Archive pour mars, 2014

“ORA ET LABORA”: MOTTO PAOLINO.

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“ORA ET LABORA”: MOTTO PAOLINO.

Il motto “ora et labora” ormai viene attribuito, anche nei discorsi ufficiali degli ultimi Sommi Pontefici, a san Benedetto.
Leggendo, però, la sua Regola non troviamo mai il motto in questione, né l’accostamento immediato tra preghiera e lavoro.
Storicamente, dobbiamo risalire indietro nel tempo e andare agli inizi stessi del monachesimo, per trovare nella biografia di sant’Antonio Abate, scritta da sant’Atanasio, la vera origine di questo binomio.
Nella Vita di Antonio è narrato l’episodio nel quale un Angelo, alternando preghiera e lavoro, consegna al grande Anacoreta e al monachesimo cristiano “la Regola” che supera l’apparente contraddizione tra il comando divino: «Mangerai il tuo pane solo dopo avertelo sudato con un duro lavoro» (Gen 3,19), e l’invito di Gesù a «pregare sempre, senza stancarci» (Lc 18,1).
Prima di Antonio, l’apostolo Paolo aveva già risolto questo dilemma, scrivendo ai suoi discepoli di Tessalonica motivato dal fatto che alcuni di essi avevano stravolto, in modo strumentale, il suo invito a «pregare ininterrottamente» (1Ts 5,17) e, con questa scusa, «vivevano disordinatamente, senza far nulla», pretendendo di essere mantenuti dalla Comunità.
L’Apostolo si ribella a tale interpretazione, ed «esorta tutti nel Signore Gesù Cristo, a mangiare il pane, lavorando in pace» (2Ts 3,11-12).
San Paolo dichiara che questa è la “Regola” che lui ha consegnato ai suoi discepoli, insieme al “suo vangelo”. Tutti devono osservarla, perché, conclude in modo perentorio: «Chi non vuole lavorare, non dovrebbe neanche mangiare» (3,10).
Dell’osservanza di questa “Regola” e di come l’Apostolo, prima di proporla agli altri, l’abbia lui stesso vissuta, ci parla Luca negli Atti degli Apostoli, quando ci ricorda che Paolo, a Corinto, prese alloggio nella casa di Aquila e Priscilla «dove lavorava insieme a loro, perché faceva lo stesso mestiere di fabbricante di tende» (At 18,3); perciò, nel discorso d’addio agli Anziani di Efeso, egli può dire di se stesso, senza falsa umiltà: «Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!» (At 20,34-35).
Forse san Benedetto si è ispirato a questi testi paolini quando, nell’eventualità che i monaci «si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli», li invita a non lamentarsi, anzi a vedere in ciò un dono della divina Provvidenza, «perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri Padri e gli Apostoli» (RB, 48,7-8).
E, a proposito dei “Padri” (monastici) a cui ci rimanda il fondatore di Montecassino: nei “Detti dei Padri del deserto” ce n’è uno attribuito all’abate Lucio, dove si smonta, con sottile ironia, l’eresia monastica dei messaliani, i quali presumevano di poter attuare alla lettera il comando paolino di «pregare senza interruzione».
Il saggio Anziano non interrompendo neppure per la mensa la preghiera dei suoi ospiti – che di questo si lamentarono con lui – fece loro capire come il lavoro manuale, accettato per il proprio mantenimento e per poter aiutare i poveri, permetta al monaco d’imitare l’Apostolo e lo stesso Signore Gesù, che a Nazaret, fino all’età di trent’anni, così visse.
Il monaco che sa unire la preghiera al lavoro, arriva, di fatto, alla “preghiera ininterrotta”, perché con l’elemosina, frutto del suo stesso lavoro, egli troverà dei poveri che, per riconoscenza, pregheranno per lui quando egli, fisicamente, non potrà farlo. Il “detto” sembra la riproposizione letterale di ciò che disse Paolo agli Anziani di Efeso.
Anche in questo caso potremmo constatare come “ci sia più gioia nel dare (ai poveri il frutto del proprio lavoro), che nel ricevere (da Dio ciò che gli chiediamo con la nostra povera preghiera)”.

Possiamo, dunque, dire che il motto “ora et labora” più che benedettino è paolino.
Dall’Apostolo, infatti, impariamo a vivere bene i due momenti, non come contrapposti, ma come complementari l’uno all’altro.
Non a caso la «continua agitazione» (1Ts 3,12) che egli rimprovera agli oranti “fannulloni” di Tessalonica, Gesù ha cercato di correggerla nell’ospitale e “laboriosa” sua amica, Marta (Lc 10,41).
Con questi insegnamenti, noi dovremmo vivere senza agitazione, perciò con «con tranquillità» (2Ts 3,12), sia il momento della “preghiera” (che ha la giusta priorità nella RB, in quanto riguarda il nostro rapporto interpersonale con Dio), e sia il tempo del “lavoro” (anch’esso necessario perché è attuazione pratica dell’amore verso il prossimo).
È significativo che in greco san Paolo ci chieda di lavorare «µet? ?s???a?» (2Ts 3,12); una parola: l’esichia, che nell’Oriente cristiano indica “la preghiera del cuore” e la pace interiore che da essa proviene. Dunque:“Ora et labora” ma sempre con esichia.

p. Salvatore Piga

LA SOFFERENZA NELLA BIBBIA – di GIANFRANCO RAVASI

http://www.stpauls.it/fa_oggi00/1099f_o/1099fo39.htm

LA SOFFERENZA NELLA BIBBIA

Il dolore umano resta invalicabile. La ragione ne comprende alcuni aspetti, ma non tutti i varchi le sono aperti. La Bibbia insegna che la sofferenza dell’uomo è un mistero che fa parte di un piano trascendentale, del quale possiamo intuire la coerenza generale. Un’ampia porzione del male, diffuso nel mondo, è riconducibile alla libertà e quindi al comportamento di chi possiede il libero arbitrio. Il dolore dell’umanità costringe ciascun uomo a porsi un forte interrogativo sull’egoismo, le prevaricazioni, le ingiustizie messe in atto a danno di altre persone. Al contrario, sostenere il sofferente, anche senza cancellare pienamente il suo dolore, significa continuare l’opera di Cristo.

BIBBIA E SOFFERENZA

LA ROCCIA DA SCALARE

di GIANFRANCO RAVASI
(biblista)

