Archive pour mars, 2014

King David playing the harp at the beginning of the Psalms, f 14v

 King David playing the harp at the beginning of the Psalms, f 14v dans immagini sacre Westminster_Psalter_David
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Publié dans:immagini sacre |on 12 mars, 2014 |Pas de commentaires »

RINNEGARE SE STESSI ED ACCOSTARSI DOLCEMENTE A DIO – Fénelon

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RINNEGARE SE STESSI ED ACCOSTARSI DOLCEMENTE A DIO

Fénelon *

François de La Mothe-Fénelon nasce nel Périgord nel 1651. Nobile di carattere, dalla sensibilità molto delicata, riceve una formazione classica dai Gesuiti di Gahors. In seguito si prepara al sacerdozio a Parigi, a saint-Sulpice, dove impara la pedagogia dell’amore di Dio. Nel 1689 diviene istitutore del Duca di Borgogna. Verso quest’epoca incontra Mme. Guyon, la cui amicizia lo stabilisce più solidamente nel suo cammino interiore, compromettendolo però, in parte, nell’affare del quietismo. Nominato arcivescovo di Gambrai nel 1697, cadrà in disgrazia e verrà condannato da Roma. Si sottometterà e si dedicherà fino alla morte (1715) al ministero pastorale e alla predicazione. Le opere spirituali di Fénelon sono piene di puro amore di Dio verso cui ha indirizzato tutta la sua vita.
Il totale abbandono a Dio… è fonte di tranquillità e di serenità sia nei confronti del passato che dell’avvenire. Si abbia pure di noi stessi la peggiore considerazione possibile; ma ci si abbandoni ciecamente nelle braccia di Dio. La più perfetta penitenza consiste nel dimenticarsi, nel completo oblìo di noi stessi. La conversione, infatti, si realizza con la rinuncia di sé per occuparsi esclusivamente di Dio.
Questo dimenticarsi è il martirio dell’amor proprio. Preferiremmo contraddirci, condannarci, tormentare la nostra anima ed il nostro corpo, piuttosto che disinteressarci del nostro ‘io’. Dimenticarsi significa annientare il proprio egoismo, non lasciandogli risorsa e scampo alcuni. Allora il nostro cuore si allarga; ci sentiamo sollevati dal peso di noi stessi, peso che ci opprimeva; e con stupore ci rendiamo conto di quanto retta e semplice fosse la via da seguire.
Credevamo che fossero necessari sforzo e tensione ininterrotti, unitamente ad un continuo rinnovarsi di azioni e di fatti. Ci rendiamo conto, invece, che poche sono le cose da fare; è infatti sufficiente, senza neppure troppo ragionare sul passato o sul futuro, guardare Dio con fiducia, come ad un padre che ci conduce nella realtà presente, come per mano. Se per una momentanea distrazione lo dovessimo perdere di vista, non indulgiamo in essa, ma rivolgiamoci a Dio, e comprenderemo quale sia la sua volontà. Se compiamo degli errori, cerchiamo di fare una penitenza che sia un dolore tutto d’amore. Rivolgiamoci a colui dal quale ci eravamo allontanati. Se il peccato sembra orribile, l’umiliazione le ne deriva, e per la quale Dio l’ha permesso, appare buona. Le riflessioni dell’orgoglio sui nostri errori personali, sono tanto amare, inquiete e penose, quanto raccolto, pacato e sostenuto dalla fiducia è il ritorno a Dio dell’anima dopo le sue mancanze.
Sentirete, per esperienza, come questo ritorno semplice sereno, faciliterà la vostra correzione più di tutti i risentimenti nei riguardi dei vostri difetti. Siate unicamente costanti nel rivolgervi a Dio con semplicità, dal momento stesso in cui vi rendete conto della vostra mancanza. C’è poco da cavillare con voi stessi; non è con voi che dovete prendere le vostre precauzioni. Quando vi lamentate per le vostre miserie, nel vostro modo di ragionare vi vedo soli le prese con voi stessi. Povero ragionamento, dove non è Dio!
Chi vi tenderà la mano per uscire dal fango? Ne uscirete forse da soli? Eppure siete voi che vi ci siete messi
e non potete uscirne! Anzi, il pantano siete voi in persona! La vera sostanza del vostro male è di non essere capaci di uscirne da soli. Sperate forse di liberarvi da questa condizione con le vostre sole forze, alimentandovi esclusivamente I voi e nutrendo la vostra sensibilità con la vista delle vostre debolezze? Con tutti questi espedienti, non fate alo che alimentare la commiserazione che provate per voi. la lo sguardo di Dio, anche il più piccolo, calmerà assai i più il vostro cuore torturato da queste eccessive atte noni per il vostro ‘io’. Egli, con la sua presenza, fa sì che vi possiate liberare di voi, e questo è ciò che vi occorre. Uscite dunque da voi stessi, e sarete in pace. Ma in che modo? on dovete fare altro che rivolgervi a Dio ed accostarvi dolcemente a lui e, con costanza, formare a poco a poco l’abitudine a ricorrere a lui tutte le volte che vi rendete conto di esservi da lui stesso allontanati.

* Instructions et avis sur divers points de la morale et de la perfection chrétienne, XIV: in « Oeuvres de Fénelon», voI. XVIII. Lebel, Parigi 1823, pp. 264-267.

LETTERA AGLI EFESINI: IN CONTEMPLAZIONE DEL MISTERO DI CRISTO UNICO SIGNORE.

http://www.dossetti.com/attivita/meditazioni/091103uncircuitodibenedizione.html

LETTERA AGLI EFESINI: IN CONTEMPLAZIONE DEL MISTERO DI CRISTO UNICO SIGNORE.

UN CIRCUITO DI BENEDIZIONE

meditazione di Pino Stancari – 3 novembre 2009 – Primo incontro del ciclo 2009-2010

Gli incontri con il P. Pino Stancari S.J. si svolgono nel primo martedì di ogni mese a Roma presso l’Associazione Maurizio Polverari, in via Torelli Viollier, 132 A/3. Hanno inizio alle 19 e terminano alle 20.30. E’ disponibile un garage privato all’inizio della via.

Il ciclo 2009-2010 è dedicato alla lettura della Lettera agli Efesini, a cui è strettamente connessa la Lettera ai Colossesi.

L’esperienza della carcerazione diviene per Paolo occasione propizia per volgere Il suo ministero apostolico in una prospettiva di valore propriamente contemplativo. La rivelazione Del “mistero” di Dio gli insegna a ricapitolare tutto e tutti nell’appartenenza alla signoria di Cristo.
Esprimendo la gioia incontenibile che impregna tutta la sua fatica pastorale, Paolo è in grado di cogliere i rischi di ricaduta nelle culture del paganesimo – fatte di devozioni, di comportamenti, di obbedienze ideologiche – a cui vanno incontro le Chiese, nel corso della loro missione, e i cristiani, nel discernimento della loro posizione nel mondo.
Gli interventi di Paolo spalancano dinanzi a noi gli spazi immensi della profezia evangelica sul mondo.

