27 APRILE 2014 | 2A DOMENICA DI PASQUA : « PERCHÉ MI HAI VEDUTO, TOMMASO, HAI CREDUTO… »
27 APRILE 2014 | 2A DOMENICA DI PASQUA A | OMELIA DI APPROFONDIMENTO
« PERCHÉ MI HAI VEDUTO, TOMMASO, HAI CREDUTO… »
« Come bambini appena nati, bramate il puro latte spirituale, che vi faccia crescere verso la salvezza » (1 Pt 2,2).
Con queste parole, piene di gioia per il prodigio della nuova vita che si moltiplica in virtù del Battesimo in tanti nuovi figli della Chiesa, si inizia la Liturgia di questa seconda Domenica di Pasqua. Però è chiaro che esse sono indirizzate a tutti i credenti, che devono ugualmente sentirsi come « bambini appena nati », in quanto coinvolti anch’essi in quel prodigio di totale « novità » che è la risurrezione di Cristo. È quanto cantiamo in un bellissimo Prefazio pasquale (II): « Per mezzo di lui rinascono a vita nuova i figli della luce… In lui morto è redenta la nostra morte, in lui risorto tutta la vita risorge ».
La « novità » della vita cristiana
È in questa luce, credo, che si deve interpretare la prima lettura che ci descrive, in uno di quei rapidi « sommari » che sono caratteristici del libro degli Atti (2,42-47; 4,32-35; 5,12-16), la vita veramente « singolare » dei primi cristiani di Gerusalemme dopo la discesa dello Spirito Santo. Lo sfondo liturgico qui non è, perciò, propriamente pasquale ma pentecostale, anche se è vero che la Pentecoste è il perfezionamento della Pasqua perché lo « Spirito » è il dono del Risorto, come ci dirà anche il brano del Vangelo odierno. Rimane, comunque, il fatto di quella radicale « novità » di vita dei primi cristiani, che si può spiegare solo come un prodigio di autentica partecipazione al mistero di « risurrezione » del Signore.
« I fratelli erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere… Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti in letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la stima di tutto il popolo » (At 2,42.44-47).
I primi cristiani vivono davvero una vita da « risorti », che rappresenta come una rottura con la vita precedente e con quella dell’ambiente sociale e religioso che li circonda. Sembra che siano « cittadini » di un altro « mondo », precisamente quello che Cristo ha inaugurato risorgendo dai morti!
La caratteristica più singolare di questo nuovo mondo è l’ »unione » degli spiriti, che si manifesta nei segni di una carità senza limiti: si arriva perfino a mettere « in comune » le proprie sostanze, per aiutare chi ne aveva bisogno. Lo scopo, infatti, della vendita dei propri beni non era tanto quello del distacco, quanto della « condivisione »; un traguardo più alto, dunque, della semplice pratica della povertà, sia di spirito che effettiva, pur essa insegnata ripetutamente da Cristo (cf Mt 5,3; 2 Cor 8,9; ecc.).
Non siamo perciò davanti a uno schema di organizzazione economica, dettata da certi fini sociali da raggiungere: siamo, invece, davanti a una esperienza « religiosa » profonda, che ha inteso trasferire e incarnare l’impulso della fede nella totalità dei rapporti umani. Se condividiamo la stessa fede, perché non « condividere » anche i beni che la fortuna o la Provvidenza ha dato a me più abbondantemente che a un altro?
È per questo che l’Autore degli Atti ha qui adoperato un termine, « koinonía » (v. 42), che, pur riferendosi immediatamente alla « messa in comune » dei beni (koiná: v. 44), a nostro parere ha un significato molto più ampio: quello cioè di « comunione spirituale » o « unione fraterna », come molto bene ha tradotto la Bibbia della C.E.I. Senza questa « fraternità » nell’amore, infatti, il gesto coraggioso di quei primi cristiani non avrebbe avuto nessuna giustificazione: neppure quella economica, che di fatto, come sappiamo anche da altre testimonianze (cf At 11,29-30), non ebbe nessuna incidenza nel risolvere lo stato di pauperismo cronico della Chiesa di Gerusalemme.
