“GLORIA” E “CRETA” UNO SPECCHIO PER LE CHIESE (SAN PAOLO)
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“GLORIA” E “CRETA” UNO SPECCHIO PER LE CHIESE (SAN PAOLO)
Di TECLE VETRALI
Il rapporto fra il tesoro e la creta è un’immagine molto efficace per illustrare il rapporto fra ciò che vale e ciò che non vale, fra ciò che è centrale e ciò che è accessorio, fra ciò che permane e ciò che è perituro e, in definitiva, fra ciò che merita il nostro interesse e la nostra concentrazione e ciò che, invece, può solo sviare e ingannare. Paolo applica l’immagine nella difesa del suo apostolato, considerato come un tesoro glorioso, portato, però, nel vaso fragile e umile della natura umana, fatta di carne ed esposta a numerose debolezze. Questa debolezza umana, però, non deve trarre in inganno, né indurre a screditare il suo ministero apostolico, che rimane splendido in quanto trasmette la gloria di Dio. E’ proprio in questo contrasto fra la gloria che ha la sua origine in Dio e la debolezza di chi la trasmette che si manifesta l’autenticità del ministero. La gloria di Dio si è manifestata nella debolezza dell’incarnazione. Così nell’apostolo e nell’annunciatore del vangelo coesistono la potenza e la gloria di Dio e la debolezza del trasmettitore. Questa debolezza, anziché offuscare, mette in maggiore risalto la sublimità e la potenza della presenza della gloria di Dio. Con questo concetto e con questa immagine Paolo traccia l’identikit dell’opera di Cristo e del proprio ministero, ma anche della vita della chiesa e dell’esperienza cristiana.
Ci si può chiedere perché è stato scelto questo passo biblico come tema per la settimana di preghiere per l’unità dei cristiani del 2002. Gli estensori del programma si esprimono chiaramente: “L’unità dei cristiani deve costituire il paradigma dell’unità del genere umano. I cristiani posseggono ‘un tesoro in vasi di creta’ (2 Cor 4,7) che è la gloria di Gesù Cristo, il Signore, vincitore sopra il peccato, la morte, la persecuzione e l’odio. Questo tesoro è, come dice Paolo in 2 Cor 4,5-6, la conoscenza della gloria di Dio che risplende in Gesù, poiché egli ha rivelato la profondità dell’amore di Dio e la misericordia per l’intera creazione, in special modo per i poveri della terra. Il testo 2 Cor 4,5-18 ci invita a riconoscere che disponiamo di un tesoro che non ci appartiene ma che è dono di Dio per rafforzarci nei momenti di angoscia e infonderci coraggio nella tristezza. Portiamo questo tesoro nella fragilità della nostra natura umana affinché sia chiaro che tale dono ha origine in Dio e non è opera nostra. Dio ci invita a dargli testimonianza tramite la nostra debolezza umana”. E’ opportunamente richiamato alla memoria un principio di grande portata e urgenza nel campo ecumenico: nessun dono ricevuto diventa proprietà del beneficiario, che permane nella sua debolezza e in tutti i suoi limiti.
Il tema richiama pure il titolo di un documento che la commissione teologica “Fede e Costituzione” ha presentato all’assemblea del Consiglio ecumenico delle chiese ad Harare (Zimbabwe) nel 1998 dal titolo: A Treasure in Earthen Vessels. An Instrument for an ecumenical hermeneutics (Faith and Order Paper n. 182), WCC, Ginevra 1998; traduzione italiana: Un tesoro in vasi d’argilla, in Il Regno – Documenti 45 (2000) 3, 117-126. Nella prima parte il documento sottolinea come il mistero di Dio ci è stato trasmesso in una maniera molto fragile, le chiese devono riflettere insieme sulle varie espressioni di fede, poiché il vangelo viene annunciato in contesti diversi suscitando reazioni diverse. Emerge sempre la consapevolezza della inadeguatezza di ogni realizzazione umana, compresa la chiesa, ad esprimere tutta la pienezza e ricchezza del regno. Questa consapevolezza, oltre che fugare ogni orgoglio e pretesa di autosufficienza, porta all’ammirazione della grandezza dell’opera di Dio e, insieme, all’apertura e al dialogo fra tutti coloro ai quali si manifesta la gloria di Dio. Dall’ermeneutica o interpretazione che le singole chiese e i singoli cristiani fanno dell’unica opera di Dio nasce così, spontaneo, il riconoscimento dell’unica opera gloriosa di Dio. In questa maniera, la fragilità dei numerosi vasi non fa che mettere in risalto la sorgente della forza e della grandezza.
