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FRIDAY: Jesus’ Trial and Crucifixion

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Publié dans:immagini sacre |on 27 mars, 2014 |Pas de commentaires »

ANNOTAZIONI SULLA STORIA DELLA PRASSI PENITENZIALE – UNA LETTURA ATTUALIZZANTE.

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ANNOTAZIONI SULLA STORIA DELLA PRASSI PENITENZIALE – UNA LETTURA ATTUALIZZANTE.

Di Carlo Collo, Docente di teologia sistematica e di ecumenismo alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Sezione di Torino.
(In: Confessione addio? Edizioni La Meridiana, Molfetta 2005, pag. 41-60)

La disattenzione di non pochi credenti nei confronti della forma celebrativa penitenziale in vigore non va precipitosamente imputata alla sola cattiva volontà. È sotto gli occhi di tutti un estraneamento progressivo dalle forme tradizionali, propiziato dai mutamenti culturali e sociali, che concerne anche la percezione della colpa e del suo superamento.
Negli stessi ambienti ecclesiali ricorrono inquietanti interrogativi: la prassi penitenziale privata vigente non ha fallito di fronte ai gravi problemi etici odierni? Non è ormai chiaro che essa non ha presa e mordente nella vita sociale (mafia, violenza, corporativismi, violazione dei diritti della persona, ecc.), politica (corruzione) e culturale?
Una presa di coscienza pacata, lucida e coraggiosa dei mutamenti culturali e nel contempo delle istanze evangeliche si rivela quindi indispensabile per un’inculturazione della fede nelle nostre democrazie occidentali. È prevedibile che la prassi penitenziale riceva integrazioni e subisca cambiamenti, così da vedere « emergere poco a poco un nuovo sistema penitenziale fatto di proposte diverse »2.
Perché questo rinnovamento sia fecondo occorre interrogare il passato: il passato normativo delle Sacre Scritture e il passato istruttivo della movimentata prassi penitenziale cristiana nel corso dei secoli.
Il ricorso alla storia della penitenza cristiana è non solo utile, ma indispensabile e per molte ragioni. Ci dissuade dall’idealizzare il passato e ci mostra come e per opera di chi sono state superate le crisi via via verificatesi. Ci rammenta la ricca molteplicità di forme penitenziali nel tempo e nello spazio allargando i nostri orizzonti sulle molte vie penitenziali, suggerisce verità e prassi dimenticate, stimola la fantasia pastorale all’invenzione responsabile.
Solo esaminando l’evoluzione diacronica delle forme o figure penitenziali e la loro molteplicità sincronica si può scoprire la struttura permanente della penitenza o, se si preferisce, le costanti sotto le variabili. In questo modo la Chiesa si prepara a svolgere il suo compito, che consiste nel proporre « non solo una dottrina, ma anche una figura della penitenza e dellà riconciliazione che sia allo stesso tempo più fedele agli insegnamenti della Scrittura e della Tradizione e più adatta ai bisogni e alle attese di oggi « 3.

Un’incursione nella storia della prassi penitenziale

Contributi storici rilevanti sono venuti da B. Poschmann, P. Galtier, E. Amann, J.A. Jungmann, P. Anciaux, C. Vogel, K. Rahner, H. Vorgrimler e altri. Da essi risulta che la riconciliazione con la Chiesa svolgeva un ruolo determinate nell’antica prassi penitenziale (M. de la Taille e B. F. Xiberta4, poi H. de Lubac, E. Mersch, M. Schmaus, K. Rahner, O. Semmelroth, E. Schillebeeckx e soprattutto B. Poschmann). Non consta che nella Chiesa antica esistesse una penitenza sacramentale privata accanto a quella ufficiale pubblica (Poschmann, nella sua lunga controversia con K. Adam e P. Galtier).
Mi pare che nulla di particolarmente significativo sia emerso dalle indagini storiche successive, mentre i dati degli studi suddetti attendono ancora di essere adeguatamente valorizzati nella teologia e nella prassi penitenziale.
La periodizzazione ormai invalsa è la seguente: penitenza neotestamentaria; penitenza antica, pubblica, canonica (dal II al VI secolo); dal secolo VI in poi: penitenza tariffata evoIuta poi in penitenza privata coesistente con altre forme penitenziali; dal secolo XVI: contestazione protestante e reazione dottrinale e disciplinare tridentina; dal Vaticano II a oggi.
La prassi penitenziale neotestamentaria propone anzitutto la quotidiana sollecitudine amorevole di Gesù per i peccatori, esemplare e normativa per la Chiesa di tutti i tempi. La missione di « legare e sciogliere » affidata a Pietro (Mt 16,18-19), non va forse considerata estesa in Mt 18,18 a tutti i cristiani, singoli e comunità, come la intendono molti esegeti e già Sant’Agostlno5?.
A proposito di Gv 20, « ritenere i peccati » non significa « non rimettere i peccati », come traduce la Bibbia della CEI, ma richiedere degli adempimenti al fine di poter rimettere i peccati come dono di Cristo spirituale (ruolo dello Spirito) e pasquale (evento della risurrezione)6.
Una lettura attenta del Nuovo Testamento permette di individuare diverse prospettive dottrinali e pratiche circa la remissione dei peccati che non vanno frettolosamente omologate7 e una pluralità di iniziative scalari di lotta contro il peccato, di carattere preventivo, curativo e chirurgico8.
Merita di essere rilevata anche la differenza tra la procedura di Mt 18 e la successiva penitenza pubblica della Chiesa primitiva. Il Nuovo Testamento attesta una prassi penitenziale molto ricca, che mobilita tutta la comunità e i singoli. Secondo Mt 18,15ss., per ottenere il perdono dei peccati bastava accettare l’ammonizione privata del fratello, di alcuni fratelli o della comunità, cessando di peccare. Se il peccatore prestava ascolto al fratello-cristiano non era più necessario far intervenire la comunità. Come suggeriscono esegeti contemporanei, va preso atto che il singolo non agiva privatamente, ma come membro della comunità ecclesiale che con il suo intervento correttivo in favore del fratello rendeva presente e operante9.
Anche la successiva prassi penitenziale della Chiesa primitiva in vigore nel II secolo non risulta uniforme e questo pluralismo permane fino alla pace costantiniana, quando si affermerà, almeno in Occidente, l’unicità della seconda penitenza a immagine di quella battesimale10.
La Didascalia degli apostoli ignora l’irripetibilità della penitenza postbattesimale, elemento prezioso da inserire nel dossier del pluralismo della Chiesa antica. Coesistevano, a quanto pare, prassi più rigorose con altre più comprensive, finché il laico montanista Tertulliano, nel suo De pudicitia, pretenderà di imporre come unica la sua posizione intransigente, polemizzando contro i vescovi di Cartagine e Roma.
Dopo l’editto di Milano (314) esce alla luce del sole un sistema penitenziale comunitario (in questo senso pubblico), esigente e regolamentato dai canoni (di qui la dicitura di penitenza canonica) che lo rendono sempre più uniforme e che, per il troppo rigore (interdetti), si avvia verso un progressivo inesorabile declino nel secolo Vl11.
Quali sono le ragioni che hanno indotto i pastori a non modificare una prassi penitenziale manifestamente impraticabile e a preferire il « deserto penitenziale »? Volendo essere fedeli alla tradizione, erano riluttanti a innovare, e probabilmente temevano di proporre ai barbari un cristianesimo troppo accomodante. Ma ciò nonostante « si fa fatica a capire come mai vescovi coscienti del loro ruolo pastorale, non abbiamo messo in discussione in nome del Vangelo il postulato della penitenza non reiterabile »12 e non siano riusciti a elaborare una nuova pastorale della riconciliazione e del perdono esente dagli interdetti e accessibile ai normali credenti nella nuova situazione. Questo enigma irrisolto della Chiesa antica deve far riflettere i fautori della conservazione a oltranza e dell’immobilismo pastorale.
È dagli uomini dello Spirito, dai carismatici, cioè dai monaci che nascerà una nuova forma penitenziale, la quale, dapprima collaudata all’interno del monastero, traboccherà sul resto del popolo di Dio: la penitenza celtica.
L’origine e la metamorfosi della penitenza celtica, irlandese, iro-scozzese o, come più tardi si dirà, tariffata o tassata, privata, ripetibile, senza interdetti, rimane ancora avvolta nel mistero. « I promotori di questo nuovo sistema non sono dei vescovi o dei teologi, bensì dei monaci. La disciplina che essi diffondono è una versione, a uso dei laici, di un’osservanza praticata nei monasteri »13.
La complessità e la non raggiunta chiarezza sul dossier storico di tale penitenza non ci permette di distinguere nettamente tra il ruolo del vescovo, del presbitero e del monaco guida spirituale. Anche sull’assoluzione, sulla sua necessità e sullo statuto del ministro si giungerà a chiarificazioni definitive solo nel secolo XIII. Antecedentemente, le formule erano solo o prevalentemente deprecative. Anzi « nei Penitenziali irlandesi non si trova traccia alcuna di una (rituale) riconciliazione. La mancanza di formule di riconciliazione (come anche dell’intercessione della comunità per il peccatore, componente della massima importanza nella penitenza canonica) costituisce la novità e il discrimine fondamentale tra il nuovo sistema penitenziale, che per le sue origini monastiche è aliturgico – e l’antica prassi canonica »14.
« La documentazione fornita dai penitenziali fino al secolo IX mostra che, in un primo tempo, questi monaci non davano l’assoluzione, sempre riservata al vescovo. Si accontentavano di indicare una penitenza ancora lunga, ma molto ridotta rispetto alla disciplina pubblica, che poteva essere compiuta segretamente. I formulari delle preghiere dei penitenziali dicono che al termine di questa penitenza il peccatore era ‘riconciliato con l’altare’, vale a dire riammesso all’eucaristia. In un secondo tempo (a partire dal 950), si assiste alla comparsa della menzione di assoluzione che si collega immediatamente alla confessione. La riconciliazione divenne ormai il ministero corrente del sacerdote. Questa assoluzione era da principio deprecativa, e si svolgeva sotto forma di preghiera (« Dio ti assolva…), prima di diventare indicativa (« io ti assolvo… ») « 15.
Questi inizi incerti e ambigui della penitenza monastica hanno sollevato alcuni interrogativi. Nella fase in cui essa non comportava ancora l’assoluzione, costituiva già un vero e proprio sacramento?
Secondo B. Sesboué, « si può affermare che la penitenza monastica è stata sacramentale perché si impose come dato di fatto alla Chiesa, che progressivamente la riconobbe. Ma bisogna riconoscere anche che essa è stata una forma ‘inferma’, nella misura in cui uno degli atti essenziali del sacramento non aveva significato in modo visibile, ma si inscriveva soltanto nel riconoscimento globale della Chiesa ». Egli osserva che « questo fatto, indiscutibile in ragione della sua durata, può essere considerato con interesse oggi, quando vediamo moltiplicarsi i casi in cui i laici inviati dal vescovo in missione pastorale in cappellanie (di licei, università, ospedali, prigioni…) si trovano nella situazione di ascoltare le confessioni senza potere dare l’assoluzione »16.
Concordo con Sesboué, ma vorrei aggiungere alcune considerazioni. Anzitutto « non bisogna maggiorare la grazia sacramentale a detrimento della (prima) realtà di grazia che si dispiega nella Chiesa-sacramento. Bisogna evitare di far credere – di fronte a certe richieste – che non vi sia grazia se non attraverso i sacramenti « 17. In secondo luogo gli stessi sette riti vanno intesi come sacramenti « in quanto in essi la Chiesa realizza e concretizza la sua presenza, che rivela e comunica la salvezza; e la Chiesa è sacramento, perché essa è il luogo in cui la presenza attiva e salvifica di Cristo morto e risorto, viene incontro all’uomo di oggi »18.
Sul modello di Cristo, ciò che è essenziale per comunicare il perdono di Dio è l’accoglienza del peccatore pentito da parte della Chiesa (di tutta la Chiesa, non della sola gerarchia né dei soli laici mandati dalla gerarchia). Ciò che significa e comunica il perdono di Cristo « non è per sé e necessariamente un determinato gesto o una determinata parola, ma l’atto (percepibile), con cui il capo della comunità riammette il peccatore… Di per sé non ha grande importanza, se il perdono viene espresso con il semplice gesto di offrire l’eucaristia, o con una preghiera rivolta al Signore misericordioso (forma deprecativa), o con una formula di sapore giuridico (forma dichiarativa) » 19.
La prassi penitenziale irlandese, secondo cui il monaco (non presbitero), senza mandato episcopale, ammette il penitente pentito all’eucaristia (altario reconciliatur) costituisce certo un caso singolare, ma non potrebbe essere interpretata come evento ecclesiale di riammissione suscitato dallo Spirito Santo? Quando i capi sonnecchiamo (impraticabilità della penitenza pubblica), lo Spirito suscita nella Chiesa iniziative riconciliatrici servendosi, in questo caso, di carismatici, di monaci.
La riforma carolingia della penitenza voluta dalle autorità civili e religiose rappresenta un intervento regolativo, non innovativo con luci e ombre20.
Non vanno dimenticate le altre forme di confessione e di penitenza medievali: la confessione diretta a Dio (vigente ancor oggi, se si tiene conto che, in presenza del sacerdote, è a Dio che ci si confessa: « Confesso a Dio onnipotente… »); la confessione ai laici vigente nel Nuovo Testamento, usata nel Medioevo in caso di necessità e approvata e raccomandata da San Tommaso, che le attribuisce una certa quale (imperfetta) sacramentalità21; i pellegrinaggi penitenziali e i pellegrinaggi di massa negli anni santi o giubilei. Questa pluralità di forme complementari salda la dimensione più intima e segreta della relazione con Dio con la manifestazione comunitaria del perdono e della riconciliazione che si esprime anche nello spazio (pellegrinaggio) e nel tempo (tempi significativi),
Sorvolo sul risveglio spirituale del XIII secolo, in cui l’opera di grandi papi riformatori, la nascita degli ordini mendicanti e il moltiplicarsi delle confraternite professionali preparano il terreno per l’affermarsi della penitenza privata, oltre che come mezzo di riconciliazione, come strumento di purificazione e progresso spirituale, sulla confessione frequente diffusa dai francescani e dai domenicani, che la praticano al loro interno e la estendono ai membri dei terz’ordini per giungere alla Riforma protestante e al Concilio di Trento.
li fatto che Lutero e gli altri riformatori abbiano rigettato elementi non marginali della dottrina e della prassi penitenziale ecclesiale non deve far dimenticare il loro intento principale. Essi non si limitarono a combattere gli abusi connessi con la ricerca delle indulgenze e la devozione alle reliquie, ma intesero riformare secondo la Parola di Dio una prassi penitenziale asfittica e farraginosa, incentrandola sui valori evangelici essenziali e liberandola da tutto ciò che la rendeva opprimente e torturante22.
La risposta del Concilio di Trento mirò a salvaguardare la sostanziale validità della prassi in vigore – di cui i padri conciliari non conoscevano sufficientemente le trasformazioni storiche – depurandola dagli abusi, ma recepì solo in minima parte le giuste istanze dei protestanti, Una qualche reminiscenza del pluralismo penitenziale trapela ancora dall’affermazione conciliare secondo la quale i peccati veniali « possono essere espiati con molti altri rimedi »,
La recezione del dettato conciliare a modo di summa esaustiva della dottrina e della prassi penitenziale, attuata dal cosiddetto tridentinismo, ha fatto sì che la teologia si riducesse a semplice commento dei canoni conciliari e la prassi diventasse appannaggio esclusivo della morale, del diritto canonico, della pastorale e della spiritualità. Lo Spirito che soffia dove vuole ha nondimeno suscitato confessori santi e sapienti, migliori della teologia del loro tempo.
li Concilio Vaticano II ha sancito – almeno sulla carta un cambiamento di mentalità e ha assunto ciò che era maturato negli studi teologici e liturgici, proponendo gli orientamenti fondamentali teologici e pastorali ai quali il nuovo Rito della penitenza del 1973 ha tentato di dare forma dottrinale, nelle Premesse, e celebrativa, nella parte rituale. Le premesse offrono il primo trattato organico sulla penitenza cristiana e la parte rituale propone tre riti (ordines):
- rito per la celebrazione dei singoli penitenti (ordo ad reconciliandos singulos paenitentes);
- rito per la riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione dei singoli (singularis);
- rito per la riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione generale.
Le celebrazioni penitenziali (non sacramentali) poste nell’appendice, adattabili alle diverse culture e in grado di promuovere un vero cammino penitenziale distribuito neltempo meriterebbero maggiore attenzione23. L’esame della dottrina e della prassi penitenziale delle Chiese ortodosse, anglicane e protestanti si rivela comunque indispensabile per ripensare e progettare adeguatamente il rinnovamento della prassi penitenziale cattolica.

