Archive pour mars, 2014

Transfiguration of the Lord

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Publié dans:immagini sacre |on 14 mars, 2014 |Pas de commentaires »

LA TRASFIGURAZIONE DI N. S. GESÙ CRISTO (CHIESA ORTODOSSA)

http://www.ortodoxia.it/La%20Trasfigurazione.htm

LA TRASFIGURAZIONE DI N. S. GESÙ CRISTO (CHIESA ORTODOSSA)

La Sacra Scrittura ci dice che l’uomo non può vedere Dio e continuare a vivere. Sappiamo già con quale amore e con quali precauzioni Dio si è manifestato a Mosè e ad Elia per non annientarli. Quando Dio passa davanti a Mosè nella spaccatura della roccia, lo protegge con la sua mano. Quando Elia se ne sta davanti all’apertura della roccia, Dio non viene nel vento fortissimo per travolgere, né nel terremoto per distruggere, né nel fuoco per bruciare, bensì nel lieve sussurro, ed Elia è salvo.
Dio ci prepara e ci insegna ad incontrarlo quando il suo Figlio si è incarnato, si è fatto Figlio dell’uomo. Egli non si è mostrato nella sua Gloria, perché gli uomini non sarebbero stati capaci di sopportarlo. Si è fatto simile a loro, a noi, ha assunto la condizione umana, la condizione di schiavo sino alle estreme conseguenze. Niente lasciava trasparire la divinità di Gesù. Nella sua vita ci sono stati soltanto due momenti nei quali si è manifestato come Dio: il momento del Battesimo ed il momento della Trasfigurazione.
Il Battesimo nel Giordano ha rivelato che Gesù è il Figlio di Dio, la seconda persona della Trinità. Giovanni Battista l’ha visto e ne ha reso testimonianza. Alla Trasfigurazione, sul monte Tabor, i tre apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, hanno visto Gesù risplendere nella sua Gloria divina. Accanto a Lui c’erano due grandi testimoni che avevano visto questa stessa Gloria durante l’Antica Alleanza. Nel giorno della Trasfigurazione essi compaiono per attestare che si tratta di quella stessa Luce, di quello stesso Dio.
Mosè ed Elia stanno lassù, sul monte, come ce lo rappresenta l’icona della festa, e riescono a sostenere la Luce di Dio che mai tramonta, perché durante la vita terrena sono stati, insieme ad Isaia, le uniche persone a cui Dio, dopo la caduta, abbia concesso di vederlo. Elia è sceso dal cielo sul monte Tabor per contemplare Dio fattosi uomo, mentre Mosè, riunitosi con la morte ai suoi antenati, rappresenta coloro che aspettano la venuta di Cristo negli Inferi. Mosè personifica la legge. Con lui Elia viene in nome dei profeti a rendere testimonianza alla divinità di Cristo che è il compimento della Legge e dei Profeti. Al contrario, i tre apostoli riversi per terra fanno parte dell’umanità ancora viva. Nonostante il loro sbigottimento, alla vista del Cristo glorioso si sentono colmi di gioia e vorrebbero fermare questo istante, ma questo non era possibile perché era troppo presto e non erano ancora pronti per l’eternità. Dovevano passare con Cristo attraverso la morte per rivederlo glorioso dopo la Risurrezione.
L’ultimo versetto del racconto evangelico parla di una nuvola luminosa che avvolge gli apostoli, e dalla quale essi sentono una voce proclamare: “Questo è il Figlio mio, che io amo. Ascoltatelo!”. E’ la voce del Padre, la voce che aveva sentito S. Giovanni Battista al momento del battesimo di Gesù nel Giordano. La nuvola luminosa è lo Spirito Santo che avvolge e protegge gli apostoli, perché senza la presenza e l’illuminazione dello Spirito Santo l’uomo non può contemplare la Gloria di Dio. La trasfigurazione è una Teofania come il Battesimo di Cristo. Come San Giovanni anche gli apostoli hanno avuto la rivelazione dell’unico Dio in tre persone.
Il significato generale di questa sublime festa è riassunta in un breve versetto, tratto dall’esperinòs: “In questo giorno, sul Tabor, il Cristo trasformò la natura oscurata di Adamo. Avendola illuminata, la divinizzò”. La semplicità di queste poche parole, come quelle del racconto evangelico, hanno una profondità straordinaria. Come in ogni avvenimento della vita del Cristo e come in ogni festa, qui si ha un compimento e, insieme, una prefigurazione. Questi due elementi appaiono con altrettanta evidenza e forza anche a Pasqua. La Trasfigurazione di nostro Signore Gesù Cristo trasferisce l’esistenza umana nella dimensione gloriosa, mostrando ai tre apostoli vivi dinanzi ai due profeti defunti l’attualità illuminata del passato e dell’avvenire. La Trasfigurazione rivela così il senso intimo del cristianesimo: Il Dio-uomo mostra loro l’uomo divinizzato.

padre Atanasio Marcacci

PERCHÉ DIO CHIAMA DEI POVERI UOMINI? – bramo, Mosè, Davide, Simon Pietro e Paolo di Tarso

http://www.donboscoland.it/articoli../articolo.php?id=127394

(forse l’ho già messo, comunque lo propongo o « ripropongo »)

PERCHÉ DIO CHIAMA DEI POVERI UOMINI?

Cinque figure tipiche della dialettica tra fragilità e risposta vocazionale: Abramo, Mosè, Davide, Simon Pietro e Paolo di Tarso. In Abramo si rivela il « bisogno della paternità »; in Mose è descritta la « logica della libertà autentica »; in Davide si presenta l’ »esercizio giusto del potere »; in Simon Pietro si conferma la « dialettica della misericordia » che guarisce le ferite del peccato; in Paolo di Tarso si incarna lo « stile evangelico della missione » della Chiesa.

La chiamata di Dio fra mediazioni umane povere: Cinque icone bibliche della fragilità
Nei racconti biblici spesso si parla della fragilità e si allude alla debolezza umana. Essa viene descritta attraverso racconti, esperienze, preghiere, dialoghi e vicende di personaggi inquadrati nel più ampio orizzonte della chiamata che Dio rivolge all’uomo. Diverse trame narrative evidenziano un paradigma ermeneutico nel quale si coniuga la debolezza umana con la potenza dell’azione divina (Rut, Ester, Giuditta, Geremia, Giobbe, ecc.). Potremmo coniare un principio ripetuto nei racconti della Sacra Scrittura: la chiamata di Dio non si realizza « malgrado », bensì « mediante » la fragilità della mediazione umana, che si manifesta con tutta la sua povertà. Questa diventa la condizione storica irrevocabile del « sì » della creatura al progetto del Creatore.
Avendo presente la ricchezza teologica-narrativa dei libri biblici, ci soffermiamo su cinque figure tipiche della dialettica tra fragilità e risposta vocazionale: Abramo, Mosè, Davide, Simon Pietro e Paolo di Tarso.

1. Abramo: una paternità fragile
La vicenda vocazionale di Abramo è nota per la sua esemplarità. Nell’economia del racconto genesiaco, la chiamata di Abram è improvvisa e imprevista: lasciare la terra di Carran, dove è seppellito il padre Terach, per emigrare in Canaan e lì diventare «padre di molti popoli» (Gen 12,1-3). Sono due i motivi della promessa divina: a) il dono della terra («La terra che io ti mostrerò»); b) la discendenza («Farò di te una grande nazione»). Questi due temi costituiscono come un filo d’oro che annoda la storia del patriarca e dei suoi discendenti. L’atto di fede che accompagna l’obbedienza di Abram si coniuga con la fatica della perseveranza e la fragilità della sua condizione umana. È soprattutto nel racconto dell’alleanza notturna con Dio in Gen 15,1-21 che emerge la dimensione della debolezza. Stabilitosi in Canaan il patriarca riceve una seconda chiamata che apre una nuova prospettiva verso il futuro. In Gen 15,1-6 si legge:
«Dopo tali fatti, questa parola del Signore fu rivolta ad Abram in visione: « Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande ». Rispose Abram: « Mio Signore Dio, che mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco ». Soggiunse Abram: « Ecco a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede ». Ed ecco gli fu rivolta questa parola dal Signore: « Non costui sarà il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede ». Poi lo condusse fuori e gli disse: « Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle » e soggiunse: « Tale sarà la tua discendenza ». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia».
La sua vocazione, cominciata in un esodo, adesso si trasforma in un’esperienza notturna. Dio lo condusse fuori e gli disse: «Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza» (Gen 15,5). Per vincere il dubbio e continuare a credere, Abramo deve uscire dal suo piccolo orizzonte («lo condusse fuori»), deve cambiare direzione dello sguardo («guarda le stelle») e deve non dimenticare che la potenza di Dio è grande («conta le stelle, se riesci»). E così Abramo «credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (15,6). Tutta la risposta di Abramo è racchiusa in questa parola: « credette », cioè si fidò ancora una volta. Una fiducia diversa da quella iniziale, quando probabilmente pensava che Dio avrebbe mantenuto la sua promessa diversamente.
Man mano che Dio si rivela – così differente da come l’uomo lo pensa! – la fiducia dell’uomo è chiamata a purificarsi. Nel cammino verso Dio la fede non è mai uguale a se stessa. « Accreditare » rinvia ad un verbo ebraico (hmn) che dice più di una semplice approvazione. È un verbo adoperato dai sacerdoti per testificare che la vittima è senza difetti e, quindi, degna di essere sacrificata nel tempio. Fidandosi di Dio, Abramo ha compiuto il suo sacrificio perfetto. « Giustizia » («glielo accreditò come giustizia») è il termine che dice una relazione corretta fra due persone. Qui si tratta della relazione fra l’uomo e Dio. Fidarsi di Dio è la sola relazione corretta fra l’uomo e il Signore. Un ulteriore segno di fragilità è dato dal tentativo di volersi costruire una paternità al di fuori del progetto di Dio, accettando la proposta di unirsi alla schiava Agar perché Sara potesse avere un figlio (cf Gen 16,1-15). Questo tentativo di avere un figlio « fuori dalla promessa » confermerà la debolezza del patriarca e della sua famiglia, manifestando la provvidenza divina, che supera i progetti umani. La risposta di fede alla promessa di paternità avviene attraverso la grande prova del sacrificio di Isacco (Gen 22,1-19).
«Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: « Abramo, Abramo! ». Rispose: « Eccomi! ». Riprese: « Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò »» (Gen 22,1-2).
Come il patriarca era partito da Carran senza opporre resistenza, anche ora egli s’incammina senza esitazione col figlio, con due servi e con il carico della legna per l’olocausto, cioè per il sacrificio che nel fuoco avrebbe arso quel figlio che pure Dio gli aveva promesso e donato. Il racconto è suggestivo e ripropone il confronto tra il progetto di Dio e l’incapacità dell’uomo di « comprendere » il senso del mistero. La tensione fra l’ordine di Dio e l’amore di un padre per un figlio è la tensione fra la promessa data e la promessa tolta. Fidandosi di Dio Abramo ha lasciato il suo passato. Ora deve lasciare anche il figlio, il futuro. La prova a cui Dio sottopone Abramo è terribile. Egli deve scegliere tra l’amore per l’unico figlio e il dovere dell’obbedienza a Dio che gli comanda di immolarlo. In questo racconto la fragilità umana è come « trasfigurata » dalla pienezza della fede obbediente di Abramo. Nel ripetere il suo « eccomi » Abramo entra nella provvidenza divina e rimane fedele alla chiamata: Dio non permette la morte di Isacco, ma conferma la sua promessa con una solenne benedizione (Gen 22,16-18).

