ANNOTAZIONI SULLA STORIA DELLA PRASSI PENITENZIALE – UNA LETTURA ATTUALIZZANTE.
ANNOTAZIONI SULLA STORIA DELLA PRASSI PENITENZIALE – UNA LETTURA ATTUALIZZANTE.
Di Carlo Collo, Docente di teologia sistematica e di ecumenismo alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Sezione di Torino.
(In: Confessione addio? Edizioni La Meridiana, Molfetta 2005, pag. 41-60)
La disattenzione di non pochi credenti nei confronti della forma celebrativa penitenziale in vigore non va precipitosamente imputata alla sola cattiva volontà. È sotto gli occhi di tutti un estraneamento progressivo dalle forme tradizionali, propiziato dai mutamenti culturali e sociali, che concerne anche la percezione della colpa e del suo superamento.
Negli stessi ambienti ecclesiali ricorrono inquietanti interrogativi: la prassi penitenziale privata vigente non ha fallito di fronte ai gravi problemi etici odierni? Non è ormai chiaro che essa non ha presa e mordente nella vita sociale (mafia, violenza, corporativismi, violazione dei diritti della persona, ecc.), politica (corruzione) e culturale?
Una presa di coscienza pacata, lucida e coraggiosa dei mutamenti culturali e nel contempo delle istanze evangeliche si rivela quindi indispensabile per un’inculturazione della fede nelle nostre democrazie occidentali. È prevedibile che la prassi penitenziale riceva integrazioni e subisca cambiamenti, così da vedere « emergere poco a poco un nuovo sistema penitenziale fatto di proposte diverse »2.
Perché questo rinnovamento sia fecondo occorre interrogare il passato: il passato normativo delle Sacre Scritture e il passato istruttivo della movimentata prassi penitenziale cristiana nel corso dei secoli.
Il ricorso alla storia della penitenza cristiana è non solo utile, ma indispensabile e per molte ragioni. Ci dissuade dall’idealizzare il passato e ci mostra come e per opera di chi sono state superate le crisi via via verificatesi. Ci rammenta la ricca molteplicità di forme penitenziali nel tempo e nello spazio allargando i nostri orizzonti sulle molte vie penitenziali, suggerisce verità e prassi dimenticate, stimola la fantasia pastorale all’invenzione responsabile.
Solo esaminando l’evoluzione diacronica delle forme o figure penitenziali e la loro molteplicità sincronica si può scoprire la struttura permanente della penitenza o, se si preferisce, le costanti sotto le variabili. In questo modo la Chiesa si prepara a svolgere il suo compito, che consiste nel proporre « non solo una dottrina, ma anche una figura della penitenza e dellà riconciliazione che sia allo stesso tempo più fedele agli insegnamenti della Scrittura e della Tradizione e più adatta ai bisogni e alle attese di oggi « 3.
Un’incursione nella storia della prassi penitenziale
Contributi storici rilevanti sono venuti da B. Poschmann, P. Galtier, E. Amann, J.A. Jungmann, P. Anciaux, C. Vogel, K. Rahner, H. Vorgrimler e altri. Da essi risulta che la riconciliazione con la Chiesa svolgeva un ruolo determinate nell’antica prassi penitenziale (M. de la Taille e B. F. Xiberta4, poi H. de Lubac, E. Mersch, M. Schmaus, K. Rahner, O. Semmelroth, E. Schillebeeckx e soprattutto B. Poschmann). Non consta che nella Chiesa antica esistesse una penitenza sacramentale privata accanto a quella ufficiale pubblica (Poschmann, nella sua lunga controversia con K. Adam e P. Galtier).
Mi pare che nulla di particolarmente significativo sia emerso dalle indagini storiche successive, mentre i dati degli studi suddetti attendono ancora di essere adeguatamente valorizzati nella teologia e nella prassi penitenziale.