Il rinnovamento della prassi penitenziale compete a tutti i cristiani

La storia attesta che la prassi penitenziale neotestamentaria richiedeva la partecipazione di tutti i cristiani (fratelli) e di ciascuno di essi. I capi della Chiesa intervenivano solo in ultima istanza (cfr. Mt 18 e 1Cor 5). La lotta contro il peccato era affidata a tutti i credenti nella diversità dei loro compiti.
Nella Chiesa dei padri la partecipazione non solo coreografica di tutto il popolo di Dio è ancora una realtà, che si attenua però con l’accentramento dei compiti nelle mani dei vescovi, con l’irrigidirsi della disciplina penitenziale e con il rifiuto opposto dai fedeli di sottoporsi a una disciplina penitenziale impraticabile caparbiamente conservata dai vescovi.
La nuova disciplina penitenziale sorge per opera dei carismatici, i monaci e, solo successivamente e non senza riluttanza, viene accolta dai vescovi. Agli ordini mendicanti si deve la diffusione della penitenza privata.
La nuova fase che si apre di fronte a noi non potrebbe comportare il ruolo attivo dei christifideles laici sia nella progettazione che nell’ attuazione di una rinnovata prassi penitenziale? L’ecclesiologia del Vaticano II offre notevoli impulsi in questa direzione. Dopo la riscoperta dell’uguale dignità di tutti i christifideles, della loro corresponsabilità nella vita della Chiesa e del loro ruolo attivo; dopo il riconoscimento della loro partecipazione all’ufficio profetico e regale di Cristo, che comportano tra l’altro « la denuncia coraggiosa del male » e « il combattimento spirituale per vincere il male in se stessi » e nel mondo24, nonché del sensus fidei che dà ad essi di aderire indefettibilmente alla fede, di penetrare in essa più a fondo con retto giudizio e di applicarla più pienamente alla vita25, non è più ammissibile una progettazione penitenziale sopra la testa dei laici.
Soltanto dai laici potranno giungere suggerimenti e proposte atti a rendere la prassi penitenziale più incisiva sui gravi mali che ci affliggono personalmente e socialmente. La complessità dei problemi e delle situazioni è tale da richiedere un impegno corale e concertato dei credenti, che mettano al servizio gli uni degli altri le specifiche competenze e i carismi personali per approdare a proposte veramente profetiche. Sono finiti i tempi dei dotti confessori dai responsi oracoli per qualsivoglia questione morale.
È illusorio attendere solo dalla gerarchia l’auspicato rinnovamento della prassi ecclesiale. I vescovi sono chiamati a custodire le forme celebrative vigenti, ma anche a farsi, più che autori, promotori di una prassi penitenziale dinamica e multiforme, che tragga dalla meditazione della parola di Dio e dai tesori del passato cose nuove e antiche sia nell’ordine della penitenza quotidiana vissuta sia nelle varie forme penitenziali celebrate, non solo sacramentali. A tal fine devono essere disposti a concedere a teologi, liturgisti, pastori e comunità che operano in sinergia credito, spazio e tempo per la sperimentazione delle forme penitenziali con le opportune verifiche.
Certo questo rimarrà lettera morta se i presbiteri, che formano un unico presbiterio col loro vescovo e sono fra loro legati da un’intima fraternità, non s’impegnano per primi a riflettere fraternamente sulla prassi penitenziale nei loro incontri.
Non soltanto nella fase progettuale, ma anche in quella esecutiva tutti i christifideles sono chiamati a svolgere il loro ruolo. Il restringimento a imbuto della prassi penitenziale alla sola confessione dei peccati di esclusiva pertinenza dei vescovi e dei presbiteri ha privato i laici e i religiosi non presbiteri di ogni iniziativa penitenziale, particolarmente nella vita quotidiana. Ho già ricordato che la grazia non è legata ai sacramenti e l’azione materna della Chiesa inizia ben prima dell’amministrazione dei sacramenti e continua dopo di essi. Oggi, in molti luoghi, la Chiesa è presente e operante solo attraverso il ministero (ministratio) dei laici. E poiché la riconciliazione va testimoniata, annunciata e vissuta, e non solo celebrata, si dischiude un immenso campo di lavoro per i laici a servizio della riconciliazione e della conversione. La stessa consulenza spirituale non è appannaggio esclusivo del clero. Lo spirituale può essere un monaco, un laico, un insegnante,
un padre di famiglia, ecc.
Si tratta di rendere consapevoli i laici della loro missione di individuazione del male e di lotta contro di esso anzitutto nella loro persona e poi nel mondo, nelle strutture e nelle situazioni ingiuste.
Nella preparazione e nell’attuazione delle celebrazioni penitenziali i laici possono fornire preziosi contributi, se finalmente si cesserà di considerarli semplici destinatari delle iniziative del clero. Anche nella fase di verifica della prassi penitenziale possono offrire utili correzioni e proposte.

Le molte vie della riconciliazione e della penitenza

La storia della prassi penitenziale registra fino al Concilio di Trento una mobile pluralità di forme che dopo il Concilio cessa almeno di fatto26. I « molti altri rimedi »27 per espiare i peccati veniali evocati dal testo conciliare rimangono lettera morta. Dopo Trento alcune vie penitenziali (per esempio la confessione ai laici) si estinguono e quelle superstiti vengono ignorate dalla teologia e trascurate dalla pastorale. Bisogna attendere il nuovo Rituale del 1973 per vedere finalmente riconosciuti i « molti e diversi modi con cui il popolo di Dio fa continua penitenza e si esercita in essa « 28. Essi si esprimono nella vita (sopportazione delle prove, opere di misericordia e di carità, intensificazione della conversione evangelica, ecc.) e nella liturgia (proclamazione della parola di Dio, preghiera, elementi penitenziali della celebrazione eucaristica, celebrazioni penitenziali, ecc.)29.
Nella Reconciliatio et paenitentia, Giovanni Paolo II ricorda che la Chiesa svolge il suo ministero non solo « in quanto proclama il messaggio della riconciliazione [...] ma anche in quanto mostra all’uomo le vie e gli offre i mezzi per la quadruplice riconciliazione con Dio, con se stesso, con i fratelli e con tutto il creato »30.
Le vie sono la conversione del cuore e la vittoria sul peccato; i mezzi l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera personale e comunitaria, i sacramenti tra cui eccelle il sacramento della Riconciliazione31. I due mezzi principali per la promozione della penitenza e della riconciliazione sono la catechesi e i sacramenti, due mezzi da impiegare « in forme e modi antichi e nuovi », particolarmente con il ricorso a quel « mezzo e soprattutto modo » che è il dialogo32.
Altre vie di riconciliazione sono la preghiera, la predicazione, l’azione pastorale e la testimonianza33. Il sacramento della penitenza e della riconciliazione « non esaurisce in se stesso i concetti di conversione e di riconciliazione. La Chiesa, infatti, sin dalle sue origini conosce e valorizza numerose e svariate forme di penitenza: alcune liturgiche o paraliturgiche, che vanno dall’atto penitenziale della messa alle funzioni propiziatorie, ai pellegrinaggi; altre di carattere ascetico, come il digiuno. Tuttavia, di tutti gli atti nessuno è più significativo, né più divinamente efficace, né più elevato e in pari tempo accessibile nel suo stesso rito, del sacramento della penitenza »34.
È tempo di riscoprire le forme penitenziali antiche e inventarne di nuove, non a scapito del sacramento della riconciliazione, ma collegandole ad esso. Le varie forme penitenziali possono essere dislocate secondo un itinerario che inizia con le vie quotidiane della conversione e, attraverso le forme paraliturgiche e liturgiche, giunge fino al sacramento della penitenza.
La triade biblica (preghiera, elemosina, digiuno) costituiva il nerbo della penitenza quotidiana, quella ordinaria dei cristiani nella Chiesa antica dal momento che la penitenza pubblica era riservata ai peccati gravi e quindi straordinaria. Oggi essa richiede di essere ripristinata e arricchita di forme nuove, di nuove vie quotidiane della riconciliazione.
Possono essere considerate forme moderne della penitenza quotidiana il compimento diligente del proprio dovere in famiglia, nella società e nella Chiesa, l’accettazione delle situazioni che mettono alla prova (disgrazie, contrattempi, infermità), la carità attiva verso i fratelli, la correzione fraterna esercitata e accettata, il perdono reciproco, l’impegno per la giustizia, la semplicità di vita, la povertà liberamente scelta, l’ autolimitazione nei guadagni, l’assunzione di lavori non gratificanti, l’accettazione della monotonia del quotidiano, la sopportazione delle persone con cui si vive, la partecipazione al compito di evangelizzazione, la lettura personale della Parola di Dio, la preghiera, in primo luogo il Padre Nostro, il dialogo penitenziale in famiglia e tra amici, la confessione a un laico, la revisione di vita e tante altre iniziative. Queste vie quotidiane della riconciliazione sono concrete ed efficaci. Si pongono al centro della vita vissuta e la rinnovano dall’interno. Sono sempre a disposizione. Persuadono anche i lontani che diffidano delle celebrazioni e sono fruibili da quanti non possono accostarsi al sacramento della riconciliazione.
Naturalmente la riconciliazione e il perdono vissuti acquistano la massima intensità nei momenti forti della vita (nascita, matrimonio, morte, congedo, perdono concesso agli uccisori di una persona cara, rievocazioni di un passato di ingiustizia per chiedere perdono, ecc.).
Con la riconciliazione vissuta previa al culto (« riconciliati prima con tuo fratello… ») o susseguente, si supera la deleteria divaricazione tra vita e celebrazione e si reimpara a celebrare ciò che si vive e a vivere ciò che si celebra.
Le forme celebrative della penitenza non sacramentali, che promuovono il cammino penitenziale sia personale sia comunitario, sono anch’esse numerose: l’uso dell’acqua benedetta, la Via crucis, i pellegrinaggi, le processioni, l’imposizione delle ceneri, le celebrazioni penitenziali comunitarie, i riti penitenziali all’interno dell’eucaristia, i riti quaresimali, ecc.
Le celebrazioni penitenziali comunitarie senza assoluzione poste nella seconda appendice del nuovo Rito della penitenza rivestono una particolare importanza. Permettono di ascoltare e meditare insieme la Parola di Dio che annuncia la misericordia divina e svela i peccati, di sperimentare la dimensione comunitaria del peccato, della riconciliazione e della conversione, di accogliere chi è ancora spiritualmente immaturo e di aiutarlo a convertirsi. Educano le coscienze e insegnano il linguaggio per dire francamente i propri peccati. Offrono ai partecipanti l’opportunità di donarsi il perdono reciproco. Ne possono pienamente usufruire anche i fedeli in situazioni irregolari. Pur non possedendo l’efficacia sacramentale, promuovono la conversione e beneficiano della supplica della Chiesa, che quando prega ottiene. Non sono alternative al sacramento, ma neppure solo preparatorie a esso. Possiedono un valore autonomo e nel contempo incrementano e migliorano le confessioni sacramentali. La loro diffusione è purtroppo ostacolata dal « feticismo dell’assoluzione », dall’idea cioè che la celebrazione consista soltanto nell’assoluzione che « fa tutto » e perdona in modo quasi automatico. Per questa ragione alcuni disertano le celebrazioni penitenziali e rincorrono l’assoluzione individuale o generale, salvo poi, urtati dal formalismo rituale di assoluzioni senza conversione, abbandonare tutto35.
Occorre poi riscoprire e valorizzare la dimensione penitenziale e riconciliatrice di tutti i sacramenti, segni « oltre che della grazia propria, anche di penitenza e riconciliazione »36.
Il battesimo è la prima e radicale riconciliazione sacramentale alla quale tutte le altre si riferiscono. La confermazione significa e realizza « una maggiore conversione del cuore e una più intima ed effettiva appartenenza alla medesima assemblea dei riconciliati « 37. L’eucaristia ha tra i suoi effetti la riconciliazione comunitaria (unitas et caritas) ed « è antidoto che libera dalle colpe quotidiane e preserva dai peccati mortali »38. L’ordine costituisce i pastori « testimoni e operatori di unità » contro i fermenti di divisione e dispersione39. Il matrimonio « concede agli sposi di riportare la vittoria sulle forze che deformano e distruggono l’amore »40. L’unzione degli infermi è « segno della definitiva conversione al Signore e della suprema riconciliazione con il Padre »41.
Il sacramento della riconciliazione e della penitenza esige di essere celebrato in tutta la ricchezza delle sue dimensioni (ancor prima dell’impegno etico esprime il dono di salvezza elargito dal Padre, per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito e nella Chiesa), dei suoi momenti (è sacramento della fede e della conversione e non della sola assoluzione) e delle sue forme celebrative (i tre riti sono complementari nelle loro valenze personali e comunitarie).
La celebrazione del terzo rito presenta rischi soprattutto se lo si riduce all’assoluzione generale o collettiva. Ma lasciarlo sulla carta per riesumarlo in situazioni di emergenza, con celebranti e penitenti impreparati, senza lunghe sperimentazioni e accurate verifiche, significa porre le premesse per un pessimo impiego. Non vedo come si possa sentenziare che oggi non si verificano mai le circostanze che ne consigliano l’utilizzazione. In alcune circostanze ritengo sia l’unica forma attivabile rispettosa di Dio e dei penitenti.
La dimensione comunitaria, diversamente da quella collettiva, esige e include la dimensione personale. il dialogo personale, ricco di umanità e vissuto nella fede e nella grazia, sia extrasacramentale che sacramentale, rimane fondamentale e la sua estinzione sarebbe una perdita incalcolabile.
« Più che spingere con misure di obbligo alla necessità della confessione auricolare, il compito della Chiesa è di rendere questa confessione desiderabile. Per questo bisogna mettere in campo anche difficili strumenti pastorali: formazione dei preti a questo compito; ripristino o creazione nei grandi centri urbani di luoghi in cui i fedeli possano facilmente incontrare un sacerdote per tutto il tempo necessario; presentazione materiale di questi luoghi, ecc. D’altra parte, il caso nuovo, ma che conosce già un reale sviluppo, delle confessioni fatte a un laico [e religioso/a] inviato ufficialmente dalla Chiesa in certi campi pastorali (cappellanie, ecc.) deve essere l’oggetto di una indifferibile riflessione teologica »42.