«Perché soffro? È questa la roccia dell’ateismo». La famosa battuta del dramma La morte di Danton (1835) di George Buchner, uno dei più intensi scrittori dell’Ottocento tedesco, riassume in modo folgorante uno dei due approdi antitetici a cui conduce l’esperienza del dolore, in particolare del dolore innocente. Chi non ricorda quel passo dei Fratelli Karamazov ove Dostoevskij s’interroga: «Se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l’armonia eterna, che c’entrano i bambini? È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocchi pure a loro comprare l’armonia con la sofferenza?».
Per millenni l’umanità ha cercato di scalare o spianare quella roccia. Già l’antica sapienza egizia registra la sconfitta della ragione con le emozionanti righe del « Papiro di Berlino 3024″ (2200 a.C.), significativamente intitolato dagli studiosi Dialogo di un suicida con la sua anima, dialogo che ha come approdo solo la morte vista come liberazione, guarigione, profumo di mirra, brezza dolce della sera, fior di loto che sboccia. L’accanimento della teodicea, cioè del tentativo di difendere Dio dall’attacco dell’ »ateismo » che fa leva sul proprio dolore, ha dovuto sempre confrontarsi con le alternative lapidarie del filosofo greco Epicuro, così come ce le ha trasmesse lo scrittore cristiano Lattanzio nella sua opera De ira Dei (capitolo 13): «Se Dio vuol togliere il male e non può, allora è impotente. Se può e non vuole, allora è ostile nei nostri confronti. Se vuole e può, perché allora esiste il male e non viene eliminato da lui?». »
È proprio attorno a questi dilemmi e soprattutto quando si entra nella ragione tenebrosa della sofferenza personale che si celebrano le apostasie, come affermava il pensatore agnostico francese Jean Cotureau: «Non credo in Dio. Se Dio esistesse, sarebbe il male in persona. Preferisco negarlo piuttosto che addossargli la responsabilità del male». E proprio per difendere Dio da questa accusa infamante, si è fatto di tutto nella storia dell’umanità, ricorrendo appunto a quella teodicea a cui sopra si accennava, percorrendo le strade più disparate, talvolta quasi impraticabili. Si è, così, ricorso al dualismo, introducendo – accanto al Dio buono e giusto – un’altra divinità negativa e ostile, un Dio del male (pensiamo, a titolo esemplificativo, al manicheismo e a tante forme apocalittiche estremiste). Si è appellato alla cosiddetta « teoria della retribuzione », per altro ben attestata anche nella Bibbia, come vedremo: il binomio delitto-castigo ci invita a scoprire in ogni dolore un’espiazione di colpa, se non personale, almeno altrui (e così si cercherebbe di giustificare anche la sofferenza dell’innocente).
Per altri sarebbe, invece, da imboccare la via pessimistica radicale: la realtà è strutturalmente negativa proprio per il suo limite creaturale (da spiegare sarebbe eventualmente la felicità o il bene quando si presentano nella vita!). Nel Mito di Sisifo (1942) lo scrittore francese Albert Camus osservava: «C’è un solo problema importante per la filosofia, il suicidio. Decidere, cioè, se metta conto di vivere o no». Per contrasto, non è mancata anche una lettura ottimistica altrettanto radicale della realtà per cui il male è solo un non-essere, un dato concettuale, un’apparenza da superare scoprendo la serenità profonda dell’essere. In questa luce si pongono le visioni panteistiche come lo stoicismo greco-romano o il brahmanesimo indiano per il quale il male è solo maya, cioè « illusione ». In questa linea si collocano anche certe concezioni evoluzionistiche che considerano il dolore come il residuato di un mondo ancora imperfetto e in costruzione. Le energie cosmiche e il progresso umano sono la via da percorrere per la graduale eliminazione di ogni negatività.

Giobbe, l’impaziente
La cittadella fortificata del dolore, comunque, rimane non del tutto valicabile dalla ragione umana, anche se in essa possono aprirsi brecce e varchi. Il suo centro ultimo, come insegna la Bibbia che ora interrogheremo su questo tema, può essere chiuso e non necessariamente nell’assurdo, ma anche nel « mistero » di un progetto metarazionale e trascendente del quale possiamo al massimo intuirne una coerenza generale. C’è, però, un dato preliminare rilevante: un’ampia porzione del male diffuso nel mondo è riconducibile alla libertà e quindi al peccato dell’uomo. È, allora, necessario partire con l’esame di coscienza ideale che è proposto da Genesi 2-3 ove è protagonista appunto ha-adam, in ebraico « l’uomo » di tutti i tempi e di tutte le regioni del mondo. Al progetto di armonia con Dio, con la natura e con il suo simile, descritto come desiderio del Creatore nel capitolo 2, egli, nella sua libertà, decide di opporre un progetto alternativo di alienazione, violenza, sopraffazione, imperialismo (si vedano il capitolo 3 e la storia successiva di Caino, del diluvio e di Babele).
Il dolore dell’umanità, allora, in molti casi, prima di appellare al mistero dell’agire divino, deve trasformarsi in un atto di accusa che l’uomo lancia contro il proprio agire immorale. Prima di gridare a Dio protestando perché lascia morire di fame o senza cure molti bambini o ne fa nascere altri deformi, l’uomo deve interrogare il suo egoismo, le sue prevaricazioni, la sua politica, le sue oppressioni e ingiustizie, la sua scienza distruttrice.
Detto questo, bisogna però riconoscere che c’è – per usare un’espressione del commento a « Giobbe » del filosofo francese Philippe Nemo – un « eccesso di male » che deborda dall’azione e dalla responsabilità umana. È appunto il « libro di Giobbe » a porre sul tappeto questa interrogazione per ragioni strettamente teologiche, cioè per scoprire il vero volto di Dio. Infatti, il testo di Giobbe – equivocato come simbolo di pazienza (cfr. Gc 5,11) – è una ricerca lacerante della genuina realtà divina che nel dolore appare in modo scandalosamente sconcertante: «La rabbia di Dio mi perseguita per dilaniarmi, contro di me digrigna i denti, contro di me il mio nemico affila gli occhi. Ero sereno e lui mi ha stritolato, mi ha afferrato per la nuca e mi ha sfondato il cranio, ha fatto di me il suo bersaglio. I suoi arcieri prendono la mira su di me, senza pietà trafigge i reni, per terra versa il mio fiele, infierisce su di me come un generale trionfatore» (Gb 16,9.12-14). Dio, quando si ha la pelle torturata dal dolore, non è visto come un padre, ma come un imperatore trionfatore, come un arciere sadico che trafigge l’uomo senza pietà. In quei momenti l’unica preghiera è solo una domanda di tregua: «Quando la finirai di spiarmi e mi lascerai inghiottire la saliva?» (7,19). «Inghiottire la saliva» è un curioso modo orientale per indicare un istante di respiro e di tregua.
Per l’uomo tormentato dalla sofferenza l’unico spiraglio liberatore sembra essere la morte: «Se devo sperare, è solo l’Ade la mia casa, nelle tenebre stenderò il mio giaciglio. Al sepolcro io grido: Padre mio sei tu! Ai vermi: Madre mia, sorelle mie!» (17,13-14). Giobbe nel dolore si spoglia di qualsiasi appoggio umano e spirituale. Il suo itinerario è quello della fede pura e nuda, priva di facili appoggi, lontana dagli schemi freddi che gli amici teologi gli oppongono per spiegare il mistero del male. Ed è proprio attraverso la povertà assoluta del soffrire che Giobbe giunge al vero Dio. Verso di lui l’uomo apre un’offensiva processuale per farlo deporre in un’ideale assise giudiziaria perché giustifichi il suo strano infierire sull’uomo: «Ecco qui la mia firma. L’Onnipotente mi risponda! Il mio Rivale scriva il suo protocollo! Sono pronto a rendergli conto di tutti i miei passi; come un principe, mi presento davanti a lui» (31,35.37).
E sorprendentemente Dio accetta di fare la sua deposizione, imboccando la via del dialogo. Il Signore pronunzia due discorsi monumentali, che sono anche le pagine poeticamente più alte del libro. Da quelle strofe grandiose emerge il mondo delle meraviglie cosmiche (terra, mare, astri, costellazioni, aurore, leoni, ibis, gazzelle, struzzi, bufali, cavalli, camosci), ma anche tutta la sfera delle energie caotiche e negative che attentano allo splendore della creazione, energie personificate nei due mostri simbolici Behemot e Leviatan (capitoli 38-41). Giobbe è un pellegrino stupito tra questi misteri, di cui egli non sa sondare che qualche particella microscopica mentre Dio li percorre totalmente con la sua onniscienza e onnipotenza.
Giobbe, allora, comprende che, accanto alla piccola logica dell’uomo che riesce solo a comprendere e a sistemare piccoli frammenti della realtà e che quindi ha ragione di trovarsi a disagio di fronte al male, esiste un grande e superiore « progetto » di Dio, infinitamente più completo e invalicabile ai nostri piccoli schemi. Questo progetto divino è capace di collocare al suo interno anche gli aspetti che a noi risultano debordanti o inutili o dannosi. Gli amici di Giobbe si illudevano, come molti « consolatori », di conoscere questo progetto identificandolo con le loro facili spiegazioni teologiche, soprattutto con la già menzionata teoria della retribuzione per cui ogni dolore è generato da una colpa. Ma la realtà li smentiva, come smentiva anche Giobbe, quando credeva che non esistesse nessuna via per sistemare la sofferenza nell’arco della storia della salvezza. Il dolore non è, quindi, spiegato a Giobbe ma, incontrando il vero Dio, Giobbe comprende che il Dio infinito e sapiente potrà inquadrarlo nel suo supremo disegno di salvezza. Solo così Giobbe si abbandona alla mano divina.

