4 MAGGIO 2014 | 3A DOMENICA DI PASQUA : « STOLTI E TARDI DI CUORE NEL CREDERE ALLA PAROLA DEI PROFETI! »

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4 MAGGIO 2014 | 3A DOMENICA DI PASQUA A | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

« STOLTI E TARDI DI CUORE NEL CREDERE ALLA PAROLA DEI PROFETI! »

C’è ancora tanto fremito di « gioia » per l’indicibile evento pasquale che abbiamo appena celebrato e che si sta tuttora svolgendo sotto i nostri occhi. Ce ne dà testimonianza l’antifona d’ingresso (Sal 65,1-2) e soprattutto la Colletta odierna: « Esulti sempre il tuo popolo, o Padre, per la rinnovata giovinezza dello Spirito, e come ora si allieta per il dono della dignità filiale, così pregusti nella speranza il giorno glorioso della risurrezione ». È tutta una luminosa traiettoria di gioia e di speranza per il cristiano che vive il suo inserimento in Cristo, che va dalla Pasqua che celebriamo nel tempo a quella che celebreremo nell’eternità.
Ma accanto alla gioia, anche uno sforzo di « penetrazione », alla luce della fede, del significato permanente della Pasqua per ciascuno di noi: uno sforzo che hanno fatto i primi cristiani e che dobbiamo continuare a fare anche noi nelle situazioni diverse in cui dobbiamo testimoniare che Dio « ha risuscitato Cristo dai morti e gli ha dato gloria », di modo che « la nostra fede e la nostra speranza siano fisse in Dio » (1 Pt 1,21).
Mi sembra che in questa linea si muovano tutte e tre le bellissime letture bibliche, che ci danno esempi concreti di interpretazione e di approccio « vitale » al mistero sempre nuovo della Pasqua.

« Ma Dio lo ha risuscitato… Dice infatti Davide a suo riguardo… »
La prima lettura è tratta dal lungo discorso di Pietro, in occasione della Pentecoste, per chiarire ai suoi ascoltatori il significato di quell’evento: esso si capisce solo come « perfezionamento » dell’opera salvifica compiuta da Cristo. Direi che la discesa dello Spirito è la dimostrazione, in chiave di intuizione teologica, della « verità » della risurrezione del Signore: proprio perché egli è risuscitato dai morti, ha potuto inviarci il « suo » Spirito da presso Iddio. Era quanto ci ricordava già domenica scorsa san Giovanni (20,22-23).
Ma, oltre a questo, san Pietro si sforza di far capire che tutto quello che era successo a Gesù di Nazaret rientrava in un « disegno già prestabilito » da Dio: quello che a molti era potuto apparire come un fallimento e uno smacco, in realtà era l’esaltazione dell’onnipotenza e dell’amore « preveggente » del Padre verso gli uomini.
Basta rileggere certi testi dell’Antico Testamento alla luce di Cristo per comprenderne la portata « profetica » e come lentamente Iddio preparava l’umanità ad accettare la « sbalorditiva » realtà della morte e risurrezione del suo Figlio: qualcosa che rimarrà per sempre incredibile, se il cuore dell’uomo non si arrende all’amore immenso e alla sapienza imperscrutabile dell’Altissimo!
Il ricorso alla « prova » della Scrittura, perciò, non è tanto un’argomentazione di carattere dimostrativo, quanto un desiderio di cogliere armonie e convergenze, di scoprire le linee di un disegno che, visto in controluce, poteva anche apparire un indecifrabile groviglio di assurda fatalità. Il riferimento alla Scrittura diventa in tal modo non solo persuasivo, ma soprattutto consolante: vi si rileggono le varie tappe e le linee di avanzamento del misterioso disegno salvifico di Dio in Cristo.
Ma ascoltiamo il discorso di Pietro: « Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete – dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mani di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere. Dice infatti Davide a suo riguardo: « Contemplavo sempre il Signore innanzi a me; poiché egli sta alla mia destra, perché io non vacilli. Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia lingua…, perché tu non abbandonerai l’anima mia negli inferi, né permetterai che il tuo Santo veda la corruzione. Mi hai fatto conoscere le vie della vita, mi colmerai di gioia con la tua presenza »" (At 2,22-28).
La citazione qui riportata è presa dal Salmo 16,8-11, attribuito a Davide, ed è fatta secondo la traduzione greca dei Settanta, che esprime più chiaramente l’idea della risurrezione: « perché tu non abbandonerai l’anima mia negli inferi, né permetterai che il tuo Santo veda la corruzione » (in ebraico abbiamo invece « fossa », cioè il sepolcro). Nonostante una evidente e drammatica situazione di morte, il « Santo », di cui qui si parla, e che nell’interpretazione di san Pietro si identifica con Gesù, viene come riassorbito nella vita, perché Iddio è alla sua « destra » e difende la sua causa (v. 25).