2. Mosè: la paura della libertà
La figura di Mosè è collocata nel panorama anticotestamentario come il personaggio leader dell’esodo. La vocazione-missione del «servo di Dio» è caratterizzata da un percorso progressivo, da tappe che si succedono secondo la crescita della consapevolezza della volontà di Dio. Soltanto dopo molte esperienze e resistenze, stanchezze e crisi, Mosè capisce cosa Dio vuole da lui e a che cosa lo chiama. A differenza di Abramo, la vicenda esistenziale e spirituale di Mosè è contrassegnata da una profonda fragilità, plasmata da conflitti ed errori, da cui egli deve tornare indietro, finché non arriva a comprendere qual è finalmente la sua vocazione.
La scena iniziale della chiamata in Es 3,1-4,17 ci aiuta a cogliere tutta la debolezza dell’eroe dell’esodo. Fuggito dalla reggia egiziana che lo aveva salvato da morte, allevato e protetto, mentre vive in Madian ormai lontano dal suo popolo, viene chiamato dal Signore per liberare Israele (Es 3,1-10). L’inatteso invito produce in Mosè una serie di resistenze, che vengono formulate in domande, fino all’epilogo del diniego (cf Es 3,13; 4,1.10.13). Il racconto fa emergere un profilo vivace ed espressivo della debolezza umana e della sofferenza del personaggio dell’esodo. Egli cerca di prendere le distanze da un Dio imprevedibile. Alla prima resistenza di Mosè (Es 3,13) di fronte al disegno celeste, Dio si rivela come «Io sono» (Jhwh) edinvia Mosè in Egitto per riunire gli anziani del popolo e preparare la convocazione santa (Es 3,14-22). Mosè pone una seconda resistenza a scegliere, motivata dal tema della credibilità: l’incredulità del popolo richiede un «segno dimostrativo» (Es 4,1). In risposta Jhwh affida al patriarca tre segni: il bastone (che si trasforma in serpente), la guarigione della mano (lebbrosa), il potere sulla trasformazione dell’acqua in sangue (Es 4,2-9). Mosè pone una terza resistenza: la difficoltà di parlare e l’incapacità di saper convincere il popolo (Es 4,10). Ancora una volta Dio gli promette l’assistenza e gli conferma la fiducia. Alla fine Mosè, messo alle strette, cerca di disimpegnarsi dal mandato (Es 4,13), ma Dio lo conferma nella missione e lo fa accompagnare dal fratello Aronne (Es 4,14-17) (5).
Possiamo constatare come il Signore non si stanca delle fragilità e delle paure di Mosè, ma gli è accanto e lo sostiene per una missione che manifesterà come la salvezza passa attraverso la debolezza umana di Mosè e dei figli di Israele. Dall’esito della narrazione possiamo affermare che il superamento progressivo delle resistenze e delle fragilità umane segna il cammino di maturità di Mosè e di tutto il popolo, per il quale egli spesso intercede (cf Nm 11,10-15).
Ad una lettura complessiva delle tappe dell’esodo, emerge l’ambivalenza dell’esperienza vocazionale del profeta-liberatore. L’insegnamento è dato dalla incostanza e dalla debolezza della fede, che produce insicurezza ed è la radice di ogni resistenza. Significativa quanto enigmatica è l’interpretazione dell’epilogo della sua missione: Dio non gli permetterà di entrare nella terra promessa, perché la sua fiducia ha traballato. A Meriba (Nm 20,3-13) il Signore disse a Mosè e ad Aronne: «Poiché non avete avuto fiducia in me per dar gloria al mio santo nome agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete questa comunità nel paese che io le do» (Nm 20,12). È lo stesso protagonista a confessare umilmente in Dt 1,37-38: «…Anche contro di me si adirò il Signore, per causa vostra, e disse: Neanche tu vi entrerai, ma vi entrerà Giosuè, figlio di Nun, che sta al tuo servizio». L’esemplarità della figura mosaica ci induce a riassumere in tre sintetiche proposizioni la realtà misteriosa della vocazione e delle fragilità umane:
a) le resistenze a scegliere rivelano la condizione dell’umanità del chiamato, la sua incapacità a pensare il progetto della salvezza « senza Dio » e a pensarsi « dentro » un progetto di salvezza;
b) la dialettica tra resistenza e appartenenza costituisce il nucleo ermeneutico della lotta spirituale che avviene nel cuore del chiamato. Tale lotta implica un processo di « esodo » da se stessi e dai propri schemi mentali verso un « tu » impegnativo e imprevedibile;
c) la parabola dell’esperienza mosaica evidenzia la progressiva assimilazione del dono divino, che apre alla vita e alla speranza, ma anche il costante pericolo di « tornare indietro », di cedere alla tentazione di nuove resistenze che impediscono un’apertura completa nel dispiegarsi del progetto divino.

3. Davide: l’esperienza del limite
Un’altra figura tipica della fragilità è rappresentata dal re Davide, la cui vicenda umana e spirituale costituisce un ulteriore esempio della relazione tra chiamata di Dio e fragilità umana. Davide, il secondo re di Israele vissuto nel X secolo a.C, rappresenta una delle figure centrali dell’intero messaggio biblico: egli è il re ideale che guida il popolo di Israele nel contesto dell’alleanza stabilita fra Dio e Israele e che pone tutta la sua fiducia in Dio, mettendosi in ascolto della sua Parola e osservando la sua legge. Egli è il giovane pastore, umile e modesto, l’abile musicista e poeta, l’uomo valoroso e coraggioso, che il Signore chiama per diventare re di Israele, affinché si realizzi la promessa fatta ad Abramo (Gen 12,1-3; 15,18-19).
La storia di Davide, il cui nome significa, « prediletto, amato » occupa uno spazio notevole nella Bibbia ebraica, abbracciando quattro libri (1 e 2Samuele, 1Re e 1Cronache). Inoltre Davide è indicato come l’autore di 73 salmi, riuniti in quattro gruppi, che possono essere letti come esemplificativi dei diversi periodi della vita di Davide.
Nei libri di Samuele e in 1Re troviamo un racconto ben strutturato che, riunendo diverse tradizioni, presenta la storia dell’ascesa di Davide al trono di Israele (1Sam 16 – 2Sam 8) e della sua successione al trono (2Sam 9 – 1Re 2). La scelta di Davide è segnata dal cambiamento che Dio vuole realizzare a favore del suo popolo, rigettando Saul e la sua arroganza (cf 1Sam 16,1-13). Soprattutto in 2Sam lapersonalità di Davide viene tratteggiata in tutta la sua ambivalenza. Un uomo forte e coraggioso, servizievole e ricco di passione, scrupoloso verso Dio e tenace nel perseguire la giustizia. Allo stesso tempo, divenuto re e conquistata Gerusalemme, Davide sperimenta la sua fragilità in tre occasioni: nel peccato di adulterio e nella responsabilità della morte di Uria (cf 2Sam 11-12), nella ribellione di Assalonne (cf 2Sam 15) e nell’orgogliosa pretesa del censimento (cf 2Sam 24).
Fermiamo la nostra attenzione sulla prima vicenda, che mostra la debolezza del re e la sua profonda coscienza del peccato commesso. Il racconto ci presenta l’umanità di Davide che, pur avendo tante possibilità di vivere la propria realizzazione familiare, non resiste all’attrazione di una donna, Betsabea, moglie di Uria, un suo valido ufficiale in guerra contro gli Ammoniti (2Sam 11,1-2). La brama di possedere la donna rapisce a tal punto il cuore del re che, dopo aver commesso l’adulterio, persiste nel tentativo di mistificare la situazione di gravidanza di Betsabea, richiamando l’ufficiale a Gerusalemme e tentando più volte di inviarlo a casa sua. Da una parte la malizia e la falsità di Davide, dall’altra la lealtà estrema di Uria hittita, che non accetta di riposarsi nella propria dimora mentre i suoi commilitoni rischiano la vita in battaglia.
L’ironia narrativa raggiunge il suo culmine quando Davide consegna nelle stesse mani dell’ufficiale l’ordine per il generale Ioab di porre Uria «sul fronte della battaglia più dura… perché resti colpito e muoia» (2Sam 11,15). La morte del valoroso ufficiale viene celebrata con tutti i fasti e Davide stesso accoglie nella sua reggia la vedova Betsabea, senza che alcuno sospetti del progetto iniquo posto in essere dallo stesso re (cf 2Sam 11,26-27). La donna partorisce un figlio e pare a Davide che tutto l’accaduto possa rimanere nascosto.
Tuttavia l’esperienza del limite può essere mistificata agli occhi degli uomini, ma non al cospetto di Dio. Il re in Israele è il « servo di Dio », non il padrone assoluto: «Ciò che Davide aveva fatto era male agli occhi del Signore» (2Sam 11,27). È il Signore che invia il profeta Natan per svelare la malvagità del re. Il profeta racconta un episodio parabolico di un povero uomo privato della sua pecorella per l’arroganza di potente senza scrupoli (2Sam 12,1-4). La reazione di Davide non si fa attendere: l’uomo che ha commesso una simile ingiustizia deve pagare, anzi, deve essere punito con la morte. Il profeta smaschera il misfatto del re, affermando che l’uomo in questione è proprio lui e che le conseguenze di questo peccato saranno devastanti (2Sam 12,7-12). La fragilità riceve la sua definizione: essa è il peccato che grida giustizia presso Dio. Davide fa l’esperienza del suo limite ed è chiamato da Dio a convertire il suo cuore. Il grido di dolore del re è stato tramandato nel Sai 51, testo che esprime tutta la drammaticità del cuore ferito e la speranza del perdono divino. In queste parole gridate al cielo, mentre il re sperimenta la polvere della sua bassezza, si celano le fragilità e le miserie di ogni uomo:
«Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità…» (Sal 51,3).
Rileggendo le invocazioni della preghiera davidica possiamo cogliere la dialettica tra la potenza misericordiosa di Dio e la fragilità dell’uomo. Questa esperienza maturerà notevolmente il cuore del re, donandogli la consapevolezza del suo profondo limite.

