1 PIETRO 2,4-9 – COMMENTO BIBLICO
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BRANO BIBLICO SCELTO – 1 PIETRO 2,4-9
Carissimi, 4 stringendovi a Cristo, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, 5 anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo. 6 Si legge infatti nella Scrittura: Ecco io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso.
7 Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato
è divenuta la pietra angolare, 8 sasso d’inciampo e pietra di scandalo.
Loro v’inciampano perché non credono alla parola; a questo sono stati destinati. 9 Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce.
COMMENTO
Il sacerdozio dei credenti
La Prima lettera di Pietro è uno scritto cristiano della fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma che secondo gli studiosi moderni è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire in qualche modo a Pietro o al suo ambiente. Essa non è una lettera vera e propria, ma un’omelia a sfondo battesimale. Lo scritto si apre con il prescritto e una benedizione (1,1-5). Il corpo si divide in tre sezioni: 1) Identità e responsabilità dei rigenerati (1,6 – 2,10); 2) I cristiani nella società pagana (2,11 – 4,11); 3) Presente e futuro della Chiesa (4,12 – 5,11). La prima di queste tre sezioni si divide a sua volta in due parti: la prima (1,3-25) contiene un’esortazione generale sui temi della vigilanza, della santità e dell’amore vicendevole, e termina con un richiamo al tema iniziale della rinascita (1,23; cfr. 1,3); nella seconda l’autore tratta della crescita spirituale, prima da un punto di vista personale, con l’immagine dello sviluppo biologico (2,1-3), e poi sotto un profilo comunitario, rappresentando la chiesa come una comunità sacerdotale (2,4-10). La liturgia propone alla riflessione quest’ultimo brano, che a sua volta si articola in quattro momenti: il sacerdozio dei cristiani (vv. 4-5); Cristo «pietra d’angolo» (v. 6); Cristo «pietra d’inciampo» (vv. 7-8); il sacerdozio del popolo di Dio (vv. 9-10).
Il sacerdozio dei cristiani (vv. 4-5)
Il brano si collega mediante il relativo pros hon (a lui) con l’ultimo termine della frase precedente (ho Kyrios, il Signore). Esso inizia con queste parole: «Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi, come pietre vive, venite [da Dio] costruiti come edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali, a Dio graditi, per mezzo di Gesù Cristo» (v. 4-5). Il participio «stringendovi» (proserchomenoi, avvicinandovi), indica il rapporto personale con Cristo in cui i credenti sono entrati mediante la conversione e il battesimo. Cristo è qui designato come la «pietra» di cui parlano le Scritture (cfr. le citazioni ai vv. 6-8). Questa pietra è «viva» in quanto si tratta di una persona, ma più ancora perché Cristo è il vivente (cfr. At 3,18 e 4,10-11) e da lui la vita è comunicata ai credenti. Essa è «rigettata dagli uomini» (cfr. v. 7: Sal 118,22), sia in passato, da parte dei capi del popolo ebraico (cfr. At 4,5-11), sia al presente (cfr. v. 8; 4,17). Ma è «scelta e preziosa agli occhi di Dio», come è detto in Is 28,16 (cfr. v. 6): Dio infatti, resuscitando Cristo ed esaltandolo alla sua destra (cfr. 3,16.22), lo ha riabilitato e lo ha costituito «pietra d’angolo».
Come Cristo, il vivente, anche i cristiani sono «pietre vive», rigenerati «per una speranza viva» (cfr. 1,3) e partecipi della «grazia della vita» (cfr. 3,7). L’immagine è orientata all’affermazione centrale: «(su di lui) siete edificati…». Il passivo implica l’azione di Dio: egli ha posto la pietra d’angolo, Cristo, e su di essa costruisce la comunità dei credenti quale «casa o edificio (oikos) spirituale». L’aggettivo «spirituale» (pneumatikos) si riferisce allo Spirito che vivifica e santifica la comunità cristiana (cfr. 1,2; 4,6-10). Alla luce di numerosi testi sparsi nel NT (Mt 16,18; 1Cor 3,9-17; 2Cor 6,16s; Ef 2,20-22; 1Tm 3,15; Eb 3,2-6; 10,21; cfr. anche 1Pt 4,17; 2,9) è certo che l’immagine dell’edificio e il tema della costruzione si riferiscono alla Chiesa, comunità unita dalla fede nell’unico Signore, opera di Dio che continuamente la edifica e vi dimora. E’ probabile che, dato l’accostamento a «sacerdozio» e «sacrifici», l’edificio sia connotato come nuovo «tempio» (per cui cfr. Mc 11,17 par.; 14,58 par.; Gv 2,19-21; At 7,48).