Paolo è in prigione a Cesarea, siamo intorno all’anno 62 d.C.
La lettera agli Efesini molto probabilmente è stata intesa e voluta da Paolo come una lettera circolare, destinata a circolare tra le chiese, preceduta dalla lettera alla chiesa di Colossi. In un momento successivo, dopo alcuni mesi, Paolo riprende le questioni e le rielabora in una forma più ampia e articolata in modo tale da mettere insieme un testo destinato a circolare tra le chiese di quella regione. A noi è giunta la copia di quella lettera che è stata custodita nell’archivio della Chiesa di Efeso; Efeso è città capoluogo, città metropolitana, ha un suo ruolo di presidenza nel contesto delle chiese di quella regione. Questo ci aiuta a constatare come queste pagine sono dotate di un particolare respiro nella comunicazione: Paolo è libero, in grado di partecipare intensamente alla conversazione con i cristiani di quelle chiese, senza lasciarsi prendere, come capita in altri scritti, dalla necessità di intervenire immediatamente, fortemente, qualche volta con autorità, altre volte in forma quasi di contestazione. La lettera agli Efesini è caratterizzata da questa intonazione ampia, di ampio respiro; l’elaborazione dottrinaria è serena e disinvolta. Paolo è preoccupato per quello che sta succedendo, ma non è travolto dalla gravità dei problemi nella immediatezza delle vicende; è invece pronto ad affacciarsi su un orizzonte che immediatamente coinvolge quelle chiese ma che in realtà coinvolge la vita cristiana di tutti, in tutte le chiese: i destinatari sono quelli di Efeso e dintorni, ma in realtà i destinatari siamo ancora noi, non come interlocutori aggiunti, ma come interlocutori che sono già presenti nell’animo di Paolo che si affaccia come spettatore di questo mistero che investe la storia dell’umanità intera, del passato e del futuro. E noi siamo dentro a questo futuro di Paolo che è poi il presente sempre attuale dell’Evangelo che fa nuovo il mondo e nuova la nostra condizione umana.

Saluto e augurio
Cap. 1, vv. 1-2. “Paolo, apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio, ai santi che sono in Efeso, credenti in Cristo Gesù: grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo”. In questi primi due versetti incontriamo espressioni che sono presenti anche nelle prime battute di altre lettere. Qui c’è un’attenzione particolare a una forma di articolazione all’interno della comunità cristiana che riconosciamo nell’uso di due termini, i santi e i credenti: i santi, qualcosa di simile a quel che noi chiameremmo i battezzati; i credenti, qualcosa di simile a quel che noi chiameremmo i praticanti. E’ interessante perché Paolo lascia intendere che già in queste chiese è possibile riscontrare quella certa distinzione tra coloro che sono stati evangelizzati, battezzati e introdotti nel cammino della vita nuova, e coloro che sono impegnati in un cammino che corrisponda alla vocazione ricevuta, al dono che è stato loro conferito e a cui hanno aderito in una fase di fondazione della loro nuova esistenza. Ci sono i santi e ci sono i credenti, ci sono i battezzati e ci sono i praticanti e se Paolo interpella così i destinatari del suo scritto è perché gli sta a cuore sostenere coloro che sono impegnati in un cammino esposto comunque a contraddizioni, cadute, scivolamenti, come peraltro sperimentiamo tutti.

Benedetto sia Dio
Dal v. 3 al v. 14, la prima pagina della lettera, un testo che corrisponde magnificamente a quella intonazione contemplativa a cui accennavo precedentemente (il testo è relativamente famoso): una benedizione, un testo che ha un sapore liturgico, che dà espressione a una ricerca interiore che ha impegnato Paolo sul fronte della contemplazione del Mistero. Paolo non interviene in termini dottrinari per dare esplicita documentazione ai suoi pensieri, dubbi, preoccupazioni, per chiarire, intervenire, decifrare, discernere e poi indicare le soluzioni. La lettera si apre così e questa intonazione orante, celebrativa, contemplativa resterà dominante per tutto lo scritto anche quando, in pagine successive, Paolo effettivamente affronterà questioni di carattere dottrinario e più operativo.
“Benedetto sia Dio”. Una grande benedizione, un inno, un canto (la nostra traduzione ripartisce il testo in versi). Questo testo è diventato anche poi uno degli inni che sono presenti nella preghiera liturgica, nella preghiera comunitaria della Chiesa, uno dei cantici neotestamentari. In greco dal v. 3 al v. 14 abbiamo a che fare con un’unica frase. Nella nostra traduzione ogni tanto il traduttore si sente in dovere di mettere un punto; in greco non è cosi. Il testo si sviluppa come un proclama che procede al modo di un’onda che non si arresta lungo il percorso prima di essere giunta ad esaurimento. Nel testo che leggiamo in italiano troviamo dei segni di punteggiatura, più esattamente dei punti e poi delle riprese: questo, quel tale, egli; in greco invece troviamo sempre espressioni che servono a concatenare la sequenza delle proposizioni; e allora pronomi relativi che si accavallano uno dopo l’altro e uno sopra l’altro: nel quale, da cui, perché: tutta una serie di espedienti linguistici che servono a concatenare questa lunga benedizione che è tutta già anticipata e proclamata nel primo versetto “Benedetto sia Dio”. Noi siamo in grado di benedire Dio, questa è la novità rispetto alla quale Paolo è incantato.