1. Qual è il tesoro delle chiese?
Paolo sottolinea con forza: “Noi portiamo in noi stessi questo tesoro come in vasi di creta, perché sia chiaro che questa straordinaria potenza viene da Dio e non da noi” (2 Cor 4,7). Di fronte alla forte affermazione di Paolo viene subito da porsi la domanda: qual è il tesoro delle chiese? Non è una domanda retorica perché, tradotta in termini concreti essa significa: che cosa devono desiderare e a che cosa aspirare? Quando si sentono soddisfatte e gioiose e quando frustrate e incomprese? Quando ricche e quando povere? Quando predomina l’ottimismo e quando il pessimismo? Quando si sentono investite dalla gloria di Cristo e quando se ne sentono prive?
E’ abituale scandire la storia in momenti gloriosi e in momenti bui. Naturalmente, momenti positivi sono considerati quelli nei quali le chiese sono riconosciute e onorate, quando esse sono reputate all’altezza delle esigenze degli uomini, quando con la loro voce possono dirigere o condizionare le vicende sociali o politiche: quando esse sono rivestite di gloria. Infatti, è troppo facile esporsi al rischio di confondere la gloria di Dio con quella delle chiese. Però, è una identificazione che si pone in palese contrasto con la visione offerta da Gesù e prospettata da Paolo: dalla loro prospettiva e secondo il loro metro i momenti gloriosi delle chiese sono quelli contrassegnati dalla testimonianza e dal martirio.
Il rischio continuo è quello di non tenere chiaramente distinti i due termini del binomio: tesoro – creta, dimenticando che a noi appartiene solo la creta. Invece, la tendenza è quella di impossessarsi anche del tesoro, facendolo proprio e identificandosi con esso. Ne esce, così, un’immagine falsata di chiesa. Si tende a rivestire di gloria propria e autonoma ogni forma concreta della propria esistenza, innegabilmente necessaria, perché la chiesa vive il suo mistero di incarnazione; si deve, però, ricordare sempre che il suo tesoro non è dato da queste forme o formule terrene.
Un’altra appropriazione possibile è nei confronti della verità, spesso assimilata a una sapienza umana, gestita come cosa propria, così lontana da quella sapienza della croce che è quel metodo di Dio che capovolge ogni logica naturale e che richiede un continuo cammino alle spalle di Colui che si reca al luogo della crocifissione.
L’attenzione delle chiese, quindi, deve essere rivolta a non rivestire di gloria propria le loro forme di esistenza e la comprensione della verità che è loro donata. Per questo esse si devono rispecchiare in Cristo il quale nella sua incarnazione ha manifestato il vero tesoro, che è il regno di Dio. Proprio nella povertà, nell’umiltà, nella fragilità, nel rifiuto, nell’impotenza dell’incarnazione abbiamo potuto contemplare il tesoro dell’amore e della misericordia di Dio.
2. Dov’è riposta la speranza?
L’esperienza della fragilità porta naturalmente all’aspirazione verso una situazione più stabile e sicura, alla ricerca di un riferimento rassicurante. Si muove così la speranza che ci concentra verso un punto sul quale confidiamo di appoggiarci per conseguire le nostre aspirazioni. Ed è proprio nella scelta di questo punto sul quale si concentra la speranza che si rivela la scelta fondamentale dei cristiani e delle chiese. Paolo afferma chiaramente: “Noi non fissiamo lo sguardo su ciò che vediamo, ma su ciò che non vediamo” (2 Cor 4,18). Solo questo sguardo acuto della fede permette di porre al centro della propria attenzione e della propria esistenza la realtà divina della salvezza, che non è intaccata da nessuna povertà o limitatezza umana, ma che, al contrario, brilla con maggiore evidenza nella precarietà della condizione esteriore. Il mistero pasquale, che vede la vita e la gloria della risurrezione nascere dalla morte, è la legge della vita di Cristo, ma anche del cristiano e della chiesa. Per questo, nessuna tribolazione o persecuzione o misconoscimento può portare alla disperazione o alla mancanza di fiducia.