L’azione di Dio tende a un risultato, che si precisa come realtà personale e comunitaria («sacerdozio santo») da cui scaturisce un agire etico-esistenziale («per offrire…»). Alla luce di Es 19,6 (LXX, citato al v. 9), la comunità cristiana è presentata come un «corpo di sacerdoti» (hierateuma) capace di offrire a Dio il culto autentico, cioè «sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo». L’aggettivo «santo» (hagion) sottolinea l’elezione e consacrazione a Dio (cfr. commento al v. 9). L’autore pensa certamente ai sacrifici delle religioni pagane, ma soprattutto il culto ebraico con i suoi diversi sacrifici: olocausto, sacrifici di comunione, sacrifici di espiazione. Già l’AT documenta un processo di spiritualizzazione del culto, considerato legittimo solo se è accompagnato dalla «giustizia», mentre il concetto di sacrificio si estende alla preghiera, alla penitenza, alla carità.
I sacrifici che i credenti offrono a Dio sono «spirituali» non perché sono immateriali, ma perché, ad analogia dell’«edificio spirituale», sono resi possibili dall’azione dello Spirito, sono da esso animati. Essi si identificano con l’insieme della vita cristiana, in quanto esprime la santità costitutiva dei credenti (cfr. v. 9), e in particolare le opere dell’amore fraterno (cfr. 1,22; 3,8-12), la condotta esemplare nella società (2,11-3,7), la pazienza nelle avversità subite a motivo della fede (2,19-21). Questi, e non altri, sono i sacrifici «graditi a Dio»: lo stesso culto di Israele è obiettivamente superato per la novità definitiva del nuovo patto. Essi gli sono offerti «per mezzo di Gesù Cristo», non solo perché è lui l’unico mediatore (cfr. Rm 8,34; Eb 7,25; 1Gv 2,1), ma anche perché i cristiani sono a lui uniti e «in lui» (cfr. 3,16) compiono quelle opere indicate come «sacrifici spirituali».
Cristo pietra angolare (v. 6)
Le affermazioni riportate nella prima parte del brano sono ora confermate con un riferimento esplicito all’AT: «Si legge infatti nella Scrittura: Ecco, io pongo in Sion una pietra scelta angolare preziosa, e chi crede in essa non sarà confuso» (v. 6; cfr. Is 28,16). Con questa citazione l’autore intende sottolineare non solo che quanto ha affermato è contenuto nella stessa parola di Dio scritta, ma anzi che questa si realizza compiutamente solo in riferimento a Cristo e alla Chiesa. Con le parole di Is 28,16 si porta anzitutto l’attenzione sul rapporto tra Cristo, pietra angolare posta da Dio, e la Chiesa che su di lui è costruita come edificio fatto di «pietre vive».
Sul monte, che è sede del suo tempio, Dio ha posto una «pietra scelta, di grande valore», che precedentemente (cfr. v. 4) è già stata identificata con Cristo; egli è la «pietra d’angolo», ossia il fondamento di quell’edificio che è la comunità del nuovo popolo di Dio, con la funzione di darle stabilità e compattezza. Ne segue che («e» con valore consecutivo) «chi in essa crede», ossia poggia fermamente, è fondato su di essa (cfr. il significato della radice ebraica ’mn che denota fermezza, stabilità) «non resterà confuso»: questa espressione, intesa in senso obiettivo e con probabile allusione al giudizio (cfr. 1Gv 2,28), significa «non andare in rovina» (cfr. anche Rm 9,33). La fede richiesta è certo ormai la fede cristiana, di cui si parla fin dall’inizio della lettera (1,2.7-8.21).
