L’AUTOCOSCIENZA CRISTIANA E IL POPOLO EBRAICO di Bruno Forte

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L’AUTOCOSCIENZA CRISTIANA E IL POPOLO EBRAICO

di

Bruno Forte

Il raduno escatologico d’Israele è – secondo diversi esegeti – la causa per la quale Gesù, ebreo ed ebreo per sempre, ha speso la Sua vita: a sua volta l’Apostolo Paolo avverte come questione decisiva per il suo essere discepolo di Cristo quella del misterioso disegno per cui questo raduno è dilazionato nel tempo (cf. Rom 9-11). Già questi semplici dati basterebbero per motivare il singolare interesse della fede cristiana al popolo ebraico, cui si aggiunge – sul piano culturale e spirituale – la consapevolezza dell’enorme apporto che l’ebraismo ha dato alla formazione della coscienza europea e della civiltà in generale. Radicati nella tradizione ebraica sono alcuni paradigmi di fondo dell’ethos dell’Occidente, come il senso di una storia orientata all’éschaton e la relazione al Dio unico e personale. Innumerevoli sono i pensatori e i protagonisti della nostra crescita culturale, morale e sociale, che vengono dall’ebraismo, quali – per fare solo qualche nome significativo del nostro secolo – Martin Buber, Franz Rosenzweig, Emmanuel Lévinas…
Come va dunque concepito il rapporto fra ebraismo e cristianesimo? Quale “riconciliazione” va perseguita come possibile e doverosa nei rapporti fra l’autocoscienza cristiana e il popolo ebraico? Secondo Paolo la vera e piena riconciliazione fra i due popoli appartiene al tempo della fine: essa coinciderà con qualcosa paragonabile a una “risurrezione dai morti” (Rom 11,15). Questo significa che nel tempo intermedio fra il primo e l’ultimo avvento del Signore Gesù ciò che è possibile e doveroso cercare è un cammino verso la riconciliazione, più che una riconciliazione compiuta, riconoscendo che questa apparterrà al tempo che il Dio della promessa riserva per tutti noi. Questa chiarificazione libera subito da attese azzardate: salvi restando gli itinerari individuali possibili, che rispondono ai disegni particolari dell’Eterno su ciascuno, Israele e la Chiesa dovranno camminare inconfusi, anche se inseparabili, fino all’integrazione finale operata dal Signore, in quello “shalom” escatologico, che è l’oggetto della speranza messianica di entrambi i popoli.
L’idea di una riconciliazione in cammino, piuttosto che compiuta, supera definitivamente ogni ipotesi di sostituzione, secondo cui la Chiesa avrebbe semplicemente preso il posto d’Israele nel piano divino della salvezza: è lo stesso Paolo che mette in guardia dal vanificare quello che egli chiama il “mistero” (Rom 11,25), in base al quale Israele – nella misura in cui mantiene la fede dei Padri – resta il testimone dell’elezione e delle promesse di Dio e richiama alla Chiesa la “radice santa” (cf. Rom 11,16 e 18) su cui essa è innestata e dalla quale non è mai lecito prescindere. Nell’unità dell’economia della salvezza c’è Israele, il popolo dell’alleanza mai revocata anche se non ancora pienamente compiuta, e c’è la Chiesa, il popolo stabilito nell’alleanza posta dal sangue di Cristo: unico è il disegno salvifico, ma diverse le alleanze, da quella con Noé, a quella con Abramo e i patriarchi, dall’alleanza mosaica a quella stabilita nella morte e resurrezione del Signore Gesù. Unica è la struttura fondamentale della relazione attuata mediante la rivelazione, per la quale l’Eterno si è destinato nell’amore al suo popolo e questo è chiamato a destinarsi a Lui nella fede, ma diverse sono le tappe e le forme dell’economia.
