PAROLA DI VITA E DI GIOIA: NESSUNO È MAI PERDUTO – di GIANFRANCO RAVASI
http://www.stpauls.it/vita/0706vp/0706vp93.htm
(non trovo la data, ma di Gianfranco Ravasi è scritto « Prefetto della Biblioteca Ambrosiana »)
Nella Sacra Scrittura -
PAROLA DI VITA E DI GIOIA: NESSUNO È MAI PERDUTO
di GIANFRANCO RAVASI
Il senso profondo della fragilità umana percorre tutta la Bibbia, a partire dalla caducità strutturale della creatura. A tal proposito la Genesi non lascia dubbi: l’uomo è polvere e torna alla polvere; è precario perché è finito. Ma c’è anche il risvolto delle responsabilità personali, delle miserie umane. La fragilità peccatrice, però, non è condannata: Cristo cerca chi si è perduto.
È quasi impossibile, pur sfogliando tutti i dizionari biblici nelle principali lingue, imbattersi in una voce dedicata alla « fragilità ». La parola deriva dalla radice arcaica frag-, che ha dato origine a una costellazione di vocaboli latini e italiani come « (in)frangere », « naufrago », « frammento », « fragore », « frutta », « frattaglia », « frazione » « frattura » e così via.
C’è, dunque, qualcosa di spezzato alla base, proprio perché quella realtà è debole, fallace, gracile, precaria. È per questa via, di taglio più esistenziale, che è possibile isolare nella Sacra Scrittura il senso profondo della fragilità umana. Anzi, si ha la possibilità di individuare una vera e propria radice fondamentale della stessa antropologia biblica. Due sono i profili di questa labilità:
1 La finitudine
C’è innanzitutto la caducità strutturale della creatura, precarietà legata alla sua finitudine. Giobbe usa un’immagine folgorante: «L’uomo è ospite di una casa di fango, fondata sulla polvere, pronta a cedere al tarlo» (4,19). L’essere profondo, spirituale e intellettuale dell’uomo è deposto, come dirà il libro della Sapienza, in «una tenda d’argilla» (9,15). Qohelet con l’implacabile provocazione delle sue rilevazioni classificherà l’intero essere creato sotto quel vocabolo impietoso hebel, ossia « soffio, fumo, vuoto » e, riprendendo l’antica lezione della Genesi (3,19), concluderà amaramente: «Tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna alla polvere» (Qo 3,20).
Un monito che percorrerà anche la preghiera di Israele, se è vero che ripetutamente sentiamo i salmisti presentarsi davanti a Dio così: «In pochi palmi hai misurato i miei giorni, la mia esistenza davanti a te è un soffio. Solo un soffio è l’uomo che vive, come ombra è l’uomo che passa, solo un soffio che si agita. [...] Sì, sono un soffio i figli di Adamo; insieme sulla bilancia, sono meno di un soffio. [...] Essi sono carne, un soffio che va e non ritorna. [...] L’uomo è come un soffio, i suoi giorni sono un’ombra che passa» (Sal 39,6-7; 62,10; 78,39; 144,4). Molte sono le immagini che tratteggiano questa fragilità radicale dell’essere umano. La più comune e fragrante è quella dell’erba: «Sono come l’erba che germoglia al mattino; all’alba fiorisce, germoglia, alla sera è falciata e dissecca», canta ancora il Salmista (90,5-6).
A lui fa eco Isaia: «Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo: secca l’erba, il fiore appassisce quando il soffio del Signore spira su di essi» (40,6-7). Ma anche san Pietro nella sua Prima lettera contrapporrà alla Parola divina, ferma, stabile e indistruttibile, «i mortali che sono come l’erba e ogni loro splendore è come fiore d’erba: l’erba inaridisce e i fiori cadono; solo la parola del Signore rimane in eterno» (1,24-25).
C’è, dunque, una prima fragilità che è legata al limite creaturale, al nostro essere prigionieri del tempo che finisce e dello spazio che ci circoscrive. In questa luce si delineano tante figure che rivelano la consapevolezza della loro debolezza strutturale, dell’avere – per usare una celebre immagine paolina – «un tesoro in vasi di creta» (2Cor 4,7).
Pensiamo, ad esempio, a Mosè e al suo reiterato tentativo di sottrarsi alla sua missione, nella certezza di una impreparazione e di un ostacolo di fondo: «Mio Signore, io non sono un buon parlatore, non lo sono mai stato prima, sono impacciato di bocca e di lingua» (Es 4,10). Così Geremia non esiterà a obiettare: «Signore Dio, io non so parlare, perché sono giovane» (1,6). E lo stesso Salomone, nella notte antecedente alla sua intronizzazione, confessa a Dio: «Sono un ragazzo e non so come regolarmi» (1Re 3,7). Dopo tutto, l’intero popolo d’Israele nella sua storia secolare rivela un’immaturità sostanziale, a partire dalla nostalgia della schiavitù, pur di non rischiare l’avventura della libertà nel deserto e nella ricerca della terra promessa.