NOTE SUL SITO

I CANTI DEL SERVO DI JAHVÈ I – II

http://www.cistercensi.info/monari/1994/m19940319b.htm

(ci sono delle lettere che vengono male nella copia, scusate, oggi ho molto lavoro e non ho tempo di correggerli)

Diocesi Reggio Emilia-Guastalla Correggio – Monastero Suore Clarisse Cappuccine
Ritiro spirituale di Quaresima per giovani

I CANTI DEL SERVO DI JAHVÈ – I E II IL III NEL POST SOTTO

I -II – CANTO, IL III SEPARATAMENTE PERCHÉ È TUTTO LO STUDIO È MOLTO LUNGO

(DAL LIBRO DEL PROFETA ISAIA)

19 MARZO 1994

Celebrazione Eucaristica
Liturgia solennità di San Giuseppe
Referenti del presente Documento: Vittorio Ciani e Marcello Copelli

Premessa
Il tema di questo ritiro sono i canti del servo di Jahvè, cioè quattro canti che sono inseriti nel cosiddetto deutero-Isaia, dal capitolo 40 al 55 del libro del profeta Isaia.
Dentro a questo grande blocco ci sono quattro brani che in qualche modo emergono rispetto al contesto, e sono i quattro canti del servo di Jahvè.
Probabilmente anche questi sono opera del deutero-Isaia, però certamente con un messaggio, con delle prospettive particolari, in quanto tutte quattro queste poesie parlano di un personaggio misterioso, chiamato “il servo”, al quale viene affidata una missione importante e decisiva per la storia di Israele e per tutti gli uomini. Praticamente gli viene affidato il compito di fondare la religione autentica, l’atteggiamento corretto nei confronti di Dio e gli viene affidato l’incarico di rivelare la volontà di Dio.
Questo pone tutta una serie di problemi, per esempio l’identificazione di questo servo. A chi si riferiva l’autore? Le risposte degli esegeti sono diversissime, comunque tenete presente che per alcuni esegeti il servo è Israele stesso. Il popolo in esilio ha da Dio un compito, una vocazione di rinascita, di rigenerazione della vita religiosa, e questo compito fa di Israele il vero servo di Jahvè.
Per altri esegeti il servo è un personaggio simbolo o il deutero-Isaia stesso, o un profeta come Geremia, o un personaggio storico come Zorobabele.
Quello che a noi interessa principalmente è la fisionomia di questa figura, quale tipo di missione gli viene affidato.
Per certi aspetti il servo di Jahvè ha alcune caratteristiche regali: deve esercitare un potere che diventa anche universale; ma le sue caratteristiche sono principalmente profetiche perché deve- annunziare la parola di Dio, e per questo compito subisce derisione e persecuzione cioè paga l’annuncio della Parola di Dio con una serie di sofferenze che il servo accoglie in prospettiva positiva, come strumento di intercessione per i peccatori.
Il servo è uno che intercede, cioè cerca di ottenere la salvezza di tutto il popolo attraverso la sua preghiera, la sua persona e in particolare la sua sofferenza.
Proprio per questo motivo il servo di Jahvè assume delle caratteristiche che lo avvicinano a Gesù Cristo nel Nuovo Testamento, anzi Gesù e il Nuovo Testamento hanno interpretato la missione del Signore alla luce di questi canti, in particolare la passione di Gesù.
Si potrebbe rileggere la passione di Gesù e notare tutta una serie di riferimenti impliciti ai canti del servo, in particolare al quarto canto dove viene descritta la sofferenza del servo di Jahvè.
Proprio per questo motivo i quattro canti vengono usati nella liturgia della settimana santa, e forse per questo don Davide mi ha chiesto di commentarli. Allora li riprendiamo insieme, li rileggiamo e tentiamo di vedere quali sono le cose più preziose.

Primo Canto
Il primo canto è nel capitolo 42 di Isaia, ed è un oracolo di investitura del servo: possiamo immaginare l’investitura di un vassallo da parte del grande re.
Il re vuole costituire un vassallo primo ministro; naturalmente si fa un’assemblea con tutti i vassalli del regno e davanti a tutti i suoi sottomessi l’imperatore presenta la figura che lui ha scelto. E’ questo il contesto immaginario del nostro brano.
“Ecco il mio servo che io sostengo,
il mio eletto di cui mi compiaccio.
Ho posto il mio spirito su di lui;
egli porterà il diritto alle nazioni.
Non griderà né alzerà il tono,
non farà udire in piazza la sua voce,
non spezzerà una canna incrinata,
non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.
Proclamerà il diritto con fermezza;
non verrà meno e non si abbatterà, finché, non avrà stabilito il diritto sulla terra;
e per la sua dottrina saranno in attesa le isole.
Così dice il Signore Dio
che crea i cieli e li dispiega,
distende la terra con ciò che vi nasce,
dà il respiro alla gente che la abita
e l’alito a quanti camminano su di essa:
Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia
e ti ho preso per mano;
ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo
e luce delle nazioni,
perché, tu apra gli occhi ai ciechi
e faccia uscire dal carcere i prigionieri,
dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre”.

Come dicevo è la presentazione del servo: il re, Dio stesso, lo presenta davanti a un’assemblea, all’assemblea del popolo, delle nazioni, dei grandi della terra: “Ecco il mio servo che io sostengo”.
Mio servo intendetelo come una dignità conferita a quest’uomo.
È vero che in italiano ‘servo’ vuole dire subordinato, ma quando si parla del servo di un re si intende il primo ministro, cioè quello che il re pone al di sopra degli altri.
Nell’Antico Testamento “servo di Dio” è per esempio Mosè, o Giosuè, o i profeti, cioè tutte quelle persone che hanno ricevuto da Dio una missione e con questa missione hanno ricevuto una dignità, un potere.
Quindi “mio servo” intendetelo come un titolo di onore.
“Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio”. “Mio eletto” vuole dire che Dio lo ha scelto in mezzo agli altri come unico, Dio dice a questo servo «tu sei per me unico» e non solo ma aggiunge «di te mi compiaccio» e vuole dire che Dio è contento della persona di questo servo, del compito che gli affida. In qualche modo il servo appare davanti a Dio come un sacrificio perfetto.
I sacrifici perfetti erano quelli che Dio guardava con piena benevolenza. Questo servo appare davanti a Dio come perfetto nella sua consacrazione, e Dio se ne compiace, Dio è contento di lui.
Questo compiacimento di Dio diventa l’affidamento di un incarico con equipaggiamento annesso: “Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni”.
L’incarico è “portare il diritto” dove per diritto intendete quello che noi chiamiamo oggi la religione, quindi vuole dire rivelare la volontà di Dio, il progetto di Dio ai popoli, perché questi si sottomettano a questa volontà. Quindi non è il diritto in senso giuridico stretto, ma è il diritto nel senso della volontà globale di salvezza di Dio.
In altre parole: il servo deve condurre tutte le nazioni all’obbedienza a Dio.
Naturalmente questo è un compito molto grande e che supera le energie umane del servo. Per quanto sia intelligente o abile, un compito di questo genere supera ogni possibilità, allora “ho posto il mio spirito su di lui”.
Questo vuole dire che si compie per il servo quello che era stato detto nel capitolo 11 di Isaia a proposito del Messia: “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. Si compiacerà del timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire; ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese”.
Il testo continua descrivendo l’attività di questo messia, di questo re, il quale stabilisce la giustizia, difende i poveri, decide le questioni non approssimativamente ma secondo una valutazione corretta.
Come può fare tutto questo? “Su di lui si poserà lo spirito del Signore”. Non solo è sceso lo Spirito, ma si è fermato, si è inserito nell’esistenza di questo servo tanto da riposarsi dentro di lui.
Allora questo spirito gli dona la sapienza e l’intelletto, cioè la capacità di conoscere oggettivamente le cose, come sono davanti a Dio.
Poi gli dona il consiglio e la fortezza cioè la capacità di scegliere, di decidere con coraggio. Dopo avere capito le cose sa prendere delle decisioni forti.
Poi gli dona lo spirito di conoscenza e del timore, cioè nello scegliere si lascia guidare non da interessi particolari, ma dalla volontà di Dio, dalla sottomissione al volere di Dio.
Quindi con lo Spirito quest’uomo è guidato, è orientato nei suoi pensieri e nei suoi desideri non dagli interessi privati, ma dalla rivelazione della volontà di Dio; ha assimilato il suo cuore al cuore di Dio.
“Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni”.
Questa è la missione. Poi si dice qualcosa sul metodo, sul come verrà svolta, come si realizzerà questa missione:
“Non griderà né alzerà il tono,
non farà udire in piazza la sua voce,
non spezzerà una canna incrinata,
non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.”
Vuole dire che il suo metodo di azione è un metodo discreto, umile, rispettoso, capace di valorizzare quello che di positivo trova, anche se piccolo.
L’immagine della canna incrinata e dello stoppino dalla fiamma smorta, sembrano essere la fotografia dell’Israele dell’esilio.
Quando Israele si trova in Babilonia è un popolo nel quale è venuta meno la voglia di vivere, un popolo avvilito, deluso. schiacciato, che non ha un grande gusto di andare avanti.
Il servo viene mandato a questo popolo.
Come lo tratta? Lo giudicherà e lo eliminerà proprio per i suoi difetti? Spezzerà la canna incrinata? Spegnerà lo stoppino dalla canna smorta?
Al contrario. Questo servo è rispettoso di tutto quello che di positivo, anche piccolo, esiste nel popolo del Signore e lo valorizza. Con il suo intervento invece di umiliare valorizza. Invece di schiacciare, da energia e speranza.
Proprio per questo si presenta come un servo mite, che non grida, che non alza il tono, né fa udire in piazza la sua voce.
Vuole dire allora che è debole? Che non ha la capacità di imporsi?
È mite, ma tutt’altro che debole.
È, in realtà, deciso, costante, ostinato nelle sue scelte, per cui dice:
“Proclamerà il diritto con fermezza;
non verrà meno e non si abbatterà, finché, non avrà stabilito il diritto sulla terra;
e per la sua dottrina saranno in attesa le isole.”
Quindi non si lascia abbattere da nessun ostacolo, non si lascia intimidire dalle minacce, ma una volta che si è proposto il suo compito (quello di stabilire la volontà di Dio) lo esegue senza deviare a destra o a sinistra.
Mite, ma perseverante. Si presenta come rispettoso ma anche deciso nell’esecuzione della volontà di Dio.
Questa presentazione viene completata da alcune parole che vengono rivolte direttamente al servo:
“Così dice il Signore Dio
che crea i cieli e li dispiega,
distende la terra con ciò che vi nasce,
dà il respiro alla gente che la abita”
Chi parla in questo modo è Dio, il creatore del mondo, che sta al di sopra di ogni cosa e la cui voce si afferma come invincibile. E’ quello che crea i cieli, che dispiega i cieli e la terra. L’universo intero è plasmato dalle sue mani, disposto dalla sua volontà.
È Lui che dà il respiro alla gente che vi la abita, quindi anche la vita ha la sua origine nella volontà di Dio.
Che cosa dice questo Signore dell’universo?
“Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia
e ti ho preso per mano;
ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo
e luce delle nazioni,
perché‚ tu apra gli occhi ai ciechi
e faccia uscire dal carcere i prigionieri,
dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre”
Richiama la missione che Lui stesso ha consegnato al servo: Io ti ho chiamato per la giustizia.
Questo compito è accompagnato dalla benevolenza di Dio: ti ho preso per mano, cioè il servo in tutta la sua opera è accompagnato dalla presenza premurosa e di difesa del Signore.
Inoltre ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo. Formato e stabilito vogliono dire che il servo è proprio una creazione di Dio, che Dio si è fatta con le sue mani. Così come all’inizio del mondo Dio ha creato l’uomo plasmandolo con la creta, così il Signore ha plasmato il servo.
Plasmato significa che gli ha dato una forma che corrisponde alla sua volontà, tanto che il servo possa diventare uno strumento docile di Dio.
Siccome diventa uno strumento docile di Dio, il servo in qualche modo diventa onnipotente. Cioè riesce ad agire con la stessa potenza misericordiosa di Dio, tanto che apre gli occhi ai ciechi, tanto che libera i prigionieri, tanto che porta la luce a chi abita nelle tenebre.
Tutte queste cose l’uomo non è capace di farle, solo Dio è capace, ma questo servo è diventato uno strumento docile, perché Dio lo ha formato secondo la sua volontà, e quindi attraverso questo servo passa, come attraverso un vetro trasparente, l’azione di Dio che è potente e misericordioso, che è forte e salvatrice. Quindi il servo diventa strumento di Dio.
Questo è il primo canto del servo.
Quando rileggete queste parole provate a rivederle in riferimento al Nuovo Testamento.
“Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio”, questo è il Battesimo di Gesù.
“Ho posto il mio spirito su di lui”, è successo questo all’inizio del ministero di Gesù.
“egli porterà il diritto alle nazioni”, questo è il compito che Gesù ha realizzato in tutta la sua vita.
Come lo ha realizzato? Con mitezza: “Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta”.
Non c’è dubbio che l’atteggiamento del Signore sia stato di mitezza, ma è stato altrettanto fermo e deciso tanto da non venire meno finché, non avrà stabilito il diritto sulla terra, quindi tanto che non si è ritirato di fronte a nessun ostacolo nemmeno davanti alla minaccia della morte.
“Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni”, che Gesù sia luce delle nazioni questo era stato già detto da Simeone al momento della presentazione del Signore al tempio, ma lo si rivede in tutta la predicazione del Signore, in tutto quello che Gesù ha detto.
Che Gesù abbia riaperto gli occhi ai ciechi tutto il Nuovo Testamento lo dice.
Che “faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre” questo è tutto il significato della redenzione.
Quindi si può rileggere il canto in riferimento a Gesù.
Non vuole dire che il secondo Isaia abbia necessariamente pensato ad una figura messianica, però vuole dire che nel momento in cui Gesù è venuto per compiere la volontà del Padre, ha reso vere tutte le profezie, tutte le parole dell’Antico Testamento e le attese dei profeti.