Una teologia del dolore
Con Giobbe, dunque, si passa da un’antropologia della sofferenza a una vera e propria teologia. Egli è fermamente convinto che, proprio perché « mistero » terribile e supremo, la realtà del dolore non può essere « razionalizzata », addomesticata attraverso un facile teorema teologico. Il male e il dolore urlano con tutta la loro forza contro la mente dell’uomo. Ma il poeta biblico è altrettanto fermamente convinto che esiste una ’esah, una « razionalità » da mistero, cioè superiore e totalizzante, quella di Dio: essa riesce a collocare in un progetto ciò che per l’uomo sembra invece debordare da ogni progetto. E Giobbe, allora, resta contemporaneamente teso verso la disperazione e la bestemmia a cui lo conduce « logicamente » la sua intelligenza e verso la speranza e l’inno di lode a cui lo conduce la sua autentica fede.
In questa stessa linea nettamente teologica – che corre accanto a quella più « filosofica » della retribuzione, della sofferenza come catarsi e pedagogia dell’uomo (così l’ultimo amico di Giobbe, Elihu), del limite creaturale (Qohelet) – si colloca la figura del Servo sofferente del Signore cantato da Isaia in quattro carmi (capitoli 42; 49; 50; 53), figura riletta in chiave messianica dal cristianesimo. Noi seguiremo ora il fondamentale quarto canto del Servo del Signore (Is 52,13-53,12). Egli nasce come un virgulto in un deserto solitario, ma cresce e si configura come un essere «disprezzato, reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire». Ma quella sofferenza non è frutto della punizione di una colpa, come insegnava la citata tesi della retribuzione legata al binomio « delitto-castigo ». È il peccato degli altri che viene espiato da quel giusto. Il suo dolore è salutare per noi tutti, dà salvezza e pace, genera in noi pentimento e perdono.

Crocifisso, mosaico. Basilica di San Marco (Ve).
«Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe siamo stati guariti» (versetti 4-5). La sua donazione è totale e docile come quella dell’agnello sacrificale che vede irrompere su di sé la spada del sacerdote. E ciò che attende il Servo è ormai la morte e la sepoltura, sigillo di una vita di dolore e di disprezzo. Anche se il suo cadavere è buttato nella fossa dei perversi, una lapide ideale è posta sulla sua tomba: «Non ha commesso violenza, non ci fu inganno nelle sue parole» (versetto 9). Ma la morte non è la foce definitiva verso cui corre la vita del Servo. Anzi, la morte fa fiorire il mistero di fecondità che quel virgulto conteneva. Ora il Servo giusto contempla la luce, si sazia nella dolcezza della gloria che è il vedere Dio. «Il giusto mio servo giustificherà molti, si addosserà la loro iniquità» (versetto 11). La cornice conclusiva del carme ribalta la vicenda e presenta l’innocenza del Servo, la cui sofferenza espiatrice ha liberato gli uomini peccatori.
La sua vita, passione e morte sono state sacrificio espiatorio per noi, il suo silenzio è stato orazione esaudita, il suo dolore è stato la nostra giustificazione e riconciliazione con Dio. Per questa pagina del Secondo Isaia, allora, il dolore ha in sé una forza insospettata, una fecondità straordinaria che aiuta il compiersi della storia della salvezza. Per vie misteriose il soffrire unisce intimamente a Dio e produce al tempo stesso solidarietà salvifica coi fratelli. Apparentemente la sofferenza sembra una maledizione, in realtà essa diventa un principio di vita, come avviene per i dolori del parto (cfr. Gv 16,21).

La compagnia di Cristo
Una delle grandi figure della letteratura spirituale e filosofica del ’900 è stata certamente Simone Weil, una donna di straordinaria intensità umana, di origine israelitica, impegnata nel mondo sociale e politico, vissuta lungamente in contatto con l’esperienza cristiana e autrice di opere folgoranti. In uno di questi suoi scritti la Weil osserva: «La sola fonte di chiarezza abbastanza luminosa per illuminare il dolore è la croce di Cristo. Non importa, in quale epoca, non importa in quale Paese, dovunque ci sia un dolore, la croce di Cristo non è che la verità». Queste parole ci invitano a portare il nostro viaggio all’interno del pianeta oscuro del dolore « secondo le Scritture », fino all’ultima tappa della Bibbia, quella del Nuovo Testamento.
Durante la sua vita terrena Cristo ha messo al centro della sua attenzione proprio il mistero del dolore. Il vangelo di Marco è quasi per metà un racconto di Cristo in compagnia di malati. C’è stato un teologo, René Latourelle, che ha scritto: «Eliminare i miracoli di Gesù dai vangeli sarebbe come immaginare l’Amleto di Shakespeare senza Amleto». E i miracoli di Gesù non sono gesti spettacolari autopromozionali, destinati a sollecitare applausi e successi (quante volte Gesù impone il silenzio al malato guarito!), ma piuttosto orientati a liberare l’uomo dal male e dal dolore.
Emblematico di questa vicinanza del Cristo ai sofferenti è il suo atteggiamento nei confronti dei lebbrosi. Essi erano non solo dei malati ma degli scomunicati. Secondo le prescrizioni ufficiali della legge biblica dovevano vivere ai margini delle città, isolati dal loro passato e da ogni affetto; dovevano segnalare la loro presenza qualora sulla loro strada si fosse presentata una persona sana (Lv 14). La lebbra, infatti, era considerata – secondo la teologia « retribuzionistica » dell’Antico Testamento – frutto di una colpa gravissima di cui diventava punizione ed espiazione. Gesù, invece, spazzando via tutte queste remore, non solo si avvia sulla strada di questi « appestati », ma… Ascoltiamo la narrazione di Marco (1,41-42): «Gesù, mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: « Lo voglio, guarisci! ». Subito la lebbra scomparve ed egli guarì».
Di fronte a un morbo, che oggi potremmo comparare al grande incubo dell’Aids, Gesù non si lascia coinvolgere in sofismi religiosi, non si fa tentare da preoccupazioni artificiose di autodifesa come fanno certi cristiani benpensanti, ma è pronto subito a condividere, a curare, ad amare. E, così, davanti a Gesù sfilano poveri, malati, angosciati, persone colpite da mali morali, fisici, sociali e psichici. Per tutti egli ha una parola e un gesto di speranza, proponendo così alla sua Chiesa di essere sempre accanto a chi soffre, anzi di considerare questi «fratelli più piccoli» la realtà più preziosa del Regno di Dio.
Possiamo, allora, dire che in Gesù è Dio stesso che viene incontro all’umanità sofferente per liberarla dalla tirannia del male. Una liberazione lenta e progressiva, destinata ad approdare a quella città perfetta in cui dolore e morte non saranno più i cittadini privilegiati, ma da essa saranno espulsi. Nel ritratto della Gerusalemme celeste, simbolo del mondo che Cristo ha inaugurato e che noi dobbiamo collaborare a costruire, l’Apocalisse ci offre questo profilo: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro e tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno» (21,3-4).
Cristo, però, sperimenta non solo all’esterno, ma anche in se stesso la forza tenebrosa del dolore. Egli piange davanti alla tomba dell’amico Lazzaro; egli sa che «deve molto soffrire ed essere respinto e poi venire ucciso» (Mc 8,31). E soprattutto egli entra nella passione che è un itinerario continuo di sofferenze, è la « via dolorosa », la « via crucis » per eccellenza. È un’esperienza condotta nella solitudine, anche degli amici più cari («Non siete stati capaci di vegliare una sola ora?»), nel silenzio di Dio («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»), nella lotta fisica dell’agonia (il sudore di sangue), nelle torture (flagellazione e incoronazione di spine), nella crocifissione, nella catastrofe finale della morte.
Un personaggio di un film di Bergman, il sagrestano di Luci d’inverno, al pastore in crisi di fede ricorda la scena della sofferenza di Cristo: «Pensi al Getsemani, signor pastore. Tutti i discepoli si erano addormentati. Non avevano capito nulla. Ma non era ancora il peggio. Quando il Cristo fu inchiodato sulla croce e vi rimase, tormentato dalle sofferenze, esclamò: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». Il Cristo fu preso da un grande dubbio nei momenti che precedettero la sua morte. Dovette essere quella la più crudele delle sue sofferenze. Voglio dire il silenzio di Dio». Eppure era proprio passando attraverso il dolore e la morte, qualità « impossibili » a Dio, che Cristo diventava veramente uno di noi e poteva liberare e salvare attraverso la sua divinità la nostra miseria, il nostro limite, il nostro male.
In questa luce il dolore diventa il segno supremo d’amore e di fraternità del Cristo nei confronti dell’uomo. Non per nulla egli aveva ripetuto durante la sua vita terrena: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). È illuminante, al riguardo, quanto scriveva il teologo Dietrich Bonhoeffer il 16 luglio 1944 nel lager di Flossenburg ove sarebbe stato, di lì a poco, impiccato: «Dio è impotente e debole nel mondo e così e soltanto così rimane con noi e ci aiuta… Cristo non ci aiuta in virtù della sua onnipotenza ma in virtù della sua sofferenza». La frase è certamente paradossale, ma coglie una dimensione fondamentale dell’Incarnazione: Cristo ci aiuta, capisce il nostro dolore, lo può fare perché l’ha incontrato e l’ha vissuto come noi. E questa solidarietà del Figlio di Dio è efficace e liberatrice.
In tale luce è comprensibile la dichiarazione di Paolo: «A voi è stata concessa la grazia non solo di credere in lui, ma anche di patire per lui» (Fil 1,29). Anzi, l’apostolo può scrivere questa frase sorprendente: «Io gioisco nelle sofferenze che sopporto per voi e completo nel mio corpo ciò che manca dei patimenti di Cristo per il suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Questa dichiarazione non va intesa, ovviamente, nel senso che la passione di Cristo sia incompleta o che possa mancare qualcosa alla sua croce: la morte e la risurrezione di Gesù sono, infatti, l’evento definitivo della salvezza. Il credente soffre in comunione con Cristo, nel suo Corpo che è la Chiesa, e anche il suo dolore acquista valore redentivo: la redenzione, infatti, pur compiuta nella morte e nella gloria di Cristo, si distende nel tempo e nello spazio dell’umanità.