Non ci sarà allora autentico cammino di riconciliazione fra la Chiesa e Israele senza il riconoscimento del valore irrinunciabile della “radice santa”, e perciò senza un effettivo, forte amore dei cristiani nei confronti della promessa fatta ai Padri, dei testi in cui essa si esprime e del popolo che ne è stato e ne è testimone nella storia a prezzo anche della vita. Ma non sarà nemmeno autentico un cammino di riconciliazione che escludesse per i cristiani la confessione di Gesù come Signore e Cristo, resa dimostrando con la parola e con la vita che è lui la pietra di scandalo posta in Sion, ma che «chi crede in lui non sarà deluso» (Rom 9,33). In altre parole, i due popoli devono camminare uniti verso la stessa meta, ma la Chiesa, riconoscendo Israele come la radice che la precede e la fonda, non potrà far a meno di guardare allo stesso Israele e al futuro della promessa attraverso la rivelazione del Signore Gesù.
Questa idea è espressa dall’immagine patristica, tratta dalla Scrittura, degli esploratori inviati da Mosé nel paese di Canaan, che «giunsero fino alla valle di Escol, dove tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono in due con una stanga» (Num 13,23) per mostrarlo al popolo e accendere il desiderio della conquista. Nel legno da cui pende il grappolo i Padri hanno riconosciuto la Croce da cui pende Cristo: «Figura Christi pendentis in ligno» (Evagrio, Altercatio inter Theophilum et Simonem: PL 20,1175). Nei due portatori dell’asta hanno visto invece la Chiesa e Israele, che guardano entrambi verso la stessa meta, uniti dalla stessa speranza. La differenza sta nel fatto che mentre Israele precede e vede perciò davanti a sé l’aperto orizzonte, la Chiesa, che segue, guarda sì allo stesso orizzonte, ma lo fa attraverso il grappolo appeso e il legno dell’asta, oltre che attraverso chi la precede, attraverso cioè il Signore Crocefisso ed il popolo e i testi dell’alleanza mai revocata (cf. ib.).
Camminare all’unisono, anche se nella diversità, è dunque il compito da assolvere in vista della riconciliazione finale: il che richiede alla Chiesa di coniugare la confessione del Signore Gesù all’amore verso Israele, nella consapevolezza di una dualità ed anche di una scissione che non devono essere ignorate, e sono anzi fonte di una sofferenza motivata dall’amore, ma possono essere vissute nel profondo rispetto reciproco, nella comune testimonianza del Dio unico e nella comune attesa del compimento delle Sue promesse, quando ci sarà riservato il dono dello “shalom” finale. Sappiamo, tuttavia, che non sempre la relazione fra ebraismo e cristianesimo è stata pensata così: la storia passata è anzi colma di pregiudizi e di incomprensioni dei cristiani nei confronti del popolo ebraico. Ecco perché per avanzare nel cammino della riconciliazione occorre la “teshuva”, parola ebraica che significa “ritorno”, “conversione”.
Essa si pone a differenti livelli: in primo luogo occorre individuare e riconoscere con precisione le colpe commesse contro il popolo ebraico e i loro effettivi responsabili. Ciò non va fatto solo in rapporto alla Shoah, ma anche più in generale in relazione a quell’“insegnamento del disprezzo”, che è stato alla base di tanto antisemitismo e di tante sofferenze del popolo eletto. In tal senso si è mossa la riflessione della Commissione Teologica Internazionale nel documento “Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato” (cf. 5.4.); in tal senso soprattutto si pone la testimonianza di Giovanni Paolo II, resa molte volte ed in particolare nella Sua visita a Israele (marzo 2000). In questo spirito, a tutti i discepoli di Cristo va chiesta quella larghezza di cuore che li renda capaci di chiedere perdono anche a nome di quanti sono stati effettivamente colpevoli negli eventi della Shoah, consumatasi nell’Europa cristiana.