4. Simon Pietro: la piccolezza della fede
Il racconto dell’esperienza della sequela di Simon Pietro presenta tratti comuni ai tre Vangeli sinottici, ma anche peculiarità che testimoniano la ricchezza della tradizione ecclesiale primitiva circa la figura storica dell’apostolo e della sua missione. È possibile ripercorrere l’itinerario spirituale di Pietro mostrando l’ambivalenza della sua risposta di fede e, allo stesso tempo, l’estrema debolezza della sua testimonianza. Il noto racconto lucano della chiamata (Lc 5,1-11) anticipa in forma prolettica la debolezza dell’Apostolo, il quale, di fronte alla meraviglia della pesca straordinaria, si riconosce « peccatore » gettandosi ai piedi del Signore (Lc 5,8). Insieme agli altri discepoli, l’esperienza della sequela di Simon Pietro si caratterizza in un cammino incerto, bisognoso di un continuo processo dimaturità. Se Giovanni si presenta come il testimone « prediletto » di un’esperienza contemplativa e Tommaso come l’apostolo che vuole verificare la realtà della risurrezione, Pietro è colui che deve «confermare la fede dei suoi fratelli» (Lc 22,32).
I racconti evangelici raffigurano spesso il primo degli apostoli in dialogo diretto con il Cristo. Sulla strada di Cesarea di Filippo, Simone prende la parola e dichiara la fede comunitaria nella divinità di Gesù (Mc 8,29) e in risposta il Signore lo designa « Cefa », pietra su cui edificare la sua Chiesa (Mt 16,13-20). Nella scena della trasfigurazione è lui ad esprimere il desiderio di restare sul monte (Mt 17,4); nell’esperienza notturna sul lago, Pietro vive la fatica della fede rischiando di affondare nell’abisso delle sue paure (Mt 14,28-31). Nei racconti della passione e della risurrezione la figura dell’apostolo viene rappresentata con tutto il dramma della sua apparente sicurezza, che si tradurrà in un fallimento. Sono soprattutto due momenti a segnare la personalità di Simon Pietro: il rinnegamento di Gesù avvenuto nel cortile della casa del sommo sacerdote (Lc 22,56-65) e, all’indomani della risurrezione, la conferma dell’amore che il Risorto affida a capo della Chiesa (Gv 21,15-19). Fermiamo la nostra attenzione sull’episodio del rinnegamento per poter cogliere la potenza misericordiosa dell’amore di Cristo che sostiene la debolezza dell’apostolo.
Nella scena del rinnegamento (Lc 22,56-65) Simone sperimenta la fatica di testimoniare nel momento più drammatico e buio del suo discepolato. È l’evangelista Luca a presentare in modo più completo e drammatico la vicenda, dopo aver descritto l’ultima cena (Lc 22,14-20), nella quale Simone aveva giurato al Signore una fedeltà fino alla morte (Lc 22,31-34). L’arresto di Gesù nel Getsemani e il goffo tentativo di resistere alle guardia sconvolgono il cuore dei discepoli, che fuggono abbandonando il Maestro (Lc 22,47-53). Solo Pietro lo continua a seguire «da lontano» (Lc 22,54), fin nel cortile della casa del sommo sacerdote. È qui che avvengono il riconoscimento e il rinnegamento. I dialoghi proposti nella scena esprimono tutto il dramma della debolezza umana. In primo luogo una giovane, poi un uomo lo individuano e lo interrogano. Pietro nega cadendo nella paura di essere riconosciuto e accusato. Egli vive la « notte » della sua missione: rinnega di conoscere Cristo, di provenire da una comunità di discepoli e di essere galileo. In un attimo tutto sembra finito. L’apostolo vive l’ambivalenza della sua vicenda: da una parte vuole « vedere » come andrà a finire e dall’altra vuole « stare fuori » dal destino della sofferenza. L’ora di Gesù è diventata anche l’ora di Simon Pietro: gli sguardi dei due protagonisti si incrociano, mentre il pescatore di Betsaida rinnega il suo Signore. Annota l’evangelista:
«E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore si voltò e fissò io sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: « Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte ». E, uscito fuori, pianse amaramente» (Lc 22,60-61).
Il rinnegamento di Simon Pietro riassume in sé la vicenda dell’intera comunità dei discepoli. Essi lo lasciano solo nelle mani dei nemici, dimenticando l’ »amico » che li aveva salvati nel corso del ministero pubblico dall’ »acqua che travolge » (cf Mt 8,23-27; cf Sal 68,2). Pietro, capo della Chiesa, diventa il simbolo della fragilità e della solitudine prodotta dal peccato. Egli ha bisogno di perdono e di riconciliazione: deve ricominciare nuovamente la sua « sequela » del Crocifisso risorto! E con lui dovranno ricominciare tutti i discepoli. Chi non deciderà di ricominciare non sopporterà la prova della misericordia. È quanto è accaduto a Giuda Iscariota, che nella disperazione si è tolto la vita (Mt 27,3-10). La debolezza viene guarita dall’amore che il Signore risorto manifesterà a Simon Pietro sulle rive del lago, riformulando per tre volte la domanda: «Mi ami tu?» (Gv 21,15-19). Alla risposta di Pietro il Signore conferma la sua missione e aggiunge: «Seguimi» (Gv 21,19).

5. Paolo di Tarso: l’elogio della debolezza
Nella riflessione epistolare paolina, confermata dalla sua presentazione degli Atti degli Apostoli, emerge una profonda analisi sulla fragilità umana che si può ben definire una «teologia della debolezza». Tale riflessione compenetra la biografia dell’Apostolo a tal punto da assumere una funzione paradigmatica per la nostra analisi, a partire dalla chiamata di Damasco (cf At 9,1-22; At 22,1-21 e At 26,2-23; cf Gal 1,11-24). Nella scena lucana della chiamata l’arroganza farisaica di Saulo viene annullata dalla luce celeste e dalla rivelazione divina. Saulo diventa « Paolo », la strada della persecuzione si trasforma in « via di evangelizzazione », l’autorevolezza della « Legge » lascia il posto alla potenza del « Vangelo ». Paolo fa l’incontro con Gesù Cristo, crocifisso e risorto che preannunzia:
«…egli è lo strumento che ho scelto per me, affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni, ai re e ai figli d’Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,15-16).
D’ora in avanti l’Apostolo vivrà una nuova esperienza di Dio e della sua missione, ritenendosi il più piccolo degli apostoli (1Cor 15,9-10) chiamato a lottare per il Vangelo (Rm 15,30). È questa missione, impastata da prove e combattimenti, silenzi e solitudini, conquiste e malattie, a trasformare Paolo in uno straordinario protagonista della Chiesa primitiva.
In prima persona l’Apostolo sperimenta la debolezza redenta dall’amore di Dio, riassumibile in quattro affermazioni. La debolezza è rappresentata anzitutto dalla «parola della croce» (1Cor 1,17), alternativa alla sapienza del mondo (1Cor 1,25). Occorre fissare lo sguardo sul mistero pasquale per cogliere il senso della debolezza umana redenta dall’amore divino. L’Apostolo ricorda ai Corinzi di aver predicato nella comunità «in debolezza e con molto timore e trepidazione». Per non «svuotare» (v. 17; cf 1Cor 9,15) la predicazione della croce, Paolo ha scelto di annunciare il Vangelo «nella debolezza». Una seconda immagine è rappresentata dalla suggestiva metafora del tesoro di Dio «in vasi di argilla» (2Cor 4,7-12). La finalità di questa condizione paradossale dell’uomo chiamato al Vangelo è «perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2Cor 4,7). Nella vicenda biografica dell’Apostolo la « debolezza » è resa attraverso le innumerevoli prove del suo apostolato, narrate nei cataloghi delle avversità (cf 2Cor 4,8-12; 6,3-10; 11,23-26). La riflessione sulla fragilità culmina nel vanto che Paolo esprime con il «discorso immoderato» (cf 2Cor 10-13), soprattutto nel testo di 2Cor 12,7-9:
«Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte».

Conclusione
Abbiamo ripercorso le tappe della fragilità umana, nel contesto dell’evento della chiamata, evocando solo alcune icone bibliche. La rilettura di queste pagine ci permette di attualizzare ed applicare il tema della fragilità nel contesto odierno. Esso segna inesorabilmente la scoperta della vocazione e il percorso di maturazione, soprattutto del mondo giovanile.
Quale risposta ci viene da queste pagine bibliche?
I cinque personaggi segnalati sembrano rispondere con « cinque parole » che determinano la dinamica della fragilità « assunta » da Dio e « trasfigurata » nell’evento vocazionale. In Abramo si rivela il « bisogno della paternità »; in Mose è descritta la « logica della libertà autentica »; in Davide si presenta l’ »esercizio giusto del potere »; in Simon Pietro si conferma la « dialettica della misericordia » che guarisce le ferite del peccato; in Paolo di Tarso si incarna lo « stile evangelico della missione » della Chiesa.