Le lacrime nell’otre di Dio
Al termine di questo lungo viaggio nella galleria oscura della sofferenza, facciamo risuonare le Beatitudini di Cristo. Esse sembrano una voce lontana dal groviglio della vita, delle paure e delle sofferenze: «Beati gli afflitti, perché saranno consolati… Beati voi che ora piangete, perché riderete» (Mt 5,4; Lc 6,21). Queste parole, però, non vogliono essere una facile e illusoria consolazione. Come diceva il poeta francese Paul Claudel: «Dio non è venuto a spiegare la sofferenza: è venuto a riempirla della sua presenza». Le spiegazioni filosofiche della realtà del dolore sono spesso sterili. Cristo non è venuto a giustificare lo scandalo del male inquadrandolo in un sistema di pensiero convincente. Egli è venuto a condividere il nostro limite, assumendolo in sé.
Ma, proprio perché egli è il Figlio di Dio, attraverso il dolore e la morte, ha lasciato in essi un seme di divinità, di eternità. L’amore di Dio non ci protegge da ogni sofferenza ma ci sostiene in ogni sofferenza. L’esperienza del dolore può essere disperante e angosciante, anche perché è come essere in una prigione che ci costringe e ci soffoca.

D. Bonhoeffer con dei ragazzi (1932).
L’ingresso del Figlio di Dio in quel carcere segna una svolta: egli non elimina la nostra condizione di creature fragili e limitate, ma apre la porta e ci prende per mano per condurci oltre quel carcere, cioè oltre la sofferenza e la morte. La fede ha il compito di svelarci ciò che attende il nostro soffrire e morire: non è il gorgo oscuro del nulla e del non-senso, ma la liberazione definitiva del male, come ci ricorda l’Apocalisse (21,4). Ora, durante il cammino della storia, il Signore «raccoglie nell’otre suo le lacrime: non sono forse scritte nel suo libro?» (Sal 56,9). Ci è, quindi, solidale e compagno di strada, in attesa di condurci verso la nuova creazione che redime ogni male. Noi non dobbiamo «avere speranza in Cristo soltanto in questa vita», perché, come osserva Paolo, «saremmo da compiangere più di tutti gli uomini»; dobbiamo, invece, sperare nella meta della storia, segnata già dalla Pasqua di Cristo: là «Dio sarà tutto in tutti» (1 Cor 15,19.28).
Tutti coloro che, durante l’itinerario della storia, curano i malati e sono vicini a chi soffre non fanno che anticipare la meta del Regno di Dio, la costruiscono con le loro mani, accanto alle mani decisive di Dio. Sostenere il sofferente, anche senza cancellare pienamente il dolore, è una continuazione dell’opera di Cristo ed è un’anticipazione della liberazione offerta dal Regno. Tergere le lacrime dagli occhi dei sofferenti è compiere lo stesso gesto che Dio riserverà alla fine del tempo (Is 25,8; Ap 21,4). È in questa luce che a tutti costoro è riservata la citata benedizione di Cristo re: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,34-36).

Gianfranco Ravasi

This is « Detail of the Temptation of Christ », by J Kirk Richards.

This is
http://johnbarneybom.blogspot.it/2012/03/righteousness-of-our-redeemer-2-nephi-2.html

Publié dans:immagini sacre |on 7 mars, 2014 |Pas de commentaires »

SI È FATTO POVERO PER ARRICCHIRCI CON LA SUA POVERTÀ ( 2 COR 8,9)

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/3-QuaresimaA-2014/Omelie-Quaresima/01-Dom-Quaresima-A-2014/09-1aDomenica-A-2014-MM.htm

9 MARZO 2014| 1A DOMENICA A – QUARESIMA | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

SI È FATTO POVERO PER ARRICCHIRCI CON LA SUA POVERTÀ ( 2 COR 8,9)

All’inizio del nostro cammino quaresimale ci è utile ascoltare, almeno in parte, la parola che Papa Francesco ha inviato nel suo Messaggio.
Cari fratelli e sorelle,
in occasione della Quaresima, vi offro alcune riflessioni, perché possano servire al cammino personale e comunitario di conversione.
Prendo lo spunto dall’espressione di san Paolo: « Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà » (2 Cor8,9). L’Apostolo si rivolge ai cristiani di Corinto per incoraggiarli ad essere generosi nell’aiutare i fedeli di Gerusalemme che si trovano nel bisogno. Che cosa dicono a noi, cristiani di oggi, queste parole di san Paolo? Che cosa dice oggi a noi l’invito alla povertà, a una vita povera in senso evangelico?