Se la croce è lo specchio sul quale le chiese devono proiettare la propria immagine per riconoscere e verificare la loro identità e genuinità, esse dovrebbero porsi immediatamente una domanda: su che cosa o in chi ripongono la loro speranza? Una risposta teorica non è difficile da dare. La fede ci insegna che ogni nostra speranza è riposta in Dio. Ma se poi si penetra nel vissuto quotidiano si può constatare che molti punti di appoggio sono chiaramente terrestri. Sono molti i centri di potere ai quali ci si affida, senza mettere in discussione l’onestà e la rettitudine delle intenzioni: molte alleanze con poteri terreni non hanno nulla a che fare con l’alleanza stretta da Dio con gli uomini; la ricerca di una convincente visibilità esteriore non sempre è testimonianza di quella potenza e sapienza della croce di cui parla S. Paolo (1 Cor 1,17-25). La chiesa è nata dalla croce (At 20,28; Tit 2,14; Ef 2,14-16), che deve essere la sorgente e il fondamento della sua vita. Solo di fronte alla croce si comprende ciò che è veramente potente e sapiente (1 Cor 1,25). Solo da questa angolatura si possono giudicare le cose nel loro rapporto con il regno di Dio.
Si capisce, così, perché Paolo ricorre al discorso stoltezza/sapienza della croce quando è compromessa l’unità della chiesa: la sapienza e la potenza umane sono fonte di divisione, la sapienza e la potenza della croce sono principio di unità. La stoltezza della croce è un elemento portante e un punto di riferimento ineludibile per la vita della comunità cristiana. Ciò vale anche e soprattutto per l’evangelizzazione. Dove prevale la forza e la saggezza umana l’annuncio del regno rimane offuscato. La chiesa si presenta come la famiglia di Gesù Cristo quando in essa è visibile la croce, cioè quella debolezza umana che fa trasparire la potenza e la gloria di Dio.
Questo significa avere lo sguardo fisso su ciò che non si vede e riporre la fiducia nei valori del regno, anziché in quelli terreni. Ciò significa che le chiese non devono riporre la loro fiducia in se stesse e nelle loro forze. Neppure nei loro meriti indiscussi, nelle loro virtù e nei loro santi. La santità è una nota eccelsa e caratterizzante per la chiesa, ma i santi e gli stessi martiri non possono essere assunti come bandiere o stendardi per decorare le chiese e consolidarne la posizione nei loro confronti reciproci. E’ una funzione o strumentalizzazione alla quale gli stessi santi, se potessero, si ribellerebbero. La santità, invece, è quella porzione di regno invisibile che dovrebbe testimoniare la relatività delle realtà terrene visibili.
3. Le chiese vasi di creta
L’immagine del vaso di creta suggerisce un molteplice riferimento, e ciò in rapporto sia all’idea del vaso che a quella della creta.
L’immagine del vaso ci mette a contatto con uno strumento che esaurisce o caratterizza la sua esistenza nella funzione di contenere, raccogliere, accogliere, distinguendosi nettamente dal contenuto che, ordinariamente, è più prezioso di lui, anzi, è proprio il contenuto che giustifica l’esistenza del vaso contenitore. La finalità e la consistenza del vaso è stabilita dal vasaio: “Un vasaio, infatti, trattando terra molle con fatica, forma vasi, ciascuno per nostro uso; ma dallo stesso fango forma vasi per usi decenti e altri no, tutti in eguale maniera. Quale di ciascuno di questi sia l’uso, giudice è chi tratta l’argilla” (Sap 15,7). Il popolo di Dio è nelle mani del Signore come un vaso nelle mani del vasaio: “Forse non potrei agire con voi, casa di Israele, come questo vasaio? Ecco, come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa di Israele” (Ger 18, 6). Dio ha gratuitamente scelto le chiese per riempirle gratuitamente della sua grazia e dei suoi doni. Essere vuoti di sé è condizione indispensabile per poter essere riempiti della presenza di Dio e dei suoi doni. Per questo Paolo invita i cristiani a mantenere il vaso del proprio corpo con santità e rispetto, in rapporto a Dio che dona il suo Spirito Santo (1 Tes 4,4.8). Paolo stesso è definito vaso di elezione, cioè strumento eletto per portare il nome di Dio a tutte le nazioni (At 9,15).