(Teologo Borèl) Aprile 2011 – autore: Giuseppe De Virgilio

16 MARZO 2014 | 2A DOMENICA DI QUARESIMA: « E GESÙ FU TRASFIGURATO DAVANTI A LORO »

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16 MARZO 2014 | 2A DOMENICA A | QUARESIMA | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

« E GESÙ FU TRASFIGURATO DAVANTI A LORO »

La seconda Domenica di Quaresima di ognuno dei tre cicli liturgici ci presenta la scena della Trasfigurazione secondo il racconto di uno dei tre Vangeli sinottici. Come mai questa scena di fulgore e di esultanza messianica proprio all’inizio del periodo quaresimale austero e meditativo, invitante più a pensieri di ravvedimento e di penitenza che non di giubilo festoso e perfino incontrollato, come capitò a Pietro in quella occasione?
Credo che la risposta l’abbiamo nel bellissimo « prefazio » proposto per la Liturgia odierna: Cristo « dopo aver dato ai discepoli l’annunzio della sua morte, sul santo monte manifestò la sua gloria e, chiamando a testimone la legge e i profeti, indicò agli Apostoli che solo attraverso la passione possiamo giungere con lui al trionfo della risurrezione ».
È dunque una ragione di carattere « pedagogico » quella che spinge la Chiesa a proporci oggi il racconto della Trasfigurazione: essa vuol farci capire il senso della Quaresima attraverso il suo sbocco finale, che è quello della « gloria » della Risurrezione, che condivideremo anche noi con Cristo nelle festività pasquali. E questo, ovviamente, non per eludere l’austerità, o l’impegno duro e rigoroso, ma per viverlo più intensamente, perché più intensa sia anche la « gioia » della Pasqua.

Il racconto della Trasfigurazione in Matteo
Pur dipendendo da Marco (9,2-10), Matteo rielabora i dati della tradizione in forma abbastanza libera, accentuando soprattutto i tratti letterari « apocalittici » nel suo racconto e attingendo non poco da Daniele (cf 10,1-11, ecc.): così, ad esempio, il volto di Gesù diventa luminoso come il sole e le sue vesti come la luce; i discepoli cadono bocconi a terra assaliti da timore; Gesù li tocca e li rincuora, invitandoli ad alzarsi e a non temere, ecc. Tutto questo serve a creare il senso del mistero e della « trascendenza ». Gesù si manifesta come uno che appartiene a un « mondo » e a una realtà diversi da quelli della nostra esperienza. Il « regno di Dio », sia pure per un attimo, in lui si manifesta in totalità e pienezza con tutti i « segni » che lo costituiscono e lo caratterizzano.
Quel « regno di Dio », a cui non soltanto rendono testimonianza i più significativi personaggi del passato, come Mosè ed Elia, ma di cui fanno anche parte: il che equivale a dire che esso è una realtà « omnicomprensiva » che, pur trovando in Cristo la sua pienezza, si compone e si arricchisce della presenza e dell’apporto di tutti. In questo senso è evidente che Cristo da solo non basta a costituire il regno di Dio!
Il mistero non è però sufficiente a spiegarsi da solo: nelle visioni apocalittiche, infatti, ricorre come costante letteraria il suono di una « voce » che viene dal cielo a illustrare il senso delle cose e dei personaggi in gioco, proprio come capita nel nostro caso: « Ed ecco una voce che diceva: « Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo »" (Mt 17,5).
Ciò nonostante il senso del mistero rimane, per il semplice fatto che subito dopo i tre discepoli, che Gesù aveva prescelti per questa singolare esperienza, e cioè Pietro, Giacomo e Giovanni, si ritrovano davanti al Gesù di tutti i giorni: « All’udire ciò i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore, ma Gesù si avvicinò e, toccatili, disse: « Alzatevi e non temete ». Sollevando gli occhi non videro più nessuno, se non Gesù solo » (vv. 6-8). Quello che avevano visto e udito sembrava loro niente più che un incantesimo, o un’illusione!
Tanto più che Gesù stesso interviene per proibire di divulgare questo fatto prima della sua Risurrezione: « E mentre discendevano dal monte Gesù ordinò loro: « Non parlate a nessuno di questa visione, finché il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti »" (v. 9).

La Trasfigurazione come « anticipazione » della gloria pasquale
Perché questo? La ragione di tale proibizione non è per niente chiara. Io ritengo che il motivo sia da ricercare nel fatto che la Trasfigurazione, per un verso è come un’anticipazione, sia pure ancora incerta, del mistero della Risurrezione che immette già nella gloria definitiva del mondo « futuro »; e, per un altro verso, solo attraverso la futura esperienza della Risurrezione i discepoli di Gesù potevano afferrare il mistero di quei pochi attimi di gloria e di felicità, che Pietro era stato invece tentato di prolungare all’indefinito: « Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia » (v. 4).
Bisognava perciò attendere la Risurrezione per penetrare fino in fondo il mistero e comprendere la « continuità » fra il Gesù « terreno » e il « Signore della gloria ». La Trasfigurazione rappresenta precisamente l’anello di saldatura fra le due esperienze che gli Apostoli hanno avuto di Cristo: dal sepolcro non è venuto fuori un personaggio fantastico, inventato dalla immaginazione amorosa dei suoi discepoli e neppure creato dalla onnipotenza di Dio, ma un personaggio « concreto » che, se soltanto adesso rifulge della « gloria » abbagliante della divinità, questa « gloria » la possedeva già prima, come mostra appunto l’evento misterioso della Trasfigurazione. Per questo molti studiosi parlano di essa come di una esperienza pasquale « anticipata ».
Tutto questo si capisce anche meglio se si pensa alla precisa collocazione del nostro testo. Esso viene subito dopo l’annuncio della passione e morte del Figlio dell’uomo, dopo le rimostranze di Pietro e l’invito ai discepoli a seguire il Maestro sulla via della croce: « Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua » (Mt 16,21-28). Con ciò si vuol dire che al di là della passione esiste per Gesù un futuro di gloria e che in lui non c’è frattura tra la sua missione di Servo sofferente di Jahvè e quella di giudice glorioso ed escatologico, che gli compete in quanto « Figlio dell’uomo » già predetto da Daniele (7,13-14).
Solo l’esperienza di Pasqua poteva perciò aiutare i discepoli a mettere insieme questi due aspetti così contrastanti dell’unica personalità e dell’unica esperienza salvifica di Cristo.
Tutto questo, del resto, non è facile neppure per noi dopo duemila anni di cristianesimo, almeno a livello esistenziale. Ed è per questo che la voce, che proclamò solennemente al mondo Gesù come « Figlio prediletto » del Padre (cf Is 42,1 e Mt 3,17), aggiunse anche: « Ascoltatelo » (v. 5).
Il riferimento corre qui al Profeta futuro, atteso come un secondo Mosè, per proclamare al popolo la Parola ultima e definitiva di Dio: « Il Signore tuo Dio susciterà per te… un profeta pari a me; a lui darete ascolto » (cf Dt 18,15).
L’ »ascoltare », però, ha un’ampiezza ben più vasta, come risulta da tutto il contesto: è la capacità di accettare Cristo, alla luce della fede, come colui nel quale si incrocia il mistero della umiliazione e della gloria, della sofferenza fino alla morte e della risurrezione, e di seguirlo su questa via di apparente contraddizione ma di profonda armonia di valori e di esperienze vitali. È un « ascoltare » che si traduce in un « riesperimentare » e in un « rivivere ». Direi che qui abbiamo anche tutto il senso della Quaresima, con i suoi elementi di tensione e di luminosa armonia nello stesso tempo.

« Vattene dal tuo paese verso il paese che io ti indicherò »
In fin dei conti, è lo stesso messaggio della prima lettura, che ci descrive in rapidi tratti la vocazione di Abramo.
Anche qui tensione e sofferenza, per arrivare a un risultato di gloria e di « benedizione », che trascende all’infinito il destinatario primo e diretto di questo appello di Dio, fino ad abbracciare « tutte le famiglie della terra ». Bisognava che Abramo lasciasse il « suo » padre, per avere un nuovo paese, una nuova terra, per diventare lui stesso « padre » di una stirpe numerosa più delle stelle del cielo che non si possono contare (cf Gn 15,5). Il segreto della sua « fecondità » sta tutto in questa sua capacità di « sradicamento » e di distacco perfino dalle fonti « fisiche » della vitalità della sua razza!
Tutto questo, però, unicamente per affidarsi a Dio, rimettendo nelle sue mani il proprio destino. Quando il brano conclude molto asciuttamente dicendo che « Abramo partì, come gli aveva ordinato il Signore » (v. 4), afferma il « positivo » di questa vicenda: non è lo sradicamento in sé e per sé che è fecondo, ma l’accettazione eroica di un nuovo progetto di vita elaborato non dalle deboli forze della intelligenza e preveggenza umana, ma dalla sapienza e dalla onnipotenza di Dio.
La fede, perciò, non è una contrazione o una mortificazione delle energie umane, ma un loro potenziamento mediante l’apertura alle infinite luci e alle infinite forze che vengono da Dio.
Abramo ha saputo « ascoltare » la parola che veniva dall’alto, ha bruciato i ponti dietro le sue spalle, si è messo in cammino verso l’ignoto alla ricerca della Terra promessagli da Dio, iniziando un ciclo storico « nuovo » che, passando per Cristo, è arrivato fino a noi e si spingerà fino alla consumazione finale: il ciclo storico di tutti coloro che credono che la « salvezza » vera viene soltanto da Dio, e perciò si fanno docili strumenti dei suoi voleri per trasformare il mondo da un’ »aiuola » (Dante) angusta di ferocia e di rancore in un « preludio » radioso del regno.
Anche noi, sull’esempio di Abramo, « aspettiamo, secondo la sua promessa, nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia » (2 Pt 3,13). La fede non attende da Dio tutto, ma « si mette in cammino » per compiere, insieme a Lui, il prodigio della nascita di realtà e di situazioni più conformi al suo progetto di amore e di giustizia. Per questo, soltanto la fede ha le chiavi del futuro e ciò che sembra « utopia » può trovare ancora « posto », prima che sulla terra, nel cuore degli uomini.

Cristo « ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo »
Questa forza di rinnovamento e di trasformazione san Paolo rivendica al Vangelo, se sarà annunciato con fedeltà e coraggio, proprio perché in esso c’è la proclamazione della « salvezza » che Cristo soltanto e non più le « nostre opere » possono compiere. È quanto l’Apostolo scrive, ormai vicino alla morte, al discepolo Timoteo, forse intimidito per le troppe difficoltà che incontrava nella sua missione. « Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo, aiutato dalla forza di Dio. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia… che ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità… Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e la immortalità per mezzo del Vangelo » (2 Tm 1,8-10).
La luce che risplendette in quel giorno lontano « sul volto di Cristo » (cf 2 Cor 4,6), nel monte Tabor, egli la fa « risplendere » oggi « per mezzo del Vangelo », che genera e porta « vita e immortalità » per tutti. Questo vuol dire che la « trasfigurazione » deve continuare in ogni cristiano alla luce e in confronto con la Parola, sempre viva, di Dio.

