I CANTI DEL SERVO DI JAHVÈ I – II
http://www.cistercensi.info/monari/1994/m19940319b.htm
(ci sono delle lettere che vengono male nella copia, scusate, oggi ho molto lavoro e non ho tempo di correggerli)
Diocesi Reggio Emilia-Guastalla Correggio – Monastero Suore Clarisse Cappuccine
Ritiro spirituale di Quaresima per giovani
I CANTI DEL SERVO DI JAHVÈ – I E II IL III NEL POST SOTTO
I -II – CANTO, IL III SEPARATAMENTE PERCHÉ È TUTTO LO STUDIO È MOLTO LUNGO
(DAL LIBRO DEL PROFETA ISAIA)
19 MARZO 1994
Celebrazione Eucaristica
Liturgia solennità di San Giuseppe
Referenti del presente Documento: Vittorio Ciani e Marcello Copelli
Premessa
Il tema di questo ritiro sono i canti del servo di Jahvè, cioè quattro canti che sono inseriti nel cosiddetto deutero-Isaia, dal capitolo 40 al 55 del libro del profeta Isaia.
Dentro a questo grande blocco ci sono quattro brani che in qualche modo emergono rispetto al contesto, e sono i quattro canti del servo di Jahvè.
Probabilmente anche questi sono opera del deutero-Isaia, però certamente con un messaggio, con delle prospettive particolari, in quanto tutte quattro queste poesie parlano di un personaggio misterioso, chiamato “il servo”, al quale viene affidata una missione importante e decisiva per la storia di Israele e per tutti gli uomini. Praticamente gli viene affidato il compito di fondare la religione autentica, l’atteggiamento corretto nei confronti di Dio e gli viene affidato l’incarico di rivelare la volontà di Dio.
Questo pone tutta una serie di problemi, per esempio l’identificazione di questo servo. A chi si riferiva l’autore? Le risposte degli esegeti sono diversissime, comunque tenete presente che per alcuni esegeti il servo è Israele stesso. Il popolo in esilio ha da Dio un compito, una vocazione di rinascita, di rigenerazione della vita religiosa, e questo compito fa di Israele il vero servo di Jahvè.
Per altri esegeti il servo è un personaggio simbolo o il deutero-Isaia stesso, o un profeta come Geremia, o un personaggio storico come Zorobabele.
Quello che a noi interessa principalmente è la fisionomia di questa figura, quale tipo di missione gli viene affidato.
Per certi aspetti il servo di Jahvè ha alcune caratteristiche regali: deve esercitare un potere che diventa anche universale; ma le sue caratteristiche sono principalmente profetiche perché deve- annunziare la parola di Dio, e per questo compito subisce derisione e persecuzione cioè paga l’annuncio della Parola di Dio con una serie di sofferenze che il servo accoglie in prospettiva positiva, come strumento di intercessione per i peccatori.
Il servo è uno che intercede, cioè cerca di ottenere la salvezza di tutto il popolo attraverso la sua preghiera, la sua persona e in particolare la sua sofferenza.
Proprio per questo motivo il servo di Jahvè assume delle caratteristiche che lo avvicinano a Gesù Cristo nel Nuovo Testamento, anzi Gesù e il Nuovo Testamento hanno interpretato la missione del Signore alla luce di questi canti, in particolare la passione di Gesù.
Si potrebbe rileggere la passione di Gesù e notare tutta una serie di riferimenti impliciti ai canti del servo, in particolare al quarto canto dove viene descritta la sofferenza del servo di Jahvè.
Proprio per questo motivo i quattro canti vengono usati nella liturgia della settimana santa, e forse per questo don Davide mi ha chiesto di commentarli. Allora li riprendiamo insieme, li rileggiamo e tentiamo di vedere quali sono le cose più preziose.
Primo Canto
Il primo canto è nel capitolo 42 di Isaia, ed è un oracolo di investitura del servo: possiamo immaginare l’investitura di un vassallo da parte del grande re.
Il re vuole costituire un vassallo primo ministro; naturalmente si fa un’assemblea con tutti i vassalli del regno e davanti a tutti i suoi sottomessi l’imperatore presenta la figura che lui ha scelto. E’ questo il contesto immaginario del nostro brano.
“Ecco il mio servo che io sostengo,
il mio eletto di cui mi compiaccio.
Ho posto il mio spirito su di lui;
egli porterà il diritto alle nazioni.
Non griderà né alzerà il tono,
non farà udire in piazza la sua voce,
non spezzerà una canna incrinata,
non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.