la grazia di cristo
Anzitutto ci dicono qual è lo stile di Dio. Dio non si rivela con i mezzi della potenza e della ricchezza del mondo, ma con quelli della debolezza e della povertà: « Da ricco che era, si è fatto povero per voi … ». Cristo, il Figlio eterno di Dio, uguale in potenza e gloria con il Padre, si è fatto povero; è sceso in mezzo a noi, si è fatto vicino ad ognuno di noi; si è spogliato, « svuotato », per rendersi in tutto simile a noi (cfr Fil 2,7; Eb 4,15). È un grande mistero l’incarnazione di Dio! Ma la ragione di tutto questo è l’amore divino, un amore che è grazia, generosità, desiderio di prossimità, e non esita a donarsi e sacrificarsi per le creature amate. La carità, l’amore è condividere in tutto la sorte dell’amato.
L’amore rende simili, crea uguaglianza, abbatte i muri e le distanze. E Dio ha fatto questo con noi. Gesù, infatti, « ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato » (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 22).
Lo scopo del farsi povero di Gesù non è la povertà in se stessa, ma – dice san Paolo – « …perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà ». Non si tratta di un gioco di parole, di un’espressione ad effetto! E’ invece una sintesi della logica di Dio, la logica dell’amore, la logica dell’Incarnazione e della Croce.
Dio non ha fatto cadere su di noi la salvezza dall’alto, come l’elemosina di chi dà parte del proprio superfluo con pietismo filantropico. Non è questo l’amore di Cristo! Quando Gesù scende nelle acque del Giordano e si fa battezzare da Giovanni il Battista, non lo fa perché ha bisogno di penitenza, di conversione; lo fa per mettersi in mezzo alla gente, bisognosa di perdono, in mezzo a noi peccatori, e caricarsi del peso dei nostri peccati. E’ questa la via che ha scelto per consolarci, salvarci, liberarci dalla nostra miseria.
Ci colpisce che l’Apostolo dica che siamo stati liberati non per mezzo della ricchezza di Cristo, ma per mezzo della sua povertà. Eppure san Paolo conosce bene le « impenetrabili ricchezze di Cristo » (Ef3,8), « erede di tutte le cose » (Eb 1,2).
Che cos’è allora questa povertà con cui Gesù ci libera e ci rende ricchi? È proprio il suo modo di amarci, il suo farsi prossimo a noi come il Buon Samaritano che si avvicina a quell’uomo lasciato mezzo morto sul ciglio della strada (cfr Lc 10,25ss). Ciò che ci dà vera libertà, vera salvezza e vera felicità è il suo amore di compassione, di tenerezza e di condivisione.
La povertà di Cristo che ci arricchisce è il suo farsi carne, il suo prendere su di sé le nostre debolezze, i nostri peccati, comunicandoci la misericordia infinita di Dio…
La nostra testimonianza
Ad imitazione del nostro Maestro, noi cristiani siamo chiamati a guardare le miserie dei fratelli, a toccarle, a farcene carico e a operare concretamente per alleviarle… Possiamo distinguere tre tipi di miseria: la miseria materiale, la miseria morale e la miseria spirituale.
La miseria materiale è quella che comunemente viene chiamata povertà e tocca quanti vivono in una condizione non degna della persona umana: privati dei diritti fondamentali e dei beni di prima necessità… Nei poveri e negli ultimi noi vediamo il volto di Cristo; amando e aiutando i poveri amiamo e serviamo Cristo… Pertanto, è necessario che le coscienze si convertano alla giustizia, all’uguaglianza, alla sobrietà e alla condivisione.
Non meno preoccupante è la miseria morale, che consiste nel diventare schiavi del vizio e del peccato. Quante famiglie sono nell’angoscia perché qualcuno dei membri – spesso giovane – è soggiogato dall’alcol, dalla droga, dal gioco, dalla pornografia! Quante persone hanno smarrito il senso della vita, sono prive di prospettive sul futuro e hanno perso la speranza!… Questa forma di miseria, che è anche causa di rovina economica, si collega sempre alla miseria spirituale, che ci colpisce quando ci allontaniamo da Dio e rifiutiamo il suo amore…
Il Vangelo è il vero antidoto contro la miseria spirituale: il cristiano è chiamato a portare in ogni ambiente l’annuncio liberante che esiste il perdono del male commesso, che Dio è più grande del nostro peccato e ci ama gratuitamente… Il Signore ci invita ad essere annunciatori gioiosi di questo messaggio di misericordia e di speranza!
È bello sperimentare la gioia di diffondere questa buona notizia, di condividere il tesoro a noi affidato, per consolare i cuori affranti e dare speranza a tanti fratelli e sorelle avvolti dal buio. Si tratta di seguire e imitare Gesù, che è andato verso i poveri e i peccatori come il pastore verso la pecora perduta, e ci è andato pieno d’amore. Uniti a Lui possiamo aprire con coraggio nuove strade di evangelizzazione e promozione umana.
Cari fratelli e sorelle, questo tempo di Quaresima trovi la Chiesa intera disposta e sollecita nel testimoniare a quanti vivono nella miseria materiale, morale e spirituale il messaggio evangelico, che si riassume nell’annuncio dell’amore del Padre misericordioso, pronto ad abbracciare in Cristo ogni persona…
La Quaresima è un tempo adatto per la spogliazione; e ci farà bene domandarci di quali cose possiamo privarci al fine di aiutare e arricchire altri con la nostra povertà…
Lo Spirito Santo, grazie al quale « [siamo] come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto » (2 Cor 6,10), sostenga questi nostri propositi e rafforzi in noi l’attenzione e la responsabilità verso la miseria umana, per diventare misericordiosi e operatori di misericordia.
Con questo auspicio, assicuro la mia preghiera affinché ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra con frutto l’itinerario quaresimale, e vi chiedo di pregare per me.
Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca.

Mario MORRA SDB |

9 MARZO 2014 – 1A DOMENICA – QUARESIMA – OMELIA DI APPROFONDIMENTO

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/3-QuaresimaA-2014/Omelie-Quaresima/01-Dom-Quaresima-A-2014/11-1aDomenica-A-2014-DM.htm

9 MARZO 2014 | 1A DOMENICA A | QUARESIMA | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

1ª DOMENICA DI QUARESIMA

La 1ª domenica di Quaresima pone l’uomo di fronte a un bivio.
Adamo ed Eva hanno scelto la strada indicata dal « serpente ». Cristo, nuovo Adamo, sceglie quella indicata dal Padre.
O la parola di Dio o la parola del mondo.
Tempo di verifica, tempo di silenzio, di preghiera e di ascolto della Parola, di digiuno, di auto-disciplina, per una fedeltà al progetto di Dio, in vista di un traguardo di libertà e di festa.

1ª LETTURA: Gn 2,7-9; 3,1-7

L’autore biblico affronta con lucidità il problema del peccato « originale », il problema del progetto di Dio sul-l’uomo, il problema dell’origine del male.
C’è un albero in Eden che l’uomo non deve toccare, l’albero della conoscenza del bene e del male. È la facoltà di decidere ciò che è bene e ciò che è male, l’autonomia morale: attentato alla sovranità di Dio.
L’uomo vuole decidere da sé quale sia il suo bene e il suo male.
Entra in azione « il serpente »: « il », articolo determinativo! È l’avversario.
Il peccato è il rifiuto dell’obbedienza: è qui il punto. Non voler dipendere. Io sono « mio »: io devo decidere. Un Dio che mi scompiglia i piani mi dà fastidio. Discorso sempre di attualità, che a volte si camuffa, si veste di saggezza, di « buon senso ». « Il serpente era la più astuta di tutte le bestie… ».
Mettere Dio fuori della storia, o magari metterlo sul trono, onorarlo anche, purché stia lontano.
Il Cristianesimo invece afferma la sovranità di Dio nella storia, predica un Dio che scende dal trono e si china, che passa nelle strade, bussa alle porte, mette il dito tra moglie e marito, un Dio che decide ciò che è bene e ciò che è male.
È la parola di Dio che ci guida nelle scelte concrete, quotidiane.
Ogni liberazione umana se non porta al servizio di Dio (tema dell’Esodo!) conduce a nuove schiavitù. Senza adorazione di Dio non c’è libertà! Il peccato è schiavitù.
« Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi ». Su questa nudità e sulla vergogna si è discusso molto.
Ma « nudità » nella Bibbia che cosa significa? La veste è simbolo di dignità, dunque la nudità è simbolo di miseria e umiliazione. L’uomo, nel peccato, davanti al suo limite, si vergogna.
Il peccato infrange l’armonia tra l’uomo e la donna e tra l’umanità e la creazione. Nell’armonia l’uomo accoglie il suo limite, la sua dipendenza da Dio, ama il suo « nulla »
(S. Teresina), non si vergogna, e riceve da Dio un abito nuovo!
Il Salvatore riporterà l’uomo alla capacità di cantare: « L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva ».