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche, Editrice Elledici, Torino

God Appears to Moses in Burning Bush. Painting from Saint Isaac’s Cathedral, Saint Petersburg

God Appears to Moses in Burning Bush. Painting from Saint Isaac's Cathedral, Saint Petersburg dans immagini sacre Moses_Pluchart

http://en.wikipedia.org/wiki/Burning_bush

Publié dans:immagini sacre |on 13 mars, 2014 |Pas de commentaires »

E IN « MONTAGNA » IL CUORE DELL’UOMO CERCA IL « SACRO » – (« Avvenire », 19/9/’10)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano10/rit_ries2.htm

RIFLESSIONE

E IN « MONTAGNA » IL CUORE DELL’UOMO CERCA IL « SACRO »

JULIEN RIES (« Avvenire », 19/9/’10)

Il tema della montagna considerata come residenza della Divinità è molto diffuso nelle antiche culture. In India il Monte Meru – una montagna mitica – è la dimora di Indra, il Dio della guerra. Il Kailasa è la montagna sulla quale dimora il Dio Viva. L’Olimpo è il luogo del soggiorno di Dei e Dee della Grecia Classica. In Giappone i Vulcani sono considerati la residenza delle Divinità. In Cina, presso i Maestri Taoisti, il Monte K’ouen-Louen è simbolo del soggiorno dell’immortalità. Sulla montagna la Divinità ha fatto ascoltare la sua voce. È il caso del Dio Ittita delle tempeste. In Africa e in America i Miti testimoniano di brume, di nubi, di lampi che in prossimità delle montagne segnalano le variazioni dei sentimenti degli Dei in relazione ai comportamenti degli uomini. Nella Bibbia il simbolismo della montagna come luogo della Parola di Dio occupa un grande spazio. L’esperienza storica di Israele si radica nella Teofania del Sinai. Dio si è rivelato a Mosé e attraverso di lui ha concluso un’Alleanza con Israele sul Sinai. Nella Bibbia il Sinai diviene un prototipo, un simbolo primordiale dell’incontro di Dio con il suo Popolo: Sion, Tabor, Garizim, Carmelo. Su quest’ultimo Monte il Profeta Elia confonde i Preti di Baal facendo discendere il fuoco dal cielo sull’olocausto da lui preparato. Numerosi Pellegrinaggi hanno come meta la sommità delle montagne: l’uomo vi incontra il Divino. In Grecia i più celebri erano le grandi Panatenee che la città di Atene celebrava in onore della sua Dea. Le festività terminavano sulla Collina Santa del Partenone. In Tibet il Monte Kailasa vicino a Ladakh è venerato ad un tempo dai Buddhisti e dagli Indù. Per questi ultimi è il luogo di residenza del Dio Viva. Buddhisti e Indù assimilano il Kailasa al Monte Meru, l’asse del mondo. In Cinese «chaoshan» («andare in Pellegrinaggio») significa andare per avere udienza su una montagna. Il Pellegrino va a celebrare un Culto a un Dio che troneggia su una montagna. Ogni Santuario è assimilato ad una montagna. I più antichi Pellegrinaggi Cinesi sono i Pellegrinaggi Taoistici molto anteriori alla nostra epoca e avevano tutti come meta le Montagne Sacre. Quando il Buddhismo è entrato in Cina il Pellegrinaggio e divenuto necessario al riconoscimento della sua identità: quattro montagne, le più famose, furono consacrate ai Pellegrinaggi dei Buddhisti. Anche nella vita di Gesù la montagna occupa un posto di privilegio. Tre volte la troviamo come luogo di manifestazione e di solenne proclamazione. La prima è il Sermone della Montagna con la « carta » delle Beatitudini. Abbiamo quindi la Teofania della Trasfigurazione di Gesù. Infine sul Monte degli Ulivi ha luogo l’Ascensione. Del resto, proprio sul Monte degli Ulivi, Matteo e Marco collocano il Discorso Escatologico di Gesù. Il simbolismo della montagna è contrassegnato da due elementi, l’altezza e il centro, due dimensioni che sottolineano bene la ricerca del Sacro dell’«homo religiosus». La montagna è una via per l’uomo che cerca la trascendenza. L’ascensione è il segno della vocazione spirituale dell’uomo. Sulla montagna l’uomo può meglio udire la voce di Dio perché ivi è vicino al cielo. La montagna è anche un centro in cui l’uomo in cerca del Sacro è in grado di ricevere un messaggio che lo trasforma. I Taoisti vanno in udienza sulla montagna. Alcune montagne, luoghi Sacri del Buddhismo in Giappone, sono ispiratrici d’illuminazione. In tutto il mondo, migliaia di luoghi di Culto sulla sommità di montagne aiutano l’«homo religiosus» a vivere un’esperienza più intima del Sacro.

 

Publié dans:MEDITAZIONI |on 13 mars, 2014 |Pas de commentaires »

LA DOTTRINA E LA PRATICA: LA GLORIA DEL SIGNORE (Divo Barsotti, Paolo)

http://www.umilta.net/gloria.html

DON DIVO BARSOTTI, C.F.D.

LA DOTTRINA E LA PRATICA:

LA GLORIA DEL SIGNORE

(Paolo)