Secondo Canto
Il secondo canto è al capitolo 49 del profeta Isaia.
Se il capitolo 42 era la presentazione del servo davanti ai vassalli del re, il capitolo 49 è una specie di racconto autobiografico: il servo racconta la sua esperienza, rilegge il passato:
“Ascoltatemi, o isole,
udite attentamente, nazioni lontane;
il Signore dal seno materno mi ha chiamato,
fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome.
Ha reso la mia bocca come spada affilata,
mi ha nascosto all’ombra della sua mano,
mi ha reso freccia appuntita,
mi ha riposto nella sua faretra.
Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele,
sul quale manifesterò la mia gloria».
Io ho risposto: «Invano ho faticato,
per nulla e invano ho consumato le mie forze.
Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore,
la mia ricompensa presso il mio Dio».
Ora disse il Signore
che mi ha plasmato suo servo dal seno materno
per ricondurre a lui Giacobbe
e a lui riunire Israele,
poiché, ero stato stimato dal Signore
e Dio era stato la mia forza
mi disse: «E’ troppo poco che tu sia mio servo
per restaurare le tribù di Giacobbe
e ricondurre i superstiti di Israele.
Ma io ti renderò luce delle nazioni
perché porti la mia salvezza
fino all’estremità della terra»“.

Il servo sta raccontando la sua esperienza, la sua vocazione, e dice una cosa fondamentale: la sua vocazione, la sua chiamata è avvenuta quando ancora era nel seno materno, prima di nascere.
L’idea è tipica di Geremia.
Quando parla della sua vocazione usa proprio questa espressione: «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni».
Vuole dire: quando Geremia incomincia a fare il profeta ha una certa età della sua vita, però in realtà Geremia era profeta da prima; quella vocazione non fa altro che manifestare, mettere in luce quella che era la struttura genetica spirituale di Geremia. Geremia non è mai esistito se non come profeta; Dio lo ha sempre sognato, voluto e pensato come profeta. La profezia non è un vestito che gli si è aggiunto in un momento della sua vita, ma è un gene che ha accompagnato il profeta fin dall’inizio e che ha dato forma a tutti i suoi pensieri, i suoi progetti, le sue speranze e ideali.
La vocazione nell’ottica di Geremia è così, e così dice anche il servo «il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome».
Pronunciato il mio nome vuole dire che mi ha conosciuto, ma vuole dire anche che mi ha amato, che mi ha dato un compito. Il nome contiene il compito della persona, contiene la sua vocazione.
Ciascuno di noi ha un nome, che Dio conosce, e che è il significato della nostra esistenza, quindi è quella che noi chiamiamo vocazione.
Il servo è stato scelto, amato e voluto fin dall’inizio del suo concepimento con una missione precisa da parte di Dio.
Ricordate che questa immagine verrà ripresa poi da san Paolo. Quando parla della sua vocazione riconosce che è venuta ad un certo punto della sua vita (sulla via di Damasco), è venuta in contrasto con molte cose precedenti, perché prima era un persecutore della chiesa e poi la vocazione ha capovolto la sua prospettiva e il suo modo di pensare, però san Paolo riconosce che Dio lo aveva scelto fin dal seno materno.
Quindi la vocazione è avvenuta concretamente se non dopo molto tempo, ma quella vocazione non faceva altro che innestarsi su una realtà profonda che Paolo portava sempre con sé.
Questo naturalmente vale per ciascuno di noi. La vocazione la scopriamo ad un certo punto della vita, delle volte la costruiamo pian piano, con fatica, con tensione.
Però in realtà quello che viene a galla è la parola con cui Dio ci ha chiamato fin dall’origine.
Continua il servo: “Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra” e vuole dire che il servo di Jahvè è diventato uno strumento di Dio, uno strumento di cui Dio si serve per compiere la sua volontà, uno strumento soprattutto attraverso la parola, la predicazione. E’ un predicatore, un profeta, deve annunciare il diritto, proclamare la volontà di Dio; per questo Dio ha reso la sua bocca come spada affilata, quindi capace di colpire, capace di discernere, di distinguere, di dividere, di mettere in luce i pensieri del cuore.
“Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”. La parola “Israele” sembra una glossa, cioè un’aggiunta di qualcuno che ha voluto interpretare il canto, per dire che questo servo su cui Dio manifesta la sua gloria è Israele stesso, il popolo stesso.
E ha ragione. Quando il servo di Dio si rivela è probabilmente una persona singola, ma è una persona che riassume in sé il mistero di tutto il popolo di Israele. Di quel popolo che Dio ha chiamato da sempre, che Dio ha plasmato con le sue mani, al quale ha affidato la missione di testimoniarlo in mezzo ai popoli, di essere quindi luce per le nazioni.
Tutte queste cose sono corrette se riferite a Israele, ma nello stesso tempo si riferiscono a qualcuno che incarna e realizza perfettamente il compito di Israele.
Quello che alla fine vale per Israele vale anche per noi. Noi siamo sì la chiesa del Signore ma a volte siamo una chiesa che non realizza la sua vocazione autentica di amore, di fede, di speranza. C’è quindi una specie di scalino tra la chiesa com’è nel progetto di Dio e la chiesa come riusciamo a viverla noi.
C’è uno scalino, una distanza tra Israele così come Dio lo sogna e Israele come storicamente si realizza.
Per questo c’è nella Chiesa una persona nella quale la chiesa viene espressa pienamente nel suo mistero di amore: Gesù Cristo, i santi che riassumono il mistero vero della Chiesa.
Lo stesso vale per Israele e per questo servo che riassume in sé l’esistenza, la vita e la missione del popolo.
“Io ho risposto: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio”. Qui entra un altro tema che diventerà poi dominante, ed è la sofferenza, il fallimento, la delusione.
Vuole dire che questo servo ad un certo punto vede la sua missione fallire.
Si è impegnato per annunciare il diritto alle nazione, per portare la volontà di Dio in mezzo al mondo, per trasformare il mondo secondo il progetto di Dio. Che cosa ha ottenuto? Poco, tanto da essere ormai avvilito, privo di energia.
Vuol dire che ha perso la fiducia? No la fiducia gli rimane. Vede che il risultato è quasi nullo ma certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio. Non ha quindi paura del fallimento, dell’insuccesso; sa che siccome la missione gli è stata affidata da Dio è come al sicuro dentro alla volontà, al progetto di Dio. Qualunque sia il risultato che si vede, in realtà la sua missione non è inutile. Dio custodisce lui e i suoi meriti, il significato del suo compito, della sua missione.
“Ora disse il Signore che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele, poiché, ero stato stimato dal Signore e Dio era stato la mia forza mi disse: «è troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Ma io ti renderò luce delle nazioni perché, porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”.
Vuole dire: questo servo che sembra non riuscire a realizzare la sua missione di ricostituzione del popolo di Israele, secondo il volere di Dio, questo servo riceve, stranamente, una missione infinitamente più grande: quella di ricondurre l’umanità intera alla fedeltà al Signore, quello di donare agli uomini la salvezza di Dio.
Questo è tipico del Nuovo Testamento:
Gesù è venuto come salvatore di Israele, e si può che ha fatto fallimento.
Gesù può dire al termine della sua vita: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze» perché quelli che hanno creduto non sono stati molti, e quelli che gli si sono opposti, invece, hanno apparentemente vinto.
Non c’è dubbio che le parole “ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio” sono parole che esprimono il mistero di Gesù, che non ha restituito male per male, che non ha oltraggiato gli oltraggiatori, ma ha affidato la sua causa a colui che giudica con giustizia.
Quindi si è consegnato nelle mani del Padre perché fosse Lui a difenderlo. Ma proprio questo è avvenuto, che in questo modo la missione di Gesù è passata da missione per Israele a missione universale, a missione per tutte le nazioni.
Proprio il rifiuto di Israele ha aperto la strada ai pagani, così dice san Paolo più volte. Ed è proprio questo che ha reso l’annuncio del Vangelo un annuncio di salvezza fino alle estremità della terra.
Fino all’estremità della terra, se ricordate, è il progetto che Luca pone alla base degli atti degli Apostoli; il compito della chiesa è fare sì che il Vangelo, partendo da Gerusalemme, arrivi fino agli estremi confini della terra, arrivi cioè ai pagani, a tutti gli uomini.
Entrano quindi due elementi nella vocazione del servo, che sono complementari:
da una parte la sofferenza, dall’altra la dilatazione della missione;
da una parte il fallimento, dall’altra il compito aperto a tutti e la salvezza offerta.

 

I CANTI DEL SERVO DI JAHVÉ – III CANTO – ISAIA

http://www.cistercensi.info/monari/1994/m19940319b.htm

(ci sono delle lettere che vengono male nella copia, scusate, oggi ho molto lavoro e non ho tempo di correggerli)

Diocesi Reggio Emilia-Guastalla Correggio - Monastero Suore Clarisse Cappuccine

Ritiro spirituale di Quaresima per giovani

I CANTI DEL SERVO DI JAHVÈ – SEGUE DA SOPRA

(DAL LIBRO DEL PROFETA ISAIA)

III CANTO

19 MARZO 1994

Celebrazione Eucaristica
Liturgia solennità di San Giuseppe
Referenti del presente Documento: Vittorio Ciani e Marcello Copelli

Terzo Canto
Il terzo canto è al capitolo 50.
“Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati,
perché, io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio
Perché, io ascolti come gli iniziati.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il dorso ai flagellatori,
la guancia a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto confuso,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare deluso.
È vicino chi mi rende giustizia;
chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci.
Chi mi accusa?
Si avvicini a me.
Ecco, il Signore Dio mi assiste:
chi mi dichiarerà colpevole?
Ecco, come una veste si logorano tutti,
la tignola li divora.
Chi tra di voi teme il Signore,
ascolti la voce del suo servo!
Colui che cammina nelle tenebre,
senza avere luce,
speri nel nome del Signore,
si appoggi al suo Dio”.
Vedete come il tema della sofferenza incomincia a venire in primo piano.
Questo terzo canto è un salmo di fiducia, di quelli che si trovano a volte nella profezia di Geremia.
Geremia è un profeta che parla al popolo, ma che delle volte esprime semplicemente le sue sofferenze, i suoi lamenti perché la sua missione è una missione che gli costa, gli pesa. Geremia avrebbe voluto potere fare cose diverse da quelle che è stato costretto a fare. Geremia avrebbe amato la vita di comunione con gli altri, di società, di dialogo e invece è costretto ad annunciare la desolazione, il giudizio, la sofferenza; anzi, non riesce ad annunciare altro che questo e proprio questo fa di lui un emarginato, perché nessuno ascolta volentieri profezie di sventura, e Geremia è il profeta di sventure per eccellenza.
Per questo motivo Geremia ha dovuto rinunciare alle amicizie, ha dovuto rinunciare a formare una famiglia, è diventato nella sua logica morto prima ancora di morire e per questo si lamenta, racconta il peso di questa condizione che lui non ha scelto e che non gli piace, che è costretto a sopportare per una specie di violenza del Signore: “mi hai fatto forza e hai prevalso”.
Il servo di Jahvè va collocato in questo contesto dei profeti che soffrono.
I profeti sono persone che annunciano la parola di Dio, e quindi sono dei messaggeri del Signore, ma sono messaggeri come coinvolti da quello che annunciano, sono trafitti dalla parola che dicono agli altri.
È una parola di giudizio? Questa parola di giudizio cade prima su di loro.
Annunciano la sofferenza? Ricade su di loro per primi.
Questo vale anche per il servo di Jahvè che viene trascinato dalla parola di Dio a essere una parola personale, una persona che è diventata parola, che è diventata manifestazione della volontà di Dio. Dio l’ha plasmata come persona tanto da essere la realizzazione di messaggio di giudizio, nel caso di Geremia, o di salvezza come vedremo nel quarto canto del servo di Jahvè.
“Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché, io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola”. Abbiamo detto che il secondo Isaia è un profeta di consolazione, che vuole riportare speranza agli esuli che si sentono abbandonati e avviliti, bene il servo di Jahvè ha una parola di speranza da rivolgere al popolo del Signore e questa parola il servo la può trasmettere perché prima di tutto l’ha ascoltata con perseveranza: “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché, io ascolti come gli iniziati”.
Parla perché prima ha ascoltato. Trasmette consolazione perché prima ha ricevuto consolazione dal Signore.
Vale per questo servo quello che dice san Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché, possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio”, quindi consolati, consoliamo; abbiamo ricevuto dal Signore conforto per non tenerlo come una gioia privata ma per comunicarlo agli altri.
“Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”. Però, questo compito positivo di consolazione il servo di Jahvè lo paga; è un consolatore, ma è un consolatore che proprio per potere consolare deve essere passato attraverso la sofferenza.
Se uno è consolato vuole dire che da una condizione di tribolazione viene portato a una condizione di speranza, ma deve partire dalla tribolazione altrimenti non c’è consolazione.
Il servo di Jahvè ha conosciuto la persecuzione, l’oppressione, la sofferenza: “Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”. Quindi ha conosciuto la sofferenza e l’umiliazione.
Eppure in mezzo alla sofferenza e all’umiliazione ha mantenuto la sua sicurezza e la sua speranza: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso. E’ vicino chi mi rende giustizia; chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?”.
Tradotto vuole dire: in tutte le situazioni di tribolazione in cui mi trovo ho un difensore e un protettore: Dio. Mi basta. Non ho bisogno di altro che di questo. Se il Signore Dio mi assiste non resto confuso. L’opposizione degli uomini può fare male, anzi fisicamente fa molto male Ho presentato il dorso ai flagellatori, ma non riesce a spezzare la resistenza interiore di questo servo, anzi la protezione del Signore lo colloca di fronte agli altri come invincibile: “rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso”.
Dura come pietra vuole dire che gli insulti o gli sputi non gli fanno cambiare scelta, non lo ripiegano dentro alla difesa di sé, non lo rendono impaurito e timido. Ha vicino il Signore che gli rende giustizia, ogni oppositore gli appare quindi insignificante: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?
Queste parole le potete rivedere nell’esperienza del Signore, in quel cammino di passione di fronte al quale Gesù non si è tirato indietro, ma è rimasto perseverante, fedele nel compimento della volontà del Padre.
Ma quelle medesime parole sono usate da san Paolo nella lettera ai Romani, in riferimento al credente: “Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?”. Sono proprio le parole del terzo canto del servo di Jahve: chi condannerà? Chi potrà condannare chi è stato redento e salvato e protetto dall’amore di Dio in Gesù Cristo. Allora ne deve scaturire una sicurezza grande che permette al servo di rimanere fedele alla sua missione e che permette al credente di rimanere fermo nell’obbedienza a Dio, nella fiducia in Dio.