VANGELO: Mt 4,1-11

Tema classico della prima domenica di Quaresima: le tentazioni nel deserto di Giuda. Ogni evangelista, naturalmente, presenta il racconto secondo il suo stile inconfondibile.
L’accento in Matteo viene posto sulle citazioni bibliche tratte dal Deuteronomio, con le quali Gesù controbatte Satana, dandoci una lezione sul comportamento da tenere nel combattimento contro la tentazione.
Nella prima scena cita Dt 8,3. Satana propone un messianismo « terrenista » legato alla materialità delle cose.
« Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio »: è la risposta di Gesù. Questo non significa mettere accanto al problema del pane anche un po’ di parola di Dio. Non dice « ma anche » di parola di Dio. Dice: « ma di ogni parola ».
L’uomo vivrà di parola di Dio. E quando gli uomini vivranno di parola di Dio, ci sarà anche il pane per tutti.
Nella seconda scena Gesù cita Dt 6,16, respingendo la tentazione di un messianismo spettacolare, magico.
La terza scena richiama Dt 6,13: Gesù rifiuta ogni prestigio e potere, e sceglie la via dell’umiltà e dell’amore.
Gesù vive l’esperienza del suo popolo, che compie le Scritture antiche.
È il vero Mosè che conduce il nuovo Israele alla Terra Promessa.
Gesù è tentato, come Israele, nel deserto; ma Gesù, a differenza del suo popolo, esce dalla lotta vincitore.
Questi quaranta giorni sono lo schema di tutta la vita di Gesù. La vittoria decisiva sulla potenza delle tenebre sarà data dalla Morte-Risurrezione.
Il deserto, nelle Scritture, è il luogo dell’incontro con Dio, ma è anche il luogo della prova. Satana si aggira nel deserto, come un leone ruggente, dirà la 1ª lettera di Pietro.
La vita dell’uomo è questo deserto di quaranta giorni.
Quaranta è un numero imperfetto, indica la provvisorietà, un tempo di passaggio.
Tra l’uscire e l’entrare, tra l’Egitto e la Terra, c’è il deserto, tempo intermedio, non definitivo, di prova, di cammino, tempo di terapia.
Subito allora si presenta il diavolo, il serpente antico.
Gesù condivide in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana; dunque è tentato.
È messo davanti a un bivio: o la via facile del successo, del prestigio, della potenza, proposta dal diavolo, o quella difficile dell’umiltà e del dolore, quella secondo la volontà del Padre.
Gesù sceglie l’ultima, ritenendo tentazione tutto ciò che lo distoglierà dalla Passione. Pietro si sentirà chiamare « satana », tentatore, quando vorrà opporsi a Gesù che camminerà verso Gerusalemme incontro alla croce.
Tutte le tentazioni si riducono al bivio: volontà di Dio
o volontà dell’uomo, adorazione di Dio o adorazione del-
l’uomo. Non si può servire a due padroni. L’uomo, che lo voglia
o no, è un servo: si tratta solo di scegliere di chi si vuole essere servi. L’annuncio evangelico sta qui: se servi Dio diventi libero, se servi il tuo « io » diventi schiavo.

Cristo non è un semplice collega, ma è il Salvatore, il Liberatore.

riflessioni di « fraternita’ di nazareth,
macchetta domenico

Apostle Paul. Russian Orthodox icon from the beginning of the 19th century. Fragment from the church iconostasis (deesis row). Northern Russia …

Apostle Paul. Russian Orthodox icon from the beginning of the 19th century. Fragment from the church iconostasis (deesis row). Northern Russia  ... dans IMMAGINI (DI SAN PAOLO, DEI VIAGGI, ALTRE SUL TEMA)
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IL NASCONDIMENTO DI DIO NELLA TRADIZIONE EBRAICA

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IL NASCONDIMENTO DI DIO NELLA TRADIZIONE EBRAICA

DI FEDERICO DAL BO

In un celebre aforisma della Gaia Scienza, Nietzsche descrive un folle che è alla ricerca di Dio con una lanterna:

L’uomo folle. – Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio?”
(F. Nietzsche, La Gaia Scienza, § 125)

Possiamo interrompere la citazione a questo punto, prima del famoso annuncio che “Dio è morto”. Infatti, il testo offre già lo spunto per fare alcune riflessioni introduttive sul modo in cui è necessario affrontare il nostro tema: il nascondimento di Dio nella teologia ebraica classica e contemporanea.
Con questo aforisma Nietzsche gioca sottilmente con la tradizione filosofica per formulare un principio decisivo per la teologia. Osserviamo innanzitutto lo stile di questo aforisma. Nietzsche riprende il famoso aneddoto sul cinico Diogene che “cerca l’uomo” (ovvero, cerca l’“idea platonica” di uomo), mentre trova solo “uomini concreti”. In effetti, Nietzsche rovescia il senso dell’aneddoto di Diogene. Vediamo infatti che colui che cerca Dio con la lanterna non è un filosofo, bensì un folle, deriso e incompreso dagli uomini del mercato. L’ilarità che il folle suscita non rivela solo l’incapacità da parte della gente comune di comprendere il paradosso dell’azione del folle. L’ilarità suscitata dal cercare Dio “con la lanterna” rivela anche un presupposto fondamentale per il nostro tema: sebbene Dio si sia rivelato all’uomo, la Sua esistenza, ovvero il segreto della Sua esistenza, rimane nascosto e deve essere oggetto di un’indagine specifica. In altri termini, proprio come è ridicolo cercare Dio “con la lanterna,” perché non è possibile “trovare” Dio come si potrebbe trovare “un oggetto concreto” nel mondo – così, allo stesso modo, il fatto che Dio “si nasconda” non può venire assimilato alla semplice “assenza” di un oggetto mondano. Piuttosto, ciò che Nietzsche suggerisce a proposito del “nascondimento di Dio” è che sia necessario riferirsi all’“idea” che noi abbiamo del divino, ma non alla “presenza effettiva” di Dio in quanto tale.
Il “nascondimento di Dio” non è la semplice contraddizione dell’idea di “Dio rivelato ma è connesso in qualche modo alla Sua “rivelazione”. In effetti, se si osserva come è stato interpretato il fatto che il Dio della Rivelazione “si nasconde” agli occhi dell’uomo, si intraprende di fatto un percorso tra la teologia ebraica classica fino alla teologia ebraica contemporanea dopo la Shoah.

Il Nascondimento di Dio nella Bibbia: Deut 31:17-18
Vi sono molti notevoli passaggi biblici in cui si manifesta la dialettica tra rivelazione e nascondimento: ovvero ciò possiamo chiamare la visione contraddetta (Roberto Fornara).
Il “nascondimento di Dio” viene comunemente designato in ebraico con l’espressione rabbinica hester panim: “il nascondimento del Volto”. Questa espressione, formulata nella letteratura post-biblica, deriva da un famoso passo della Scrittura in cui Dio profetizza ciò che accadrà ad Israele che si abbandonerà all’idolatria, dopo la guida di Mosè e Giosuè:
In quel giorno, la mia ira si accenderà contro di lui; io li abbandonerò, nasconderò loro il volto e saranno divorati. Lo colpiranno malanni numerosi e angosciosi e in quel giorno dirà: Questi mali non mi hanno forse colpito per il fatto che il mio Dio non è più in mezzo a me? Io, in quel giorno, sicuramente nasconderò il volto a causa di tutto il male che avranno fatto rivolgendosi ad altri dèi.
(Deut 31:17-18).
Prima di procedere con l’esegesi al testo, è importante osservare la struttura retorica di questi versetti.
Innanzitutto, Dio minaccia per due volte di “nascondere il volto”. La prima volta, la minaccia è generica: “io li abbandonerò, nasconderò loro il volto e saranno divorati” (Deut 31:17). La seconda volta, la minaccia è pronunciata in modo enfatico e viene giustificata in modo assai preciso come conseguenza dell’idolatria di Israele: “in quel giorno, sicuramente nasconderò il volto a causa di tutto il male che avranno fatto rivolgendosi ad altri dèi” (Deut 31:18). Va notato, inoltre, che nella seconda minaccia si ricorre all’uso di una doppia forma verbale, tipica dell’ebraico classico: haster astir, letteralmente “nascondere, mi nasconderò”. L’uso di una doppia forma verbale è un artificio tipico dell’ebraico classico per intensificare un’azione. In questo caso, la doppia forma haster astir potrebbe venire resa con una circonlocuzione: “sicuramente mi nasconderò”. In seguito, vedremo come diversi esponenti della teologia ebraica abbiano interpretato questa forma verbale non come una forma retorica, bensì come l’indicazione di una doppia azione da parte di Dio.