Benedetto sia Dio
V. 3. E’ il versetto che introduce il cantico che si sviluppa poi in cinque strofe: “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo (qui c’è un bel punto mentre in greco il testo è concatenato in modo tale da legare il testo del v. 4 e seguenti insieme al v. 3). L’affermazione apre e in un certo modo già contiene tutto lo svolgimento del cantico: noi siamo in grado di benedire Dio, che è il “Padre del Signore nostro Gesù Cristo”, perché siamo stati da Lui benedetti. Siamo inseriti in un circuito: siamo in grado di benedire Dio non in virtù di qualche nostra prerogativa, fantasia, illusione o di qualche nostra pretesa o presunta, supposta capacità. Noi siamo in grado di benedire Dio perché siamo benedetti da Lui “con ogni benedizione spirituale nei cieli”. Siamo in grado di benedire Dio perché Dio ci ha benedetti. E siamo in grado di benedirlo perché siamo, in virtù della benedizione ricevuta, incastonati nella comunione con Cristo. Siamo in grado di benedire Dio in quanto è il Padre del Signore nostro Gesù Cristo, dal momento che noi siamo benedetti nei cieli, in Cristo. Cosa vuol dire nei cieli? Noi siamo introdotti ormai, anzi siamo sigillati in un rapporto di comunione con Lui che è intronizzato nella gloria celeste, con Colui che è disceso e risalito ed ora dimora nell’altezza della sua regalità celeste. Noi siamo in grado di benedire Dio, che è Padre, proprio perché siamo sigillati nella comunione con il Figlio; ed è in virtù della benedizione che abbiamo ricevuto che siamo in grado di benedire Dio; e la benedizione che abbiamo ricevuto qui viene ulteriormente precisata come “ogni benedizione, spirituale”. Noi siamo stati benedetti in quanto il respiro stesso del Dio vivente è divenuto il soffio che dall’interno sostiene, trasforma, rigenera la nostra capacità di vivere, per cui siamo in grado di benedire Dio: siamo in grado di respirare al ritmo del respiro di Dio; siamo in grado di vivere in continuità, in obbedienza, in armonia con la pienezza della vita che è il Mistero del Dio vivente. Tutto il cantico che segue è sostenuto dallo svolgimento di questo unico respiro. Non si prende il fiato dal v. 3 al v. 14 (come dicevo prima) perché in realtà quella che è una necessità inevitabile per noi, nella contemplazione di Paolo è ormai una novità che passa attraverso di noi senza dipendere più dalle necessità dei nostri polmoni sempre sfiatati, ansimanti; è il respiro stesso del Dio vivente. “Ogni benedizione spirituale”: è il soffio del Santo che ci ha investiti in modo tale che ormai noi siamo in grado di benedire Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, perché siamo sigillati in virtù della benedizione ricevuta nella comunione con il Figlio, Gesù Cristo. Siamo introdotti in questo circuito che è la vita stessa di Dio.

Chiamati alla comunione col Padre
Cinque strofe, vi dicevo. Prima strofa, vv. 4 e 5. Paolo ci aiuta a renderci conto di quel che significa essere stati “benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo”, cosa significa essere benedetti da Dio in modo tale da essere incastonati nella comunione con il Figlio. “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà”. Essere benedetti in Cristo in primo luogo, per Paolo, significa renderci conto di quale chiamata elettiva abbiamo ricevuto fin dall’inizio; noi siamo stati chiamati fin da prima della creazione del mondo a condividere la figliolanza di Cristo. L’eterna pienezza dell’agapi (la carità), nella intimità della vita di Dio, è il motivo per cui il mondo stesso è stato creato; tutto quel che riguarda la creazione del mondo è funzionale a questa vocazione che chiama noi, creature umane, ad essere in comunione con il Figlio. “Santi e immacolati al suo cospetto”: gli interlocutori che vivono nella corrispondenza alla sua eterna e gratuita volontà d’amore. E’ il motivo per cui ha creato il mondo, tutto quel che riguarda la creazione è al servizio di questa vocazione che ci riguarda in quanto siamo convocati al cospetto del Creatore per corrispondergli in modo omogeneo – possiamo dire così – alla risposta del Figlio; quella risposta che è contemplata adesso da Paolo nella intimità della vita divina, da sempre, per sempre, nell’eternità di quel mistero di comunione che è il segreto stesso del Dio vivente. Noi siamo chiamati in virtù di quella pienezza di comunione che nell’intimo del Dio vivente è messa a nostra disposizione in modo tale che noi, creature umane e tutto l’universo al servizio di questa vocazione nostra, ci troviamo inseriti come interlocutori del Padre.

Redenti e perdonati
Seconda strofa, vv. 6-7: “E questo a lode e gloria (meglio a lode della gloria) della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto (nel testo in greco il termine Figlio non c’è, nel Diletto, nell’Amato); nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia”. In questa seconda strofa siamo alle prese con quella benedizione che abbiamo ricevuto da Dio per il fatto che siamo coinvolti nell’opera redentiva di cui è stato protagonista il Figlio che ha versato il sangue. Nella strofa precedente noi siamo benedetti in quanto fin da prima della creazione, chiamati ad essere in comunione con il Figlio; nella seconda strofa noi siamo benedetti in quanto una corrente di grazia, di amore gratuito ci ha raggiunti e coinvolti nel momento in cui la nostra condizione umana inevitabilmente deve affrontare le conseguenze di un rifiuto, di un fallimento, le conseguenze del peccato. Noi siamo redenti in virtù dell’amore che il Dio vivente ha manifestato nei confronti di quel Figlio che ha versato il sangue. E laddove il Figlio ha condiviso la nostra condizione umana fino a versare il sangue, fino alla morte, il Figlio amato, in quella condizione di miseria mortale, è il garante della redenzione che ci reintroduce nel circuito dell’intimità, della comunione della vita divina.