La periodizzazione ormai invalsa è la seguente: penitenza neotestamentaria; penitenza antica, pubblica, canonica (dal II al VI secolo); dal secolo VI in poi: penitenza tariffata evoIuta poi in penitenza privata coesistente con altre forme penitenziali; dal secolo XVI: contestazione protestante e reazione dottrinale e disciplinare tridentina; dal Vaticano II a oggi.
La prassi penitenziale neotestamentaria propone anzitutto la quotidiana sollecitudine amorevole di Gesù per i peccatori, esemplare e normativa per la Chiesa di tutti i tempi. La missione di « legare e sciogliere » affidata a Pietro (Mt 16,18-19), non va forse considerata estesa in Mt 18,18 a tutti i cristiani, singoli e comunità, come la intendono molti esegeti e già Sant’Agostlno5?.
A proposito di Gv 20, « ritenere i peccati » non significa « non rimettere i peccati », come traduce la Bibbia della CEI, ma richiedere degli adempimenti al fine di poter rimettere i peccati come dono di Cristo spirituale (ruolo dello Spirito) e pasquale (evento della risurrezione)6.
Una lettura attenta del Nuovo Testamento permette di individuare diverse prospettive dottrinali e pratiche circa la remissione dei peccati che non vanno frettolosamente omologate7 e una pluralità di iniziative scalari di lotta contro il peccato, di carattere preventivo, curativo e chirurgico8.
Merita di essere rilevata anche la differenza tra la procedura di Mt 18 e la successiva penitenza pubblica della Chiesa primitiva. Il Nuovo Testamento attesta una prassi penitenziale molto ricca, che mobilita tutta la comunità e i singoli. Secondo Mt 18,15ss., per ottenere il perdono dei peccati bastava accettare l’ammonizione privata del fratello, di alcuni fratelli o della comunità, cessando di peccare. Se il peccatore prestava ascolto al fratello-cristiano non era più necessario far intervenire la comunità. Come suggeriscono esegeti contemporanei, va preso atto che il singolo non agiva privatamente, ma come membro della comunità ecclesiale che con il suo intervento correttivo in favore del fratello rendeva presente e operante9.
Anche la successiva prassi penitenziale della Chiesa primitiva in vigore nel II secolo non risulta uniforme e questo pluralismo permane fino alla pace costantiniana, quando si affermerà, almeno in Occidente, l’unicità della seconda penitenza a immagine di quella battesimale10.
La Didascalia degli apostoli ignora l’irripetibilità della penitenza postbattesimale, elemento prezioso da inserire nel dossier del pluralismo della Chiesa antica. Coesistevano, a quanto pare, prassi più rigorose con altre più comprensive, finché il laico montanista Tertulliano, nel suo De pudicitia, pretenderà di imporre come unica la sua posizione intransigente, polemizzando contro i vescovi di Cartagine e Roma.
Dopo l’editto di Milano (314) esce alla luce del sole un sistema penitenziale comunitario (in questo senso pubblico), esigente e regolamentato dai canoni (di qui la dicitura di penitenza canonica) che lo rendono sempre più uniforme e che, per il troppo rigore (interdetti), si avvia verso un progressivo inesorabile declino nel secolo Vl11.
Quali sono le ragioni che hanno indotto i pastori a non modificare una prassi penitenziale manifestamente impraticabile e a preferire il « deserto penitenziale »? Volendo essere fedeli alla tradizione, erano riluttanti a innovare, e probabilmente temevano di proporre ai barbari un cristianesimo troppo accomodante. Ma ciò nonostante « si fa fatica a capire come mai vescovi coscienti del loro ruolo pastorale, non abbiamo messo in discussione in nome del Vangelo il postulato della penitenza non reiterabile »12 e non siano riusciti a elaborare una nuova pastorale della riconciliazione e del perdono esente dagli interdetti e accessibile ai normali credenti nella nuova situazione. Questo enigma irrisolto della Chiesa antica deve far riflettere i fautori della conservazione a oltranza e dell’immobilismo pastorale.