Il Nascondimento di Dio come punizione: Rashi, Hezechia ben Manoah e Maimonide
Molti commentatori biblici dell’ebraismo medievale, soprattutto quelli che aderiscono ad un’interpretazione “più letterale” del testo biblico, leggono in continuità le due minacce di “nascondere il volto”. Assimilano la ripetizione ad un espediente retorico e considerano il “nascondimento del volto” come un’unica forma di punizione per l’infedeltà di Israele. Nonostante l’apparente semplicità di questa interpretazione, la maggior parte di questi esegeti ha ritenuto necessario fare alcune precisazioni, in effetti molto rilevanti per il nostro tema.
La prima precisazione, per bocca del grande esegeta francese medievale Rashi riguarda la capacità di Dio di nascondersi ma di continuare a “vedere” ciò che accade a Israele. Rashi commenta la prima minaccia e scrive:
Nasconderò il mio volto: come se non vedessi le loro sofferenze
(Rashi su Deut 31:17)
Questa precisazione ha come primo scopo evitare di confondere il “nascondimento del volto” come una forma di “disinteresse” di Dio per ciò che accade nel mondo. Conformemente alla metafora antropomorfica, il nascondimento del volto implica la copertura degli occhi di Dio; tuttavia, come Rashi rimarca esplicitamente, questo non significa che Dio “non veda” ciò che accade; il disinteresse da parte di Dio è evidentemente una finzione: “come se”.
La seconda precisazione, per bocca di un altro grande esponente della scuola esegetica francese, Hezechia ben Manoah, associa il “nascondimento del volto” alla necessità della punizione. Hezechia ben Manoah commenta la seconda minaccia e scrive:
E sicuramente nasconderò il mio volto: questa è una via obbligata, quando qualcuno, il cui figlio ha peccato contro di lui, dice di fustigarlo, ma non davanti a lui, a causa del suo amore per lui
(Huzzekani su Deut 31:18)
Rispetto alla interpretazione di Rashi, questo commento si arricchisce di ulteriori aspetti, che saranno decisivi nello sviluppo della teologia ebraica successiva, in particolare quella successiva alla Shoah. Hezechia ben Manoah concorda con Rashi nel considerare il “nascondimento del volto” una forma di punizione per l’infedeltà di Israele.
Tuttavia, nell’economia della metafora patriarcale, Hezechia ben Manoah fa due osservazioni importanti: da un lato, ammette che Dio mal sopporterebbe “di vedere” Israele soffrire per la punizione; dall’altro, ammette che siano altri, non Dio stesso, ad infliggere questa punizione – che viene considerata, tuttavia, necessaria. Questa forma di “punizione indiretta” viene precisata in termini filosofici da Maimonide nella sua celebre opera Guida ai perplessi:
Ora è chiaro che di questo ‘nascondere la faccia’ siamo noi stessi la causa, e che siamo noi stessi ad aver prodotto questa separazione […] Dunque, ti è ormai chiaro che la causa del fato che un individuo umano sia abbandonato al caso, e venga permesso che egli sia mangiato come le bestie, sta nel fatto che egli resta nascosto a Dio.
(Maimonide, Guida ai Perplessi, 3:51 [451, 15])
Maimonide accorda la visione del “Dio vivente” con una concezione aristotelica del divino. Secondo Maimonide, Dio non punisce Israele direttamente, o “di propria mano”; piuttosto, Dio ritira la “provvidenza” (hasgahah) da Israele; di conseguenza, Israele viene consegnato al “caso” (miqreh), ovvero alle vicissitudini della storia. Si tratta in effetti di un compromesso tra le esigenze filosofiche di ascendenza aristotelica e la dottrina biblica del “nascondimento del volto”. Da questo punto di vista, Maimonide non sembra accogliere ciò che l’esegeta Hezechia ben Manoah implicitamente sosteneva: ovvero, una difformità all’interno della vita divino.

Il Nascondimento di Dio come dialettica nel divino: Nachmanide
A differenza degli esegeti considerati in precedenza, Nachmanide è il primo ad interpretare la ripetizione della minaccia nel testo del Deuteronomio come il segno di una duplice azione da parte di Dio. Nachmanide non ritiene che la minaccia espressa in Deut 31:17 e la minaccia espressa in Deut 31:18 siano semplicemente un crescendo retorico, culminante nell’uso della doppia forma verbale haster astir, “sicuramente mi nasconderò”. Nachmanide ritiene invece che Dio compia due diversi “nascondimenti del volto”, come viene illustrato nel suo lungo commento al testo biblico:
E nasconderò il mio volto: un’altra volta ancora. Poiché Israele aveva ponderato da solo sul fatto che aveva peccato contro Dio e che, dal momento che Dio non era vicino al loro, ha trovato tutte questi mali, si era meritato la Grazia del Signore che li aveva aiutati e li aveva salvati quando avevano negato [Dio] nell’idolatria, ma concernendo il fatto che [Israele] disse: “Eccomi pronto a entrare in giudizio con te, perché hai detto: Non ho peccato!” (Ger 2:35), allora [Dio] disse: a causa dei grandi mali che hanno compiuto per dedicarsi all’idolatria nasconderò ancora il volto da loro. Non come lo nascosi la prima volta, quando nascosi il volto della misericordia e trovarono grandi mali e sofferenze, solo che [la seconda volta] si troveranno nel nascondimento del volto della redenzione ma si troveranno nella sicurezza delle ali della misericordia: “Nonostante tutto questo, quando saranno nel paese dei loro nemici, io non li rigetterò e non mi stancherò di essi fino al punto d’annientarli del tutto e di rompere la mia alleanza con loro; poiché io sono il Signore loro Dio” (Lev 26:44) fino a quando non avranno un vero rimorso e una confessione (widdui) piena e un pentimento completo, come è ricordato sopra: “se ti convertirai al Signore tuo Dio e obbedirai alla sua voce, tu e i tuoi figli, con tutto il cuore e con tutta l’anima, secondo quanto oggi ti comando” (Deut 30:2).
(Nachmanide su Deut 31:18).
Questa ricchissima interpretazione della seconda minaccia di “nascondere il volto” manifesta una concezione piuttosto articolata della vita del divino.
A differenza degli esegeti precedenti, Nachmanide ritiene che Dio possa nascondere ripetutamente il proprio volto, pur senza consegnare la vittima alla distruzione. Un ripetuto “nascondimento del volto” può avvenire fino a quando non avvenga un vero pentimento da parte del peccatore. Per quanto riguarda il testo del Deuteronomio, Nachmanide ritiene che la prima minaccia formulata in Deut 31:17 indichi un primo “nascondimento del volto”: si tratta del nascondimento della misericordia divina. In effetti, già una prima forma di pentimento da parte del peccatore sembra garantire il ritorno della “Grazia del Signore,” a due condizioni: che il colpevole abbandoni l’idolatria ma soprattutto che non protesti la sua innocenza se invece è colpevole. In questo caso, allora, Dio può procedere con un secondo “nascondimento del volto” come viene evidenziato, secondo Nachmanide, dalla seconda minaccia formulata in Deut 31:18. Questa volta Dio cela il volto della redenzione, ma non cela il volto della misericordia.
La distinzione tra due tipi di “nascondimento del volto” è particolarmente interessante e originale. Sembra alludere a due tipi di punizione: l’una di carattere generico, l’altra di carattere politico. In effetti, sembra che Nachmanide concepisca “il volto della misericordia” come la capacità divina di perdono e di aiuto: quando il volto della misericordia è nascosto, si cade in una serie di difficoltà e sofferenze, come sono state descritte sopra. Invece, sembra che Nachmanide concepisca “il volto della redenzione” come la capacità divina di permettere l’indipendenza storica e politica di Israele: quando il volto della redenzione è nascosto, Israele è soggetto alla dominazione straniera, sebbene non sia destinato alla distruzione totale da parte dei suoi nemici, perché resta sempre al di sotto delle ali della misericordia.

