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IL PROBLEMA DELLA LEGGE AL TEMPO DI PAOLO

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IL PROBLEMA DELLA LEGGE AL TEMPO DI PAOLO

Questa voce è stata pubblicata il 16 dicembre, 2008, in Approfondimenti, Per conoscere Paolo.

di Paolo Sacchi

Articolo originariamente apparso in “Bibbia e Oriente” 12 (1970 / 4-5), pp. 199-211, col titolo Appunti per una storia della crisi della Legge nel giudaismo del tempo di Gesù. La suddivisione in paragrafi è nostra.

1. PAOLO E LA LEGGE Quando Paolo [1], poco dopo il 50 d.C., spinto dalle molteplici necessità del suo stesso ministero cominciava con la lettera ai Galati a dare sistemazione organica al proprio pensiero, meditando sulla storia eccezionale del suo popolo e sulla esperienza unica della sua vita [2], portava a formulazione chiara un dramma del pensiero ebraico derivante dalla coesistenza contraddittoria di alcuni elementi della sua ideologia, i quali tuttavia risultavano tutti e da tempo bene affermati nella coscienza della gente ebraica: da un lato l’onnipotenza divina sempre più sottolineata con lo scorrere dei secoli, non solo di fronte alla natura, ma anche di fronte alla storia [3], dall’altro la libertà umana assoluta, che è presupposto fondamentale, perché si possa avere una salvezza attraverso la Legge [4]. Il problema della libertà umana, intesa come capacità dell’uomo di scegliere sempre, in totale responsabilità, fra il bene e il male, non esiste, in Israele, come problema a sé stante, ma solo come problema riflesso di quello della via della salvezza, che è tema centrale, credo, dell’ebraismo che va dai Maccabei a Paolo, o ancora oltre, e che in questo scritto chiameremo convenzionalmente “ tardo giudaismo” [5]. Paolo afferma che la Legge non può salvare; la giustificazione, indispensabile per la salvezza, è dono gratuito di Dio (Rom 3,28; Gal 3,18). La legge ha, sì, un grande valore per Paolo, che, come ebreo, non poteva non sentire di quella tutta la grandezza; ma questo valore nell’interpretazione di Paolo si fa puramente storico: la Legge è il pedagogo che ci ha condotti, già condotti, a Cristo (Gal 3,24). Dio è onnipotente e nella sua azione, volta a realizzare i suoi piani misteriosi, Egli sceglie chi vuole. Anche Giovanni insisterà su questo punto: non noi scegliamo Dio, ma Dio sceglie noi. Paolo indaga su questo punto: quali leggi può avere la scelta di Dio? Nessuna, almeno di carattere umano. Si veda Rom 9,11 ss.: Che cosa può avere determinato la scelta divina di Giacobbe, se essa fu fatta quando i due bambini erano ancora nel seno della madre e quindi non potevano ancora assolutamente avere agito? Dio è onnipotente ed elegge chi vuole; non resta che rimettersi al mistero della sua volontà (Rom 11,32). Non è assolutamente pensabile che Dio abbia scelto in base alle opere. È interessante notare che Paolo si riferisce all’episodio narrato in Gen 25,19 ss. non direttamente, ma attraverso le parole di Malachia (1,2-3): «Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù». Nel racconto quale si ha nella Genesi, non si parla né di odio né di amore di Dio: Dio si limita a decretare una sorte: “il maggiore servirà al minore”, ma il perché non è detto. È solo di epoca più tarda, posteriore all’esilio, porsi il problema perché Dio abbia agito così. E se la risposta non si può dare sulla base di un ragionamento etico, non resta che cercare i motivi dell’azione divina al di là dell’umano, in una sorta di amore e di odio divino. Paolo riprende con molto maggiore sofferenza il problema e ne cerca la soluzione nella stessa direzione voluta da Malachia, anche se per lui le parole “odio” e “amore” sono una semplice citazione: tutto per Paolo sprofonda nel mistero insondabile della volontà divina. E in ciò è sulla linea della tradizione cosiddetta sapienziale. Strettamente legata a questa concezione della Legge e della elezione [6] divina, deve essere considerata la concezione che Paolo ebbe dell’uomo. L’uomo non è pienamente libero di fare il bene che forse vorrebbe e che comunque riconosce tale (Rom 7,13 ss.). Perché si possa credere nella salvezza proveniente dalla Legge, bisogna credere in una libertà umana di scelta assoluta fra bene e male. Altrimenti Dio avrebbe posto in mano all’uomo uno strumento perfetto, ma tale che l’uomo non potrà mai adoperare [7] Paolo nega che la salvezza venga dalle opere della Legge, ma nega anche che l’uomo sia interamente libero davanti