Essere vuoti di sé non significa assenza o povertà di contenuto, ma apertura a una pienezza che viene dal di fuori, cioè dalla presenza di Cristo. E’ questo contenuto che deve trasparire come prima evidenza e senza ambiguità e che, contemporaneamente, conferisce valore e nobiltà al vaso che lo contiene. Non è cosa facile, per il cristiano e per le chiese, vivere di questa trasparenza e sussidiarietà. Praticamente significa vivere di accoglienza.
Prima di tutto significa accogliere nella propria vita incarnata nel terrestre la realtà dell’incarnazione, con tutte le scelte concrete che l’hanno accompagnata. Per esigenze di trasparenza, quindi, si addicono alla chiesa la povertà e l’inospitalità di Betlemme, l’assenza di un rifugio dove posare il capo, e il cammino verso un’esaltazione che avverrà sulla croce.
Ma accogliere Cristo significa accogliere anche tutto ciò che gli appartiene e lo esprime. Ciò significa riconoscerne la presenza e valorizzarne i doni dovunque siano presenti. E’ chiara, quindi, l’esigenza non solo di aprirsi e di accogliere il bene chiaramente manifesto nelle altre chiese, ma anche quello di ricercarlo per una verifica della propria autenticità e per un arricchimento della propria esperienza di Dio. In questa maniera la sapienza e la potenza della croce si rivelano come via che porta all’unità.
L’accoglienza di Cristo porta all’accoglienza dello Spirito. Ciò significa disponibilità al continuo rinnovamento, superando il rischio di incrostazione e di irrigidimento al quale sono esposte tutte le strutture. Sono proprio le incrostazioni e gli irrigidimenti che spesso ostacolano l’accoglienza dell’azione dello Spirito Santo, al quale sono affidate le cose future e la loro lettura (cf. Gv 16,13) e la progressiva introduzione nel cuore della verità rivelata di Gesù (cf. Gv 14,26; 16,13). L’azione rinnovatrice dello Spirito farà sì che la vita delle chiese esprima la sua fedeltà a Cristo in forme e strutture sempre vive e significative, segnate dalla freschezza della novità, in una varietà che esprima la ricchezza della vita nuova instaurata dalla risurrezione di Gesù e che fa capire che nessuna forma o formula concreta esaurisce la ricchezza della vita rinnovata. La progressiva penetrazione nel cuore della verità, operata dallo Spirito, aiuterà a capire come l’unica parola di Gesù assuma toni e messaggi sempre nuovi, rapportati alla novità delle situazioni della storia, e quindi ha bisogno di una continua attenzione sia all’espressione originale delle parole di Gesù, sia alla nuova eco e comprensione operata dallo Spirito.
Tutta questa pienezza di presenza efficace di Cristo e dello Spirito attende di trovare uno spazio nella vita delle chiese, vasi aperti e accoglienti. Quanto spazio c’è in chi non è pieno di se stesso!