Proclamerà il diritto con fermezza;
non verrà meno e non si abbatterà, finché, non avrà stabilito il diritto sulla terra;
e per la sua dottrina saranno in attesa le isole.
Così dice il Signore Dio
che crea i cieli e li dispiega,
distende la terra con ciò che vi nasce,
dà il respiro alla gente che la abita
e l’alito a quanti camminano su di essa:
Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia
e ti ho preso per mano;
ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo
e luce delle nazioni,
perché, tu apra gli occhi ai ciechi
e faccia uscire dal carcere i prigionieri,
dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre”.
Come dicevo è la presentazione del servo: il re, Dio stesso, lo presenta davanti a un’assemblea, all’assemblea del popolo, delle nazioni, dei grandi della terra: “Ecco il mio servo che io sostengo”.
Mio servo intendetelo come una dignità conferita a quest’uomo.
È vero che in italiano ‘servo’ vuole dire subordinato, ma quando si parla del servo di un re si intende il primo ministro, cioè quello che il re pone al di sopra degli altri.
Nell’Antico Testamento “servo di Dio” è per esempio Mosè, o Giosuè, o i profeti, cioè tutte quelle persone che hanno ricevuto da Dio una missione e con questa missione hanno ricevuto una dignità, un potere.
Quindi “mio servo” intendetelo come un titolo di onore.
“Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio”. “Mio eletto” vuole dire che Dio lo ha scelto in mezzo agli altri come unico, Dio dice a questo servo «tu sei per me unico» e non solo ma aggiunge «di te mi compiaccio» e vuole dire che Dio è contento della persona di questo servo, del compito che gli affida. In qualche modo il servo appare davanti a Dio come un sacrificio perfetto.
I sacrifici perfetti erano quelli che Dio guardava con piena benevolenza. Questo servo appare davanti a Dio come perfetto nella sua consacrazione, e Dio se ne compiace, Dio è contento di lui.
Questo compiacimento di Dio diventa l’affidamento di un incarico con equipaggiamento annesso: “Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni”.
L’incarico è “portare il diritto” dove per diritto intendete quello che noi chiamiamo oggi la religione, quindi vuole dire rivelare la volontà di Dio, il progetto di Dio ai popoli, perché questi si sottomettano a questa volontà. Quindi non è il diritto in senso giuridico stretto, ma è il diritto nel senso della volontà globale di salvezza di Dio.
In altre parole: il servo deve condurre tutte le nazioni all’obbedienza a Dio.
Naturalmente questo è un compito molto grande e che supera le energie umane del servo. Per quanto sia intelligente o abile, un compito di questo genere supera ogni possibilità, allora “ho posto il mio spirito su di lui”.
Questo vuole dire che si compie per il servo quello che era stato detto nel capitolo 11 di Isaia a proposito del Messia: “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. Si compiacerà del timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire; ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese”.
Il testo continua descrivendo l’attività di questo messia, di questo re, il quale stabilisce la giustizia, difende i poveri, decide le questioni non approssimativamente ma secondo una valutazione corretta.
Come può fare tutto questo? “Su di lui si poserà lo spirito del Signore”. Non solo è sceso lo Spirito, ma si è fermato, si è inserito nell’esistenza di questo servo tanto da riposarsi dentro di lui.
Allora questo spirito gli dona la sapienza e l’intelletto, cioè la capacità di conoscere oggettivamente le cose, come sono davanti a Dio.
Poi gli dona il consiglio e la fortezza cioè la capacità di scegliere, di decidere con coraggio. Dopo avere capito le cose sa prendere delle decisioni forti.
Poi gli dona lo spirito di conoscenza e del timore, cioè nello scegliere si lascia guidare non da interessi particolari, ma dalla volontà di Dio, dalla sottomissione al volere di Dio.
Quindi con lo Spirito quest’uomo è guidato, è orientato nei suoi pensieri e nei suoi desideri non dagli interessi privati, ma dalla rivelazione della volontà di Dio; ha assimilato il suo cuore al cuore di Dio.
“Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni”.
Questa è la missione. Poi si dice qualcosa sul metodo, sul come verrà svolta, come si realizzerà questa missione:
“Non griderà né alzerà il tono,
non farà udire in piazza la sua voce,
non spezzerà una canna incrinata,
non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.”
Vuole dire che il suo metodo di azione è un metodo discreto, umile, rispettoso, capace di valorizzare quello che di positivo trova, anche se piccolo.
L’immagine della canna incrinata e dello stoppino dalla fiamma smorta, sembrano essere la fotografia dell’Israele dell’esilio.
Quando Israele si trova in Babilonia è un popolo nel quale è venuta meno la voglia di vivere, un popolo avvilito, deluso. schiacciato, che non ha un grande gusto di andare avanti.