al male. Fra la sua volontà e la sua azione interviene un quid per cui egli può fare l’opposto di ciò che vuole. Ci deve insomma essere nell’uomo qualcosa che si pone come ostacolo alla volontà fino a divenire principio d’azione [8]. Il cristianesimo si avvia così a riconoscere l’esistenza di un peccato originale. Queste varie concezioni di Paolo sono, come si vede, strettamente legate l’una all’altra. Paolo avvertì l’interdipendenza di queste concezioni e la necessità di sistemarle in un rapporto organico. Ma questo non significa che la loro interdipendenza si faccia sentire solo a livello della coscienza e in una mente di eccezione, come quella di Paolo: erano problemi che dovevano essere ampiamente sentiti. La fermezza, per esempio, con cui i rabbini insisteranno sulla piena libertà dell’uomo di fronte al male, oppure lo sforzo con cui qualcuno cercherà di far rientrare perfino lo jetzer hara‘, nello schema generale della bontà della creazione, una parte, anzi il perfezionamento dello jetzer hattob [9] mostrano che, sia pure con una certa lentezza, il mondo ebraico avvertiva la necessità di una organizzazione del proprio pensiero. Per poter continuare a credere nella salvezza ad opera della Legge, bisognava confutare uno per uno tutti i punti prima toccati da Paolo. Non solo, ma è evidente che quell’ebreo che avesse avvertito il senso della propria impotenza di fronte al male in termini affini a quelli di Paolo sarebbe stato portato ad accettare il punto chiave dell’insegnamento di Paolo circa la Legge; e lo stesso dicasi per quell’ebreo che già si fosse posto il problema del rapporto fra azione umana e azione divina nella storia e avesse risolto il problema nel senso di una sottolineatura della onnipotenza divina agente liberamente nella storia, non più legata dalla concezione rimuneratrice. 2. POSIZIONE DELLE VARIE CORRENTI AL TEMPO DI PAOLO Fra tutti i vari problemi su ricordati, particolarmente vivo al tempo di Paolo doveva essere quello dei limiti delle possibilità della libertà umana. Esso è particolarmente sofferto da Paolo, ma anche Flavio Giuseppe, quando vuole presentare al mondo occidentale le tre sette principali del mondo ebraico e desidera caratterizzarle rapidamente ed efficacemente, non trova niente di meglio che tracciare brevemente e schematicamente l’atteggiamento di ciascuna di esse di fronte al problema della libertà dell’uomo davanti all’azione di Dio [10]. «I sadducei – dice Flavio Giuseppe (Bell. Jud. 11,8,164) – sopprimono assolutamente il destino, e pongono Dio fuori della possibilità di fare alcunché di male o anche solo di scorgerlo; essi dicono che è in potere dell’uomo la scelta del bene e del male, e che secondo la decisione di ognuno avviene l’ima o l’altra delle due cose…». Con la parola “destino” Flavio Giuseppe intende qui, certamente, il gôral, la sorte fausta o infausta che Dio talora assegna alle cose degli uomini nell’Antico Testamento. I sadducei credono nell’uomo e nella sua capacità di forgiarsi un destino qui sulla terra [11]. All’opposto dei sadducei stanno gli esseni: essi credono che tutto venga da Dio, unico autore della storia. Nelle Ant. Iud. (VIII,l, §5), Flavio Giuseppe inizia la sua notizia sugli esseni con queste parole: «Gli esseni insegnano soprattutto a rimettersi per ogni cosa a Dio». Se qualche dubbio può esserci circa l’esatto valore di quel “rimettersi a Dio”, esso viene fugato da un passo analogo delle Ant. Iud. (XIII,5,9, §172): «La setta degli esseni afferma che il destino è padrone di tutto e che niente accade agli uomini diversamente da quanto esso ha stabilito». Ricordando che cosa può voler dire “destino” per un ebreo, non restano dubbi circa il pensiero essenico. Comunque la migliore documentazione di questa convinzione degli esseni, che tutto nel mondo e nella storia è rigidamente predeterminato da Dio, è fornita da un passo del Manuale di disciplina (1QS, III,14 ss.): il passo mostra fino a quali limiti tutto fosse sentito come determinato da Dio (perfino i pensieri degli uomini) e come cogliesse nel giusto Flavio Giuseppe nel caratterizzare le tre sette nel modo che fece. «Dal Dio della conoscenza proviene tutto ciò che è e che sarà. Prima che gli esseri siano, Egli ha fissato tutti i loro pensieri, e quando essi vengono all’esistenza, vivono secondo ciò che di loro è stato fissato. Essi compiranno le loro azioni secondo il pensiero della Sua gloria, senza che nessun cambiamento si possa apportare (ai piani