristo. È infatti Cristo che nella sua Chiesa vive, per mezzo di lei insegna, governa, comunica la santità; è Cristo che, in molteplici forme, si manifesta nelle varie membra della sua so­cietà»105.

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