È dagli uomini dello Spirito, dai carismatici, cioè dai monaci che nascerà una nuova forma penitenziale, la quale, dapprima collaudata all’interno del monastero, traboccherà sul resto del popolo di Dio: la penitenza celtica.
L’origine e la metamorfosi della penitenza celtica, irlandese, iro-scozzese o, come più tardi si dirà, tariffata o tassata, privata, ripetibile, senza interdetti, rimane ancora avvolta nel mistero. « I promotori di questo nuovo sistema non sono dei vescovi o dei teologi, bensì dei monaci. La disciplina che essi diffondono è una versione, a uso dei laici, di un’osservanza praticata nei monasteri »13.
La complessità e la non raggiunta chiarezza sul dossier storico di tale penitenza non ci permette di distinguere nettamente tra il ruolo del vescovo, del presbitero e del monaco guida spirituale. Anche sull’assoluzione, sulla sua necessità e sullo statuto del ministro si giungerà a chiarificazioni definitive solo nel secolo XIII. Antecedentemente, le formule erano solo o prevalentemente deprecative. Anzi « nei Penitenziali irlandesi non si trova traccia alcuna di una (rituale) riconciliazione. La mancanza di formule di riconciliazione (come anche dell’intercessione della comunità per il peccatore, componente della massima importanza nella penitenza canonica) costituisce la novità e il discrimine fondamentale tra il nuovo sistema penitenziale, che per le sue origini monastiche è aliturgico – e l’antica prassi canonica »14.
« La documentazione fornita dai penitenziali fino al secolo IX mostra che, in un primo tempo, questi monaci non davano l’assoluzione, sempre riservata al vescovo. Si accontentavano di indicare una penitenza ancora lunga, ma molto ridotta rispetto alla disciplina pubblica, che poteva essere compiuta segretamente. I formulari delle preghiere dei penitenziali dicono che al termine di questa penitenza il peccatore era ‘riconciliato con l’altare’, vale a dire riammesso all’eucaristia. In un secondo tempo (a partire dal 950), si assiste alla comparsa della menzione di assoluzione che si collega immediatamente alla confessione. La riconciliazione divenne ormai il ministero corrente del sacerdote. Questa assoluzione era da principio deprecativa, e si svolgeva sotto forma di preghiera (« Dio ti assolva…), prima di diventare indicativa (« io ti assolvo… ») « 15.
Questi inizi incerti e ambigui della penitenza monastica hanno sollevato alcuni interrogativi. Nella fase in cui essa non comportava ancora l’assoluzione, costituiva già un vero e proprio sacramento?
Secondo B. Sesboué, « si può affermare che la penitenza monastica è stata sacramentale perché si impose come dato di fatto alla Chiesa, che progressivamente la riconobbe. Ma bisogna riconoscere anche che essa è stata una forma ‘inferma’, nella misura in cui uno degli atti essenziali del sacramento non aveva significato in modo visibile, ma si inscriveva soltanto nel riconoscimento globale della Chiesa ». Egli osserva che « questo fatto, indiscutibile in ragione della sua durata, può essere considerato con interesse oggi, quando vediamo moltiplicarsi i casi in cui i laici inviati dal vescovo in missione pastorale in cappellanie (di licei, università, ospedali, prigioni…) si trovano nella situazione di ascoltare le confessioni senza potere dare l’assoluzione »16.
Concordo con Sesboué, ma vorrei aggiungere alcune considerazioni. Anzitutto « non bisogna maggiorare la grazia sacramentale a detrimento della (prima) realtà di grazia che si dispiega nella Chiesa-sacramento. Bisogna evitare di far credere – di fronte a certe richieste – che non vi sia grazia se non attraverso i sacramenti « 17. In secondo luogo gli stessi sette riti vanno intesi come sacramenti « in quanto in essi la Chiesa realizza e concretizza la sua presenza, che rivela e comunica la salvezza; e la Chiesa è sacramento, perché essa è il luogo in cui la presenza attiva e salvifica di Cristo morto e risorto, viene incontro all’uomo di oggi »18.