Rieducati interiormente
La terza strofa, vv. 8-10, ancora aggiunge qualcosa. Come funziona, per dirla in modo un po’ brutale, quella benedizione che noi abbiamo ricevuto da Dio per cui siamo in Cristo? in quanto creature chiamate fin dall’eternità a condividere la figliolanza? In quanto creature redente laddove il Figlio ha condiviso la morte dei peccatori? “Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi con ogni sapienza e intelligenza, poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra”. La benedizione che abbiamo ricevuto perché siamo in Cristo viene contemplata da Paolo in quanto noi siamo coinvolti in un’opera che ci riguarda interiormente, che ci raggiunge nell’intimo e dunque c’è una rieducazione della nostra realtà di creature umane che ci riguarda nei pensieri, negli affetti, nell’impianto interiore della nostra esistenza. La grazia, quella corrente di amore gratuito che viene da Lui per cui noi siamo inseriti in Cristo, è “abbondantemente riversata su di noi con ogni sapienza e intelligenza” (notate questi termini). E’ lui che ci ha benedetti in quanto ha realizzato una radicale trasformazione, più esattamente una radicale rieducazione della nostra interiorità umana. Sapienza e intelligenza: termini che potrebbero essere anche tradotti in modo un po’ più sfumato: è tutto l’apparato, il sistema, l’impianto della nostra vita interiore che è stato rieducato poiché “egli ci ha fatto conoscere”. “Conoscere” non è darci notizia, ma significa esattamente la trasformazione o la conversione della nostra capacità di relazionamento; la conoscenza e la capacità di relazionamento in senso ampio, non soltanto nel senso della vita intellettuale, o il passare attraverso i concetti, i giudizi, i pensieri come solitamente noi intendiamo, riservando i pensieri alla capacità razionale della creatura umana. La conoscenza nel senso biblico è la capacità di relazionamento che ci coinvolge affettivamente, emotivamente, intimamente, radicalmente in tutto il vissuto: egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà. Noi siamo benedetti in quanto siamo coinvolti in questa opera rieducativa che rende la nostra capacità di vivere, che è poi la nostra capacità di relazionarci, adeguata al Mistero della sua volontà, adeguata a Lui. Paolo ci tiene molto, in questa terza strofa, a precisare quello che già affermava precedentemente: noi siamo benedetti perché siamo inseriti nella comunione con il Figlio, quindi nel circuito della vita divina, della vita trinitaria. Ma adesso precisa che questo nostro inserimento, questo nostro coinvolgimento comporta non soltanto un trasferimento di carattere oggettivo, ma siamo stati visitati nell’intimo, raggiunti nella profondità della nostra condizione umana, rieducati dalle fondamenta del cuore. “Egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà”. Noi siamo in grado adesso di corrispondere a quel progetto che era stato formulato precedentemente, proprio in virtù di questa benedizione ricevuta che si esprime come corrente di grazia che ci ha rieducati dalle fondamenta del cuore. “Egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui (il Figlio) prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose”: tutto ricapitolato in lui, tutto riunito, cielo e terra, sotto un solo capo; e il nostro modo di stare al mondo, tra cielo e terra, sotto il cielo e sulla terra, il nostro modo di vivere, tutte le nostre relazioni, quelle che strutturano la nostra vocazione alla vita – perché noi viviamo nelle relazioni – tutte le nostre relazioni adesso sono reimpostate in modo corrispondente a quel mistero della sua volontà che ci ha manifestato mediante la missione affidata al Figlio, la Pasqua di morte e risurrezione di cui è stato protagonista. Tutto quello che avviene nel tempo – e qui si parla di un’economia dei tempi – tutto quello che avviene tra cielo e terra, nell’universo, tutto quello che riguarda la nostra vocazione alla vita per cui siamo in relazione con la moltitudine delle creature nel tempo e nello spazio, tutto in noi è coinvolto in questa straordinaria, meravigliosa opera di ristrutturazione (Paolo è in contemplazione) che ci abilita a offrirci come interlocutori che corrispondono al mistero della sua volontà.
Ora le altre due strofe del cantico: la quarta strofa: vv. 11-12: “Noi”; la quinta strofa, vv.13-14: “Voi”. “In lui siamo stati fatti anche eredi (noi)”; v. 13 “In lui anche voi”. Paolo per “noi” intende tutti quelli che appartengono al popolo della prima alleanza, il popolo di Israele; noi che siamo ereditari delle promesse, noi che abbiamo avuto una responsabilità nel contesto di una storia che è passata attraverso tante vicissitudini, fino al compimento delle promesse e la promessa per eccellenza, il Messia, la promessa messianica. Ma in lui anche “voi”, pagani.

Noi, eredi predestinati
Vv. 11 e 12: “In lui siamo stati fatti anche eredi (abbiamo conseguito l’eredità. Avevamo a che fare con le promesse e adesso le promesse sono compiute, in Lui), essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà, perché noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo”: la speranza messianica che man mano ha qualificato la presenza di Israele nella storia umana; “noi abbiamo sperato per primi in Cristo. In lui è giunta a compimento la storia del nostro popolo, il motivo per cui Dio ci ha chiamati”, ha fatto alleanza e tutto quel che riguarda la specifica e mai trascurabile identità di Israele a cui lo stesso Paolo appartiene.

In Lui anche voi siete figli
Ma in Lui ci siete anche voi. Vv. 13-14: “In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità (la parola della verità è l’evangelo, i pagani evangelizzati) e “in lui anche voi (ecco la benedizione, quella benedizione che con tutta la potenza dello Spirito di Dio ci inserisce nella comunione con il Figlio, il Messia verso cui noi eravamo protesi), dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo”. E’ un testo che conosciamo bene, tante volte abbiamo letto e meditato queste righe. Anche i pagani, inseriti nella comunione con il Figlio, il Messia di Israele, Cristo, sono riconosciuti come figli. Qui è veramente l’umanità intera, senza limiti, senza preclusioni, senza privilegi di sorta. E’ l’umanità intera in Lui e l’evangelo costituisce esattamente il tramite mediante il quale la benedizione diventa operativa, ma la benedizione già è predisposta in modo tale da esercitare un’efficacia universale; è lo Spirito Santo che è stato effuso, secondo quel che era stato promesso, in modo tale da determinare un coinvolgimento che più ecumenico di così non potrebbe essere. Lo Spirito Santo, v. 14, “il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria”. Dove dice caparra intende “nostra” eredità, v. 11, ma adesso “voi” siete in grado di condividere la nostra eredità in quanto siete in Lui: in Cristo anche i pagani hanno un titolo valido, una carta di credito efficace per condividere l’eredità “nostra”, come dice Paolo, l’eredità di Israele. In Lui avete anche “voi” lo strumento che vi abilita a condividere l’eredità nostra e in questa eredità nostra c’è spazio per tutti, in una prospettiva (l’attesa) che è aperta alla ricapitolazione in Cristo di tutta l’umanità in ogni luogo e per tutti i tempi della storia umana, perché è l’umanità intera “che Dio si è acquistato a lode della sua gloria”.