Il Nascondimento di Dio come antropologia
La teologia hassidica interpreta il nascondimento di Dio come una parte integrante del rapporto con il divino. Tanto la presenza quanto l’assenza di Dio, tanto la parola di Dio quanto il silenzio di Dio richiedono infatti un determinato atteggiamento religioso da parte del pio. Se Dio si manifesta nella Sua pienezza e comunica all’uomo, il pio deve aderire immediatamente ai principi della vita religiosa; se Dio invece si nasconde e rimane in silenzio, il pio deve cercare le ragioni di quest’assenza per ricostruire un rapporto religioso. Si tratta quindi di un atteggiamento “integralista” rispetto al divino, nel senso preciso che ogni aspetto della relazione con il divino è integralmente positivo.
La teologia hassidica si richiama in parte alla visione dei “due nascondimenti” già formulata da Nachmanide; in aggiunta, la teologia hassidica rinnova soprattutto l’interpretazione del secondo “nascondimento del volto”. La teologia hassidica si richiama alla doppia forma verbale haster astir, comunemente resa con la circonlocuzione “sicuramente mi nasconderò”. Diversamente da altri esegeti, la teologia hassidica interpreta questa doppia forma verbale come una forma riflessiva. La doppia forma vebale haster astir, letteralmente “nascondere, mi nasconderò”, indica un atto riflessivo del nascondimento da parte di Dio: ovvero, l’atto di nascondere il fatto di essere nascosto. Da un lato, quindi, c’è il nascondimento semplice, annunciato dal versetto: “io li abbandonerò, nasconderò loro il volto e saranno divorati” (Deut 31:17). Dall’altro lato c’è una più complessa forma di nascondimento, introdotta dalla doppia forma verbale hastir aster, convenzionalmente tradotta, come abbiamo già visto: “in quel giorno, sicuramente nasconderò il volto” (Deut 31:18). La teologia hassidica piuttosto interpreta questa espressione in modo riflessivo, per cui il versetto può venire tradotto più o meno così: “in quel giorno, nasconderò il fatto di nascondere il volto”. Questa fondamentale comprensione del secondo “nascondimento del volto” viene sostenuta da Jacob Joseph ha-Kohen di Polonne, uno dei primi discepoli del capostipite il Ba‘al Shem Tov
Questo insegnamento, riportato da Jacob Joseph in nome del suo maestro il Ba‘al Shem Tov eleva il “nascondimento” di Dio (hasitarah) a principio ontologico fondamentale per il divino. Il “nascondimento del volto” propriamente detto è quando l’uomo non ha più percezione delle condizione essenzialmente nascosta di Dio, annunciata tra l’altro dal profesta Isaia: “tu sei davvero un Dio nascosto” (el mistatter) (Is 45:15). Questo più profondo “nascondimento del volto” consiste nel nascondimento stesso del fatto di essere nascosto. La difficoltà epistemologica di “conoscere” Dio dettata dal principio che il Signore è “un Dio nascosto” tramuta nella impossibilità esistenziale di “conoscerlo” perché Dio nasconde persino il fatto di essere nascosto. Le conseguenze di questa impossibilità esistenziale vengono giudicate in diversi modi dalla teologia hassidica. La giustificazione per questo mutamento di condizione è pienamente antropologico: quando Dio si cela autenticamente, nascondendo il fatto stesso di nascondersi, Dio si sottrae agli occhi di coloro che sono spiritualmente incapaci di comprenderLo.

Il Nascondimento di Dio dopo la Shoah
Queste interpretazioni del “nascondimento di Dio” sono varianti più o meno differenti del medesimo principio teologico, esposto originariamente nella Scrittura: Dio è presente come un padre di fronte ad Israele e può punire Israele nascondendo il proprio volto. Questo principio teologico ha offerto per centinaia d’anni una complessa teodicea: ovvero, una giustificazione articolata della bontà assoluta di Dio nonostante la contemporanea presenza del male nel mondo. In termini molto convenzionali, si può dire che il “nascondimento del volto” replichi uno dei principi fondamentali della dottrina del “delitto e castigo” nella Scrittura: quando l’uomo pecca, viene punito da Dio, proprio come un figlio viene punito dal padre quando disobbedisce.
Questo principio teologico è entrato definitivamente in crisi dopo la tragedia della Shoah e lo sviluppo di una teologia ebraica non ortodossa. La crisi di questo principio teologico non va confuso con altre forme di contestazione del concetto di “Dio punitore”, già testimoniate, ad esempio, negli scritti sapienziali della Scrittura, come il Libro di Giobbe, l’Ecclesiaste e i Proverbi. La crisi di questo principio teologico costituisce un vero e proprio “cambiamento di paradigma,” per usare un’espressione del filosofo della scienza Thomas Kuhn; oppure, se vogliamo richiamarci al passo di Nietzsche citato, possiamo dire che con la Shoah “Dio è morto”. Questo cambiamento di paradigma comporta un cambiamento delle assunzioni basilari condivise da una comunità, in questo caso: la comunità di intellettuali religiosi appartenenti alla confessione ebraica. All’interno della cosiddetta “teologia dopo Auschwitz” che non può essere esposta qui per ovvie questioni di brevità, si segnalano in particolare le posizioni “eterodosse” di alcuni teologi che hanno contestato il fondamento patriarcale della dottrina del nascondimento di Dio.
Accanto ad esponenti della cosiddetta “neo-Ortodossia” (Ignaz Maybaum, Emil Frankenheim, Eliezer Berkovits e Normal Lamm) si segnalano in particolare la produzione di tre teologi ebrei che sostengono che la Shoah abbia determinato la fine della millenaria teologia ebraica precedente: Eliezer Schwid, Cynthia Ozick e Melissa Raphael. Tutti questi tre autori condividono infatti il medesimo convincimento che la teodicea della teologia classica si fonda sull’idea patriarcale di un Dio “padre e padrone” che osserva, giudica e punisce. Al contrario, questi autori sostengono che la Shoah abbia compromesso la legittimità dell’uso di questo principio teologico patriarcale e, anzi, che sia necessario un nuovo paradigma teologico per parlare di Dio.
Melissa Raphael suggerisce di intendere il “nascondimento di Dio” durante la Shoah non semplicemente come un “silenzio patriarcale” di fronte all’ingiustizia e al dolore, bensì come un eclissamento del volto patriarcale di Dio stesso, in favore di una nuova “faccia” del divino, i cui tratti sono in effetti ancora da determinare. Nelle sue parole si conclude la storia centenaria del “nascondimento di Dio” quale punizione per gli empi e potenzialmente si apre la via ad una nuova teologia ebraica, consapevole del mutamento di paradigma avvenuto con la tragedia della Shoah. Si tratta tuttavia di una strada appena indicata che è ancora tutta da percorrere.

Federico Dal Bo

 

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