Sul modello di Cristo, ciò che è essenziale per comunicare il perdono di Dio è l’accoglienza del peccatore pentito da parte della Chiesa (di tutta la Chiesa, non della sola gerarchia né dei soli laici mandati dalla gerarchia). Ciò che significa e comunica il perdono di Cristo « non è per sé e necessariamente un determinato gesto o una determinata parola, ma l’atto (percepibile), con cui il capo della comunità riammette il peccatore… Di per sé non ha grande importanza, se il perdono viene espresso con il semplice gesto di offrire l’eucaristia, o con una preghiera rivolta al Signore misericordioso (forma deprecativa), o con una formula di sapore giuridico (forma dichiarativa) » 19.
La prassi penitenziale irlandese, secondo cui il monaco (non presbitero), senza mandato episcopale, ammette il penitente pentito all’eucaristia (altario reconciliatur) costituisce certo un caso singolare, ma non potrebbe essere interpretata come evento ecclesiale di riammissione suscitato dallo Spirito Santo? Quando i capi sonnecchiamo (impraticabilità della penitenza pubblica), lo Spirito suscita nella Chiesa iniziative riconciliatrici servendosi, in questo caso, di carismatici, di monaci.
La riforma carolingia della penitenza voluta dalle autorità civili e religiose rappresenta un intervento regolativo, non innovativo con luci e ombre20.
Non vanno dimenticate le altre forme di confessione e di penitenza medievali: la confessione diretta a Dio (vigente ancor oggi, se si tiene conto che, in presenza del sacerdote, è a Dio che ci si confessa: « Confesso a Dio onnipotente… »); la confessione ai laici vigente nel Nuovo Testamento, usata nel Medioevo in caso di necessità e approvata e raccomandata da San Tommaso, che le attribuisce una certa quale (imperfetta) sacramentalità21; i pellegrinaggi penitenziali e i pellegrinaggi di massa negli anni santi o giubilei. Questa pluralità di forme complementari salda la dimensione più intima e segreta della relazione con Dio con la manifestazione comunitaria del perdono e della riconciliazione che si esprime anche nello spazio (pellegrinaggio) e nel tempo (tempi significativi),
Sorvolo sul risveglio spirituale del XIII secolo, in cui l’opera di grandi papi riformatori, la nascita degli ordini mendicanti e il moltiplicarsi delle confraternite professionali preparano il terreno per l’affermarsi della penitenza privata, oltre che come mezzo di riconciliazione, come strumento di purificazione e progresso spirituale, sulla confessione frequente diffusa dai francescani e dai domenicani, che la praticano al loro interno e la estendono ai membri dei terz’ordini per giungere alla Riforma protestante e al Concilio di Trento.
li fatto che Lutero e gli altri riformatori abbiano rigettato elementi non marginali della dottrina e della prassi penitenziale ecclesiale non deve far dimenticare il loro intento principale. Essi non si limitarono a combattere gli abusi connessi con la ricerca delle indulgenze e la devozione alle reliquie, ma intesero riformare secondo la Parola di Dio una prassi penitenziale asfittica e farraginosa, incentrandola sui valori evangelici essenziali e liberandola da tutto ciò che la rendeva opprimente e torturante22.
La risposta del Concilio di Trento mirò a salvaguardare la sostanziale validità della prassi in vigore – di cui i padri conciliari non conoscevano sufficientemente le trasformazioni storiche – depurandola dagli abusi, ma recepì solo in minima parte le giuste istanze dei protestanti, Una qualche reminiscenza del pluralismo penitenziale trapela ancora dall’affermazione conciliare secondo la quale i peccati veniali « possono essere espiati con molti altri rimedi »,
La recezione del dettato conciliare a modo di summa esaustiva della dottrina e della prassi penitenziale, attuata dal cosiddetto tridentinismo, ha fatto sì che la teologia si riducesse a semplice commento dei canoni conciliari e la prassi diventasse appannaggio esclusivo della morale, del diritto canonico, della pastorale e della spiritualità. Lo Spirito che soffia dove vuole ha nondimeno suscitato confessori santi e sapienti, migliori della teologia del loro tempo.