Preghiera al Padre della gloria
V.15: “Perciò anch’io, avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi, non cesso di render grazie per voi (Paolo fa eucarestia, ringraziamento, “io ringrazio per voi”. E’ un ascolto interiore perché le notizie sono giunte ma Paolo le ha rielaborate, le ha accolte, acquisite, apprezzate in quella profondità dell’animo che è spalancata dentro di lui. “Perciò anch’io, avendo ascoltato tutto quel che riguarda la vostra fede nel Signore Gesù”, l’unico Signore; tutto nel tempo e nello spazio, tutto nella creazione, tutto nella storia umana, tutto della nostra condizione fa capo a Lui fra cielo e terra. “Io non mi stanco di ringraziare per voi”), ricordandovi nelle mie preghiere”. Vedete come Paolo passa dal ringraziamento alla intercessione: faccio memoria di voi – intercessione – ricordandovi nelle mie preghiere. Perché? Che cosa invoca Paolo per quanto riguarda la vita di questi cristiani di Efeso e delle altre chiese, di questi pagani che hanno accolto l’evangelo? A chi si rivolge? “Perché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria (ricordarvi nelle mie preghiere, intercedere per voi significa rivolgermi al Padre della gloria. L’interlocutore è il Padre della gloria. Tutta la rivelazione che abbiamo ricevuto da Dio ci pone dinanzi alla Sua paternità: è il Dio del Signore nostro Gesù Cristo. Siamo dinanzi alla sua paternità perché Gesù Cristo è il Signore nostro e noi siamo in grado di comparire al cospetto della paternità di Dio perché siamo in Cristo, sempre, dappertutto, non solo nei momenti di ripensamento teorico o di studio catechetico o di proposito orante ma nell’empirica quotidianità, nella concretezza più spicciola, nella banalità della nostra esistenza umana) vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui”. Già lo abbiamo intuito leggendo la grande benedizione introduttiva: “io chiedo questo: che vi dia uno spirito di sapienza e di “apocalisse” per una più profonda conoscenza di lui; che vi coinvolga in modo tale che la conoscenza interiore di Lui, la capacità di aderire alla relazione con Lui sia sempre più capillare, continua, totale e totalizzante. Non è conoscenza riservata agli intellettuali o agli studiosi o ai teologi: è il coinvolgimento tramite tutte le relazioni della vita, dalle più concrete, quelle che sono le relazioni emotive e affettive, e quelle che passano attraverso, concetti, ripensamenti e decisioni, ma che tutto di voi si realizzi per profonda conoscenza di Lui”. E insiste: “Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente (qui la mente è il cuore, gli occhi del cuore; è un linguaggio interessante che poi avrà importanti riscontri nella tradizione cristiana) per farvi comprendere” (questa illuminazione interiore che consente al nostro cuore umano di aderire all’incontro con il Mistero del Dio vivente, in Cristo).
Indica tre sviluppi; in primo luogo “a quale speranza vi ha chiamati”: la speranza a cui siamo chiamati. Notate che speranza qui vuol dire il contenuto sperato; a quale speranza nel senso della eredità che è stata depositata per noi, laddove nei cieli il Figlio vittorioso è intronizzato nella gloria. Secondo sviluppo: “quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi (che voi possiate rendervi conto di quanto vale quella ricchezza che è la partecipazione a quella eredità che ormai è depositata nella gloria, nella corte celeste. Dove dice “i santi” possiamo intendere le creature angeliche. Non si tratta soltanto di renderci conto di quale deposito già è collocato come il contenuto realizzato della nostra speranza, ma renderci conto di quale ricchezza ci è conferita, fin da adesso e fin da qui, per il fatto che siamo in grado di partecipare a quella eredità, quella eredità è per noi. E’ tradotto con “quale tesoro di gloria” ma in greco è proprio ricchezza.

Cristo ricapitolazione di tutto
Terzo sviluppo (dal v. 19 si arriva al v. 23): “e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l’efficacia della sua forza (qui parla di una “grandezza”, straordinaria grandezza della sua potenza nei nostri confronti; usa tre termini: energia, forza, vigore; la grandezza di questa potenza – la Sua – che determina i propri effetti in noi. L’eredità depositata, la ricchezza di cui siamo dotati noi perché facciamo riferimento a quella eredità, è già nostra, la grandezza della forza che ci coinvolge operativamente in questa adesione all’eredità, al raggiungimento dell’eredità, in questo adeguamento all’eredità; questa forza è operante, è una dinamis che ci afferra, ci conduce; adesso è qui: siamo il luogo in cui questa potenza straordinaria si sta rivelando) che egli manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli (Lui posto al di sopra di tutto), al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro”. Al di sopra di tutte le altre forze, quelle dell’universo, della storia umana e poi ci sono riferimenti idolatrici, potenziali divinità riconosciute di fatto o implicitamente venerate nel contesto dell’ambiguità che sempre ristagna nella condizione umana e nel cuore umano. Bene, le forze, tutte le forze. “Non c’è un altro nome che si possa nominare”: il nome è un principio di relazionamento, non è una definizione anagrafica. La forza che è operante in noi è quella forza che ci rende relativi a Lui che è l’unico Signore, non ci sono altri riferimenti, altri nomi, altre divinità, altre signorie, altre sovranità; e questa forza è operante in noi, non è un fatto ideologico. Lui è stato posto al di sopra di tutto, è l’unico Signore e quel che riguarda Lui è forza che è operante in noi. E Paolo dice: questo io chiedo per voi. V. 22: “Tutto infatti ha sottomesso ai suoi piedi (è una citazione del Salmo 8) e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa (per la prima volta compare il termine ecclesìa qui), la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose”. Lui che è messo al di sopra di tutto, collocato in quella posizione che dimostra la sua sovranità assoluta e universale, è la testa della Chiesa, la Chiesa è il suo corpo. E’ una concezione massimamente dinamica della Chiesa; la chiesa in quanto è il Suo corpo che si viene riempiendo in tutte le cose, pienezza di colui che si realizza in tutte le cose; e tutto quello che è nella creazione e nella storia umana sta maturando nel senso del Corpo di Cristo glorioso che si riempie; e la Chiesa in questa visione contemplativa di Paolo sta proprio lì dove la creazione intera, la storia e tutto il suo svolgimento stanno riempiendo il Suo Corpo, il Corpo glorioso del Signore. Tutto si sta ricapitolando in riferimento a Lui, nell’appartenenza a Lui, nella comunione con Lui, unico Signore. Questo Paolo sta chiedendo per noi: quale speranza, quale ricchezza, quale grandezza, quali sono dunque gli effetti di quella forza che Dio ha manifestato una volta per tutte mediante la Pasqua del Figlio, morto e risorto per cui tutto della nostra condizione umana, della storia umana, del nostro vissuto personale, comunitario, sociale, del visibile e dell’invisibile, tutto si sta ricapitolando in obbedienza alla sua signoria. Qui è la Chiesa. 

Publié dans:Lettera agli Efesini |on 12 mars, 2014 |Pas de commentaires »

Saint Sophronius of Jerusalem

Saint Sophronius of Jerusalem dans immagini sacre

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SOFRONIO DI GERUSALEMME

http://it.wikipedia.org/wiki/Sofronio_di_Gerusalemme

SOFRONIO DI GERUSALEMME

Patriarca
Nascita verso il 560
Morte 11 marzo 638
Venerato da Tutte le Chiese che ammettono il culto dei santi
Ricorrenza 11 marzo

Sofronio di Gerusalemme, in greco antico Σωφρονιος, in latino Sophronios (Damasco, 560 circa – Gerusalemme o Alessandria, 11 marzo 638), è stato un monaco, teologo e vescovo siriano. Fu patriarca di Gerusalemme dal 634 fino alla sua morte. Prima di essere consacrato patriarca fu monaco e teologo, ardente difensore dell’ortodossia, così com’era stata definita dal concilio di Calcedonia. Poco tempo prima del suo decesso aveva ottenuto dal califfo Omar che il suo ingesso nella città avesse luogo come pellegrino e non come conquistatore. Sofronio ha lasciato numerosi testi liturgici, teologici, agiografici e poetici.

È venerato come santo e la Chiesa cattolica ne ha fissato la memoria liturgica l’11 marzo, [1] così come la Chiesa ortodossa.[2].