« Non a prezzo di cose corruttibili foste liberati »
Anche la seconda lettura, ripresa dalla prima Lettera di Pietro, con riferimento alla « redenzione » compiuta da Cristo non sborsando « argento e oro », ma pagando con il suo « sangue prezioso » di « Agnello senza macchia » (1 Pt 1,18-19), parla di un misterioso disegno di Dio riguardo a Cristo: « Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma si è manifestato negli ultimi tempi per voi. E voi per opera sua credete in Dio, che l’ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria, e così la vostra fede e la vostra speranza sono fisse in Dio » (vv. 20-21).
Noi siamo dunque i destinatari di questo disegno di amore di Dio in Cristo e la Scrittura ha il compito di svelarcelo. Tutto questo è sufficiente per farcene sentire la grandezza e per far nascere in noi il bisogno di conoscerla meglio e di meditarla. Non aveva torto perciò san Girolamo quando scriveva, con il suo solito modo incisivo: « Ignoratio Scripturarum, ignoratio Christi est »; cioè, ignorare la Scrittura è ignorare Cristo.1

Le speranze deluse dei discepoli di Emmaus
Anche lo stupendo brano di Vangelo, che ci descrive l’apparizione di Gesù ai due discepoli di Emmaus, trova la sua chiave di soluzione in una attenta rilettura delle pagine dell’Antico Testamento, che già preannunciano e preparano il mistero di Cristo, incomprensibile senza quel messaggio.
E qui l’interprete autorevole della Scrittura è Gesù stesso, che ne è anche l’oggetto. L’episodio è ben noto: senza entrare in tanti particolari, che pur meriterebbero di essere studiati, noi vogliamo rileggere quell’episodio soprattutto alla luce di quanto veniamo dicendo.
Il giorno stesso di Pasqua, dunque, due discepoli del Signore si dirigono da Gerusalemme verso Emmaus, ancora accasciati e disorientati per tutto quello che era successo. Mentre stanno parlando di queste cose, uno sconosciuto si avvicina loro, fingendo di ignorare quello di cui essi stavano discutendo. Essi allora lo informano dettagliatamente ed esprimono la loro desolazione per il crollo di tutte le loro speranze: « Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi di mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto » (Lc 24,21-24).
I due discepoli sono dunque convinti che ormai tutto è finito con la condanna a morte di Gesù: il sospetto, non dico la speranza, della risurrezione non li sfiora neppure. Se anche ricordano i « tre giorni » dalla morte, che forse intendono riferirsi alla predizione fatta da Cristo (cf 10,22), non è per rianimarsi, ma per dire che non c’è più nulla da fare: le « speranze » di una « liberazione » di Israele (v. 21) sono crollate per sempre!
Questo ultimo riferimento sta a dirci quale tipo di Messia i due discepoli, insieme a tutti gli altri, si aspettavano: un Messia potente, che avrebbe schiacciato con estrema facilità i suoi nemici. Tutto il contrario di quello che era avvenuto sulla croce. Di qui la comprensibile crisi, che aveva ottenebrato il loro spirito.