li Concilio Vaticano II ha sancito – almeno sulla carta un cambiamento di mentalità e ha assunto ciò che era maturato negli studi teologici e liturgici, proponendo gli orientamenti fondamentali teologici e pastorali ai quali il nuovo Rito della penitenza del 1973 ha tentato di dare forma dottrinale, nelle Premesse, e celebrativa, nella parte rituale. Le premesse offrono il primo trattato organico sulla penitenza cristiana e la parte rituale propone tre riti (ordines):
- rito per la celebrazione dei singoli penitenti (ordo ad reconciliandos singulos paenitentes);
- rito per la riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione dei singoli (singularis);
- rito per la riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione generale.
Le celebrazioni penitenziali (non sacramentali) poste nell’appendice, adattabili alle diverse culture e in grado di promuovere un vero cammino penitenziale distribuito neltempo meriterebbero maggiore attenzione23. L’esame della dottrina e della prassi penitenziale delle Chiese ortodosse, anglicane e protestanti si rivela comunque indispensabile per ripensare e progettare adeguatamente il rinnovamento della prassi penitenziale cattolica.
Il rinnovamento della prassi penitenziale compete a tutti i cristiani
La storia attesta che la prassi penitenziale neotestamentaria richiedeva la partecipazione di tutti i cristiani (fratelli) e di ciascuno di essi. I capi della Chiesa intervenivano solo in ultima istanza (cfr. Mt 18 e 1Cor 5). La lotta contro il peccato era affidata a tutti i credenti nella diversità dei loro compiti.
Nella Chiesa dei padri la partecipazione non solo coreografica di tutto il popolo di Dio è ancora una realtà, che si attenua però con l’accentramento dei compiti nelle mani dei vescovi, con l’irrigidirsi della disciplina penitenziale e con il rifiuto opposto dai fedeli di sottoporsi a una disciplina penitenziale impraticabile caparbiamente conservata dai vescovi.
La nuova disciplina penitenziale sorge per opera dei carismatici, i monaci e, solo successivamente e non senza riluttanza, viene accolta dai vescovi. Agli ordini mendicanti si deve la diffusione della penitenza privata.
La nuova fase che si apre di fronte a noi non potrebbe comportare il ruolo attivo dei christifideles laici sia nella progettazione che nell’ attuazione di una rinnovata prassi penitenziale? L’ecclesiologia del Vaticano II offre notevoli impulsi in questa direzione. Dopo la riscoperta dell’uguale dignità di tutti i christifideles, della loro corresponsabilità nella vita della Chiesa e del loro ruolo attivo; dopo il riconoscimento della loro partecipazione all’ufficio profetico e regale di Cristo, che comportano tra l’altro « la denuncia coraggiosa del male » e « il combattimento spirituale per vincere il male in se stessi » e nel mondo24, nonché del sensus fidei che dà ad essi di aderire indefettibilmente alla fede, di penetrare in essa più a fondo con retto giudizio e di applicarla più pienamente alla vita25, non è più ammissibile una progettazione penitenziale sopra la testa dei laici.
Soltanto dai laici potranno giungere suggerimenti e proposte atti a rendere la prassi penitenziale più incisiva sui gravi mali che ci affliggono personalmente e socialmente. La complessità dei problemi e delle situazioni è tale da richiedere un impegno corale e concertato dei credenti, che mettano al servizio gli uni degli altri le specifiche competenze e i carismi personali per approdare a proposte veramente profetiche. Sono finiti i tempi dei dotti confessori dai responsi oracoli per qualsivoglia questione morale.