Uno dei testi più grandi di San Paolo è il capitolo dell’Ora di sesta, alla festa della Trasfigurazione: ‘Noi tutti a faccia scoperta contemplando la gloria del Signore siamo trasformati nella stessa immagine di chiarezza in chiarezza come dallo Spirito del Signore’. È uno dei testi più belli di tutto il Nuovo Testamento, è uno dei testi più densi di dottrina, e uno dei testi soprattutto più importanti per il cristiano. In questo testo di fatto vi è tutto il programma della sua vita, se la vita cristiana è vita di fede, è vita di preghiera e di contemplazione. E la contemplazione, nel Cristianesimo, è transformante. Per questo, nella misura che noi contempliamo la luce ci trasformiamo nella luce, di gloria in gloria, in un processo che per la potenza dello Spirito sempre più ci assimila a Cristo e in Cristo a Dio. Il testo richiama due volte la gloria: l’uomo contempla la gloria per irraggiarla da sè. Prima di tutto l’anima vive nella presenza di Dio, vive nella sua luce, ma contemplando la gloria ineffabile di Dio diviene essa stessa luce, così, come un cristallo, illuminato dal sole, deviene egli stesso sorgente di luce. Il primo dovere è quello di vivere in questa presenza, di vivere in questo visione, di contemplare Dio, di essere illuminati dalla luce del Signore. Il secondo dovere che deriva necessariamente dal primo, è essere segno per gli altri: nella misura che contempliamo, noi stessi siamo illuminati, ed essendo illuminati diveniamo per li altri il segno della gloria. Ogni cristiano deve essere rivelatore del Padre, come Cristo; segno di una presenza, come Gesù. Egli si è reso invisibile agli uomini, Lui che ha detto a Filippo: ‘Chi vede Me, vede il Padre’, perchè vuol rendersi visibile in ciascuno di noi. Il Cristo deve farsi presente nelle sue membre, in noi stessi. Noi ci siamo chiesti quale rapporto hanno la festa dell’Epifania e la festa della Trasfigurazione in quanto feste della gloria? La risposta a questa domanda implica una qualche nozione della gloria. Come si manifesta la gloria? Quale rapporto vi è fra la manifestazione delle gloria nell’Epifania e nella Trasfigurazione di Cristo? Accenniamo che cosa dobbiamo intendere per la ‘gloria’. Credo che lo intuiamo senza poterlo definire chiaramente, come avviene sempre nel Cristianesimo in cui la verità è posseduta prima di esser formulata. Ogni elaborazione teologica non è che la traduzione concettuale di una realtà vissuta, di un mistero presente al quale il fedele partecipa. Quello che un teologo insegna non è mai totalmente nuovo per coloro che ascoltano. Anche se coloro che ascoltano fino a quel momento non avrebbero mai saputo esprimere quanto il teologo insegna. All’infallibilità del magistero della Chiesa risponde l’infallibilità del popolo cristiano, il quale può assentire all’insegnamento proposto in quanto ‘sente’ in quello che gli è proposto la traduzione di quanto già confusamente possedeva. Egli infatti nel dono dello Spirito già confusamente possedeva. Egli infatti nel dono dello Spirito già aderisce misteriosamente ‘a tutta la verità’. Definire che cos’è la gloria, in realtà è ben difficile. Intanto dobbiamo ricordare che quando si parlar di ‘gloria’ ci si riferisce a ‘qualcosa’ che appartiene esclusivamente al dominio della Rivelazione. Per i greci non esiste la realtà che questa parola esprime: ‘doxa’ in greco vuol dire opinione, e nella lingua del nuovo testamento ‘doxa’ vuol dire gloria. Il Cristianesimo e prima ancora l’Ebraismo, ha dato un contenuto nuovo a dei termini vecchi. Se per gloria, come dice San Tommaso, noi intendiamo soltanto ‘una chiara notizia’, lo splendore che porta con sè la bellezza, la potenza, la vita, questo concetto forse si potrebbe trovare anche nella lingua greca, ma non è esattamente questo il contenuto del termine biblico. Nella rivelazione ebraico-cristiana ‘gloria’ ha prima di tutto un significato oggetivo: è il peso dell’essere, è l’essere trascendente di Dio che non ha alcuna proporzione con l’essere creato e che nella sua manifestazione, si direbbe, dissolve tutte le cose. Le creature non sopportano il peso di Dio. La gloria è in rapporto col peso. Anche San Paolo nella lettera ai Corinzi parla del ‘pondus gloriae’. ‘Non vi è paragone, – egli dice, – fra le sofference del tempo presente e il peso di gloria che ci aspetta nella vita futura’. La gloria è un ‘peso’. È la presenza di un Essere che pesa, che schiaccia. Dio ha tale forza, tale grandezza che nella sua presenza vien meno la creazione intera. La gloria di Dio, prima di tutto, si direbbe che uccide e distrugge tale è la sproporzione tra l’essere creato e il Creatore. La creazione stessa si dissolve come fumo alla presenza di Dio. ‘Nessuno può vedermi e vivere’, dice Dio stesso nell’Antico Testamento. Com’è possibile allora che questa gloria si manifesti, se la sua manifestazione di fatto distrugge le cose? Il peso di Dio, in Sè medesimo, non è ancora la gloria. La gloria di Dio è ‘questo Essere divino’ che, facendosi presente dà alla creatura il senso della Sua pienezza, della Sua forza, della Sua trascendenza, del Suo peso. Distrugge la creatura ma perchè la trasforma. La gloria di Dio implica una visione, una comunicazione di Dio….: la gloria è Dio che si dona ma proprio perchè il dono è reale e non vi è proporzione tra l’essere creato e Dio, l’essere creato non può sopportare il peso di Dio, non può accoglierlo che venendo meno in qualche modo a se stesso. La creatura vien meno, per risorgere in Dio. Per la gloria la creazione entra nel mistero di Dio: Dio è incomunicabile, ma nella sua gloria Egli si comunica al mondo. E il mondo che entra in rapporto con Dio per la gloria, tanto più partecipa alla gloria di Dio quanto più entra nel suo mistero. Proprio perchè DIO è un’altra Realtà nei confronti della realtà creata, nella misura che Dio si manifesta, coloro a cui si manifesta, entrano nella invisibilità di Dio, entrano nel segreto di Dio, scendono nel silenzio, precipitano e spariscono nella luce divina, affondano in Dio e sono sommersi. Vi è un rapporto di continuità fra la grazia e la gloria – così tu, pur essendo già in Dio, continui a vivere anche quaggiù la grazia già ti trasferisce nel seno di Dio ma non totalmente; così tu, pur essendo già in Dio, continui a vivere quaggiù in una condizione ei esilio, di lontananza, di estraneità al mondo divino. Ma già la grazia è la comunicazione che Dio fa di Se stesso, comunicazione per la quale Egli trae le creature, che aveva solevato dal nulla, nel suo stesso mistero. Dio l’ha stabilita nell’essere, ma per Iddio l’averla creata è soltanto condizione per poi trarla nel suo segreto, nel suo mistero, nel suo intimo Seno. Questo processo onde la creature è tratta nel segreto di Dio è il cammino della vita religiosa, è il cammino stesso della rivelazione divina, il cammino perciò della gloria. Questo processo termina con la morte, perciò con la morte l’uomo esce definitivemente da questa realtà creata e precipita nella Realtà divina: questo è l’ultimo atto di una comunicazione che Dio mi fa di Se stesso, comunicazione che esige precisamente la fine della condizione di vita che è propria della creatura come tale. All’inizio Dio si rivela, si direbbe, nel modo più clamoroso. La trascendenza di Dio si svela agli uomini nei fenomeni più straordinari, negli avvenimenti cosmici, nella creazione intera. Avanti di Abramo e anche dopo nelle religioni che non hanno acceduto alla rivelazione profetica, Dio è conosciuto attraverso i grandi avvenimenti del cosmo: le stagioni, l’uragano, il terramoto, l’immensità dei mari… sono manifestazioni di Dio. Dio esce nella sua gloria dal suo segreto: e attraverso questi avvenimenti l’uomo è chiamato a percipire un’altra Realtà, a rendersi conto del peso di un altro mistero di cui questi avvenimenti sono il segno soltanto. Nella religione cosmica il rapporto con Dio si stabilisce attraverso questi avvenimenti straordinari di una imponenza magnifica che schiacciano l’uomo, lo atteriscono, tuttavia principalmente sul piano fisico. L’uomo si sente minacciato e sgomento. Dio non si fa vicino all’uomo che suscitando lo sgomento della morte. Quando Dio si fa più vicino, la rivelazione si fa meno impressionante sul piano esterno e l’uomo è sollecitato ad entrare finalmente nel mistero di Dio. Mentre nella rivelazione cosmica Dio rimane lontano, nella rivelazione profetica Egli si fa vicino all’uomo, entra nella sua storia. La manifestazione della gloria di Dio non ha più un legame soltanto con gli avvenimenti del cosmo, ha un legame con la storia dell’uomo. Dio si è fatto più vicino all’uomo e l’uomo Lo scopre, ora, nella sua medesima vita, nella sua medesima storia. Ma la rivelazione ultima è quella del Cristo: Dio non soltanto si fa vicino ma veramente si dona e si comunica nell’umiltà più profonda di una vita comune. Via via che Dio si avvicina all’uomo e la rivelazione divina si fa più piena, ma anche più intima all’uomo, anche l’uomo procede in un cammino di libertà e di responsabilità. All’inizio quando Dio gli parlava attraverso la natura era difficile e quasi impossibile per l’uomo poter sottrarsi alla sua luce, allora l’umanità poteva essere idolatra, ma era religiosa; oggi, al contrario, ci si domanda se è possibile che permanga la fede senza la religione. Sembra che l’umanità proceda verso una età che non avra più religione. Forse è esagerato, anzi forse è del tutto impossibile che l’umanità si incammini verso questa età. Tuttavia è vero che il processo della rivelazione divina terminando nel Cristo non riconosce più nella natura il ‘segno’ più alto di Dio. Il ‘segno’ più alto di Dio è l’uomo. Ma l’uomo può negarsi ad essere segno. Di qui il carattere di maggiore discontinuità che ha il fenomeno religioso per il mondo di oggi. La fede che l’uomo presta a Dio diviene sempre più un atto libero – non si fonda più sul rapporto necessario che l’uomo ha con una natura ancora sacra e rivelatrice di Dio. In questo cammino se Dio dunque si fa più intimo all’uomo, anche più si nasconde. La ‘secolarità’ del mondo moderno di cui spesso si parla, è ambigua – può essere la testimonianza più alta di un’esperienza di Dio non pero ‘altro’ dall’uomo ma divenuto veramente uno con lui nel primo fulgore della rivelazione cristiana, ma può essere anche l’essenza vera di Dio, può essere per l’uomo ‘la morte di Dio’. È estremamente difficile vivere il Cristianesimo: noi siamo ancora dei primitivi, nella nostra religione ancora si avverte più Dio nel terremoto o nell’immensità del mare, di quanto non si avverta nel Cristo, di quanto non si avverta e non si comunichi con Lui nel Mistero eucaristico. Siamo estranei ancora al mistero di Dio. In realtà la gloria più alta di cui l’uomo abbia mai avuto esperienza quaggiù è stata ed è la rivelazione che Dio ci ha fatto di Sè, nell’umiltà di Gesù. La rivelazione della gloria nell’umiltà di Gesù è veramente per l’uomo un discendere, un entrare proprio nell’intimo seno della divinità. In Cristo infatti veramente la natura umana è stata assunta da Dio. La gloria di Dio non più come nella rivelazione cosmica manifesta Dio nel peso di uno sgomento di morte, la gloria ha invece il peso di un amore che l’uomo non riesce a concepire e a contenere in sè. La creatura non saprà mai credere pienamente a questo amore. Anche per i Santi la cosa più difficile è credere all’amore di Dio nel Cristo. Credere cioè che l’Infinito, l’Immenso in tal modo ci abbia amato da farsi davvero nostro fratello, da divenire veramente figlio dll’uomo così che l’uomo lo possa portare sulle braccia, lo possa stringere al cuore. Altro il peso della grandezza divina che ti minaccia di morte nel terremoto, altra la rivelazione dell’amore di Dio nell’umiltà di Gesù! L’umiltà, la debolezza dell’infanzia del Cristo è qualche cosa che non ha proporzione assolutamente nè con tutta la creazione nè con tutta la storia del mondo. È un abisso, una immensità infinitamente più vasta di ogni tuo spirito. Come non vi è proporzione fra la materia e lo spirito, così non vi è proporzione fra una gloria che si manifesta nella potenza degli avvenimenti del cosmo e la rivelazione della gloria che si manifesta invece nella delicatezza, nell’umiltà di un amore che si spoglia di tutto per tutto donarsi. La rivelazione suprema di Dio è questo ‘sparire’ di Dio nella umiltà del Cristo. E questo ‘sparire’ di Dio nell’umiltà del Cristo accenna e prepara il totale sparire di Dio come ‘altro da te’ nella vita futura. Nella vita futura la gloria è semplicemente il superamento della dualità: Dio non è più ‘altro da te’, rimane la distinzione della creatura da Dio, ma la distinzione sussiste nella unità: tu non dici che Dio, tu non sei più che Dio, tu sei la sua santità, la sua vita. Non puoi cercare al di fuori di te una visione di Dio: la visione beatifica si identifica al possesso di Dio, si identifica alla tua ‘Unità’ con Lui alla tua trasformazione in Dio stesso. Rimane la distinzione ma nella unità. In questa unità non è soltanto l’uomo che sparisce come altro da Dio, è anche Dio che ‘sparisce’ come altro dall’uomo. Sparisce come ‘altro’ da te. Il cammino della gloria è precisamente un cammino di umiltà. È il cammino infatti onde l’uomo entra sempre più nell’abisso di Dio e sparisce e non rimane più che la luce divina. Dio si comunica in tal modo all’uomo che l’uomo non lo può trovare più al di fuori di sè. Prima lo vedeva nel cosmo, poi lo riconosceva nella sua medesima storia, poi Dio entrava nella sua medesima vita finchè Egli diveniva Uomo diveniva lui stesso. Di fatto, nella misura che Dio rimane ‘altro’ dall’uomo l’uomo è nell’inferno. L’inferno è la divisione. (Non la distinzione perchè la distinzione rimane eterna, ma la divisione). È per noi estremamente difficile vivere la festa della gloria nel seno del Cristianesimo. Per noi Dio sembra manifestarsi di più nella luce di un tramonto o nella solennità del silenzio dei monti, che nella nostra umile vita, che nei nostri poveri sentimenti umani. Di fatto tuttavia, l’atto supremo di una comunicazione di Dio nella vita presente è la semplicità di una Comunione Eucaristica. L’atto supremo della gloria quaggiù è perciò una comunione onde Dio si dona a te ed entra in te e tu Lo possiedi nella umiltà di un suo nascondimento totale, che implica anche un tuo nascondimento in Lui. In tanto Egli di fatto si manifesta nel suo nascondimento e tu Lo ricevi in quanto tu stesso entri nel suo occultamento divino. La rivelazione suprema della gloria non potrà mai avvenire, comunque, nella vita presente, ma avviene con la morte, perchè è precisamente con la morte che l’uomo precipita definitivamente nel silenzio di Dio. Così la gloria d’identifica al silenzio e alla morte. Ma è nel Cristo ora che Dio si rivela (e non è detto che anche domani non debba essere il Cristo, ma domani in quanto in Lui io sono già trasformato, oggi in quanto il Cristo ancora mi parla come fosse altro da me) ‘Filippo chi vede me, vede il Padre’. Proprio per questo la gloria di Dio è sollecitata oggi dell’uomo nel mistero della Epifania e della Trasfigurazione. Nell’Epifania è Dio che si rivela al ‘mondo’. L’accento vien posto su Dio. Nella Trasfigurazione è l’uomo ‘il mondo di quiaggiù’, che sia pur furtivamente, entra nella gloria divina. L’accento vien posto sull’uomo. È la medesima gloria, ma noi la contempliamo in due misteri distinti: nell’atto onde Dio si rivela agli uomini, nell’atto onde gli uomini entrano in questa gloria. Nella prima festa la Chiesa celebra l’Epifania di Dio nella debolezza e nella impotenza di Gesù Bambino, nella seconda, al contrario, celebra la Trasfigurazione dell’Uomo Gesù investito della gloria di Dio. La gloria di Dio si manifesta nella debolezza dell’infanzia perchè questa debolezza non suppone alcuna collaborazione dell’Umanità di Gesù alla manifestazione della gloria: nella sua debolezza, nella sua impotenza Egli è la Gloria. Il Vangelo insiste in modo particolarissimo nel farci riconoscere nei misteri dell’infanzia la manifestazione della gloria. Il Verbo non ha bisogno di particolari atti compiuti dalla sua Umanità per riverlarsi al mondo: nel suo stato di debolezza, di umana impotenza, di umiltà, Egli è la Gloria. ‘Gloria a Dio nell’alto dei cieli’, hanno cantato gli Angeli sopra la grotta di Betlem. Da adulto la gloria si rivela in Cristo attraverso una collaborazione della sua Umanità all’azione di Dio che si comunica al mondo. Così il mistero della Trasfigurazione è legato, nei Vangeli sinottici, alla Passione. Nella Trasfigurazione è veramente l’Umanità che entra nella gloria ed è trasfigurata da Dio, ma vi entra attraverso una partecipazione, una collaborazione, consapevole, libera e piena di amore. Nella misura che l’uomo è quello che è, povero, debole, impotente, Dio già lo fa segno della sua presenza, perchè Egli l’ha assunto e ne ha fatto lo strumento e il sacramento della sua gloria immensa. Ma l’uomo deve anche entrare progressivamente in questa luce collaborando all’azione stessa di Dio. Così il mistero dell’Epifania e quello della Trasfigurazione sono celebrati proprio perchè la celebrazione è anche partecipazione al mistero. Ognuno di noi è segno già di una presenza di Dio, lo è non nella misura che è grande, che è potente, ma nella misura della sua impotenza, della sua debolezza, della sua umiltà. Dio che ha assunto la natura umana in Cristo per rivelarsi in questa natura, in atto primo ha assunto anche ogni uomo. E tu devi riconoscere il segno di Dio nella umiliazione dell’uomo, nella sua povertà. Così insegna giustamente la spiritualità ortodossa e specialmente russa. Ecco come noi dovremmo avvicinarci (perchè altrimenti non sapremmo riconoscere in Gesù bambino il Figlio di Dio) ai poveri, ai sofferenti, agli umili; a questi uomini che sembrano non valere, non essere nulla agli occhi del mondo: essi sono il segno di Dio. Dio non si rivela più tanto negli avvenimenti cosmici e nemmeno negli avvenimenti storici, ma nella debolezza di un Bambino che non sa parlare, si rivela nell’impotenza di un Bambino che ha bisogno di difesa, si revala null’umiltà di un Bambino deposto su una mangiatoia. La gloria di Dio non si rivela nei miracoli del Cristo come si rivela in questa sua debolezza ed impotenza. Proprio nella misura che Dio si fa presente, riduce l’apparato della sua grandezza. E ogni uomo participa del mistero della gloria di Dio che si rivela nell’impotenza, nell’umiltà di Gesù bambino, nella misura che ogni uomo è povero, debole come Lui, nella misura che è quello che è, una povera creature. Non potremo avere una rivelazione più alta della gloria divina che di saperci, di sentirci il termine di un Amore immenso. E la nostra povertà che potrebbe sembrarci un ostacolo insuperabile è il segno precisamente della più meravigliosa rivelazione dell’amore divino; proprio perchè siamo poveri si manifesta più grande l’amore di Dio in noi. Noi non possiamo che aprirci a uno stupore senza fine nel saperci amati, nel sentirci amati per nulla. È proprio la povertà dell’uomo che dice l’incommensurabilità dell’amore divino; è proprio la nostra debolezza che dice l’insondabile ricchezza della misericordia infinita. Dio si rivela precisamente in questo come Dio, per il fatto che ci ama, per il fatto che si dona a noi, per il fatto che Egli ha voluto esser una cosa sola con noi, non scegliendo la grandezza umana, ma scegliendo la nature umana spoglia di qualsiasi valore che non fosse la sua debolezza e la povertà di creatura. Realizzare tutto questo vuol dire vivere veramente il nostro cristianesimo nel senso più pieno e più vero. Per il mistero della Trasfigurazione l’uomo partecipa alla gloria attraverso una sua collaborazione umana. Ma la collaborazione è sempre ben povera cosa. Se l’atto supremo onde l’uomo entra nella gloria è la morte, il sottrarsi definitivo dell’uomo alla vita presente, tuttavia la morte non può mai che essere accettata dall’uomo. La collaborazione che Dio chiede all’uomo non sarà che l’impegno di una volontà che si libera, si scioglie da ogni legame e si offre puramente a Dio. Non si vuole appartenere più, si lascia investire da Dio, si lascia possedere da Lui, si strappa a se stessa per abbandonarsi all’amore di Dio come alla morte. * * *