D’altra parte, questo era solo uno degli « elementi » relativi allo stile di « vita nuova » di quei primi cristiani. C’erano altri elementi, e non di minore importanza, che servivano a cementare gli spiriti e ad aprirli gli uni agli altri in un respiro di commovente « ecclesialità »: ed erano l’assiduità dell’ »insegnamento degli Apostoli », la liturgia eucaristica (« frazione del pane »), il bisogno di ritrovarsi insieme in particolari momenti e luoghi di « preghiera » (cf At 1,14.24; 4,24-30; 12,5; ecc.).
Tutto questo creava un clima di sorpresa e di ammirazione negli altri, che erano costretti a domandarsi il « perché » di questo comportamento completamente diverso: l’esperienza della « risurrezione » diventava, così, contagiosa e si comunicava anche agli estranei.
« Gesù si fermò in mezzo a loro e disse: « Pace a voi »"
Infatti, per credere al Cristo risorto, più che vederlo personalmente, è necessario sperimentarlo nella testimonianza di vita di quelli che si dicono suoi discepoli.
Mi sembra che sia proprio questo il messaggio più alto del brano evangelico, che si conclude con due appelli urgenti alla fede.
Il primo contiene le parole di Gesù a Tommaso, chiamato Didimo (cioè il « gemello »), che voleva a tutti i costi toccare con mano il Risorto: « Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno » (Gv 20,29). Il secondo ci riferisce la conclusione, che san Giovanni pone a termine del suo libro: « Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome » (20,30-31). La « fede » passa dunque per la mediazione dell’Apostolo che ha « visto » per noi e si fa garante, con la sua vita di uomo nuovo e diverso, che Cristo è « davvero risuscitato dai morti » (cf Lc 24,34).
Il brano di Vangelo consta di due parti nettamente distinte e, nello stesso tempo, intimamente collegate fra di loro per l’identico clima pasquale che le avvolge.
Nella prima parte si descrive l’apparizione di Gesù, il giorno stesso di Pasqua, ai suoi Apostoli (Gv 20,19-23).
È certo che san Giovanni è interessato a dire ai lettori del suo Vangelo che il Cristo risorto non è « diverso » dal Gesù che gli uomini hanno appeso al legno della croce: per questo egli mostra spontaneamente agli Apostoli « le mani e il costato » (v. 20). Addirittura inviterà poi Tommaso, assente in quel momento, e che aveva lanciato la sfida dell’incredulità, qualora non avesse potuto verificare con i propri occhi la nuova realtà del Risorto (v. 25), ad affondare la mano nell’ampia ferita del costato (v. 27). Soltanto sono « diverse » le modalità del suo nuovo modo di esistere, e perciò può entrare anche « a porte chiuse » (v. 19) nel luogo del cenacolo.
Ma quello che a san Giovanni interessa soprattutto dimostrare è che il Cristo risorto è veramente il « Signore della vita », perché dona ai suoi i « pegni » di questa nuova vita in cui lui è già introdotto e alla quale, soltanto adesso, i suoi possono avere accesso: la « pace » e il dono dello « Spirito ».
Non è perciò semplicemente un saluto quello che Gesù rivolge per ben due volte ai suoi Apostoli: « Pace a voi! » (vv. 19.21), e poi ripeterà a loro quando sarà presente Tommaso (v. 26). Questo si capisce anche meglio, se si tiene conto della annotazione di Giovanni circa il « timore » dei discepoli, che tengono ben serrate le « porte del luogo dove si trovavano » (v. 19).
Il « timore » denota uno stato di insicurezza e di apprensione per qualche pericolo che ci possa incombere: colui che teme non si è ancora staccato da se stesso per affidarsi esclusivamente a Dio. Solo il Cristo che risorge dai morti può comunicare ai suoi la certezza che Dio è più potente delle nostre debolezze, della paura stessa della morte. La « pace » perciò è il primo dono del Risorto, come del resto egli stesso aveva promesso nei suoi discorsi di addio: « Vi lascio la pace, vi dò la mia pace. Non come la dà il mondo, io la dò a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore » (Gv 14,27).