Riassunto.
I capitoli 42 – 49 – 50 sono una specie di piccolo itinerario spirituale del servo di Jahvè che nasce dalla sua istituzione divina:
Dio lo stabilisce come suo servo di fronte al mondo intero, assegnandogli una missione e donandogli lo Spirito perché sia in grado di compiere questa missione.
Il servo opera la volontà di Dio con mitezza e decisione nello stesso tempo.
Il risultato sembra deludente, sembra che debba dire «ho faticano invano», ma in realtà siccome ha compiuto la volontà di Dio questo insuccesso è solo apparente; in realtà la missione di salvezza il servo l’ha ricevuta, anzi il Signore gliela dilata all’infinito in modo che il servo diventi strumento di salvezza per tutti gli uomini.
Che cosa vuole dire? Che deve portare una parola di consolazione al mondo intero.
Questo però costerà al servo una sofferenza grande: la flagellazione, gli sputi, le umiliazioni… e in tutte queste esperienze il servo dovrà mantenere la sua fermezza che viene dalla protezione del Signore. Gli deve bastare la protezione del Signore contro ogni sofferenza.
In questo si incomincia a intravedere che il servo compie la missione non solo predicando, ma anche soffrendo.
Nell’ultimo canto il servo avrà solo sofferenza. Tutto l’aspetto della predicazione, che era così importante all’inizio, scompare e rimane solo la sofferenza dell’obbedienza e dell’amore.
Quarto Canto

Ecco, il mio servo avrà successo,
sarà onorato, esaltato e molto innalzato.
Come molti si stupirono di lui
tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto
e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo
così si meraviglieranno di lui molte genti;
i re davanti a lui si chiuderanno la bocca,
poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato
e comprenderanno ciò che mai avevano udito.
Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?
A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
E’ cresciuto come un virgulto davanti a lui
e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi,
non splendore per provare in lui diletto.
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;
chi si affligge per la sua sorte?
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza
né vi fosse inganno nella sua bocca.
Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in espiazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà la loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha consegnato se stesso alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti
e intercedeva per i peccatori”.

Questo è il quarto e ultimo canto del servo del Signore. E’ il canto culminante perché presenta la sofferenza del servo che viene portata fino al limite: la persecuzione, il processo, l’esecuzione, la morte.
Insieme con questo annuncia la glorificazione del servo.
Quindi poema del servo sofferente e glorificato. Il tema è quello della salvezza attraverso la sofferenza, è quello della gloria attraverso la croce.
Notate che quelli che parlano in questo poema considerano questo messaggio della gloria attraverso la croce, come un messaggio inaudito, incredibile. Siamo davanti a qualcosa di paradossale che l’uomo non si sarebbe mai aspettato.
Notate anche che l’inizio e la conclusione del canto sono parola di Dio. E’ Dio che prende la parola e parla del suo servo.
Al centro invece c’è una narrazione messa sulla bocca di un gruppo di persone, non identificato, che racconta la storia del servo, racconta la sua vita come ha patito, come è morte e come alla fine lo hanno visto trionfante.
Quindi al centro c’è la narrazione; all’inizio e alla fine la proclamazione di Dio che annuncia quello che è avvenuto con il suo significato di salvezza.
Il canto incomincia con una proclamazione divina: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato”.
Ricordate il primo canto del servo, quell’istituzione in cui Dio, come re, costituiva il servo come suo rappresentante e lo presentava davanti a tutti gli uomini, a tutti i re della terrà; all’inizio del quarto canto c’è qualcosa di simile: Dio presenta il suo servo e lo presenta glorioso. Fin dall’inizio Dio proclama l’esito finale dell’avventura, ed è un esito di gloria e di esaltazione.
Tutto il resto è indirizzato a questo, va verso questo traguardo. C’è una parola di Dio che annuncia la gloria, il resto è necessario come cammino. La Parola di Dio è infallibile, quindi se annuncia la gloria in un modo o nell’altro la storia dovrà andare a finire lì. Per quanto si veda una storia di sofferenza e di umiliazioni il traguardo è fissato: la gloria.
Notate che questa immagine del servo glorioso è quella che domina il quarto Vangelo: il Vangelo di Giovanni quando presenta la passione del Signore insiste sul fatto che è una realtà di innalzamento e di esaltazione. Giovanni vuole che uno abbia sempre davanti l’immagine della croce dove uno muore per innalzamento. Quella piccola realtà che è l’innalzamento in croce per san Giovanni diventa il simbolo della glorificazione di Cristo, per cui il Cristo del quarto vangelo è certamente il Cristo che muore in croce, ma in realtà è più ancora il Re che sale sulla croce e si insedia nel suo potere sovrano.
Quindi il Cristo di Giovanni è il Cristo in croce come la croce di san Francesco o delle croci bizantine dove di dolore non c’è quasi nulla; c’è piuttosto l’espressione della gloria e della vittoria.
Da qui san Giovanni ha preso l’immagine dell’innalzamento: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato”.
Poi il dolore del servo e la sua gloria vengono presentati indirettamente, guardando l’effetto che fanno sulle persone che stanno intorno, sulle persone che guardano: “Come molti si stupirono di lui tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo così si meraviglieranno di lui molte genti; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito”.
La sofferenza, prima di tutto, sfigura l’uomo: l’uomo è fatto a immagine di Dio, vuole dire che dovrebbe portare qualcosa della bellezza di Dio sul suo volto. Ora la sofferenza sfigura il volto dell’uomo, lo rende non guardabile, non oggetto di ammirazione, anzi un volto sfigurato può produrre quasi un terrore sacro.
Ripensato a Giobbe quando viene incontrato per la prima volta dagli amici che lo vedono in mezzo all’immondizia, in una condizione di desolazione e di avvilimento. Di fronte a questa condizione gli amici tacciono terrorizzati, in silenzio per una settimana. Quindi la condizione della sofferenza dell’uomo diventa motivo di paura, di terrore.
Ma non solo. Come crea stupore la sofferenza di quest’uomo, crea stupore anche l’esaltazione, anche la sua gloria. Perché dopo averlo visto in quella condizione di sfiguramento, i re della terra lo vedono nella condizione di gloria.
Se ricordate anche nei salmi succedeva che quando Dio libera un uomo giusto dalle sue angosce, la gente rimaneva a bocca aperta, stupita per quello che era avvenuto. Anche per il servo questa liberazione sarà qualcosa di inaudito, qualcosa di mai visto nella storia della salvezza: “vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito”
Fino qui la proclamazione di Dio.
Dopo, invece, è un gruppo anonimo che inizia a parlare, un coro, un coro della tragedia greca o un gruppo di re, comunque un coro che comincia a raccontare la storia del servo sottolineando la novità di questa esperienza: “Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
Il braccio del Signore si è manifestato molte volte nella storia di Israele: quando il Signore ha liberato il suo popolo dall’Egitto “con braccio potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto“.
Il braccio teso, potente è naturalmente il simbolo di una forza messa in attività: Dio attua, esercita tutto il suo potere. Quindi avevamo già visto il braccio del Signore.
Come pure lo abbiamo visto quando ha fatto entrare il suo popolo nella terra promessa; quando lo ha liberato dai nemici. La storia di Israele è una serie di avvenimenti in cui il braccio di Dio si è manifestato.
Ma adesso siamo davanti ad un’azione nuova e inconcepibile. “Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore”? Siamo davanti a qualcosa di nuovo e inaccettabile. Questo nuovo mistero sembra superare tutte le esperienze che abbiamo avuto in precedenza.
Nonostante questo, nonostante sia incredibile, il coro racconta ugualmente. Per chi? Forse per il futuro perché ci possa essere qualcuno che arrivi a comprendere quello che per i nostri occhi e i nostri orecchi è rimasto troppo misterioso, troppo al di là delle nostre capacità di comprensione.
Il tema del messaggio non è una teoria, non è un contenuto di idee, ma una serie di fatti, una vita, la vita di un personaggio. Di questo personaggio viene raccontata la nascita, la passione, la morte, la sepoltura, la glorificazione. Non solo viene raccontata la vita, ma quelli che raccontano sono coinvolti personalmente, profondamente, sanno che quegli avvenimenti non riguardano altre persone, ma coinvolgono loro stessi.
E’ vero che io racconto la storia di un altro, ma quello che è capitato a questo personaggio ha delle ripercussioni sulla mia vita, mi riguarda da vicino.
Sarà bene che anche voi ascoltiate nello stesso modo.
Vi racconto la storia del servo di Jahvè, ma si parla della vostra vita, della vostra esperienza, del vostro peccato e della vostra salvezza. Quindi non potete ascoltare come se vi raccontassi di Alessandro Magno, con interesse ma con la distanza che c’è tra noi e lui. Questa è storia vostra, è la vostra vita che si rispecchia nell’esperienza di quest’uomo.
“È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né, bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.”
Così incomincia la storia del servo di Jahvè.
Ma chi è questo servo di Jahvè? Mistero! Anonimo.
E’ un re? E’ un profeta? E’ un sacerdote? Vive nella terra di Israele? Ha un nome nobile?
Non è detto niente. E’ cancellato tutto. Rimane solo la sua pura presenza segnata dal dolore, dall’umiliazione. L’unica immagine che ci viene messa davanti è quella del dolore e dell’umiliazione. Le altre caratteristiche, quelle umane, sono irrilevanti. Gli autori, i raccontatori non le tengono presente.
Quello che ci dicono: è un virgulto, quindi una vita che nasce, che vorrebbe fiorire; ma è un virgulto in una terra arida, quindi che non lo nutre, non gli da alimento; la sua vita è una vita di stenti e di povertà; l’ambiente nel quale vive non lo sostiene.
E’ naturalmente un uomo, ma è un uomo sfigurato: “Non ha apparenza né, bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. (…) come uno davanti al quale ci si copre la faccia” Sembra fare riferimento, con quest’ultima affermazione, ad un lebbroso.
Il lebbroso è un uomo sfigurato, in cui l’immagine umana è cancellata dalla malattia, e che proprio per questo suscita ribrezzo, rifiuto. Il lebbroso non ha rapporto con la convivenza sociale degli uomini, deve vivere emarginato e rifiutato: è uno davanti al quale ci si copre la faccia.
Quindi quest’uomo vive in una società ma è rifiutato ed emarginato. Ai dolori e alle sofferenze fisiche si unisce quindi l’abbandono degli altri, l’emarginazione sociale. La gente lo abbandona perché interpreta la sua sofferenza come un castigo di Dio, quindi ha paura di avvicinarsi. Guai avvicinarsi a chi è castigato da Dio perché potrebbe contagiarti. Se è sotto una potenza negativa, quella potenza potrebbe attaccarsi alla tua carne. Allora meglio rimanere lontani, meglio interrompere qualunque rapporto, fosse anche il solo rapporto del guardare.
Questo tema, quest’immagine dell’uomo sofferente e rifiutato la trovate in numerosi salmi: il quarto canto del servo di Jahvè è vicino, per molti aspetti, ai salmi di supplica individuale.
Per esempio il salmo 31:
“Sono l’obbrobrio dei miei nemici,
il disgusto dei miei vicini,
l’orrore dei miei conoscenti;
chi mi vede per strada mi sfugge.
Sono caduto in oblio come un morto,
sono divenuto un rifiuto.
Se odo la calunnia di molti, il terrore mi circonda;
quando insieme contro di me congiurano,
tramano di togliermi la vita.”

Oppure il salmo 69:
Per te io sopporto l’insulto
e la vergogna mi copre la faccia;
sono un estraneo per i miei fratelli,
un forestiero per i figli di mia madre”.