Per noi cristiani, la gloria di Dio dunque non è più (anche se non è esclusa) la rivelazione che Dio fa di Se stesso attraverso la creazione e non nemmeno più la rivelazione che Dio fa di Se stesso attraverso una storia in cui Egli stesso interviene: è l’uomo che Egli ha assunto in unità di persona. A una prima visione sembrerebbe che la gloria di Dio, nella sua manifestazione, vada diminuendo. Da una manifestazione di avvenimenti cosmici a una manifestazione di umiltà; da una manifestazione di potenza ad una manifestazione che si riduce quasi al nulla. In realtà se noi siamo scandalizzati da questo processo, lo siamo perchè noi rimaniamo estranei al processo stesso, non abbiamo cioè camminato con Dio. Se tu rimani estraneo a Dio, Dio, per te, si occulta sempre di più. Se invece ti lasci prendere da Lui, tu stesso entri nel segreto divino, tu stesso entri in Dio. L’occultamento di Dio allora è il to stesso occultamento in Lui. Non è perchè Egli ti è estraneo che rimane nascosto, è al contrario perchè tu stesso ti assimili a Lui e quasi in Lui stesso ti perdi. Per chi rimane al di fuori di Dio, certo, il Bambino Gesù non sembra più nulla. Mentre nessuno può rimanere indifferente a uno sconvolgimento cosmico, molti possono rimanere indifferenti di fronte al sorriso di un bambino. Se noi non rimaniamo indifferenti ad una rivelazione che ci colpisce dall’esterno (appunto perchè viviamo all’esterno) possiamo rimanere invece indifferenti ad un rivelazione che si fa soltanto nell’intimo. Proprio perchè Dio si è comunicato più intensamente, più personalmente, questa comunicazione di Dio non avviene più in tal modo da colpirti dall’esterno: deve invece realizzarsi nel più intimo del cuore. Se tu rimani fuori di te, nessuna rivelazione si compie per te: Dio si fa vicino ma tu non ti incontri con Lui. È proprio avvicinandosi all’uomo che Dio gli diviene sempre più estraneo se l’uomo non entra in se stesso, non lo cerca nel suo intimo cuore. La maggior parte, anche degli uomini sente ancora la presenza di Dio più dinanzi all’immensità dei mari che in una piccola cappella odorante di incenso. Così avenne anche fra i popoli in mezzo ai quali viveva Israele: Israele sapeva riconoscere Dio nella sua storia, gli altri popoli no. Ma soprattutto, così è avvenuto per la maggior parte degli uomini quando Dio si è fatto uomo: pochissimi seppero riconoscerlo. Perfino agli Apostoli, che erano vissuti con Lui per tanto tempo, Gesù deve dire: ‘Filippo, da tanto tempo io sono con voi e ancora non me avete conosciuto. Filippo, chi vede me, vede il Padre’. L rivelazione suprema implica l’occultamento più grande. Quanto più la nostra vita religiosa diviene profonda, tanto più, non solo diviene segreta, ma divience semplice, perde ogni apparato esterno, si spoglia, si fa pura come la luce. Non è’ così la vita di Maria SS? Forse la stessa Annunciazione si è compiuta in una ispirazione interiore (e san Luca, forse, ha dovuto descriverla in termini di visione, perchè altrimenti noi non avremmo capito): Maria SS. che viveva nell’intimità più profonda sapeva discernere la venuta di Dio, anzi viveva più grandemente la visione della gloria quanto più la visione era intima e segreta. Veramente quanto più Dio si comunica all’uomo e l’uomo entra nella gloria divina, tanto più rimane nascosto da questa medesima luce. La realtà dello spirito è più proporzionata a Dio della realtà fisica. È questa realtà che perciò è maggiormente significativa di Dio. La visione della gloria è più pura e più grande quanto più è spirituale. Più che nei grandi avvenimenti, è nel piano personale di una comunione di amore che si manifesta la gloria di Dio. La suprema manifestazione della gloria è l’amore di un Dio che muore per l’uomo. È il dono dello Spirito onde Dio si fa intimo all’uomo. Mai nessuna filosofia, nessuna religione avrebbe potuto immaginare una cosa simile. La fede cristiana veramente sconcerta, scandalizza e sgomenta. E se noi non siamo sgomenti e sconcertati è perchè noi ripetiamo sì le formule del catechismo, ma non ci preoccupiamo di realizzare quello che esse vogliono dire per noi. Vorrei dirvi quello che ho provato ieri, per due minuti, forse anche meno, durante la mia adorazione della sera: sentivo che il mio atto era tutta la vita, tutta la realtà: Dio si comunicava a me nella umiltà di quella mia esperienza umana, di quel mio vivere l’istante: Cristo era in me. E non esisteva più nulla al di fuori di me. Come potrei di fatto ricevere il Cristo, come potrebbe il Cristo communicarsi a me, se io non vivessi in quell’atto tutta la vita? Non è il Cristo tutto Dio e tutto l’uomo? Così al di fuori di quell’atto non c’era più nulla, e io vivevo in quell’atto la mia comunione col Cristo. Eppure com’è difficile per noi vivere questo! Come pochi sono sensibili a Dio nella rivelazione cristiana! La rivelazione suprema di Dio si realizza per l’uomo quando egli si sottrae a tutto il visibile e precipita per sempre nella luce infinita: la morte. Allora davvero non rimane più che Dio. Dio si è comunicato finalmente all’uomo, così da divenire per l’uomo tutta la vita e tutta la realtà, così da non esistere più per l’uomo che Dio. Parliamo con un linguaggio più semplice e più diretto: in che modo noi viviamo il nostro rapporto con Dio? sappiamo riconoscere Dio nella nostra umile vita, nella nostra esistenza reale? Come viviamo la nostra comunione con Lui? Dobbiamo essere sensibili ad una divina presenza, ad una presenza che dà al minimo atto dell’uomo una grandezza che ha le misure stesse di Dio, perchè nell’atto dell’uomo, se l’uomo ha fede, confluisce nell’istante tutto il bene divino. S’impone per me, non soltanto vivere nella presenza di Dio, come comunemente s’intende, quasi nel sentimento di una infinità nella quale sono sommerso, si tratta di vivere l’imensità di un amore che ha per termine me! che ha per termine questo mio istante di vita sul quale pesa l’immenso peso di gloria e di amore: Dio che mi ama! La testimonianze che sembrano anche le più alte di una mistica religiosa non cristiana, sono ben povera cosa nei confronti di una vita cristiana. Fuori del Cristianesimo non è mai realizzata da impazzire di gioia se noi veramente vivessimo questa esperienza: Dio, cioè, che si comunica a ciascuno e tanto più si manifesta quanto più si manifesta come Amore che ha per termine nessun altro che l’uomo, ogni uomo cui totalmente Egli si dona. Ma noi siamo come ciechi, viviamo immersi in questa luce, siamo l’oggetto di questa tenerezza infinita e ne rimaniamo come estranei, come estranei erano alla presenza del Cristo coloro che vivevano con Lui, i suoi ‘fratelli’; i suoi discepoli stessi durante la sua vita mortale. A noi, ora, si dona anche di più di quando Egli viveva nella sua vita mortale. Nel dono del suo Spirito ora Egli è veramente presente a ciascuno, ora veramente Egli si è fatto cibo dell’uomo per vivere in lui e per assumerlo in Sè. Veramente nel dono del suo Spirito Dio si comunica intimamente agli uomini e fa sì che gli uomini che lo ricevono, oggi e qui, possano vivere una vita divina! È proprio per questo che il mistero dell’Epifania non è soltanto il mistero di una manifestazione della gloria di Dio nell’umanità di Gesù. È anche il mistero della manifestazione della presenza di Dio nell’umiltà del Cristo. E Cristo siamo tutti noi che siamo le sue membra. E Dio si rivela proprio nelle nostra povertà, e Dio vuole veramente esser presente e vive nella nostra umiltà; si rivela ed è presente, non a noi ma in noi e per noi al mondo. Ognuno di noi, se è cristiano, è epifania del Signore. Essere cristiani vuol dire così essere della famiglia di Dio, vuol dire esser già entrati nel segreto di Dio, perchè, se Dio ci ha donato il suo Spirito, Dio in qualche modo ma realmente non è più senza di noi nè noi siamo senza di Lui. E noi siamo nella gloria; non vediamo semplicemente la gloria, in questa gloria già siamo in qualche modo trasformati. Di qui nasce l’obbligo fondamentale della vita cristiana: la glorificazione di Dio. È il dovere che praticamente riassume tutta la legge del cristiano: essere la lode, essere la gloria di Dio. E vuol dire lasciarsi investire, lasciarsi possedere da Dio. Altra gloria non puoi dare a Lui che quella di manifestarLo in te, che quella onde Lo riveli. Il Verbo di Dio è la gloria sostanziale del Padre precisamente perchè il Padre tutto si comunica al Figlio e, nel Figlio, tutto Egli possiede. Così il cristiano tanto glorifica Dio quanto si lascia investire da Dio finchè egli non riveli più se non Dio solo. La glorificazione dell’uomo non è l’atto dell’uomo ma di Dio, è come un essere consumati dal fuoco della Divinità, così che nell’uomo non viva più che la Sua luce, non si faccia presente che la sua volontà. Certo, l’uomo rimane, ma rimane per attestare Dio. L’uomo rimane ma non dice più che Lui. La vocazione dell’uomo è quella di essere Dio. L’uomo realizza se stesso soltanto se muore a una sua indipendenza, a una sua autonomoia nei confronti del Creatore e, lasciandosi investire dalla sua presenza, fa sì che Dio vive attraverso di lui, Dio si esprima, Dio si manifesti, Dio si riveli, Dio dica Se stesso attrverso l’essere creato.