Cristo pietra d’inciampo (vv. 7-8)
L’autore prosegue ora contrapponendo la funzione positiva esercitata da Cristo, pietra angolare, nei confronti della comunità cristiana a quella negativa riguardante i non credenti: «Onore dunque a voi che credete; ma per i non credenti la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra d’angolo, pietra d’inciampo e sasso di scandalo; essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola; a ciò sono stati destinati» (vv. 7-8). Ai credenti «l’onore» è dovuto sia nel presente, come dignità inerente allo statuto di popolo eletto, sia in futuro al momento della parusia (cfr. 1,7). Per i non credenti invece si avvera quanto è affermato in altri due testi nei quali ricompare l’immagine della pietra: Cristo è «la pietra che i costruttori hanno scartato» e che Dio ha posto come «pietra d’angolo» (Sal 118,22; cfr. Is 28,16 citato al v. 6); per quanti lo respingono egli diventa «pietra d’inciampo e rupe da cui si precipita» (cfr. Is 8,14). La Scrittura dunque getta luce sull’esperienza della prima missione cristiana: per i giudei come per i gentili Cristo è «scandalo», sasso nel quale s’inciampa (cfr. 1Cor 1,23; Rm 9,32-33), «segno di contraddizione» che causa la «rovina di molti» (Lc 2,34), perché contraddice le attese e le pretese umane.
Gli increduli «inciampano perché non credono alla parola», ossia al vangelo (v. 8b; cfr. 3,1; 4,17): respingendo l’iniziativa salvifica di Dio in Cristo, i non credenti «disobbediscono» a lui, così come un tempo aveva fatto «il popolo disobbediente e ribelle» (cfr. Is 65,2 citato in Rm 10,21). L’autore soggiunge: «a questo stati destinati» (v. 8c). In linea di principio, si afferma che la stessa incredulità rientra nel disegno salvifico di Dio. Il concetto di (pre)-destinazione solleva un difficile problema teologico: occorre però ricordare che la destinazione a inciampare, quindi a cadere e ad andare in rovina, va di pari passo con la responsabilità dell’uomo e con la destinazione di Cristo a «pietra angolare» per tutti (cfr. v. 6). Chi lo respinge dunque non è escluso, ma si autoesclude dalla salvezza. Il tema della pre-destinazione appare anche altrove nel NT (per es. Rm 9,19-24; 11,25-27) con lo scopo non solo di affermare l’assoluta signoria di Dio nella storia della salvezza, ma anche di ammonire circa la serietà del rifiuto opposto all’annuncio evangelico e di confermare nella fede quanti hanno accolto il messaggio cristiano.
Il sacerdozio del popolo di Dio (vv. 9-10)
A questo punto l’autore trasferisce alla Chiesa i titoli che definiscono lo statuto di Israele come popolo santo di Dio: «Ma voi [siete] la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché annunciate le opere meravigliose di colui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce» (v. 9). Gli attributi della Chiesa, ripresi dal testo classico di Es 19,6 nonché da Is 43,20, si riassumono nell’espressione «popolo di Dio» (v. 10; cfr. Os 1-2), del quale mettono in rilievo diversi aspetti.
La Chiesa è anzitutto «stirpe eletta» (genos eklekton) (cfr. Is 43,20) in senso non più etnico ma spirituale, in quanto ormai Abramo è il padre di tutti i credenti, circoncisi e non circoncisi (cfr. Gal 3,7-9; Rm 4,11-12.16-17). Attraverso l’esperienza della salvezza, Israele ha scoperto l’amore di predilezione che JHWH aveva per lui (cfr. Dt 7,6-8; 14,2) e ha riconosciuto di essere stato «scelto» tra tutti i popoli; allo stesso modo e in senso più alto la Chiesa, fatta di ebrei e gentili, sa di dovere la propria esistenza all’amore e alla elezione divina.
Alla Chiesa viene poi applicato il titolo «sacerdozio regale» (basileion hierateuma), ricavato da Es 19,6. Questa espressione può essere tradotta, come fa la Vg (regale sacerdotium) e la CEI, «sacerdozio regale», ove basileion (regale) è considerato un aggettivo che qualifica il sostantivo hierateuma (sacerdozio). A favore di tale traduzione si può portare il fatto che nel contesto appaiono altri binomi formati da un sostantivo accompagnato da un aggettivo o da un complemento con valore di attributo. La comunità cristiana, in qualità di vero ed escatologico popolo di Dio, costituirebbe dunque un organismo o «corpo di sacerdoti» al quale compete la qualifica di «regale» perché è dedicato al servizio di Dio, considerato come re: forse è sottintesa una punta polemica nei confronti del culto dell’imperatore, cui erano addette corporazioni di sacerdoti pagani.