È illusorio attendere solo dalla gerarchia l’auspicato rinnovamento della prassi ecclesiale. I vescovi sono chiamati a custodire le forme celebrative vigenti, ma anche a farsi, più che autori, promotori di una prassi penitenziale dinamica e multiforme, che tragga dalla meditazione della parola di Dio e dai tesori del passato cose nuove e antiche sia nell’ordine della penitenza quotidiana vissuta sia nelle varie forme penitenziali celebrate, non solo sacramentali. A tal fine devono essere disposti a concedere a teologi, liturgisti, pastori e comunità che operano in sinergia credito, spazio e tempo per la sperimentazione delle forme penitenziali con le opportune verifiche.
Certo questo rimarrà lettera morta se i presbiteri, che formano un unico presbiterio col loro vescovo e sono fra loro legati da un’intima fraternità, non s’impegnano per primi a riflettere fraternamente sulla prassi penitenziale nei loro incontri.
Non soltanto nella fase progettuale, ma anche in quella esecutiva tutti i christifideles sono chiamati a svolgere il loro ruolo. Il restringimento a imbuto della prassi penitenziale alla sola confessione dei peccati di esclusiva pertinenza dei vescovi e dei presbiteri ha privato i laici e i religiosi non presbiteri di ogni iniziativa penitenziale, particolarmente nella vita quotidiana. Ho già ricordato che la grazia non è legata ai sacramenti e l’azione materna della Chiesa inizia ben prima dell’amministrazione dei sacramenti e continua dopo di essi. Oggi, in molti luoghi, la Chiesa è presente e operante solo attraverso il ministero (ministratio) dei laici. E poiché la riconciliazione va testimoniata, annunciata e vissuta, e non solo celebrata, si dischiude un immenso campo di lavoro per i laici a servizio della riconciliazione e della conversione. La stessa consulenza spirituale non è appannaggio esclusivo del clero. Lo spirituale può essere un monaco, un laico, un insegnante,
un padre di famiglia, ecc.
Si tratta di rendere consapevoli i laici della loro missione di individuazione del male e di lotta contro di esso anzitutto nella loro persona e poi nel mondo, nelle strutture e nelle situazioni ingiuste.
Nella preparazione e nell’attuazione delle celebrazioni penitenziali i laici possono fornire preziosi contributi, se finalmente si cesserà di considerarli semplici destinatari delle iniziative del clero. Anche nella fase di verifica della prassi penitenziale possono offrire utili correzioni e proposte.
Le molte vie della riconciliazione e della penitenza
La storia della prassi penitenziale registra fino al Concilio di Trento una mobile pluralità di forme che dopo il Concilio cessa almeno di fatto26. I « molti altri rimedi »27 per espiare i peccati veniali evocati dal testo conciliare rimangono lettera morta. Dopo Trento alcune vie penitenziali (per esempio la confessione ai laici) si estinguono e quelle superstiti vengono ignorate dalla teologia e trascurate dalla pastorale. Bisogna attendere il nuovo Rituale del 1973 per vedere finalmente riconosciuti i « molti e diversi modi con cui il popolo di Dio fa continua penitenza e si esercita in essa « 28. Essi si esprimono nella vita (sopportazione delle prove, opere di misericordia e di carità, intensificazione della conversione evangelica, ecc.) e nella liturgia (proclamazione della parola di Dio, preghiera, elementi penitenziali della celebrazione eucaristica, celebrazioni penitenziali, ecc.)29.
Nella Reconciliatio et paenitentia, Giovanni Paolo II ricorda che la Chiesa svolge il suo ministero non solo « in quanto proclama il messaggio della riconciliazione [...] ma anche in quanto mostra all’uomo le vie e gli offre i mezzi per la quadruplice riconciliazione con Dio, con se stesso, con i fratelli e con tutto il creato »30.
Le vie sono la conversione del cuore e la vittoria sul peccato; i mezzi l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera personale e comunitaria, i sacramenti tra cui eccelle il sacramento della Riconciliazione31. I due mezzi principali per la promozione della penitenza e della riconciliazione sono la catechesi e i sacramenti, due mezzi da impiegare « in forme e modi antichi e nuovi », particolarmente con il ricorso a quel « mezzo e soprattutto modo » che è il dialogo32.