La « pace » diventa così la pienezza dei beni salvifici, con la sicurezza che ormai il credente è liberato da tutte le paure delle cose, degli altri uomini e perfino di se stesso: con il Cristo risorto dai morti egli ha vinto tutte le « potenze » ostili, che minacciano costantemente la nostra serenità interiore e anche i nostri rapporti di convivenza civile. E Dio sa se ancor oggi, un po’ dovunque, c’è bisogno per tutti noi del dono della « pace »! È per questo che la Pasqua non finisce mai di essere attuale.
« Ricevete lo Spirito Santo »
E accanto alla « pace » il dono dello « Spirito », in quanto segno e frutto, nello stesso tempo, della nuova « creazione » inaugurata dal Cristo risorto.
È significativo, infatti, il gesto di « alitare » sugli Apostoli: nella linea della simbologia biblica esprime l’idea di una « creazione » rinnovata. Anche per la formazione di Adamo, plasmato dalla polvere del suolo, si dice che Dio « alitò nelle sue narici un alito di vita, e l’uomo divenne un essere vivente » (Gn 2,7). Così pure nella grande visione del capitolo 37 di Ezechiele il Signore dice: « Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti perché rivivano » (37,9). Non si dimentichi che in ebraico il termine rùach può significare sia « alito » che « spirito ».
Inoltre lo Spirito, che qui viene donato, è in ordine alla « remissione » dei peccati: « Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi » (vv. 22-23). Ciò che guasta l’uomo e l’ordine della creazione è precisamente il « peccato », per mezzo del quale anche « la morte è entrata nel mondo » (cf Rm 5,12). Con il dono dello Spirito il Risorto intende mettere a disposizione degli uomini, da lui redenti, una forza di « santificazione » e di rinnovazione permanente: purtroppo il conflitto fra il bene e il male continuerà nel loro cuore, ma ormai la comunità cristiana ha in se stessa la capacità di riscattarsi dal male e di risorgere a nuova vita mediante il « potere » della remissione dei peccati che il Risorto ha affidato alla sua Chiesa.
« Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani »
Nella seconda parte del brano evangelico si descrive una seconda apparizione di Gesù agli Undici, provocata proprio dalla incredulità di Tommaso al racconto degli altri Apostoli (vv. 26-29).
È la risposta di Gesù alla sfida di Tommaso: non però in termini di contro-sfida, ma di amore e di benevolenza.
In fin dei conti, Tommaso è il simbolo di tutti gli uomini, e perciò anche di noi, che proviamo enorme difficoltà a credere e confondiamo talora la fede con una deduzione di carattere scientifico o con una prova di evidenza. La fede, invece, è sempre un « rischio » che solo la docilità del cuore e l’umiltà della intelligenza permettono di affrontare e di superare: è la capacità di credere che Dio è « più grande del nostro cuore » (cf 1 Gv 3,20) e di tutti i nostri ragionamenti. Se egli ci si offre e ci si manifesta, come fece Gesù con i suoi Apostoli, non è né per strabiliarci né per umiliarci, ma per parteciparci la sua gloria. Si tratta dunque di un gesto di amore!
E proprio perché gesto di amore, è offensivo chiedere a Dio i « segni » della sua credibilità. È il senso del rimprovero di Gesù a Tommaso: « Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno » (v. 29). Tutta la « beatitudine » è credere « senza aver visto », senza chiedere a Dio più di quello che già ci ha dato in Cristo, morto e risorto per noi: oltre tutto, più di questo egli non potrebbe fare! Il credere, in queste condizioni, significa che già la grazia di Dio opera in noi e che noi siamo disposti a lasciarci guidare dove a lui piacerà.
È il senso della confessione di Tommaso: « Mio Signore e mio Dio » (v. 28), che esprime una adesione di fede, ma più ancora un affidamento radicale a Cristo perché sia ora e sempre il vero « Signore » della sua vita.
Ed è anche il senso del bellissimo brano della seconda lettura, in cui san Pietro esorta i primi cristiani a vivere nella « gioia », pur essendo provati da sofferenze e persecuzioni di ogni genere, perché il Cristo risorto dà loro fiducia e speranza, anche se essi non lo hanno visto: « Voi lo amate, pur senza averlo visto; ed ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la meta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime » (1 Pt 1,8).
Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola.

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