16 MARZO 2014 | 2A DOMENICA DI QUARESIMA: « E GESÙ FU TRASFIGURATO DAVANTI A LORO »
16 MARZO 2014 | 2A DOMENICA A | QUARESIMA | OMELIA DI APPROFONDIMENTO
« E GESÙ FU TRASFIGURATO DAVANTI A LORO »
La seconda Domenica di Quaresima di ognuno dei tre cicli liturgici ci presenta la scena della Trasfigurazione secondo il racconto di uno dei tre Vangeli sinottici. Come mai questa scena di fulgore e di esultanza messianica proprio all’inizio del periodo quaresimale austero e meditativo, invitante più a pensieri di ravvedimento e di penitenza che non di giubilo festoso e perfino incontrollato, come capitò a Pietro in quella occasione?
Credo che la risposta l’abbiamo nel bellissimo « prefazio » proposto per la Liturgia odierna: Cristo « dopo aver dato ai discepoli l’annunzio della sua morte, sul santo monte manifestò la sua gloria e, chiamando a testimone la legge e i profeti, indicò agli Apostoli che solo attraverso la passione possiamo giungere con lui al trionfo della risurrezione ».
È dunque una ragione di carattere « pedagogico » quella che spinge la Chiesa a proporci oggi il racconto della Trasfigurazione: essa vuol farci capire il senso della Quaresima attraverso il suo sbocco finale, che è quello della « gloria » della Risurrezione, che condivideremo anche noi con Cristo nelle festività pasquali. E questo, ovviamente, non per eludere l’austerità, o l’impegno duro e rigoroso, ma per viverlo più intensamente, perché più intensa sia anche la « gioia » della Pasqua.
Il racconto della Trasfigurazione in Matteo
Pur dipendendo da Marco (9,2-10), Matteo rielabora i dati della tradizione in forma abbastanza libera, accentuando soprattutto i tratti letterari « apocalittici » nel suo racconto e attingendo non poco da Daniele (cf 10,1-11, ecc.): così, ad esempio, il volto di Gesù diventa luminoso come il sole e le sue vesti come la luce; i discepoli cadono bocconi a terra assaliti da timore; Gesù li tocca e li rincuora, invitandoli ad alzarsi e a non temere, ecc. Tutto questo serve a creare il senso del mistero e della « trascendenza ». Gesù si manifesta come uno che appartiene a un « mondo » e a una realtà diversi da quelli della nostra esperienza. Il « regno di Dio », sia pure per un attimo, in lui si manifesta in totalità e pienezza con tutti i « segni » che lo costituiscono e lo caratterizzano.
Quel « regno di Dio », a cui non soltanto rendono testimonianza i più significativi personaggi del passato, come Mosè ed Elia, ma di cui fanno anche parte: il che equivale a dire che esso è una realtà « omnicomprensiva » che, pur trovando in Cristo la sua pienezza, si compone e si arricchisce della presenza e dell’apporto di tutti. In questo senso è evidente che Cristo da solo non basta a costituire il regno di Dio!
Il mistero non è però sufficiente a spiegarsi da solo: nelle visioni apocalittiche, infatti, ricorre come costante letteraria il suono di una « voce » che viene dal cielo a illustrare il senso delle cose e dei personaggi in gioco, proprio come capita nel nostro caso: « Ed ecco una voce che diceva: « Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo »" (Mt 17,5).
Ciò nonostante il senso del mistero rimane, per il semplice fatto che subito dopo i tre discepoli, che Gesù aveva prescelti per questa singolare esperienza, e cioè Pietro, Giacomo e Giovanni, si ritrovano davanti al Gesù di tutti i giorni: « All’udire ciò i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore, ma Gesù si avvicinò e, toccatili, disse: « Alzatevi e non temete ». Sollevando gli occhi non videro più nessuno, se non Gesù solo » (vv. 6-8). Quello che avevano visto e udito sembrava loro niente più che un incantesimo, o un’illusione!
Tanto più che Gesù stesso interviene per proibire di divulgare questo fatto prima della sua Risurrezione: « E mentre discendevano dal monte Gesù ordinò loro: « Non parlate a nessuno di questa visione, finché il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti »" (v. 9).
La Trasfigurazione come « anticipazione » della gloria pasquale
Perché questo? La ragione di tale proibizione non è per niente chiara. Io ritengo che il motivo sia da ricercare nel fatto che la Trasfigurazione, per un verso è come un’anticipazione, sia pure ancora incerta, del mistero della Risurrezione che immette già nella gloria definitiva del mondo « futuro »; e, per un altro verso, solo attraverso la futura esperienza della Risurrezione i discepoli di Gesù potevano afferrare il mistero di quei pochi attimi di gloria e di felicità, che Pietro era stato invece tentato di prolungare all’indefinito: « Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia » (v. 4).
Bisognava perciò attendere la Risurrezione per penetrare fino in fondo il mistero e comprendere la « continuità » fra il Gesù « terreno » e il « Signore della gloria ». La Trasfigurazione rappresenta precisamente l’anello di saldatura fra le due esperienze che gli Apostoli hanno avuto di Cristo: dal sepolcro non è venuto fuori un personaggio fantastico, inventato dalla immaginazione amorosa dei suoi discepoli e neppure creato dalla onnipotenza di Dio, ma un personaggio « concreto » che, se soltanto adesso rifulge della « gloria » abbagliante della divinità, questa « gloria » la possedeva già prima, come mostra appunto l’evento misterioso della Trasfigurazione. Per questo molti studiosi parlano di essa come di una esperienza pasquale « anticipata ».