Quindi l’esperienza non è nuova, anzi è presente in molti sofferenti dell’antico testamento. Ma c’è una differenza. Nei salmi di supplica è il sofferente che parla e descrive la sua condizione di sofferenza ed umiliazione. In questo testo, quello che viene chiamato da Isaia l’uomo dei dolori non parla, sono gli altri che descrivono la sua condizione, la sua miseria. Lui tace, è l’uomo del silenzio.
“Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti”.
In alcuni salmi di lamento, come quelli appena citati, il salmista confessa il suo peccato, e chiede a Dio perdono e grazia:
“Signore, non castigarmi nel tuo sdegno,
non punirmi nella tua ira.
Le tue frecce mi hanno trafitto,
su di me è scesa la tua mano.
Per il tuo sdegno non c’è in me nulla di sano,
nulla è intatto nelle mie ossa per i miei peccati.
Le mie iniquità hanno superato il mio capo,
come carico pesante mi hanno oppresso.
Putride e fetide sono le mie piaghe
a causa della mia stoltezza”.
Il Salmista confessa il suo peccato e chiede la grazia di Dio. Uguale atteggiamento lo troviamo nel salmo successivo.
Anche nel quarto canto del servo di Jahvè c’è la confessione del peccato, ma non è il servo che confessa il suo peccato, ma sono gli spettatori, il coro degli uomini: egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori.
Ci sono dolori e sofferenze, e questi sono il segno che siamo di fronte ad una realtà di peccato, ma non al peccato di colui che soffre, ma siamo di fronte al peccato di coloro che lo vedono soffrire, al peccato degli altri.
Il peccato c’è, ma viene portato da un’innocente.
All’inizio della storia, quando la gente ha visto quest’uomo sfigurato, disprezzato ed emarginato ha pensato che fosse colpito da Dio, come avevano pensato gli amici di Giobbe quando lo vedono in mezzo alla sofferenza e gli dicono: «Dio ti ha castigato, devi avere compiuto dei peccati, chiedi perdono a Dio».
La sofferenza, tradizionalmente, è vista come la conseguenza di peccato e di crimini.
In realtà il servo accetta sì, nella sofferenza, la conseguenza del peccato, ma del peccato degli altri. Questo è l’unico caso, dell’antico testamento, in cui ci sia l’idea di una sofferenza di carne, di qualcuno che soffre al posto di un altro, soffre per quello che toccherebbe all’altro come conseguenza del peccato commesso. In questo modo, soffrendo innocentemente, il servo apre gli occhi ai peccatori, perché gli uomini vedendo la sua sofferenza si rendano conto del loro peccato; vedendo l’angoscia del servo riconoscano la propria colpa.
Dolore e castigo sono normalmente legati tra loro nell’ottica dell’antico testamento. Adesso, nell’esperienza del servo, sono separati: il castigo è nostro, il dolore è suo; il castigo toccava a noi, ce lo siamo meritati noi, il dolore invece lo sopporta lui. Il dolore che il Servo sopporta è il dolore che porta alla salvezza, perché procura pentimento e perdono. Quindi il testo gioca sul contrasto: “noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità”. C’è il paradosso di un castigo che dovrebbe creare angoscia e che invece procura pace: il castigo che il servo sopporta produce la pace degli uomini, dei peccatori. C’è il paradosso delle cicatrici che curano: le cicatrici delle sofferenze del servo diventano cura, guarigione per noi, “per le sue piaghe noi siamo stati guariti”.
A questo punto il coro confessa ancora più esplicitamente il proprio peccato: “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti.” Nuova confessione di peccato, quindi, con l’immagine tradizionale del gregge che fa riferimento al popolo di Dio traviato e disperso. E’ l’immagine di una divisione, di un venir meno di quel legame di fraternità e comunione che dovrebbe tenere compatto il popolo del Signore.
Quell’immagine che riprenderà san Pietro nella sua prima lettera:
“Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce,
perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia;
dalle sue piaghe siete stati guariti.
Eravate erranti come pecore,
ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime”.
San Pietro ha praticamente descritto la passione del Signore con le parole del quarto canto del Servo: ha portato i nostri peccati, siamo stati guariti dalle sue piaghe, eravamo erranti come pecore.
Notate ancora quell’espressione significativa con cui termina il versetto: “il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”. Vuole dire che la sofferenza del servo è opera del Signore, è opera di Dio. Non soffre per caso, per un maleficio di potenze negative; soffre per un disegno di Dio. Misteriosamente il Signore ha fatto ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti, ed è fondamentale per riuscire a dare, a questa sofferenza, un valore positivo. Fosse per caso, sarebbe senza significato; fosse il segno delle potenze del male, sarebbe negativo: vorrebbe dire che il bene è radicalmente sconfitto. Invece è opera del Signore e questo apre la possibilità di una speranza, di un esito positivo per questo dramma.
“Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca”. Viene ricordato esplicitamente il silenzio del servo che non è per caso. E’ a sua volta, a modo suo, un discorso eloquente. E’ un’azione simbolica: ha scelto il silenzio, e lo ha scelto non perché non abbia niente da dire a sua discolpa, ma proprio perché questo silenzio esprime l’atteggiamento di perdono che il servo ha scelto nei confronti degli uomini.
“(…) Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché, ne seguiate le orme:
egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca,
oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta”.
Cristo non ha risposto al male con il male, ha piuttosto coperto il male con una capacità più grande di perdono.
Quando san Paolo, nell’inno alla carità, dice tra le altre cose che la carità copre tutto, dice esattamente questo, dice del servo che tace di fronte alla sofferenza che sta portando per i peccati degli altri.
In questo siamo davanti a qualcosa di sorprendente.
Potete fare il confronto con Giobbe; Giobbe soffre anche lui e soffre da innocente, ma non tace. E’ diventato eloquente, ha tutta una serie di parole con le quali esprime la sua ribellione alla sofferenza e difende la sua innocenza.
Il servo, invece, tace; la pecora muta si contrappone al gregge traviato. Siamo di fronte a qualcosa che misteriosamente sposta il giudizio di Dio: l’agnello condotto al macello, la pecora muta portano sopra di sé il giudizio e la condanna.
“Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte.”
Siamo davanti ad un tema nuovo; fino ad ora si era parlato di sofferenze fisiche, di disprezzo, ora si parla di giudizio e di una condanna ingiusta.
La condanna ingiusta è uno dei grandi temi dei salmi di lamentazione. I salmisti si lamentano molto spesso della degradazione della giustizia, di giudici che si sono lasciati comperare ed hanno emesso sentenze false schiacciando l’innocente. Questo è un tema fondamentale nell’antico testamento.
Il servo ha subito proprio questo: una condanna ingiusta, con l’unica differenza che il servo non si difende, non invoca il castigo di Dio contro i nemici; quello che invece succede frequentemente nei salmi.
Nei Salmi chi è ingiustamente condannato rivendica l’intervento di Dio, ha diritto che Dio intervenga perché Dio è l’ultima istanza della giustizia, nel popolo del Signore, quindi deve intervenire per riportare le cose alla verità, alla giustizia.
Il servo NON chiede nessun intervento di Dio. La sua storia dunque termina con la condanna e l’esecuzione: “Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte?”. Nessuno lo ha difeso, nessuno si è preoccupato di proclamare la giustizia del servo, anzi, “gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né‚ vi fosse inganno nella sua bocca”. Quindi la sepoltura sigilla tutta la vita del servo come vita di dolore e di disprezzo, ed è una vita che termina in una fossa comune, nella fossa dei giustiziati.
Ora, quelli che raccontano la storia, ne possono dire il significato vero, possono dire che era innocente quell’uomo: “sebbene non avesse commesso violenza né‚ vi fosse inganno nella sua bocca”. Questa è una dicitura che rimane come sigillo della sua sepoltura, è scritta sulla sua lapide; sulla lapide c’è scritto che era innocente nelle parole e nelle opere, non ha commesso violenza, non ha detto inganno o falsità.
Ma non è stato il servo a dire questo, non è stato il servo a proclamare la sua innocenza, come di solito avviene nei salmi di un accusato ingiustamente. Nemmeno questa proclamazione di innocenza è stata fatta durante la sua vita, non c’è nessuno che durante il processo si sia alzato a difenderlo, o che di fronte alla esecuzione abbia protestato. Sono altre persone che invece proclamano il servo innocente, ma dopo la sua morte; quando orami è troppo tardi, quando orami non c’è più niente da fare; a quel punto il servo è proclamato dal coro innocente e giusto.
Non è vero che non c’è più niente da fare, non è vero che è troppo tardi. E’ troppo tardi per gli uomini, per la giustizia degli uomini, ma non è troppo tardi per l’intervento di Dio.
Sembrava che anche Dio lo avesse abbandonato e che non si fosse preso cura della sorte del servo. Quando dice: “chi si affligge per la sua sorte?” sembra che la risposta sia proprio nessuno: né gli uomini, né Dio.
“Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza;” Viene proclamata la glorificazione del servo; la storia finisce adesso nella glorificazione del servo.
Nei salmi di azione di grazie il protagonista racconta, di solito, la sua disgrazia e poi la liberazione ottenuta meravigliosamente dal Signore. Quando proclama questa liberazione invita tutti gli altri a fare festa con lui, a lodare Dio insieme con lui, ed invita tutti ad avere fiducia nel Signore.
Ma in tutti questi salmi la narrazione riguarda un pezzo della vita: «ho sperimentato una malattia grave, una lotta grave e mi sentivo ormai spacciato, ma il Signore è intervenuto e mi ha liberato»; questa è l’esperienza che ho fatto un mese fà, quindi c’è stato un periodo, nella mia vita, in cui ho conosciuto l’angoscia e al termine di questa ho conosciuto la liberazione del Signore.
Ma per quanto riguarda il servo non è solo un pezzo della sua vita che è stato segnato dalla sofferenza. Nel suo caso la disgrazia è stata integra, dalla nascita fino alla sepoltura; fin dall’inizio è cresciuto come un virgulto in terra arida, fin dall’inizio non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, quindi tutta la sua vita è stata di sofferenza, nella quale ha portato il peso dei peccati degli uomini.
Per questo la liberazione non può essere solo la guarigione da una malattia mortale, o la protezione da un nemico ostile; la liberazione deve riscattare tutta l’esistenza, deve superare la morte stessa, perché solo una liberazione totale può salvare da una disgrazia che è stata totale, radicale e piena.
Tutta la vita di dolore di questo servo è stato un piano di Dio nascosto nel mistero, ma già attivo come salvezza. Il Signore aveva voluto questo piano, lo accettava, e per questo la vita del servo ha avuto un valore grande. Ma ci si accorge di questo solo adesso, dopo la morte, nella glorificazione del Signore: “quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo”. Vuol dire che la sua vita e la sua morte sono state feconde; sembrava un germoglio arido, senza vita, senza pienezza, la sua vita era stata segnata da una morte violenta, ma il Signore lo ha salvato e “vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore”. Quindi c’era un progetto positivo, un progetto di salvezza che il servo ha portato a compimento.
“Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità”. La sua passione diventa sorgente di vita e di salvezza per gli uomini. Si è addossato l’iniquità degli uomini e giustificherà molti. “Giustificherà” non vuole dire che scuserà, ma vuole dire che renderà giusti, che trasforma gli uomini, e da egoisti li trasforma in autentici nell’amore, in giusti, in veri, in sinceri. Opera questa trasformazione meravigliosa dell’uomo. “Molti” vuol dire la moltitudine, molta gente, un popolo immenso, che scaturisce, che riceve vita dalla sua passione e dalla sua morte.
“Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché‚ ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”. Quindi Dio conferma il messaggio con il suo oracolo ed annulla il giudizio umano.
Il giudizio umano ha condannato a morte quest’uomo come colpevole; Dio annulla il giudizio degli uomini dichiarando il servo innocente, anzi l’innocenza del servo renderà innocenti molti uomini. Questi uomini che vengono giustificati, liberati dalla condanna che si sono meritati saranno la preda della sua vittoria, cioè li conquisterà come bottino con il dono della sua vita. Vuole dire che la vita, la passione e la morte di questo servo sono state un intercessione che Dio ha accettato: il suo silenzio è stato in realtà una preghiera accolta da Dio.
Tra i vari compiti del profeta uno dei più significativi è quello di intercedere per il popolo.
E’ il compito che ha esercitato molto bene Mosè: quando il libro dell’Esodo racconta il peccato del vitello d’oro, dell’idolatria al vitello, dice che Dio aveva reagito al peccato di Israele con la volontà di annientare il suo popolo, e rivela questo a Mosè:
“Allora il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché, il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicata! Si son fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: Ecco il tuo Dio, Israele; colui che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto». Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo e ho visto che è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione».
Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «perché, Signore, divamperà la tua ira contro il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto con grande forza e con mano potente? Perché, dovranno dire gli Egiziani: Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra? Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il proposito di fare del male al tuo popolo. Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo e tutto questo paese, di cui ho parlato, lo darò ai tuoi discendenti, che lo possederanno per sempre». Il Signore abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo.”

L’espressione “Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio” è nel testo ebraico tradotta diversamente: Mosè allora accarezzo il Signore suo Dio. E’ un modo un po’ umano di parlare però contiene questa immagine di intimità di Mosè con il Signore, e che lo conduce ad un atteggiamento diverso.
Questa è l’intercessione di Mosè. Proprio perché è amico del Signore si può accostare a Lui, può “accarezzare” il Signore, e può ottenere che Dio cambi il suo atteggiamento.
E’ sempre un modo umano di parlare, però è essenziale per capire come è fatto Dio.
Sempre nel libro dell’Esodo, qualche paragrafo più avanti, c’è una seconda preghiera di Mosè:
“Mosè ritornò dal Signore e disse: «Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro. Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato… E se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!». Il Signore disse a Mosè: «Io cancellerò dal mio libro colui che ha peccato contro di me. Ora va’, conduci il popolo là dove io ti ho detto. Ecco il mio angelo ti precederà; ma nel giorno della mia visita li punirò per il loro peccato»“.
Vuole dire che Mosè dice al Signore: «E’ vero il popolo ha peccato, ma tu perdonalo; o se non te la senti di perdonarlo annulla, distruggi anche me con il popolo». Allora il Signore si trova davanti a questa scelta: se vuole punire il popolo deve distruggere anche Mosè; se vuole salvare Mosè deve perdonare al popolo. E il Signore scegli di perdonare per amore di Mosè, perché è giusto, perché è un amico docile, obbediente. Questa è l’intercessione.
Il servo di Jahvè intercede. Vuole dire che vive una piena solidarietà con gli uomini e con il loro peccato, e siccome è innocente ottiene la giustificazione di molti, della moltitudine.
Capite che questo quarto canto è importante per l’antico testamento, ma lo è anche per noi perché è una delle chiavi per comprendere la passione del Signore.
Anche la passione del Signore è qualcosa di misterioso e di sorprendente, eppure in questa sofferenza c’è un disegno di grazia, di salvezza.
Ricordate quelle espressioni del Vangelo:
“Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”, oppure le parole dell’ultima cena:
“«Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti»“
vengono proprio dal quarto canto del servo di Jahve e sono essenziali per capire la passione del Signore dove Egli porta sopra di sé il peccato degli altri e lo annulla con il suo silenzio, con la sua non-ribellione, con la capacità di coprire il peccato degli uomini con un amore più grande, con una sopportazione più grande.
I discorsi dell’istituzione dell’Eucaristia vengono rapportati al quarto canto;
l’inno della prima lettera a Pietro al capitolo 2° cita varie volte il quarto canto;
i racconti della passione sono anch’essi intrecciati di espressioni che fanno riferimento alla sofferenza del servo.
Vuol dire che quando la comunità cristiana si è interrogata sulla morte di Gesù e si è chiesta il perché, si è chiesta come fosse possibile che Dio abbandonasse il Suo servo, ha cercato la risposta nel quarto canto del servo di Jahvè.
Naturalmente vuole collegato agli altri tre, ma certamente il quarto canto è il principale.
La sofferenza si era già manifestata nel secondo canto, era diventata ampia nel terzo, ma diventa il tema unico del quarto canto.
Costruito in questo modo:
si parte dalla gloria, quindi dalla conclusione;
poi c’è una specie di flashback dove si racconta tutta la storia, dalla nascita alla sepoltura, e anche dopo, alla glorificazione;
ma bisogna arrivare lì perché la Parola di Dio fin dall’inizio ha pronunciato la glorificazione del servo: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato”, il resto deve condurre a questo punto.
È evidente che il quarto canto del servo di Jahvè sia un’ottima chiave per capire e comprendere il mistero pasquale.
* Documento non rivisto dall’autore, ma rilevato come amanuense dal registratore, con l’aggiunta dei riferimenti biblici.