Dotato di talento poetico, egli compì studi brillanti e divenne sofista (professore di retorica).
Fece un pellegrinaggio in Terra santa allo scopo di venerare i luoghi santi e d’intrattenersi con gli asceti che vivevano nei monasteri e nel deserto. Si recò in Giudea, nel monastero di san Teodosio, ove incontrò Giovanni Mosco, un monaco e cronista siriano, già suo padre spirituale, con il quale strinse una duratura amicizia e che gli dedicò il Pascolo spirituale (in greco: Leimõn ho Leimõnon). Entrambi si opponevano alla dottrina del monoteismo, difeso dall’imperatore Flavio Eraclio e seguirono il partito degli apostoli di Calcedonia. Sofronio scrisse un’antologia degli scritti dei Padri del deserto, che andò perduta.
Nel 578 i due uomini decisero di recarsi ad Alessandria d’Egitto per completare la loro formazione filosofica e per incontrarvi santi asceti. Essi visitarono numerosi monasteri: tra il 578 e il 584 giunsero in Egitto. Sofronio divenne discepolo di Stefano di Alessandria ed il suo amico di Teodoro il Filosofo. Fu in questo periodo che Sofronio fu colpito da una malattia agli occhi, dalla quale guarì per intercessione dei santi anargiri Ciro e Giovanni. In onore di questi santi Sofronio scrisse un resoconto, ove citava ben settanta miracoli che erano stati attribuiti alla loro intercessione.[3]
Uno dei vegliardi incontrati in Egitto disse loro un giorno: «Fuggite ragazzi, poiché il tempo si avvicina! Abitate in una cella, dove vorrete, vivete nella sobrietà e nell’hésychia, pregando senza tregua ed io spero che Dio vi manderà la sua conoscenza per illuminare i vostri spiriti… »
Sopfronio decise allora di rinunciare al mondo e prese l’abito monastico nel monastero di san Teodosio. Nello stesso momento Giovanni Mosco visitava i monasteri del Sinai, della Cilicia e della Siria.
I due si misero poi al servizio del patriarca di Gerusalemme, Giovanni l’Elemosiniere, nominato nel 610.[3] Più avanti, accompagnato dal suo amico, Sofronio viaggiò attraverso l’Asia Minore, l’Egitto e l’Africa del Nord, cercando di evangelizzare le varie comunità monofisite che colà risiedevano. Intanto i persiani di Cosroe II conquistavano Gerusalemme (614) e Sofronio e Mosco accompagnarono il patriarca Giovanni nella sua fuga, prima a Cipro e poi a Roma. Qui, nel 619, Giovanni l’Elemosiniere morì, lasciando il suo testamento nelle mani di Sofronio.
Nel 627 l’imperatore bizantino Eraclio I sconfisse i persiani a Ninive e Gerusalemme tornò in mano bizantina.
Sofronio ebbe il suo da fare a combattere il monoteismo che Eraclio I aveva diffuso nell’impero con il consenso del patriarca di Costantinopoli Sergio I, che resse il Patriarcato dal 610 al 638.
Nel 634 Sofronio venne nominato patriarca di Gerusalemme. Per contrastare l’acquiescenza (per non dire approvazione) che il patriarca Sergio mostrava nei confronti del dilagare del monotelismo e nel timore che anche papa Onorio I si allineasse a questa tendenza, Sofronio, non potendo lasciare Gerusalemme, minacciata dagli arabi di Omar, gl’inviò Stefano di Dora con un messaggio nel quale confermava la validità delle conclusioni emerse nel concilio di Calcedonia riguardo alla duplice natura (umana e divina) di Gesù Cristo. Il messaggio fu letto da Stefano al concilio Lateranense del 649, convocato da papa Martino I, insieme al testo del giuramento di fede che Sofronio gli aveva fatto compiere prima della partenza da Gerusalemme.[3]
Intanto gli arabi, guidati da Omar, giungevano a Gerusalemme, che occuparono nel 637. Sofronio seppe ottenere da Omar una dhimma, che garantiva la libertà di culto a cristiani, ebrei e zoroastriani.
Sulla data e luogo di morte vi sono due versioni: una lo vorrebbe morto a Gerusalemme nel 638, l’altra ad Alessandria, ove sarebbe stato costretto a fuggire, nel 639.

«SCRIBA MANSUETUDINIS CHRISTI» (San Luca Evangelista)

http://www.30giorni.it/articoli_id_14425_l1.htm

«SCRIBA MANSUETUDINIS CHRISTI»

Colui che ha raccontato lo stupore e la commozione di Gesù. Così Dante definisce l’autore del terzo Vangelo e degli Atti degli apostoli

di Stefania Falasca

«Luca solo è con me». Così Paolo, nella seconda lettera a Timoteo (2 Tm 4, 11), scritta a Roma durante l’ultima prigionia che lo porterà al martirio, ricorda l’amico rimastogli accanto. Già nelle lettere ai Colossesi e a Filemone, scritte nel corso della prima prigionia romana, lo aveva menzionato tra i suoi più stretti collaboratori: «Vi salutano Luca, il caro medico, e Dema» (Col 4, 14). «Il caro medico», lo chiama Paolo, informandoci della sua professione e anche, indirettamente, della sua provenienza pagana poiché Paolo non lo mette tra coloro che vengono dalla circoncisione (Col 4, 10-11). È il discepolo prediletto di Paolo, il compagno fedele di tanti suoi viaggi, il testimone oculare dei fatti accaduti tra quei primi cristiani, come dimostrano i racconti della seconda parte degli Atti degli apostoli scritti esprimendosi in prima persona plurale, colui che la tradizione indica anche come l’autore del terzo Vangelo.
Luca non aveva conosciuto né aveva mai visto Gesù. «Non vide il Signore nella carne», riferisce il Canone muratoriano (un elenco ragionato dei libri del Nuovo Testamento scritto a Roma verso il 160-180). Eppure, dei quattro evangelisti è forse quello che ci ha lasciato le pagine più belle, più vivide e commoventi della Sua vita terrena. Il suo Vangelo è scritto nel greco più classico di tutto il Nuovo Testamento e denota le conoscenze letterarie e storiche dell’autore. Ma al rigore della narrazione, nel rispetto delle fonti e della cronologia dei fatti accaduti – rigore che gli deriva probabilmente proprio dalla sua attitudine professionale –, Luca unisce una sensibilità d’animo e una delicatezza che caratterizzano tutto il terzo Vangelo.
Tanta scrupolosa ricerca su fatti e detti di Gesù presso coloro che si erano trovati presenti ha fatto sì che solo Luca ci tramandasse delle notizie che non hanno riscontro negli altri Vangeli: un terzo dei miracoli e tre quarti delle parabole riportati si ritrovano solamente in lui. Tra queste fonti, nei primi passi specialmente, si può sentire la voce soave della madre stessa di Gesù. Luca è l’unico degli evangelisti a parlarci lungamente di lei, a far parlare Maria, il primo a profilarne l’immagine. E lui più degli altri è riuscito a riportarci con delicata finezza quei particolari lievi, quegli spunti appena accennati che rivelano la misericordia di Gesù, i gesti di profonda compassione, il Suo stupore, la Sua tenerezza, quella tenerezza che lo fece chiamare da Dante «scriba mansuetudinis Christi» (Monarchia I).