Altre vie di riconciliazione sono la preghiera, la predicazione, l’azione pastorale e la testimonianza33. Il sacramento della penitenza e della riconciliazione « non esaurisce in se stesso i concetti di conversione e di riconciliazione. La Chiesa, infatti, sin dalle sue origini conosce e valorizza numerose e svariate forme di penitenza: alcune liturgiche o paraliturgiche, che vanno dall’atto penitenziale della messa alle funzioni propiziatorie, ai pellegrinaggi; altre di carattere ascetico, come il digiuno. Tuttavia, di tutti gli atti nessuno è più significativo, né più divinamente efficace, né più elevato e in pari tempo accessibile nel suo stesso rito, del sacramento della penitenza »34.
È tempo di riscoprire le forme penitenziali antiche e inventarne di nuove, non a scapito del sacramento della riconciliazione, ma collegandole ad esso. Le varie forme penitenziali possono essere dislocate secondo un itinerario che inizia con le vie quotidiane della conversione e, attraverso le forme paraliturgiche e liturgiche, giunge fino al sacramento della penitenza.
La triade biblica (preghiera, elemosina, digiuno) costituiva il nerbo della penitenza quotidiana, quella ordinaria dei cristiani nella Chiesa antica dal momento che la penitenza pubblica era riservata ai peccati gravi e quindi straordinaria. Oggi essa richiede di essere ripristinata e arricchita di forme nuove, di nuove vie quotidiane della riconciliazione.
Possono essere considerate forme moderne della penitenza quotidiana il compimento diligente del proprio dovere in famiglia, nella società e nella Chiesa, l’accettazione delle situazioni che mettono alla prova (disgrazie, contrattempi, infermità), la carità attiva verso i fratelli, la correzione fraterna esercitata e accettata, il perdono reciproco, l’impegno per la giustizia, la semplicità di vita, la povertà liberamente scelta, l’ autolimitazione nei guadagni, l’assunzione di lavori non gratificanti, l’accettazione della monotonia del quotidiano, la sopportazione delle persone con cui si vive, la partecipazione al compito di evangelizzazione, la lettura personale della Parola di Dio, la preghiera, in primo luogo il Padre Nostro, il dialogo penitenziale in famiglia e tra amici, la confessione a un laico, la revisione di vita e tante altre iniziative. Queste vie quotidiane della riconciliazione sono concrete ed efficaci. Si pongono al centro della vita vissuta e la rinnovano dall’interno. Sono sempre a disposizione. Persuadono anche i lontani che diffidano delle celebrazioni e sono fruibili da quanti non possono accostarsi al sacramento della riconciliazione.
Naturalmente la riconciliazione e il perdono vissuti acquistano la massima intensità nei momenti forti della vita (nascita, matrimonio, morte, congedo, perdono concesso agli uccisori di una persona cara, rievocazioni di un passato di ingiustizia per chiedere perdono, ecc.).
Con la riconciliazione vissuta previa al culto (« riconciliati prima con tuo fratello… ») o susseguente, si supera la deleteria divaricazione tra vita e celebrazione e si reimpara a celebrare ciò che si vive e a vivere ciò che si celebra.
Le forme celebrative della penitenza non sacramentali, che promuovono il cammino penitenziale sia personale sia comunitario, sono anch’esse numerose: l’uso dell’acqua benedetta, la Via crucis, i pellegrinaggi, le processioni, l’imposizione delle ceneri, le celebrazioni penitenziali comunitarie, i riti penitenziali all’interno dell’eucaristia, i riti quaresimali, ecc.