« E cominciando da Mosè spiegò loro le Scritture »
Ed è proprio di qui che Gesù incomincia la sua « catechesi » ai due discepoli, facendo loro vedere come la Scrittura proprio questo scandalo aveva preannunciato: « Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui » (vv. 25-27).
Ciò che creava scandalo ai discepoli di Emmaus, faceva dunque parte del disegno salvifico di Dio: quello che a loro era apparso come il fallimento di ogni speranza, in realtà era l’inizio della grande « gloria » che ormai avrebbe per sempre avvolto il Risorto. E qui la « gloria » è da intendersi come la manifestazione della potenza divina in Cristo, a partire dalla sua risurrezione dai morti.
La testimonianza della Scrittura, perciò, dà ragione a Dio e condanna sia la cecità dei Giudei che l’hanno attuata, pur senza volerlo (cf At 3,17), sia la sfiducia e il sospetto dei discepoli che non hanno saputo dar credito alla Parola di Mosè e dei Profeti.
Essi non ignoravano tale Parola, ma l’avevano distorta dal suo significato più vero per piegarla a interpretazioni di comodo, togliendole la sua forza di urto e di sovvertimento degli schemi comuni del pensare e dell’agire. Gesù riporta la Parola della Scrittura al suo significato originario, anche se apparentemente paradossale e sconvolgente: allora essa riacquista tutta la sua potenza e il suo splendore. Direi che diventa « ragionevole », della ragionevolezza di Dio, però, che trascende all’infinito la nostra saggezza. È la Parola che torna ad essere messaggio di fede e che solo in una « disposizione di fede » può essere assimilata in tutta la sua ricchezza.
È quanto i due discepoli di Emmaus esperimentano, mentre il Maestro « spiega » loro le Scritture. Lo confesseranno essi stessi quando, alla fine, avranno scoperto che quello sconosciuto era proprio lui, il Gesù di Nazaret che i Giudei avevano crocifisso: « Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture? » (v. 32). Accolta in prospettiva di fede, la Scrittura diventerà per tutti noi il luogo privilegiato del nostro incontro con Cristo, che in quel momento stesso diventerà anche il nostro più autorevole « esegeta », come fece allora con i discepoli di Emmaus.

« Lo riconobbero nello spezzare il pane »
Ma, accanto alla Scrittura, c’è anche un altro segno da cui riconoscere la presenza del Signore risorto in mezzo a noi: ed è il segno « eucaristico ». Infatti, pur trattandosi di una normale « cena », quella a cui fu invitato l’incognito pellegrino in quel lontano giorno di Pasqua, i gesti da lui compiuti alludono certamente a una celebrazione eucaristica: « Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro » (v. 30). È evidente il rimando che Luca vuol fare al racconto della istituzione dell’Eucaristia (cf 22,19).
D’altra parte, è proprio a questo momento che i discepoli lo riconoscono: « Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista » (v. 31). E quando, ritornati subito a Gerusalemme, riferiranno l’accaduto agli Undici, diranno ancora che « l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane » (v. 35). Doveva perciò trattarsi di un gesto « caratteristico » del Signore, per loro legato a qualche momento particolarmente solenne della sua vita: di nuovo siamo rimandati all’ultima Cena, con quello che di « unico » Gesù vi introdusse all’infuori della normale manducazione pasquale.
« È notevole che il racconto dell’incontro dei discepoli col Risorto, sulla via di Emmaus, termini con le parole: fu da loro riconosciuto nello spezzare il pane. Nella celebrazione dell’Eucaristia la comunità dei fedeli si riunisce per la lettura della Sacra Scrittura, per pronunciare la professione di fede e per spezzare il pane. Mediante la presenza del Signore che si realizza con lo spezzare il pane, Dio concede che il Risorto venga riconosciuto. In tal modo la festa non solo ha l’efficacia di schiudere all’uomo il mistero pasquale, ma è essa stessa un’irradiazione di questo mistero. La fede è un effetto dell’atto con cui Dio ha risuscitato il Cristo. Essa è quindi causa ed effetto insieme, proponendo l’incontro con la risurrezione ed operandola al tempo stesso ».

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola

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