«Morì a 84 anni in Beozia, pieno di Spirito Santo»
Luca mai si nomina nell’opera in due volumi a lui attribuita. Sono i copisti dei codici greci, nel II secolo, ad intitolare uno dei quattro Vangeli “secondo Luca”, ponendolo al terzo posto dopo quelli di Marco e di Matteo. Essi ci hanno tramandato anche il libro che riferisce le origini della Chiesa primitiva, legata soprattutto alle vicende di Pietro e Paolo, separandolo dal terzo Vangelo (del quale probabilmente costituiva originariamente una continuazione), col titolo “Atti degli apostoli”. Una tradizione antica ed universale, che proviene dalle Chiese di Siria, Roma, Gallia, Africa, Alessandria, riportata dagli scrittori cristiani dei primi secoli tra cui Ireneo (Adversus haereses III), fa di Luca l’autore del terzo Vangelo e degli Atti degli apostoli.
La testimonianza più antica si trova nel Canone muratoriano. Il Canone muratoriano ci dà anche delle informazioni riguardo Luca, descrivendolo come medico e collaboratore di Paolo. A questa prima testimonianza segue quella di un copista della fine del II secolo, che prepose al suo codice un prologo contro l’eretico Marcione, perciò chiamato Prologo antimarcionita. Su Luca riferisce: «Luca è un antiocheno di Siria, medico per professione, discepolo degli apostoli; poi passò al seguito di Paolo fino al suo martirio, servendo Dio senza crimini; non ebbe mai moglie, non procreò mai figli, morì a 84 anni in Beozia, pieno di Spirito Santo». San Girolamo, nel IV secolo, riassumendo tutta la tradizione precedente, indica anche il luogo della sua sepoltura: «Luca, un medico di Antiochia, non inesperto in lingua greca, come lo indicano i suoi scritti, discepolo dell’apostolo Paolo e compagno di tutti i suoi viaggi, scrisse il Vangelo. Pubblicò pure un altro egregio volume che è intitolato Atti degli apostoli […]. È sepolto a Costantinopoli, alla cui città, nell’anno secondo dell’imperatore Costanzo [338], furono traslate le sue ossa» (De viris illustribus III).
Che Luca sia di origine antiochena lo sappiamo dagli Atti stessi dove lo troviamo membro di questa comunità cristiana intorno all’anno 40 e dove probabilmente ebbe modo di conoscere Pietro (At 11, 1-26) . È accanto a Paolo per la prima volta nel secondo viaggio missionario da Troade a Filippi (At 16, 10-17). È da questo punto infatti che Luca continua la narrazione degli Atti in prima persona plurale: «Subito cercammo di partire per la Macedonia, ritenendo che Dio ci aveva chiamati ad annunziarvi la parola del Signore».
Nella primavera del 58 è di nuovo nella stessa città a fianco di Paolo e lo accompagna nel suo viaggio di ritorno a Gerusalemme (At 21, 1-18), dove si mise in relazione con l’apostolo Giacomo. A Gerusalemme probabilmente ebbe occasione anche di incontrare qualcuna di quelle donne («Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre che li assistevano con i loro beni», Lc 8, 3) che lui solo menziona nel Vangelo.
Accompagna poi Paolo nel suo primo viaggio verso Roma, del quale l’ultima parte degli Atti costituisce il diario (At 27,1-28,26). E a Roma, dove rimase accanto all’Apostolo delle genti, si sarà probabilmente incontrato con Pietro e Marco.
Nulla invece sappiamo di certo della vita di Luca dopo la morte di Paolo. C’è chi lo descrive come evangelizzatore della Dalmazia e della Macedonia e chi, come Gregorio Nazianzeno, dell’Acaia e della Tebaide. Incerti rimangono anche il luogo e la causa della sua morte. Gli scritti più antichi parlano di martirio.
Anche sul luogo e sulla data della composizione del Vangelo (per ciò che riguarda il luogo comunemente è indicata Roma), le testimonianze fornite dalla tradizione e le opinioni degli studiosi divergono. È però certo che la redazione del terzo Vangelo è anteriore a quella degli Atti degli apostoli.

«Gli avvenimenti accaduti tra noi»
Luca apre il suo Vangelo con un prologo nel quale chiarisce subito il metodo e lo scopo del suo scritto. È indirizzato ad un certo Teofilo, personaggio importante a noi sconosciuto, probabilmente di origine greca, che Luca desidera confermare nella fede e al quale indirizza anche il libro degli Atti. Ma al di là di questo personaggio, il suo Vangelo sembra essere rivolto (proprio per la lingua usata, per le spiegazioni circa la geografia della Palestina e le usanze ebraiche, per lo scarso interesse per le discussioni sulla legge e per il riferimento invece continuo ai pagani) a coloro che non provengono dall’ebraismo. Luca per esporre con ordine «gli avvenimenti che sono accaduti» (Lc 1, 1) ha consultato documenti scritti e soprattutto testimoni diretti. Ha attinto indicazioni preziose da Paolo, del quale in tutto il Vangelo si sente l’influsso, da Pietro (Lc 22, 8), forse da Giovanni stesso (Lc 9. 28-36), dal diacono Filippo (At 21, 8), particolarmente al corrente di quanto riguardava la Samaria (Lc 9, 52-56), da Cleopa (Lc 24, 18). Le pie donne insieme a Marta e Maria (Lc 10, 38) hanno potuto informarlo di episodi che le riguardavano personalmente. Manaèn, l’amico d’infanzia di Erode (At 13, 1), gli ha forse riferito la comparsa di Gesù davanti al tetrarca (Lc 23, 7-12). Ma Luca ha attinto soprattutto dal tesoro dei ricordi della madre stessa di Gesù (Lc 2, 19. 51), che egli ha conosciuto e ascoltato di persona. Da lei ha appreso lo stupore dell’annuncio, della visita a Elisabetta, del parto a Betlemme; l’angoscia sua e di Giuseppe per lo smarrimento di Gesù dodicenne. È la voce stessa della Madonna che nel Magnificat direttamente si rivela: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore; perché ha rivolto gli occhi all’umiltà della sua serva…» (Lc 1, 46-48). Tutta la parte del Vangelo sull’infanzia, così come è narrata, ponendo in parallelo l’annunciazione e la nascita di Gesù con l’annunciazione e la nascita di Giovanni Battista, è peculiare di Luca.
È Luca a lasciarci i tratti delicati di Maria, a dipingerne nel racconto le immagini più belle. E forse è proprio da qui che è nata la tradizione di origine orientale che presenta Luca come pittore del volto di Maria. Molte infatti sono le immagini della Madonna attribuite all’evangelista. La testimonianza più antica al riguardo è di Teodoro il Lettore (520 circa) il quale afferma che la regina Eudocia mandò da Gerusalemme a Pulcheria il quadro della Madre di Dio dipinto dall’evangelista. «Neque novimus faciem Virginis Mariae», non conosciamo il volto della vergine Maria, scrive sant’Agostino (De Trinitate VIII). Ma anche se mancano testimonianze storiche più antiche non è affatto escluso che Luca abbia realmente dipinto il volto della Madre del Signore.
Il Vangelo di Matteo e di Marco, quest’ultimo seguito da Luca in tre lunghi tratti della vita pubblica del Signore, sono le fonti scritte utilizzate dall’evangelista. Tuttavia, seppure il terzo Vangelo presenta lo stesso schema generale dei Vangeli di Matteo e di Marco (un’introduzione, la predicazione di Gesù in Galilea, la sua salita verso Gerusalemme, il compimento della sua missione attraverso la passione e la risurrezione), la sua costruzione è elaborata con cura e mira a far risaltare in questa storia i tempi e i luoghi della storia della salvezza, insistendo fin dall’inizio sul Figlio di Dio come il salvatore di tutti gli uomini e sull’attualità della salvezza (Lc 2, 11; 4, 21).