Tutto questo si capisce anche meglio se si pensa alla precisa collocazione del nostro testo. Esso viene subito dopo l’annuncio della passione e morte del Figlio dell’uomo, dopo le rimostranze di Pietro e l’invito ai discepoli a seguire il Maestro sulla via della croce: « Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua » (Mt 16,21-28). Con ciò si vuol dire che al di là della passione esiste per Gesù un futuro di gloria e che in lui non c’è frattura tra la sua missione di Servo sofferente di Jahvè e quella di giudice glorioso ed escatologico, che gli compete in quanto « Figlio dell’uomo » già predetto da Daniele (7,13-14).
Solo l’esperienza di Pasqua poteva perciò aiutare i discepoli a mettere insieme questi due aspetti così contrastanti dell’unica personalità e dell’unica esperienza salvifica di Cristo.
Tutto questo, del resto, non è facile neppure per noi dopo duemila anni di cristianesimo, almeno a livello esistenziale. Ed è per questo che la voce, che proclamò solennemente al mondo Gesù come « Figlio prediletto » del Padre (cf Is 42,1 e Mt 3,17), aggiunse anche: « Ascoltatelo » (v. 5).
Il riferimento corre qui al Profeta futuro, atteso come un secondo Mosè, per proclamare al popolo la Parola ultima e definitiva di Dio: « Il Signore tuo Dio susciterà per te… un profeta pari a me; a lui darete ascolto » (cf Dt 18,15).
L’ »ascoltare », però, ha un’ampiezza ben più vasta, come risulta da tutto il contesto: è la capacità di accettare Cristo, alla luce della fede, come colui nel quale si incrocia il mistero della umiliazione e della gloria, della sofferenza fino alla morte e della risurrezione, e di seguirlo su questa via di apparente contraddizione ma di profonda armonia di valori e di esperienze vitali. È un « ascoltare » che si traduce in un « riesperimentare » e in un « rivivere ». Direi che qui abbiamo anche tutto il senso della Quaresima, con i suoi elementi di tensione e di luminosa armonia nello stesso tempo.
« Vattene dal tuo paese verso il paese che io ti indicherò »
In fin dei conti, è lo stesso messaggio della prima lettura, che ci descrive in rapidi tratti la vocazione di Abramo.
Anche qui tensione e sofferenza, per arrivare a un risultato di gloria e di « benedizione », che trascende all’infinito il destinatario primo e diretto di questo appello di Dio, fino ad abbracciare « tutte le famiglie della terra ». Bisognava che Abramo lasciasse il « suo » padre, per avere un nuovo paese, una nuova terra, per diventare lui stesso « padre » di una stirpe numerosa più delle stelle del cielo che non si possono contare (cf Gn 15,5). Il segreto della sua « fecondità » sta tutto in questa sua capacità di « sradicamento » e di distacco perfino dalle fonti « fisiche » della vitalità della sua razza!
Tutto questo, però, unicamente per affidarsi a Dio, rimettendo nelle sue mani il proprio destino. Quando il brano conclude molto asciuttamente dicendo che « Abramo partì, come gli aveva ordinato il Signore » (v. 4), afferma il « positivo » di questa vicenda: non è lo sradicamento in sé e per sé che è fecondo, ma l’accettazione eroica di un nuovo progetto di vita elaborato non dalle deboli forze della intelligenza e preveggenza umana, ma dalla sapienza e dalla onnipotenza di Dio.
La fede, perciò, non è una contrazione o una mortificazione delle energie umane, ma un loro potenziamento mediante l’apertura alle infinite luci e alle infinite forze che vengono da Dio.
Abramo ha saputo « ascoltare » la parola che veniva dall’alto, ha bruciato i ponti dietro le sue spalle, si è messo in cammino verso l’ignoto alla ricerca della Terra promessagli da Dio, iniziando un ciclo storico « nuovo » che, passando per Cristo, è arrivato fino a noi e si spingerà fino alla consumazione finale: il ciclo storico di tutti coloro che credono che la « salvezza » vera viene soltanto da Dio, e perciò si fanno docili strumenti dei suoi voleri per trasformare il mondo da un’ »aiuola » (Dante) angusta di ferocia e di rancore in un « preludio » radioso del regno.
Anche noi, sull’esempio di Abramo, « aspettiamo, secondo la sua promessa, nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia » (2 Pt 3,13). La fede non attende da Dio tutto, ma « si mette in cammino » per compiere, insieme a Lui, il prodigio della nascita di realtà e di situazioni più conformi al suo progetto di amore e di giustizia. Per questo, soltanto la fede ha le chiavi del futuro e ciò che sembra « utopia » può trovare ancora « posto », prima che sulla terra, nel cuore degli uomini.
Cristo « ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo »
Questa forza di rinnovamento e di trasformazione san Paolo rivendica al Vangelo, se sarà annunciato con fedeltà e coraggio, proprio perché in esso c’è la proclamazione della « salvezza » che Cristo soltanto e non più le « nostre opere » possono compiere. È quanto l’Apostolo scrive, ormai vicino alla morte, al discepolo Timoteo, forse intimidito per le troppe difficoltà che incontrava nella sua missione. « Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo, aiutato dalla forza di Dio. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia… che ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità… Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e la immortalità per mezzo del Vangelo » (2 Tm 1,8-10).
La luce che risplendette in quel giorno lontano « sul volto di Cristo » (cf 2 Cor 4,6), nel monte Tabor, egli la fa « risplendere » oggi « per mezzo del Vangelo », che genera e porta « vita e immortalità » per tutti. Questo vuol dire che la « trasfigurazione » deve continuare in ogni cristiano alla luce e in confronto con la Parola, sempre viva, di Dio.
Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche, Editrice Elledici, Torino

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