Bartolomé Esteban Murillo, The Annunciation

Bartolomé Esteban Murillo, The Annunciation dans immagini sacre 453px-Bartolom%C3%A9_Esteban_Perez_Murillo_023

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LA FIGURA DI MARIA NELLA LITURGIA – ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE

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LA FIGURA DI MARIA NELLA LITURGIA

ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE  

Circa la solennità dell’Annunciazione del Signore del 25 marzo, la Marialis cultus scrive: «Per la solennità dell’Incarnazione del Verbo, nel Calendario Romano, con motivata risoluzione, è stata ripristinata l’antica denominazione di “Annunciazione del Signore”, ma la celebrazione era ed è festa congiunta di Cristo e della Vergine: del Verbo che si fa “figlio di Maria” (Mc 6, 3), e della Vergine che diviene la Madre di Dio. Relativamente a Cristo l’Oriente e l’Occidente, nelle inesauribili ricchezze delle loro liturgie, celebrano tale solennità come memoria de fiat salvifico del Verbo incarnato, che entrando nel mondo disse: “Ecco, io vengo (…) per fare, o Dio, la tua volontà” (cf. Eb 10, 7; Sal 39, 8-9); come commemorazione dell’inizio della redenzione e dell’indissolubile e sponsale unione della natura divina con la natura umana nell’unica persona del Verbo. Relativamente a Maria, come festa della nuova Eva, vergine obbediente e fedele, che con il suo fiat generoso (cf. Lc 1, 38) divenne, per opera dello Spirito, Madre di Dio, ma anche vera Madre dei viventi e, accogliendo nel suo grembo l’unico Mediatore (cf. 1Tm 2, 5), vera Arca dell’Alleanza e vero Tempio di Dio, come memoria di un momento culminante del dialogo di salvezza tra Dio e l’uomo, e commemorazione del libero consenso della Vergine e del suo concorso al piano della redenzione» (MC 6). Da quanto afferma Paolo VI nella sua esortazione apostolica la solennità dell’Annunciazione del Signore è una festa sia cristologia sia mariana, quindi è una festa in stretto rapporto con quella del Natale. Gli storici della liturgia, tuttavia, dati gli elementi in loro possesso, non sono in grado di determinare quale delle due date sia stata determinante e predominante. L’origine della festa non è devozionale, e nemmeno deriva da riflessione teologica sul deposito della rivelazione, ma va ad iscriversi nel segno del realismo dell’incarnazione e nella dimensione della storia della salvezza. Per cui prima di tutto ciò che si celebra è un avvenimento e come tale deve essere privilegiato su tutte le altre celebrazioni. L’Annunciazione del Signore ci dice che il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora fra noi (cf. Gv 1, 14); scegliendo di mostrarsi nella fragilità della spogliazione e dell’abbassamento (cf. Fil 2, 5-8). Da tempo immemorabile, è l’annuncio dei profeti, la visita di Dio al suo popolo era stata annunciata e in modo insistente, per cui non vi era nessun dubbio che ciò sarebbe avvenuto, solo restava il mistero di come questa si sarebbe realizzata. Qui sta la novità, perché Dio non è passato tra gli uomini, ma si è fermato, non si è rivolto agli uomini dall’esterno, si è fatto uomo assumendo tutto dall’interno. Dio si fa uomo per parlare ed agire nel cuore stesso dell’esperienza umana. Scrive E.G. Mori: «Nel nostro momento storico, in cui si parte sempre più dall’uomo, dalla sua scoperta, dal suo significato, dalla sua centralità, l’evento dell’incarnazione è un fatto di straordinaria attualità. È la proposta di Dio che apre alla storia umana dimensioni senza confine. La finitezza umana rimane sempre disponibile ad essere “segno”, anche della presenza personale di Dio» . Dio pur rimanendo il Totalmente Altro, si è fatto uomo, quindi va cercato nella realtà degli uomini. D’ora in poi la storia della salvezza sarà caratterizzata e dominata da una sconvolgente scelta di Dio: l’incarnazione, per questo tutto il mistero cristiano viene posto sotto il segno del Dio-uomo. Di conseguenza la solennità dell’Annunciazione del Signore, non è solo il celebrare l’inizio della nuova avventura di Dio con l’umanità, ma ne è la chiave di lettura e di comprensione di tutto quello che avverrà poi. «L’esaltazione di Gesù, che fa di lui il “Signore” per sempre, non deve mai attenuare il mistero “dell’uomo Gesù”» , perché «quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4, 4-5). Dalla storia della liturgia sembra non esserci una data certa di quando veniva celebrato il giorno dell’Annunciazione, questo fino al X concilio di Toledo (656). Infatti, è in questo concilio che pur non parlando in modo esplicito della festa dell’Annunciazione, constata che la madre del Verbo non ha ancora una festa celebrata ovunque allo stesso giorno. Il non possedere una data comune, anche se quella del 25 marzo risulta essere la più comune, ci fa comprendere come si sia in presenza di molteplici liturgie legate ai rispettivi luoghi di provenienza (si conservano ancora oggi vari sacramentali e rituali: mozarabico, ispanico, gallicano, romano, senza dimenticare l’area orientale) e di conseguenza come la festa legata all’incarnazione abbia diverse comprensioni. Dai documenti che oggi possediamo, si sa che le prime commemorazioni di questa festa si hanno dapprima nella solennità del Natale, in seguito con il codificarsi del tempo d’Avvento vengono spostate in esso, e precisamente in una domenica o in un giorno dedicato alla celebrazione dell’incarnazione di Cristo dalla Vergine, per opera dello Spirito Santo. Solo più tardi prese piede la data del 25 marzo come giorno fissato per celebrare l’Annunciazione. I testi antichi ci dicono dunque una cosa importante, agli inizi la solennità dell’Annunciazione del Signore, non veniva celebrata come festa a se stante, ma ne veniva fatta memoria in altre celebrazioni. Ciò si può rilevare nelle omelie che troviamo in oriente tra il IV e V secolo, una delle più datate è quella scritta da Esichio di Gerusalemme († dopo 451), che fa riferimento a Lc 1, 26-38 ed è da ascriversi nel tempo di preparazione al Natale, anche di Antipatro di Bostra († 457) possediamo due omelie da lui tenute nelle domeniche precedenti il Natale. Anche Basilio di Seleucia († dopo il 468) ci ha lasciato un commento al racconto dell’Annunciazione databile prima del Natale del 449. Grande importanza hanno le omelie che ci provengono da Proclo di Costantinopoli († 430), frutto della sua predicazione, in esse vibrano profondi assensi di ammirazione alla Vergine santa, alla base di questi testi c’è l’oracolo di Isaia 7 e il vangelo di Luca relativo all’Annunciazione. Anche il comportamento liturgico delle Chiese che nel secolo V orbitano attorno ad Antiochia è analogo. Un secolo più tardi la chiesa nestoriana organizzò per il periodo precedente il Natale le domeniche chiamandole dell’Annunciazione (Sûbâra), e l’ultima domenica commemora proprio l’annuncio portato a Maria.  Solo nella prima metà del VI secolo apparve la festa dell’Annunciazione in data 25 marzo, e questo avviene nel patriarcato di Costantinopoli, tale festa in epoca Giustiniana si diffonde anche nelle altre regioni di rito bizantino, e nel giro di qualche decennio fu adottata anche da altri patriarcati. Prima di passare all’ambito occidentale penso sia opportuno porsi una domanda: perché la data del 25 marzo? Certamente la prima risposta che viene spontanea dare è perché il Natale si celebra il 25 dicembre, e quindi nove mesi prima è appunto il 25 marzo. Ma non è questo il motivo. Il 25 marzo astronomicamente è l’equinozio di primavera. Fin dai tempi di Tertulliano erano presenti tradizioni che richiamavano questa data come quella della creazione del mondo, in alcune anche quella dell’uomo, e della concezione di Cristo. In seguito a questa data si è aggiunta anche la commemorazione della morte di Cristo, lo stesso sant’Agostino nel De Trinitate vi allude, infatti facendo calcoli sulla simbologia dei numeri afferma che la gestazione perfetta comprenderebbe il preciso periodo di nove mesi e sei giorni. Questo si è verificato per la perfezione del corpo di Cristo. Anche nel Sacramentario Gelasiano preadriano si legge: «VIII calende di aprile Annunciazione Santa Madre di Dio e Passione del Signore». Dopo questa parentesi circa l’aver fissato la data al 25 marzo, vediamo come si è andata formando questa festa nell’occidente cristiano. Le omelie di Pietro Crisologo, vescovo di Ravenna, nel V secolo, ci dicono l’esistenza e l’importanza di una preparazione al Natale, incentrata sul racconto lucano dell’Annunciazione, l’importanza di questa preparazione è sottolineata pure dal celebre Rotolo di Ravenna (manoscritto copiato nel secolo VIII, ma risalente al secolo VI – fine V -. Il Pinell sostiene che le orazioni presenti siano state composte per l’Ufficio di Avvento delle Chiese del Nord Italia). Anche per altre Chiese dell’Italia del nord, abbiamo testimonianze, risalenti al VI – VIII secolo, che attestano che nella V Domenica di Avvento veniva letto il vangelo di Lc 1, 26 – 38. Un’importante testimonianza dell’esistenza della commemorazione dell’Annunciazione del Signore, ci viene offerta dalla Chiesa milanese, dove fin dal secolo V l’ultima domenica di Avvento era dichiaratamente celebrativa della verginale-divina maternità di Maria. Il Sacramentario Bergomense (e altri libri liturgici ambrosiani) contengono due formulari di Messa relativi a questa domenica, uno porta il titolo In Ecclesia (cioè la cattedrale), con indicato il vangelo della Visitazione (Lc 1, 39-55), l’altro Ad Sanctam Mariam (usato in seguito da tutte le chiesa) con il vangelo dell’Annuncizaione (Lc 1, 26-38). I prefazi  di queste messe in modo eloquente tratteggiano il tenore mariano di questa domenica, che successivamente nel corso del Medioevo venne chiamata a volte De Incarnatione altre In Annuntiatione, le orazioni di queste messe sono state conservate anche nell’attuale liturgia ambrosiana, come testimonia questa preghiera: «Esaudisci, o Padre infinitamente buono, la nostra supplica: donaci di aderire con umile fede alla tua parola sull’esempio della Vergine immacolata che, all’annuncio dell’angelo, accolse il tuo Verbo ineffabile e, colma di Spirito santo, divenne tempio di Dio». Anche la chiesa ambrosiana sotto l’influsso della liturgia romano-carolingia assunse la festa del 25 marzo, ed in essa vi confluì la tradizione ecologica gelasiana e gregoriana dell’Annunciazione. San Carlo Borromeo, abolì tuttavia questa festa, per rispettare la veneranda regola di non festeggiare durante la Quaresima, e solo nel 1897 fu ripristinata con decreto della Sacra Congregazione dei Riti in risposta ai desideri espressi sia dal clero che dal popolo milanese. Anche la Chiesa di Spagna seguendo l’esempio delle altre Chiese aveva nel proprio calendario liturgico d’Avvento una domenica dedicata al mistero dell’Annunciazione, come testimonia un mirabile prefazio: «È cosa degna, giusta conveniente e salutare celebrare la miracolosa nascita del nostro Signore Gesù Cristo: che il messaggero celeste annunziò dover nascere tra gli uomini e per gli uomini, che la Vergine in terra accolse mentre veniva salutata e che lo Spirito santo creò mentre si incarnava; affinché per la promessa di Gabriele, la fede di Maria e la reale cooperazione dello Spirito di Dio, l’evento seguisse il saluto dell’Angelo, il fatto mostrasse compita la promessa e la vergine comprendesse di essere stata resa feconda dalla misteriosa potenza dell’Altissimo. Ecco concepirai nel seno e darai alla luce un Figlio, l’Angelo annunziò E come avverrà ciò? Rispose Maria. Ma poiché rispose credendo senza dubitare, lo Spirito santo concepì ciò che l’Angelo aveva annunziato. Maria, vergine prima del concepimento,che rimarrà sempre vergine anche dopo il parto, ha concepito il suo Dio prima nella mente e poi nel ventre. La Vergine, ripiena della grazia di Dio, per prima ha accolto il Salvatore del mondo, e perciò è divenuta la vera Madre del Figlio di Dio. Il quale adorano gli Angeli, i Troni, le Dominazioni e le Potestà, dicendo così: santo…» .  Come la Chiesa ambrosiana anche quella spagnola fu influenzata dalla liturgia romana e la festa dedicata all’Annunciazione del Signore fu portata al 25 marzo fino all’intervento del X concilio di Toledo (656), nel quale i padri conciliari spagnoli decisero di stabilire il 18 dicembre una solenne festività mariana, ed in essa si intendeva celebrare il mistero dell’Annunciazione-Incarnazione. Solo nel secolo X-XI e ancora sotto l’influsso romano-franco, nella chiesa ispanica fu introdotta la festa dell’Annunciazione al 25 marzo, tuttavia questa festa conservava l’impianto ecologico di quella del 18 dicembre presente nel Sacramentario Mozarabico. Le orazioni presenti nel Messale di Bobbio, insieme ad altre presenti in alcuni libri gallicani dei secoli VII e VIII che richiamano ai testi biblici di Is 7, 10 – 9, 7 e Lc 1, 26-38, ci dicono che anche la Chiesa di Gallia, almeno fino alla romanizzazione operata da Carlo Magno, la verginale maternità di Maria veniva onorata in modo speciale il giorno di Natale. Quanto è stato detto per varie Chiese occidentali è valido pure per la Chiesa di Roma, infatti, anche in questa Chiesa la commemorazione dell’Incarnazione e della maternità verginale di Maria erano confluite nella solennità del Natale, che veniva celebrato nella basilica di S. Maria Maggiore. Solo nel VII secolo con l’importazione dall’Oriente di quattro festività mariane (2 febbraio – Purificazione di Maria, 15 agosto – Assunzione al cielo, 8 settembre – natività di Maria e 25 marzo – Annunciazione del Signore), la festa mariana relativa a Lc 1, 26-38, viene portata al 25 marzo, data che in virtù dell’espansione avuta sarà diffusa in tutti i paesi dell’Occidente. Tuttavia per la liturgia romana non va dimenticato che anche le Tempora di dicembre progressivamente si sono colorate di tonalità mariane, infatti nel Sacramentario Gelasiano un prefazio composto per il mercoledì, ci dice che il vangelo letto era quello relativo all’Annunciazione del Signore. Questa messa nel Medioevo acquistò un’importanza speciale soprattutto nei monasteri, tanto venir chiamata Missa aurea beatae Mariae. Sempre nella liturgia romana è presente una commemorazione dell’incarnazione del Signore in una domenica d’Avvento, come si legge nell’Ordo Romano redatto verso la metà del secolo VIII. La festa dell’Annunciazione del Signore ha variato spesso la sua denominazione ufficiale di questa festa, in età antica era comune l’espressione Annunciazione dell’angelo alla beata Vergine Maria, ma anche Annunciazione del Signore, Annunciazione di Cristo, addirittura Concezione di Cristo; questi ultimi titoli erano dovuti al fatto che la festa più antica era nel ricordo del Signore. Ma il pressante riferimento a Maria ne ha fatto molto presto una festa di Maria, per cui negli ultimi secoli la denominazione ufficiale data è stata Annunciazione della beata Vergine Maria. Da questo excursus possiamo rilevare come questa festa non solo ha cambiato spesso denominazione, ma anche ha variato molte volte la data della celebrazione, varietà legata alla diversa concezione dell’anno liturgico ed ecclesiastico. In oriente non era presente un’idea molto rigida a questo riguardo, per cui le feste sia dei santi quanto quelle mariane erano sparse lungo tutto l’anno. Al contrario in occidente, e soprattutto in Spagna e nella Chiesa ambrosiana, non erano ammesse deroghe alle feste nei santi nel periodo quaresimale. Da qui l’aver fissato in modo deciso la data dell’Annunciazione al 18 dicembre, in pieno periodo d’avvento. Tuttavia a Roma “la rigidità” quaresimale era minore, questo spiega perché sia il Sacramentario Gelasiano quanto quello Gregoriano conservano la festa dell’Annunciazione al 25 marzo come il calendario orientale. Nella liturgia delle tempora, in avvento, si ricorda l’annunciazione, solo tardivamente al 18 dicembre viene introdotta una festività chiamata Expectatio partus. Solo negli ultimi tempi si arriva alla data del 25 marzo come comune a tutta la chiesa per la festa dell’Annunciazione. Con la riforma liturgica, a seguito del Vaticano II, la festa ha ripreso il suo nome più autentico, per una profonda motivazione teologica: Annunciazione del Signore. Infatti, il concilio ricorda che la vera radice di tutta la grandezza e unicità della persona di Maria e della missione di Maria: la sua relazione a Cristo (cf. LG 67), tema ripreso dal prefazio della messa della solennità dell’Annunciazione: «È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. All’annunzio del vangelo la Vergine accolse nella fede la tua parola, e per l’azione misteriosa dello Spirito Santo concepì e con ineffabile amore portò in grembo il primogenito dell’umanità nuova, che doveva compiere le promesse d’Israele e rivelarsi al mondo come il Salvatore atteso dalle genti. Per questo mistero esultano gli angeli e adorano la gloria del tuo volto. Al loro canto congedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode».   P. Gino Alberto Faccioli, ISSR « Santa Maria di Monte Berico »

ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE – IL SIGNIFICATO BIBLICO-SPIRITUALE.

http://digilander.libero.it/mariaoggi/annunciazionedelsignore.htm

ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE

IL SIGNIFICATO BIBLICO-SPIRITUALE.