Le celebrazioni penitenziali comunitarie senza assoluzione poste nella seconda appendice del nuovo Rito della penitenza rivestono una particolare importanza. Permettono di ascoltare e meditare insieme la Parola di Dio che annuncia la misericordia divina e svela i peccati, di sperimentare la dimensione comunitaria del peccato, della riconciliazione e della conversione, di accogliere chi è ancora spiritualmente immaturo e di aiutarlo a convertirsi. Educano le coscienze e insegnano il linguaggio per dire francamente i propri peccati. Offrono ai partecipanti l’opportunità di donarsi il perdono reciproco. Ne possono pienamente usufruire anche i fedeli in situazioni irregolari. Pur non possedendo l’efficacia sacramentale, promuovono la conversione e beneficiano della supplica della Chiesa, che quando prega ottiene. Non sono alternative al sacramento, ma neppure solo preparatorie a esso. Possiedono un valore autonomo e nel contempo incrementano e migliorano le confessioni sacramentali. La loro diffusione è purtroppo ostacolata dal « feticismo dell’assoluzione », dall’idea cioè che la celebrazione consista soltanto nell’assoluzione che « fa tutto » e perdona in modo quasi automatico. Per questa ragione alcuni disertano le celebrazioni penitenziali e rincorrono l’assoluzione individuale o generale, salvo poi, urtati dal formalismo rituale di assoluzioni senza conversione, abbandonare tutto35.
Occorre poi riscoprire e valorizzare la dimensione penitenziale e riconciliatrice di tutti i sacramenti, segni « oltre che della grazia propria, anche di penitenza e riconciliazione »36.
Il battesimo è la prima e radicale riconciliazione sacramentale alla quale tutte le altre si riferiscono. La confermazione significa e realizza « una maggiore conversione del cuore e una più intima ed effettiva appartenenza alla medesima assemblea dei riconciliati « 37. L’eucaristia ha tra i suoi effetti la riconciliazione comunitaria (unitas et caritas) ed « è antidoto che libera dalle colpe quotidiane e preserva dai peccati mortali »38. L’ordine costituisce i pastori « testimoni e operatori di unità » contro i fermenti di divisione e dispersione39. Il matrimonio « concede agli sposi di riportare la vittoria sulle forze che deformano e distruggono l’amore »40. L’unzione degli infermi è « segno della definitiva conversione al Signore e della suprema riconciliazione con il Padre »41.
Il sacramento della riconciliazione e della penitenza esige di essere celebrato in tutta la ricchezza delle sue dimensioni (ancor prima dell’impegno etico esprime il dono di salvezza elargito dal Padre, per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito e nella Chiesa), dei suoi momenti (è sacramento della fede e della conversione e non della sola assoluzione) e delle sue forme celebrative (i tre riti sono complementari nelle loro valenze personali e comunitarie).
La celebrazione del terzo rito presenta rischi soprattutto se lo si riduce all’assoluzione generale o collettiva. Ma lasciarlo sulla carta per riesumarlo in situazioni di emergenza, con celebranti e penitenti impreparati, senza lunghe sperimentazioni e accurate verifiche, significa porre le premesse per un pessimo impiego. Non vedo come si possa sentenziare che oggi non si verificano mai le circostanze che ne consigliano l’utilizzazione. In alcune circostanze ritengo sia l’unica forma attivabile rispettosa di Dio e dei penitenti.
La dimensione comunitaria, diversamente da quella collettiva, esige e include la dimensione personale. il dialogo personale, ricco di umanità e vissuto nella fede e nella grazia, sia extrasacramentale che sacramentale, rimane fondamentale e la sua estinzione sarebbe una perdita incalcolabile.
« Più che spingere con misure di obbligo alla necessità della confessione auricolare, il compito della Chiesa è di rendere questa confessione desiderabile. Per questo bisogna mettere in campo anche difficili strumenti pastorali: formazione dei preti a questo compito; ripristino o creazione nei grandi centri urbani di luoghi in cui i fedeli possano facilmente incontrare un sacerdote per tutto il tempo necessario; presentazione materiale di questi luoghi, ecc. D’altra parte, il caso nuovo, ma che conosce già un reale sviluppo, delle confessioni fatte a un laico [e religioso/a] inviato ufficialmente dalla Chiesa in certi campi pastorali (cappellanie, ecc.) deve essere l’oggetto di una indifferibile riflessione teologica »42.
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