Questo avviene nel Cristo. La natura umana in tal modo è stata assunta dal Verbo che il Verbo ora ‘si esprime’ attraverso questa natura creata che è l’uomo. L’uomo singolo che nacque dalla Vergine e tuttavia ogni uomo in cui in qualche modo si estende l’incarnazione divina. Quello che è avvenuto nell’uomo Gesù, questo deve avvenire così in ciascuno di noi. È vero che noi siamo persone distinte dalla Persona del Verbo, ma è anche vero che noi viviamo la nostra vocazione personale in quanto ci doniamo al Cristo e siamo posseduti da Lui sì da divenire con Lui un solo corpo, uno spirito solo. Che cosa vuol dire glorificare Dio? Vuol dire lasciarsi investire da questa presenza in tal modo che tutto quello che in noi è ‘proprio’ sia consumato come ruggine dal fuoco e non rimanga che l’amore onde Egli ci ama e ci fa suoi. Questa è la gloria che l’uomo deve dare a Dio: un lasciarsi possedere, investire, trasformare da Lui così che al termine Lui solo rimanga. Ricordo che un amico mi fece leggere alcune pagine di un romanzo di cui non ricordo più il titolo. L’autore americano, Huxley mi sembra, imposta il suo romanzo a Firenze. Il suo protagonista è un libertino che, quando muore precipita nella Realtà. L’autore ci descrive l’esperienze di quest’anima che vuole difendersi dall’invasione della luce divina. Quest’anima sfugge a questa luce, ma pian piano questa luce (l’autore pensa che l’inferno non c’è) nonostante la resistenza dell’uomo, lo invade, lo trasforma e lo assimila a sè. Secondo l’autore la vita del cielo è questa luce pura, senza ombra alla quale domani ogni anima si dovrà identificare. Non possiamo dire che ogni anima si identifica a Dio, questa identificazione sarebbe un processo che dovrebbe escludere la responsabilità personale dell’uomo ed escluderebbe anche l’amore personale di Dio. Una concezione come quella di Huxley più che cristiana è gnostica. Tuttavia c’è qualcosa di vero in quello che egli dice. Mantenendo fermo che l’amore dell’uomo a Dio è un amore personale, libero, che implica una nostra responsibilità (Dio aspetta da noi una risposta); mantenendo fermo che l’amore di Dio ugualmente è un amore personale e non è una necessità di natura, possiamo accettarlo veramente: non vi è possibilità di un incontro fra l’uomo e Dio che se cessa il senso della dualità: Dio è l’Unico. L »Advaita’ degli indù non è ancora per sè il monismo assoluto: la ‘non dualità’ non è ancora l’unità in qui scompare ogni distinzione di Dio e della creatura ma è il riconoscimento dell’unità nella loro distinzione eterna. Dio non più comunicarsi a te e divenire una ‘tua’ richezza, una ‘tua’ vita (sarebbe un negare Dio che Egli possa essere qualcosa e non tutto, possa essere qualcosa e non l’unico). Se Dio è Egli è tutto. Tu non puoi riceverlo che in quanto in Lui ti trasformi. Qual è la gloria che tu puoi dare a Dio? Lasciarti possedere da Lui. Che Lui sia. Che Dio sia Dio. In queste parole è la nostra risposta. Che Dio sia Dio, è già ora la nostra preghiera. Perchè questo avvenga, si direbbe, che Dio nell’avvicinarsi all’uomo debba in qualche modo sparire, perchè anche l’uomo sparisca in Dio. È veramente un processo di amore. Nell’amore ognuno che ama vuole l’altro prima di sè. Dio, che ama, tanto più si avvicina tanto più si fa povero, diviene quasi nulla: il Dio creatore ‘diviene’ il Dio creature, il Dio Bambino. Ma anche l’uomo, nella misura che ama, l’uomo peccatore, che contro la volontà di Dio difende una sua libertà e vuole affermare se stesso anche contro Dio, rinunzia a ogni ‘suo’ volere, a ogni ‘sua proprietà’ per abbandonarsi come la Vergine Maria e si lascia possedere e non vive più una sua vita finchè non vive più che la sua morte. Non vivendo più che l’amore non vive più di fatto che la morte, perchè l’amore è la morte, è la morte di sè. Tanto da una parte che dall’altra è un processo di umiltà e di morte. Ma Dio muore per vivere in te, e tu muori per vivere in Lui. Ed ecco che Dio, ora, non è più in Se stesso ma in te e tu, non vivi più in te stesso ma in Lui. Così come il Padre vive nel Figlio e il Figlio vive nel Padre. Non cercare più Dio fuori di te, Egli ora è soltanto in te, perchè Egli ti ama. Se fosse al di fuori di te non sarebbe l’Amore. Ma anche tu, se tu ami, non puoi trovarti più in te stesso, non ti ritrovi più che in Dio, non vivi più che in Lui solo.

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