Ma l’espressione può anche significare «casa/dimora del re (e) corpo di sacerdoti»: basileion sarebbe allora un sostantivo indipendente, accostato asindeticamente a hierateuma. A favore di questa lettura, che negli ultimi tempi ha guadagnato terreno, si portano tre fatti: sia nel greco profano che nei LXX basileion è per lo più sostantivo (= regno, sovranità, monarchia, città reale, palazzo reale); nella tradizione interpretativa ebraica ai due termini del binomio è spesso riconosciuto un valore autonomo; infine anche in Ap 1,6; 5,10 «regno» (basileia) e «sacerdoti» (hiereis) sono considerati come sostantivi indipendenti. Si avrebbe pertanto che la comunità cristiana è la dimora di Dio, il luogo della sua presenza (cfr. il termine oikos nel v. 5) e, al tempo stesso, un organismo sacerdotale consacrato al suo servizio.
I credenti sono inoltre la «nazione santa» (ethnos hagion) (cfr. Es 19,6): Dio aveva scelto Israele di mezzo alle genti separandolo da esse perché appartenesse a Lui solo, che è il «santo» per eccellenza; a livello escatologico la Chiesa è il popolo santo di Dio, partecipe della sua santità, scelto e separato dal mondo, e i cristiani sono «santi» e chiamati alla santità. L’ultimo titolo, «popolo che (Dio) si è acquistato» (laon eis peripoiêsin) (cfr. Is 43,21), pone l’accento sulla iniziativa di Dio nella redenzione (cfr. 1,18; 3,18.21) e sulla radicale appartenenza della comunità cristiana a Dio (cfr. il concetto ebraico di segullâ in Es 19,6).
La divina elezione sollecita una risposta che, alla luce di quanto già si leggeva in Is 43,21 (cfr. 42,12 e Sal 107,22), consiste nella proclamazione della sua salvezza: «affinché annunciate le opere meravigliose di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce» (v. 9b). Questa risposta è parallela e complementare ai «sacrifici spirituali» (cfr. v. 5) e come questi riconducibile al «sacerdozio santo» della comunità cristiana. Si tratta di una proclamazione cultica, come già nell’AT e nella tradizione giudaica. Nelle prime comunità cristiane l’esperienza della salvezza si riflette nelle confessioni di fede (omologesi), nell’innologia, nelle narrazioni cultuali, e soprattutto nell’Eucaristia, il «sacrificio di lode» per eccellenza, il cui nucleo è costituito dalla berakâ, eulogia-eucharistia rivolta a Dio per la salvezza che egli ha realizzato e manifestato in Cristo. Queste risonanze sono certo presenti nella 1Pt (cfr. la «benedizione» iniziale: 1,3-5), dove si attira l’attenzione anche sulla testimonianza che i credenti debbono ai pagani, sia col «rendere ragione della speranza» cristiana (3,15), sia con la condotta santa (2,12).
Oggetto e motivo dell’annuncio-proclamazione-testimonianza sono le «opere meravigliose» (aretas, nobili gesta) di Dio. Nell’AT queste opere sono principalmente quelle dell’esodo, ma altresì l’insieme degli interventi di Dio a salvezza del suo popolo, in particolare il nuovo esodo, il ritorno dall’esilio; nel NT si tratta ovviamente dell’agire di Dio in Cristo, soprattutto della sua resurrezione, come evento in cui si è manifestata la potenza di Dio (cfr. Ef 1,9-11) e dal quale scaturisce la salvezza dei credenti (le megaleia tou Theou, nella Vg. magnalia Dei, di cui si parla in At 2,11).
Queste opere potenti di Dio sono evocate con una formula, che pone al centro dell’attenzione l’iniziativa della grazia divina nella conversione di quelli che oggi sono credenti e formano il suo popolo santo. Egli infatti è «colui che vi ha chiamati…», ossia ha concretizzato la sua elezione e ha efficacemente avviato il processo che conduce alla gloria con l’appello alla fede (cfr. 1Ts 2,12; Rm 8,28-30). Accogliendo questa vocazione, i cristiani sono passati «dalle tenebre alla sua (di Dio stesso) ammirabile luce». L’espressione, di matrice isaiana (cfr. Is 9,2; 40,1-3.14-15), è usata comunemente negli scritti neotestamentari (cfr. 1Ts 5,4-5; Col 1,12-13; At 26,18) per indicare la conversione e il passaggio dalla vita pagana alla sfera di salvezza, cui apre la fede in Cristo.