La ricchezza della pienezza risalta in maniera ancora più evidente se si tiene presente che il vaso è di creta, cioè fragile e senza consistenza o nobiltà autonoma. E di questo ogni cristiano e ogni chiesa deve essere consapevole. Se, alla luce della parola di Dio e dell’esperienza, questa fragilità è evidente, non sempre le chiese esprimono la consapevolezza di questa loro radicale realtà con altrettanta evidenza. Più che vasi contenenti un tesoro prezioso ricevuto gratuitamente in dono esse danno spesso l’impressione di essere realtà autonome, che si fregiano come ornamento del tesoro prezioso che esse contengono. La distinzione non è solo nominale o un gioco di parole, perché si traduce in rivendicazioni e atteggiamenti concreti che esprimono chi sta al centro e chi alla periferia, chi è al servizio di chi, chi è il tesoro e chi il vaso. La consapevolezza della propria fragilità e della propria inadeguatezza a far trasparire e a comunicare la pienezza della ricchezza del dono ricevuto è la via che mette in giusta luce il valore e la qualità del tesoro del regno di Dio. In questo contesto assumono significato e valore i ripetuti riconoscimenti della fragilità, degli errori e dei peccati commessi dalla chiesa nel corso della storia.
Conclusione
Possiamo dire che l’immagine paolina del tesoro racchiuso in vasi di creta può servire da specchio per riflettere la situazione attuale delle chiese. E’ un discorso ormai ritrito quello sulla crisi in cui versa l’ecumenismo. Ma crisi dell’ecumenismo significa crisi delle chiese. L’immagine di Paolo ci può guidare all’identificazione di una delle cause di questa crisi. L’accanito irrigidimento che manifestano alcune situazioni fa sospettare che le chiese abbiano identificato la gloria di Dio con la propria gloria e che si attendano che l’adesione a Dio delle altre chiese passi attraverso l’adesione alla loro chiesa. La loro attenzione e la loro speranza sembrano concentrate nel consolidamento e nel riconoscimento della loro concretezza e visibilità. Una maggiore consapevolezza di essere differenti vasi di creta dell’unico tesoro potrebbe spingere le chiese a un migliore discernimento fra il vaso e il tesoro, fra la gloria e la creta.
E qui non si può non fermare l’attenzione sul valore simbolico della realtà terrestre che noi viviamo. Parlare di valore simbolico di ciò che è terrestre e visibile non significa svuotarlo di contenuto positivo e salvifico, ma collegarne e scoprirne il senso in rapporto a una realtà che gli dà un vero contenuto. Il valore assoluto sta in questa realtà superiore e invisibile. Il limite delle chiese sta spesso nel considerare assolute molte o tutte le concretizzazioni storiche presenti nella propria o nell’altrui storia. Recepirle nel loro valore simbolico significa ricercare e concentrarsi sul loro senso profondo, che oltrepassa la modalità concreta. Così si prenderebbe coscienza della relatività di alcune modalità della propria struttura e del valore profondo che esprimono modalità diverse.
Ma forse c’è anche un altro elemento, sempre legato all’immagine di Paolo, che spiega la situazione ecumenica attuale. Sappiamo che il tesoro ha un valore commerciale, ma soprattutto un ruolo affettivo: “dov’è il tuo tesoro sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,21; Lc 12,34). La sola valutazione intellettuale del tesoro ricevuto non condurrà mai le chiese a svuotarsi di se stesse per riempirsi di esso. Solo un movimento del cuore e un innamoramento nei confronti di quel tesoro potrà spingere ad osare qualunque cosa, a svuotare completamente se stesse e godersi della vista del tesoro, senza relegarlo in una cassaforte, tenendone aperta solo la registrazione. Come alla vita dei cristiani, così anche alle chiese manca spesso la passione amorosa, il bisogno di vedere e seguire la persona amata dappertutto dove essa è presente. Spesso si ha l’impressione che l’unità nell’unico regno di Dio più che un tesoro appassionante sia un’azione finanziaria che si cerca di gestire con accortezza.
Sommario
L’autore, partendo dall’immagine di San Paolo del tesoro portato in vasi di creta, ne cerca una verifica nell’attuale situazione di crisi dell’ecumenismo. Le chiese, per fare risplendere con evidenza la gloria del tesoro che hanno ricevuto da Dio, dovrebbero seguire la via della fragilità e dell’impotenza umana percorsa da Cristo nell’incarnazione e riporre la loro fiducia e speranza più nelle cose invisibili che in quelle visibili: è questa la via che conduce all’unità. Inoltre, per compiere veri passi verso l’unità, esse devono innamorarsi del tesoro ricevuto da Dio come dono.
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