Gesù nella sua predicazione ha illustrato in modo vigoroso l’instabilità soprattutto dei giovani. Chi non ricorda la scenetta dei ragazzi che non s’accordano sul gioco da fare in piazza, se mimare un funerale o un matrimonio, e così perdono il tempo del divertimento (Mt 11,16-17)? Oppure, come non evocare la vicenda dei due figli difficili della parabola di Matteo 21,28-31, l’uno tutto parole e niente fatti e l’altro sgarbato e sguaiato ma alla fine buono?
È impressionante, ma proprio sulla base della verità dell’incarnazione, anche Cristo è rappresentato fragile nel momento della morte, quando implora il Padre di evitargli quel calice avvelenato (Mc 14,36) e la Lettera agli Ebrei non esita a dichiarare che Gesù «È in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza» (5,2). Similmente san Paolo, che ci ha lasciato nel cap. 7 della Lettera ai Romani un ritratto vigoroso della frattura profonda dell’anima umana, si vedrà costretto a «vantarsi della sua debolezza», riconoscendo la sua fragilità (2Cor 11,30) e la spina che lo tormenta nella carne e nella vita.
2 La peccaminosità
A questo punto c’è da lasciare spazio all’altro profilo della finitudine creaturale, quello della sua peccaminosità. Non bisogna, infatti, ignorare che la pagina di antropologia che apre la Bibbia e ne costituisce il punto di riferimento capitale (Gen 2-3) comprende proprio la « frattura » delle tre relazioni costitutive dell’essere adam, ossia uomini: quella che intercorre con Dio dal quale si riceve la vita, la libertà e la coscienza; il rapporto col proprio simile, incarnato dalla donna; e infine il nesso con la materia, col creato, con gli animali.
Ecco, infatti, dopo il peccato, l’uomo espulso dal giardino del dialogo intimo con Dio; eccolo prevaricare sul prossimo, a partire dal dominio sulla donna (3,16) per giungere al fratricidio di Caino e alla prepotenza di Babele; ecco, infine, la dissociazione dell’uomo con la terra che si ribella generando «spine e cardi» (3,18).
Questa onda limacciosa lambisce tutta l’umanità e la storia biblica è una lunga vicenda di debolezze, di miserie, di fallimenti, di tradimenti, come per altro sarà la trama costante della storia umana. La fragilità peccatrice colpisce anche le grandi figure: pensiamo a Davide che per il corpo e il fascino di una donna, Betsabea, si trasforma in adultero e in assassino (2Sam 11-12) o alla ribellione tragica di suo figlio Assalonne o all’altro suo figlio e successore, il grande Salomone, che invecchia lasciandosi corrompere dal suo harem (1Re 11,1-13); oppure (tanto per scegliere a caso un altro esempio) la meschina figura rimediata dai due anziani vogliosi che attentano alla fedeltà di Susanna (Dn 13).
La gamma delle debolezze morali umane è quasi del tutto perlustrata dalle Sacre Scritture, a partire proprio da un Israele sistematicamente sedotto dall’idolatria (si legga la celebre e veemente pagina simbolica di Ez 16). Noi vorremmo solo evocare un tratto molto specifico di questa variegata fragilità, cioè la tipologia del tradimento e del relativo fallimento. Forse è poco nota la storia di Achitofel, consigliere di Davide che decide di passare nel campo avverso del ribelle Assalonne e che, alla fine, vistosi a sua volta tradito e perduto, «andò a casa sua nella sua città, sistemò i suoi affari familiari e s’impiccò» (2Sam 17,23). E naturalmente in dissolvenza vediamo profilarsi la tragedia di Giuda, traditore e suicida.
Ma ci sono anche debolezze meno clamorose ma altrettanto umilianti e infami: Pietro in quella notte, nel cortile del palazzo sinedrale, non esita – per evitare rischi personali – a spergiurare senza pudore: «Non conosco Gesù! Non sono un suo discepolo! Non so quello che dite!» (Lc 22,54-62).
Si potrebbe a lungo infierire sulle miserie della fragilità, soprattutto quando essa sconfina nella sua superficialità, nella tiepidezza incolore, quell’atteggiamento che suscita il « vomito » di Cristo, come si dichiara nella celebre invettiva dell’Apocalisse contro la Chiesa di Laodicea (3,15-16). Tuttavia non bisogna mai dimenticare che l’ultima parola divina nei confronti della fragilità creaturale e morale dell’umanità non è mai la condanna aspra e implacabile. Cristo va per monti e dirupi a cercare la pecorella smarrita, stando accanto a peccatori, pubblicani e prostitute.
Il Padre celeste è sempre sulla soglia di casa per riabbracciare quel figlio prodigo, debole e moralmente sfibrato per riportarlo alla vita, alla gioia, alla speranza, alla certezza di essere sempre amato. Nessuno è mai perduto, purché si lasci liberare e risollevare da Colui che «è venuto proprio per cercare chi era perduto», che è giunto in mezzo a noi non per badare ai sani ma ai malati, ai deboli, ai peccatori.
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