Al termine del brano l’autore, riecheggiando Os 1-2, sottolinea il contrasto tra la condizione antecedente e quella attuale: «Voi che un tempo eravate non popolo, ora invece [siete] il popolo di Dio, [un tempo] esclusi dalla misericordia, ora [siete] oggetto del [suo] amore» (v. 10). Le parole del profeta, ora applicate ai gentili divenuti «popolo eletto», sono calate nell’antitesi temporale «un tempo… ora…». Il passato corrisponde alle «tenebre» del v. 9b: è il tempo dell’«ignoranza» (cfr. 1,14) e della lontananza da Dio, «il tempo trascorso nel soddisfare le passioni del paganesimo» (4,3). Il presente è il tempo determinato dalla redenzione (cfr. 1,18-19) e dalla rigenerazione dei credenti (cfr. 1,3.23). Più ancora che l’antico Israele nelle circostanze descritte da Osea, i gentili erano «non popolo», non oggetto dell’amore di Dio e pertanto «esclusi dalla misericordia» (ouk êleêmenoi) (cfr. Ef 2,12: «esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa…»). «Ora invece», grazie alla chiamata divina, alla fede e al battesimo, gli «eletti» a cui è indirizzata la lettera, benché «dispersi» nel mondo pagano (1,1), formano il «popolo di Dio» e sono divenuti «oggetto del suo amore» (eleêthentes; CEI: avete ottenuto misericordia). La Chiesa nasce dall’amore del Padre ed è il nuovo e vero Isrele.
Linee interpretative
L’autore si rivolge alle prime comunità disperse in un ambiente ostile e le incoraggia nella fede ponendo davanti ad esse la dignità della vocazione cristiana. Questa viene delineata con le parole stesse della Scrittura, dalle quali sono definiti il ruolo di Cristo e la relazione della Chiesa con lui. Cristo è la «pietra d’angolo» rigettata dagli uomini ma scelta da Dio, su cui poggia la comunità dei credenti. La Chiesa è l’edificio che Dio costruisce, il tempio nel quale è presente; essa è al tempo stesso un «corpo di sacerdoti» che offre a Dio il vero culto, i sacrifici spirituali a lui graditi. L’immagine dell’edificio e il linguaggio cultico si saldano con la categoria classica del «popolo di Dio», ormai trasferita da Israele alla Chiesa. Il ruolo decisivo di Cristo nella storia della salvezza e nella edificazione della dimora escatologica di Dio si riflette nello scandalo dei non credenti e nell’esperienza del rifiuto, che i cristiani condividono con il loro Signore.
Tra i temi sviluppati nel brano merita particolare attenzione quello del sacerdozio dei fedeli, ritornato di viva attualità negli ultimi decenni. Nell’età patristica si afferma concordemente, sulla base della 1Pietro, ma altresì di Ap 1,6; 5,10 (e 20,6), il sacerdozio comune o universale dei credenti, sottolineandone il legame con il sacerdozio di Cristo e senza affatto negare la realtà dei ministeri nella Chiesa. Al tempo della Riforma protestante la concezione del sacerdozio universale fu riscoperto ed enfatizzato, in funzione anche polemica nei confronti della mediazione ministeriale. Lutero mise l’accento sulla responsabilità di tutti i cristiani quanto all’annuncio dell’evangelo e sui sacrifici spirituali che consistono nel servizio del prossimo. Superata la diffidenza verso tutto ciò che sapeva di protestante, negli ultimi decenni anche la teologia cattolica ha nuovamente messo in luce questo tema biblico, che è stato autorevolmente assunto dal Concilio Vaticano II.
Parlando dei fedeli laici, il Concilio dice: «Tutte le loro opere, le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e persino le molestie della vita, se sono sopportate con pazienza, diventano sacrifici spirituali graditi a Dio per Gesù Cristo (cfr. 1Pt 2,5), i quali nella celebrazione dell’Eucaristia sono piissimamente offerti al Padre insieme all’oblazione del Corpo del Signore. Così anche i laici, operando santamente dappertutto come adoratori, consacrano a Dio il mondo stesso» (Lumen gentium, 34).
Adattamento da F. Mosetto, Sacerdozio regale (1Pt 2,4-10), in A. Sacchi e coll., Lettere paoline e altre lettere (Logos 6), Elle Di Ci, Leumann (TO) 1995, pp. 571-582.
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