È lo Spirito che annuncia il Signore a Maria (Lc 1, 26-38). Luca lascia emergere con sufficiente evidenza l’analogia tra la discesa dello Spirito su Maria all’Annunciazione e sulla Chiesa apostolica a Pentecoste. Del resto l’Annunciazione è giustamente detta « la Pentecoste di Maria » (S. Bulgakov) o la proto-Pentecoste della Chiesa. È l’inizio dell’Oméga, l’inaugurazione della Alleanza Nuova nel Sangue del Dio-Uomo, l’inizio del Giudizio escatologico. Perciò l’Annunciazione è la Parte del Tutto, la radice e l’inizio cronologico e salvifico dell’evento pasquale.
Vi è una discreta analogia tra l’Annunciazione a Maria e la Pentecoste della Chiesa apostolica. Basta confrontare Le 1,35.46.49a con Le 24,49; At 1,8; 2,4.6.7.11. Adombrata dallo Spirito nell’intimo della sua persona (Le 1,35), la Figlia di Sion erompe quasi all’esterno, sulle montagne della Giudea (Le 1,39) per annunziare le grandi opere compiute in lei dall’Onnipotente (Le 1,46.49). Dall’altra parte la Chiesa apostolica di Gerusalemme, corroborata dal vigore dello Spirito (Le 24,49; At 1,8) – mentre erano radunati all’interno della casa (At 2,2) – lascia il suo ritiro per proclamare pubblicamente le grandi opere del Signore (At 2, 4.6.7.11).
L’Annuncio a Maria supera ogni vecchio schema delle annunciazioni dell’Antico Testamento. I temi narrati qui sono completamente nuovi: il concepimento verginale del Figlio di Dio, la compartecipazione della Madre ai Misteri salvifici, la Maternità divina e perciò Maternità verginale, propria ed esclusiva dei tempi messianici. Anche le Promesse dell’Antico Testamento si compiono in un modo del tutto inatteso, nella novità che è Cristo Signore.
Nella radicale novità inaugurata con l’Annunciazione trovano attuazione i tratti originali dei tempi escatologici e apocalittici. Il Fiat della Vergine – che riecheggia quello di Israele alle falde del Sinai (Es 24, 3.7), ma mai pienamente compiuto – conclude l’Alleanza escatologica. Ritroviamo qui gli elementi teofanici caratteristici: la manifestazione della Gloria (Sékinàh) e della Presenza di Dio, il segno della nube. La presenza dello Spirito, Forza (Dynamis) divina per il concepimento verginale del Figlio di Dio, prelude la gloria del Battesimo del Signore (Lc 3, 21-22), della sua gloriosa Trasfigurazione (Lc 9, 29-35), del Giudizio del mondo (Lc 22, 69-70) e della Resurrezione (cfr Rm 1, 3-4).
La Novità del Figlio di Dio che trasforma i modelli preesistenti è unicamente quella della Resurrezione; una novità che passa attraverso la Croce gloriosa, tanto che l’Annunciazione è spiegata anche con la Croce, radice dell’Annuncio del Signore. Il Fiat della Madre di Dio esprime il suo desiderio di entrare in comunicazione filiale e nuziale con Dio e con il Verbo; è un’offerta sacrificale, e ogni sacrificio è celebrazione della Pasqua, Ingresso liturgico in Dio Padre, crescita dei fedeli del Signore nella Vita Nuova (cfr Eb 10, 4-10; Sal 39, 7-9).
Come altrove, Luca, nel riferire l’annunciazione alla Vergine, va controcorrente rispetto agli slogan del suo tempo, secondo i quali la donna in genere sarebbe caratterizzata per la passività e l’uomo per l’attività. L’autore usa un suo metodo originale: presenta il turbamento sia di Zaccaria che di Maria. Ma Zaccaria è turbato dalla visione dell’angelo (Lc 1,12), Maria « per tali parole rimane molto turbata » (Lc 1,29): il suo turbamento è a causa dell’audizione dell’invito alla gioia messianica e all’elogio insolito. Il sacerdote rimane passivo e quasi paralizzato. La Vergine invece è in situazione attiva: riflette per aderire.
I titoli e i contenuti pasquali dell’Annuncio
L’Annunciazione a Maria è un evento che spiega la Pasqua, per questo nel racconto troviamo una ricchezza di titoli e di temi pasquali. I cieli si aprono affinché lo Spirito della Resurrezione di scenda sulla creatura; il medesimo Spirito incarna il Verbo dell’Amore del Padre mediante un’azione creatrice di carattere ipostatico. L’Incarnazione del Figlio di Dio e la Pentecoste dello Spirito sono due azioni inseparabili, identiche e inconfondibili: il Lógos è reso Ipostasi divino-umana dallo Spirito Ipostatico e Creatore.
Maria, la Divenuta-tutta-grazia, è da Dio Gratificata, privilegiata, favorita (Lc 1, 28): è la dimora dello Spirito e riceve la sua pie-
nezza. Già a Nazaret la Pentecoste si concentra totalmente in Maria perché limitata alla sua persona. Ella cresce in questa pienezza fino alla Dormizione e all’Assunzione in cielo. Maria in tal modo è la « Portatrice dello Spirito » (Pneumatophóra), ella comunica attivamente, cioè anche per virtù propria, la Vita divina della Triade Unita. Vita che il Con-noi-Dio darà agli Apostoli il giorno della Pentecoste. Ma fin d’ora, essendo membro perfetto della Chiesa nascente e la Chiesa prima della Chiesa, Maria porta lo Spirito del Figlio ad Elisabetta e a Giovanni il Battista (Lc 1, 39-45), come lo porterà poi ai fratelli del Signore (cfr Mc 16, 5-8).
Il Figlio annunciato a Maria è connotato da numerosi titoli pasquali: egli è Gesù, cioè « il Signore-è-salvezza » (Lc 1, 31); il Grande (Lc 1, 32; cfr Is 9, 7); il Figlio dell’Altissimo (Lc 1, 32; cfr v. 35); il Figlio di David e il possessore del trono di lui (Lc 1, 32); il Re eterno della Casa di Giacobbe o di Israele (Lc l, 32); il Figlio di Dio (Lc 1, 35); il Santo (Lc 1, 35), della stessa santità di Dio, il Sacerdote Sommo dell’Alleanza Nuova che pone termine al sacerdozio levitico (cfr Lc 1, 5-25) attraverso la sua futura sofferenza e la morte espiatrice.
Anche il contenuto è pasquale. Di Lc 1, accenniamo ad alcuni versetti: v. 28: l’angelo saluta Maria con « gioisci.! »; è un verbo tipicamente pasquale: è la gioia della Pasqua, portata dallo Spirito della Resurrezione; v. 32: « egli sarà Grande »; nell’Antico Testamento solo Dio è Grande. Ma il Messia Salvatore è Grande perché Figlio di Dio e « Santo » (v. 35) ad opera dello Spirito santificatore. Il nascituro è il Re Pantokrator che appartiene alla sfera divina; v. 35: il linguaggio è proprio della Resurrezione, legato con il Battesimo e la Trasfigurazione: in entrambi gli eventi si parla dell’adombramento su Cristo da parte dello Spirito, della nube e della gloria del Padre. Lo Spirito che scende su Maria non è tanto lo Spirito profetico, quanto la Potenza creatrice divina che crea la Vita divina; è lo Spirito, principio di Vita e di Resurrezione (cfr Rm 1, 4; 1 Cor 15, 45; Gv 3, 4-8; Mt l, 18); v. 38: il Fiat di Maria non è tanto o solo espressione di umiltà, quanto di fede (v. 45), di docilità e di amore oblativo, che richiama quasi la figura del Servo del Signore (Is 53). Maria per prima proclama l’Amen alla gloria di Dio e intona per tutta la Chiesa: « Vieni, Signore Gesù! » (1 Cor 16, 22; Ap 22, 17.20). La Resurrezione, come l’Annunciazione, è opera dello Spirito: solo lui è la Forza di Dio (Lc l, 35) che si esprime per eccellenza e innanzitutto nella Resurrezione del Signore (Rm 1, 3-4). Cristo Risorto è Spirito vivificante (Rm 8, 5-10); è lui che dà la Vita e la Vittoria sulla morte (Rm 6, 8-11); è lui che dona la fecondità intradivina alla Vergine nel momento della sua Incarnazione. La Maternità divina inizia a Nazaret, raggiunge il suo segno storico nel Natale del Figlio a Betlemme e tocca il suo culmine nella Passione e Resurrezione; si perpetua poi nel tempo della grazia dello Spirito, tramite la Chiesa che celebra incessantemente il suo Signore.
L’Annunciazione nella celebrazione della Chiesa.
Il 25 marzo la Chiesa celebra la solennità dell’Annuncio del Signore a Maria. L’Incarnazione del Verbo è l’inizio della sua Pasqua: perciò la festa del 25 marzo, già nel IV/V secolo è considerata « la radice delle feste » (Giovanni Crisostomo), l’inizio dei tempi nuovi, l’inizio della fine: inizio dell’Incarnazione storica del Messia e inizio della deificazione dell’uomo, della rinnovazione del creato.
Per gli Ebrei il Capodanno liturgico è celebrato nel mese di Nisan, durante il quale si fa memoriale della Pasqua (cfr Es 12,2.18; 34,18). Tale data era anche il Capodanno del re e delle feste. Infatti si contava l’inizio del regno del sovrano a partire proprio dal Capodanno festivo. Anche in epoca cristiana l’inizio dell’Anno liturgico nell’alto Medioevo era fissato a marzo, precisamente il 25 marzo, capodanno pure civile, quindi primo mese dell’anno. In seguito l’inizio dell’Anno liturgico si spostò a Natale, poi all’Avvento, mentre l’inizio dell’anno solare fu regolato in corrispondenza con il calendario civile di Roma, dal quale potrebbe derivare la data del Natale cristiano al 25 dicembre, giorno in cui in tutto l’impero romano si celebrava il Natale del dio Sole.
L’espressione patristica greca rhíza tón heortón, « radice delle feste » – con la quale si denomina il 25 marzo – deriva proprio dal Capodanno del re e delle feste. Il 25 marzo perciò sorge nella Chiesa come il Capodanno del Re Salvatore e della Regina Madre.
Nella letteratura cristiana il 25 marzo è indicato come il giorno che comprende tutti i giorni del tempo nuovo: il giorno somma del tempo della Chiesa. Seguendo l’ipotesi che spiega la festa del Natale fissata al 25 dicembre in dipendenza dal 25 marzo (e non viceversa), gli Antichi e i Padri – fin dal tempo di Tertuliano – credevano che questo giorno, equinozio di primavera, segnasse l’inizio della creazione del mondo e dell’uomo. Perciò era ritenuto come una data simbolica del concepimento del Verbo di Dio: il Signore si sarebbe incarnato e sarebbe anche morto il 25 marzo..
La festa tuttavia cadeva in Quaresima, tempo in cui per la Chiesa antica era vietato celebrare qualsiasi solennità. Per l’Occidente la difficoltà fu affrontata dal concilio di Toledo (656); in Oriente invece il Concilio trullano (692) stabilì che in Quaresima si sarebbe fatta un’eccezione per l’Annunciazione, senza trasferirla, anche se coincide con il Venerdì o il Sabato santo. Questo uso è in vigore ancora oggi tra gli Orientali.(La nascita del Signore al 25 dicembre è documentata a Roma per la prima volta nel 336. Ciò non esclude la prima ipotesi che spiega la data del Natale in dipendenza del 25 marzo.)
Sia in Oriente che in Occidente, la festa dell’Annunciazione è tra le più solenni dell’Anno liturgico; in questo giorno Maria è venerata e ricordata come la Portatrice della Vita Nuova, della Vita pasquale del Signore. Abramo di Efeso in una omelia per il 25 marzo proclama:
« Oggi è sciolta l’antica condanna:
da quando infatti fu pronunciato in terra quel Gioisci, è cessato quel Partorirai figli nel dolore;
per una donna subentrò agli uomini la morte; per una donna ritornò loro la vita » .
L’Annuncio di Cristo a Maria richiama anche l’apparizione di Cristo Risorto a sua Madre il mattino di Pasqua. Era necessario – dicono i Padri (Atanasio il Grande, Cirillo di Gerusalemme, Gregorio Palamas) – che l’Adamo nuovo, destandosi dal sonno (cfr Gn 2, 21-23), vedesse prima di tutto la Donna e fosse veduto da lei. La Donna che prima di qualunque altra creatura vede il Risorto, per i Padri, è senza dubbio la Vergine Madre di Dio.
L’Annunciazione non è solo l’inizio della Redenzione: è la chiave di lettura e di comprensione di tutta la vicenda di Cristo che seguirà poi. L’esaltazione del Verbo fattosi Carne a Signore uni versale non attenua minimamente il suo Mistero di Verbo fattosi Uomo dalla Donna per l’eternità. Il Mistero pasquale si sviluppa e cresce nel segno dell’Incarnazione storica e gli uomini nell’Emmanuele diventano figli di Dio (Gal 4, 4-5).
Come evento storico-salvifico la Chiesa celebra l’Annunciazione una volta l’anno, il 25 marzo; ma lo stesso Mistero – secondo l’economia sacramentale – si attua ogni giorno e in ogni celebrazione. Il Signore Risorto, annunciato a Maria, è annunciato quotidianamente alla Comunità dei fedeli per il perpetuarsi della Incarnazione sua e ciò avviene in prospettiva storica, come compimento della Profezia, in dimensione sacramentale come attuazione dell’Evangelo « per noi-qui-ora » e nella dimensione escatologica, tempo ecclesiale della crescita di Cristo Capo nel suo Corpo, fino alla Venuta parusiaca del Signore. A questi tre livelli corrispondono infatti le tre letture della Liturgia della Parola: il Profeta (o Antico Testamento), 1′Evangelo e la lettura dell’Apostolo. Del Mistero integrale ogni celebrazione fa memoriale, più o meno esplicito, secondo 1′Evangelo e il « colore » liturgico del giorno. (Sergio Gaspari, Celebrare con Maria l’anno di grazia del Signore, ed. Monfortane, pp.91-110).
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