Il servo viene mandato a questo popolo.
Come lo tratta? Lo giudicherà e lo eliminerà proprio per i suoi difetti? Spezzerà la canna incrinata? Spegnerà lo stoppino dalla canna smorta?
Al contrario. Questo servo è rispettoso di tutto quello che di positivo, anche piccolo, esiste nel popolo del Signore e lo valorizza. Con il suo intervento invece di umiliare valorizza. Invece di schiacciare, da energia e speranza.
Proprio per questo si presenta come un servo mite, che non grida, che non alza il tono, né fa udire in piazza la sua voce.
Vuole dire allora che è debole? Che non ha la capacità di imporsi?
È mite, ma tutt’altro che debole.
È, in realtà, deciso, costante, ostinato nelle sue scelte, per cui dice:
“Proclamerà il diritto con fermezza;
non verrà meno e non si abbatterà, finché, non avrà stabilito il diritto sulla terra;
e per la sua dottrina saranno in attesa le isole.”
Quindi non si lascia abbattere da nessun ostacolo, non si lascia intimidire dalle minacce, ma una volta che si è proposto il suo compito (quello di stabilire la volontà di Dio) lo esegue senza deviare a destra o a sinistra.
Mite, ma perseverante. Si presenta come rispettoso ma anche deciso nell’esecuzione della volontà di Dio.
Questa presentazione viene completata da alcune parole che vengono rivolte direttamente al servo:
“Così dice il Signore Dio
che crea i cieli e li dispiega,
distende la terra con ciò che vi nasce,
dà il respiro alla gente che la abita”
Chi parla in questo modo è Dio, il creatore del mondo, che sta al di sopra di ogni cosa e la cui voce si afferma come invincibile. E’ quello che crea i cieli, che dispiega i cieli e la terra. L’universo intero è plasmato dalle sue mani, disposto dalla sua volontà.
È Lui che dà il respiro alla gente che vi la abita, quindi anche la vita ha la sua origine nella volontà di Dio.
Che cosa dice questo Signore dell’universo?
“Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia
e ti ho preso per mano;
ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo
e luce delle nazioni,
perché‚ tu apra gli occhi ai ciechi
e faccia uscire dal carcere i prigionieri,
dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre”
Richiama la missione che Lui stesso ha consegnato al servo: Io ti ho chiamato per la giustizia.
Questo compito è accompagnato dalla benevolenza di Dio: ti ho preso per mano, cioè il servo in tutta la sua opera è accompagnato dalla presenza premurosa e di difesa del Signore.
Inoltre ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo. Formato e stabilito vogliono dire che il servo è proprio una creazione di Dio, che Dio si è fatta con le sue mani. Così come all’inizio del mondo Dio ha creato l’uomo plasmandolo con la creta, così il Signore ha plasmato il servo.
Plasmato significa che gli ha dato una forma che corrisponde alla sua volontà, tanto che il servo possa diventare uno strumento docile di Dio.
Siccome diventa uno strumento docile di Dio, il servo in qualche modo diventa onnipotente. Cioè riesce ad agire con la stessa potenza misericordiosa di Dio, tanto che apre gli occhi ai ciechi, tanto che libera i prigionieri, tanto che porta la luce a chi abita nelle tenebre.
Tutte queste cose l’uomo non è capace di farle, solo Dio è capace, ma questo servo è diventato uno strumento docile, perché Dio lo ha formato secondo la sua volontà, e quindi attraverso questo servo passa, come attraverso un vetro trasparente, l’azione di Dio che è potente e misericordioso, che è forte e salvatrice. Quindi il servo diventa strumento di Dio.
Questo è il primo canto del servo.
Quando rileggete queste parole provate a rivederle in riferimento al Nuovo Testamento.
“Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio”, questo è il Battesimo di Gesù.
“Ho posto il mio spirito su di lui”, è successo questo all’inizio del ministero di Gesù.
“egli porterà il diritto alle nazioni”, questo è il compito che Gesù ha realizzato in tutta la sua vita.
Come lo ha realizzato? Con mitezza: “Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta”.
Non c’è dubbio che l’atteggiamento del Signore sia stato di mitezza, ma è stato altrettanto fermo e deciso tanto da non venire meno finché, non avrà stabilito il diritto sulla terra, quindi tanto che non si è ritirato di fronte a nessun ostacolo nemmeno davanti alla minaccia della morte.
“Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni”, che Gesù sia luce delle nazioni questo era stato già detto da Simeone al momento della presentazione del Signore al tempio, ma lo si rivede in tutta la predicazione del Signore, in tutto quello che Gesù ha detto.