Questa larghezza di cuore dovrebbe estendersi ad abbracciare tutti gli olocausti di cui la famiglia umana si è resa responsabile, anche nel nostro secolo. In altre parole, la ferma condanna dell’antisemitismo deve portare i cristiani a riconoscerne le radici nel proprio passato e – lì dove necessario – nel proprio presente per purificarsene, ma deve coniugarsi anche a una più profonda sensibilità nei confronti di tutte le forme di violazione dei diritti umani, per vivere un’effettiva solidarietà verso i vinti e gli oppressi. Questo atteggiamento di autentica “teshuva” è richiesto peraltro anche al popolo ebraico attuale, che proprio così può mostrare l’eccellenza della sua elezione e la singolarità della misericordia del Signore di cui ha fatto esperienza. Al tempo stesso, la “teshuva” non potrà confondere l’amore a Israele e il riconoscimento del suo significato di testimone del Dio unico anche nell’oggi con un indiscriminato sostegno alla linea politica che di volta in volta potranno avere i governanti dello Stato d’Israele. Anzi, la “teshuva” – proprio a partire dall’obbedienza alla Parola del Signore – potrà a volte richiedere un atteggiamento critico nei confronti di scelte che non siano rispettose dei diritti di tutti, specie dei più deboli.
In questa prospettiva di veracità e crescita comune davanti a Dio, mi pare importante che i cristiani rivolgano domande a se stessi ed anche all’interlocutore ebraico. A se stessi i discepoli di Cristo dovranno porre almeno queste questioni: quale valore ha per essi l’esistenza del popolo ebraico fino ai nostri giorni? come definire e riconoscere con onestà la responsabilità dei cristiani nei confronti dell’antisemitismo? come coniugare l’amore alla “santa radice”, che è Israele, alla novità rappresentata dal Signore Gesù? in che senso la fede ebraica fa parte costitutivamente dell’identità cristiana? come una più profonda conoscenza della tradizione ebraica vivente può favorire una migliore comprensione della rivelazione e della fede cristiana? come si può perseguire un vero cammino di riconciliazione fra cristiani ed ebrei, nell’attesa dello “shalom” finale, da entrambi sperato? Anche all’interlocutore ebraico i cristiani dovranno porre domande, incoraggiati a farlo da alcune voci particolarmente incisive provenienti dallo stesso Israele odierno, che sperimenta la condizione del tutto nuova dopo duemila anni di essere maggioranza forte in un paese libero: che cosa è possibile ed è giusto chiedere ai nostri fratelli maggiori, gli Ebrei, perché questo cammino sia più facile e spedito per tutti? in che senso e in quali forme la “teshuva” può riguardare anche loro, ad esempio nei confronti della minoranza araba, islamica e cristiana, presente in Israele?
Nel desiderio che il cammino di riconciliazione avanzi su queste premesse, possono essere compiuti alcuni gesti significativi, che servano da richiamo costante all’importanza decisiva del rapporto di riconoscenza e d’amore che lega i cristiani alla loro “radice” ebraica: ne segnalo due, che sono stati proposti e fatti propri dalle diverse comunità cristiane in Italia e in Europa. Il primo è l’appello a non pronunciare il tetragramma, sia per rispetto ai fratelli ebrei, sia per una coerente ed integrale accettazione della rivelazione, che nella proibizione di pronunciare il Nome santo veicola il rispetto e l’adorazione verso la trascendenza divina. La fede dell’ebreo Gesù, che non ha mai pronunciato il Nome, dovrebbe essere esemplare e normativa per i suoi discepoli. Il secondo gesto è l’invito (sorto nella Chiesa italiana e fatto proprio anche dall’assemblea ecumenica europea a Graz nel 1997) rivolto a tutti i cristiani d’Europa a celebrare una “giornata dell’ebraismo”, tesa a favorire la conoscenza del mondo ebraico da parte dei cristiani e il dialogo con l’Israele presente. Gesti simbolici, certamente, e tuttavia capaci di tener viva la coscienza dei credenti in Cristo circa il rapporto costitutivo ed essenziale che li lega alla “santa radice” della loro fede, rappresentata dalla fede del popolo eletto Israele secondo un’alleanza voluta dall’Eterno e mai revocata.

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