L’assassino buono ruba il paradiso
L’originalità di Luca si manifesta soprattutto nella parte centrale del Vangelo, nel viaggio di Gesù verso Gerusalemme, dove risalta l’insegnamento di Gesù attraverso una serie abbondantissima di parabole come quella del buon samaritano (Lc 10, 29-37), del figliol prodigo (15, 11-32), del ricco epulone (16, 19-31), del fariseo e del pubblicano (18, 9-14). Parabole che solo Luca riporta (18 delle sue 24 parabole non esistono negli altri Sinottici) e che evidenziano gli aspetti a lui più cari: la misericordiosa mansuetudine di Gesù, la sua benevolenza verso i pagani, la sua bontà accogliente verso i peccatori, la sua predilezione per i poveri e i piccoli che della buona novella sono i destinatari privilegiati. La predicazione di Gesù si apre, nel Vangelo di Luca, proprio rivolgendosi a loro: «Mi ha mandato a predicare ai poveri la buona novella» (Lc 4, 18).
Più volte sottolinea che il Vangelo è per i piccoli, più volte si dilunga a raccontare i gesti di perdono e di accoglienza di Gesù. Luca è l’unico, ad esempio, a riportare l’episodio del buon ladrone, mostrando la misericordia di Gesù fino alla fine. È l’ultimo Suo gesto di perdono prima di spirare sulla croce. E quell’attimo, il solo attimo che è bastato al malfattore per “rubare” il cielo, Luca lo descrive con un’intensità che commuove: «“Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. “In verità ti dico, oggi stesso sarai con me in paradiso”» (Lc 23, 42-43). È la stessa commovente intensità con la quale descrive l’episodio della peccatrice in casa del fariseo (Lc 7, 36-50). Gesù era a pranzo in casa di un fariseo e mentre erano lì a mangiare irrompe una nota prostituta che circonda di attenzioni Gesù: «Portava un vaso di alabastro pieno di unguento e, fermatasi alle spalle presso i suoi piedi, piangendo, cominciò con lacrime a bagnargli i piedi e li asciugava con i capelli, e gli copriva di baci i piedi e li ungeva con l’unguento». Attenzioni che provocano l’indignato rancore del fariseo.
È soprattutto nel narrare le parabole, i gesti di compassione e di misericordia di Gesù, che Luca mostra la sua qualità di scrittore di grande talento. Con brevi notazioni, con sfumature sottili, a volte con una sola parola riesce ad indicare la tensione drammatica di un’intera situazione e non mancano neppure tracce di linguaggio medico. Usa ad esempio termini tecnici per indicare la febbre alta (Lc 4, 38), la paralisi (Lc 5, 18), e come medico, trattando dell’emorroissa, omette quanto in Marco (Mc 5, 26) può tornare sgradito ai suoi colleghi. Marco infatti, narrando l’episodio, aveva tuonato rudemente contro i medici che avevano costretto la donna «a dilapidare tutti i suoi averi senza avere alcun giovamento, anzi era andata peggiorando». Luca laconicamente scrive: «Nessuno era riuscito a guarirla» (Lc 8, 43). Ma la sua delicatezza si esprime soprattutto quando avvicina la persona di Gesù. Di lui ci suggerisce gli sguardi, le emozioni, i gesti umanissimi, le sofferenze nascoste. Luca è l’unico che riferisce del sudore di sangue di Gesù in quella notte di agonia nel Getsemani (Lc 22, 43-44) e di quel pianto, di quei «singhiozzi», quella sera sull’altura degli ulivi a Gerusalemme (Lc 19, 41-44), di fronte allo splendore del tempio al tramonto, presagendo la distruzione della Sua città.
Giovanni ci ha mostrato Gesù commuoversi fino alle lacrime per la morte dell’amico Lazzaro (Gv 11, 35-38), Luca è il pittore della sua tenerezza, come nell’episodio della donna curva da tanti anni al punto che non poteva più raddrizzarsi (Lc 13, 10-17). È Gesù a prendere l’iniziativa. Nessuno, neppure la donna, gli aveva richiesto niente. Stava insegnando nella sinagoga: la vede e chiamatala vicino a sé la guarisce. E quel giorno quando, entrando nella città di Nain, si imbatte in un corteo funebre e viene a sapere che il morto è il figlio unico di una madre vedova (Lc 7, 11-17). Gesù vede tra la folla quella madre portare al sepolcro l’unico suo figlio. «Vedendola» scrive Luca «ne prova compassione». Allora le si avvicina, piano le dice: «Donna, non piangere». Un atto di tenerezza è il suo primo gesto, poi le restituirà il figlio vivo.

Publié dans:SANTI, SANTI EVANGELISTI |on 11 mars, 2014 |Pas de commentaires »

Genesis, the sin of Adam and Eve

 Genesis, the sin of Adam and Eve dans immagini sacre Adam-and-Eve

http://blog.adw.org/2014/02/how-is-adams-sin-described-differently-than-eves/

Publié dans:immagini sacre |on 10 mars, 2014 |Pas de commentaires »
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