Che Gesù abbia riaperto gli occhi ai ciechi tutto il Nuovo Testamento lo dice.
Che “faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre” questo è tutto il significato della redenzione.
Quindi si può rileggere il canto in riferimento a Gesù.
Non vuole dire che il secondo Isaia abbia necessariamente pensato ad una figura messianica, però vuole dire che nel momento in cui Gesù è venuto per compiere la volontà del Padre, ha reso vere tutte le profezie, tutte le parole dell’Antico Testamento e le attese dei profeti.
Secondo Canto
Il secondo canto è al capitolo 49 del profeta Isaia.
Se il capitolo 42 era la presentazione del servo davanti ai vassalli del re, il capitolo 49 è una specie di racconto autobiografico: il servo racconta la sua esperienza, rilegge il passato:
“Ascoltatemi, o isole,
udite attentamente, nazioni lontane;
il Signore dal seno materno mi ha chiamato,
fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome.
Ha reso la mia bocca come spada affilata,
mi ha nascosto all’ombra della sua mano,
mi ha reso freccia appuntita,
mi ha riposto nella sua faretra.
Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele,
sul quale manifesterò la mia gloria».
Io ho risposto: «Invano ho faticato,
per nulla e invano ho consumato le mie forze.
Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore,
la mia ricompensa presso il mio Dio».
Ora disse il Signore
che mi ha plasmato suo servo dal seno materno
per ricondurre a lui Giacobbe
e a lui riunire Israele,
poiché, ero stato stimato dal Signore
e Dio era stato la mia forza
mi disse: «E’ troppo poco che tu sia mio servo
per restaurare le tribù di Giacobbe
e ricondurre i superstiti di Israele.
Ma io ti renderò luce delle nazioni
perché porti la mia salvezza
fino all’estremità della terra»“.
Il servo sta raccontando la sua esperienza, la sua vocazione, e dice una cosa fondamentale: la sua vocazione, la sua chiamata è avvenuta quando ancora era nel seno materno, prima di nascere.
L’idea è tipica di Geremia.
Quando parla della sua vocazione usa proprio questa espressione: «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni».
Vuole dire: quando Geremia incomincia a fare il profeta ha una certa età della sua vita, però in realtà Geremia era profeta da prima; quella vocazione non fa altro che manifestare, mettere in luce quella che era la struttura genetica spirituale di Geremia. Geremia non è mai esistito se non come profeta; Dio lo ha sempre sognato, voluto e pensato come profeta. La profezia non è un vestito che gli si è aggiunto in un momento della sua vita, ma è un gene che ha accompagnato il profeta fin dall’inizio e che ha dato forma a tutti i suoi pensieri, i suoi progetti, le sue speranze e ideali.
La vocazione nell’ottica di Geremia è così, e così dice anche il servo «il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome».
Pronunciato il mio nome vuole dire che mi ha conosciuto, ma vuole dire anche che mi ha amato, che mi ha dato un compito. Il nome contiene il compito della persona, contiene la sua vocazione.
Ciascuno di noi ha un nome, che Dio conosce, e che è il significato della nostra esistenza, quindi è quella che noi chiamiamo vocazione.
Il servo è stato scelto, amato e voluto fin dall’inizio del suo concepimento con una missione precisa da parte di Dio.
Ricordate che questa immagine verrà ripresa poi da san Paolo. Quando parla della sua vocazione riconosce che è venuta ad un certo punto della sua vita (sulla via di Damasco), è venuta in contrasto con molte cose precedenti, perché prima era un persecutore della chiesa e poi la vocazione ha capovolto la sua prospettiva e il suo modo di pensare, però san Paolo riconosce che Dio lo aveva scelto fin dal seno materno.
Quindi la vocazione è avvenuta concretamente se non dopo molto tempo, ma quella vocazione non faceva altro che innestarsi su una realtà profonda che Paolo portava sempre con sé.
Questo naturalmente vale per ciascuno di noi. La vocazione la scopriamo ad un certo punto della vita, delle volte la costruiamo pian piano, con fatica, con tensione.
Però in realtà quello che viene a galla è la parola con cui Dio ci ha chiamato fin dall’origine.
Continua il servo: “Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra” e vuole dire che il servo di Jahvè è diventato uno strumento di Dio, uno strumento di cui Dio si serve per compiere la sua volontà, uno strumento soprattutto attraverso la parola, la predicazione. E’ un predicatore, un profeta, deve annunciare il diritto, proclamare la volontà di Dio; per questo Dio ha reso la sua bocca come spada affilata, quindi capace di colpire, capace di discernere, di distinguere, di dividere, di mettere in luce i pensieri del cuore.
“Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”. La parola “Israele” sembra una glossa, cioè un’aggiunta di qualcuno che ha voluto interpretare il canto, per dire che questo servo su cui Dio manifesta la sua gloria è Israele stesso, il popolo stesso.
E ha ragione. Quando il servo di Dio si rivela è probabilmente una persona singola, ma è una persona che riassume in sé il mistero di tutto il popolo di Israele. Di quel popolo che Dio ha chiamato da sempre, che Dio ha plasmato con le sue mani, al quale ha affidato la missione di testimoniarlo in mezzo ai popoli, di essere quindi luce per le nazioni.
Tutte queste cose sono corrette se riferite a Israele, ma nello stesso tempo si riferiscono a qualcuno che incarna e realizza perfettamente il compito di Israele.
Quello che alla fine vale per Israele vale anche per noi. Noi siamo sì la chiesa del Signore ma a volte siamo una chiesa che non realizza la sua vocazione autentica di amore, di fede, di speranza. C’è quindi una specie di scalino tra la chiesa com’è nel progetto di Dio e la chiesa come riusciamo a viverla noi.
C’è uno scalino, una distanza tra Israele così come Dio lo sogna e Israele come storicamente si realizza.
Per questo c’è nella Chiesa una persona nella quale la chiesa viene espressa pienamente nel suo mistero di amore: Gesù Cristo, i santi che riassumono il mistero vero della Chiesa.
Lo stesso vale per Israele e per questo servo che riassume in sé l’esistenza, la vita e la missione del popolo.
“Io ho risposto: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio”. Qui entra un altro tema che diventerà poi dominante, ed è la sofferenza, il fallimento, la delusione.
Vuole dire che questo servo ad un certo punto vede la sua missione fallire.
Si è impegnato per annunciare il diritto alle nazione, per portare la volontà di Dio in mezzo al mondo, per trasformare il mondo secondo il progetto di Dio. Che cosa ha ottenuto? Poco, tanto da essere ormai avvilito, privo di energia.
Vuol dire che ha perso la fiducia? No la fiducia gli rimane. Vede che il risultato è quasi nullo ma certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio. Non ha quindi paura del fallimento, dell’insuccesso; sa che siccome la missione gli è stata affidata da Dio è come al sicuro dentro alla volontà, al progetto di Dio. Qualunque sia il risultato che si vede, in realtà la sua missione non è inutile. Dio custodisce lui e i suoi meriti, il significato del suo compito, della sua missione.
“Ora disse il Signore che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele, poiché, ero stato stimato dal Signore e Dio era stato la mia forza mi disse: «è troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Ma io ti renderò luce delle nazioni perché, porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”.
Vuole dire: questo servo che sembra non riuscire a realizzare la sua missione di ricostituzione del popolo di Israele, secondo il volere di Dio, questo servo riceve, stranamente, una missione infinitamente più grande: quella di ricondurre l’umanità intera alla fedeltà al Signore, quello di donare agli uomini la salvezza di Dio.
Questo è tipico del Nuovo Testamento:
Gesù è venuto come salvatore di Israele, e si può che ha fatto fallimento.
Gesù può dire al termine della sua vita: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze» perché quelli che hanno creduto non sono stati molti, e quelli che gli si sono opposti, invece, hanno apparentemente vinto.
Non c’è dubbio che le parole “ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio” sono parole che esprimono il mistero di Gesù, che non ha restituito male per male, che non ha oltraggiato gli oltraggiatori, ma ha affidato la sua causa a colui che giudica con giustizia.
Quindi si è consegnato nelle mani del Padre perché fosse Lui a difenderlo. Ma proprio questo è avvenuto, che in questo modo la missione di Gesù è passata da missione per Israele a missione universale, a missione per tutte le nazioni.
Proprio il rifiuto di Israele ha aperto la strada ai pagani, così dice san Paolo più volte. Ed è proprio questo che ha reso l’annuncio del Vangelo un annuncio di salvezza fino alle estremità della terra.
Fino all’estremità della terra, se ricordate, è il progetto che Luca pone alla base degli atti degli Apostoli; il compito della chiesa è fare sì che il Vangelo, partendo da Gerusalemme, arrivi fino agli estremi confini della terra, arrivi cioè ai pagani, a tutti gli uomini.
Entrano quindi due elementi nella vocazione del servo, che sono complementari:
da una parte la sofferenza, dall’altra la dilatazione della missione;
da una parte il fallimento, dall’altra il compito aperto a tutti e la salvezza offerta.
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