divini)». Così, dunque, gli esseni. Più o meno intermedia fra le altre due è la posizione dei farisei, che in seguito cercheremo di valutare con maggiore precisione. Attribuiscono, dice Flavio Giuseppe (Bell. Jud. II, 8,14, §§ 162-163), ogni cosa al destino e a Dio, ma ritengono che l’operare giustamente o no dipenda in massima parte dall’uomo; però il destino coopera in ciascuna azione. Sembra che la posizione farisaica desideri in qualche modo salvare due posizioni attestate entrambe nell’Antico Testamento e apparentemente inconciliabili, da un lato la piena responsabilità umana, dall’altro l’azione di Dio nella storia in tutta la sua onnipotenza. Questa concezione farisaica di una indipendenza reciproca fra l’azione di Dio e la libertà umana, è veramente una concezione nuova ed autonoma rispetto alle altre due, o, pur nella sua personalità, si avvicina più ad una discostandosi dall’altra? La posizione farisaica appare di fatto una semplice variante della posizione sadducea. Se un abisso dovesse essere disegnato a marcare una separazione, questo abisso andrebbe posto fra l’essenismo e il resto delle sette ebraiche. Nel fariseismo in definitiva tutto dipende dall’uomo come nel sadduceismo e se la dottrina farisaica della libertà umana ha avuto uno sviluppo in senso etico, ignoto al sadduceismo, ciò è dipeso da tutta una serie di concezioni religiose proprie del fariseismo e ignote al sadduceismo, e che esamineremo fra breve. Ora basti osservare che se nel fariseismo quale è tratteggiato da Flavio Giuseppe e quale probabilmente era al tempo in cui Flavio Giuseppe si trovava in Palestina (prima della guerra con Roma) c’è qualche incrinatura in questo senso della libertà dell’uomo, essa è attestata da quell’“in massima parte”, che egli aggiunge all’affermazione per cui i farisei «ritengono che l’operare giustamente o no dipenda dall’uomo». È la spia di un’incrinatura che i rabbini delle età seguenti cercheranno di far scomparire del tutto: essi avvertivano perfettamente che la concezione farisaica della Legge era possibile solo a patto che l’uomo fosse non “massimamente”, ma interamente libero e autonomo. 3. ORIGINI DEL PROBLEMA Ma torniamo alla posizione farisaica in rapporto a quella sadducea ed essenica. È un antico motivo veterotestamentario che Dio protegge Israele, quando questo osserva la Legge, e lo abbandona, quando questo tradisce la Legge. Dio interviene allora per punire il popolo ebraico. La storia diviene così la storia delle punizioni di Israele, ma è facile notare che la libertà di Dio è concepibile solo nei limiti in cui sceglie una pena. Dio altrimenti è chiamato in causa da Israele stesso che lo costringe ad agire, perché ristabilisca l’ordine turbato. Insomma l’azione di Dio è determinata da un certo comportamento etico dell’uomo e l’uomo è padrone del suo comportamento etico. Niente di strano perciò che questa concezione farisaica abbia finito con l’arrivare fino a posizioni del tipo di alcune, oggi assai diffuse, per cui il messia finisce con l’essere Israele stesso; o comunque è Israele che preparerà la venuta del messia, tanto che questa finirà solo con l’essere un segno o una conseguenza della giustizia di Israele. Scrive oggi il rabbino Sierra: «Israele, quale collettività consacrata ed impegnata ad una particolare disciplina di vita, si considera al servizio dell’umanità per precederla e preparare con essa il Regno di Dio sulla terra». Se la testimonianza di Flavio Giuseppe lascia intravvedere la possibilità che nel I sec. d.C. sussistesse qualche dubbio all’interno dello stesso mondo farisaico circa la totale libertà dell’uomo di fronte al male (cosa che bene spiega la problematica di Paolo), nei secoli seguenti i rabbini hanno preso posizione nettissima in favore della libertà morale dell’uomo. Nella seconda metà del II secolo d.C. il grande rabbino Aqiba (Abot, 5,15ss.) aveva detto che tutto è previsto (e quindi determinato da Dio), ma la libertà morale è lasciata all’uomo. Intorno al 300 r. Hanina ben Papa spiegava la sua concezione di una libertà morale assoluta dell’uomo col racconto dell’angelo della notte preposto da Dio ai concepimenti (Niddâ 16b). L’angelo chiede a Dio come dovrà essere l’uomo che sta per essere concepito: Dio determinerà tutto, tutto fuorché la sua libertà; l’angelo domanda se l’uomo dovrà essere debole o forte, saggio o stolto, ma deliberatamente non domanda se dovrà essere giusto, o ingiusto, poiché ciò dipende solo dall’uomo. La tradizione non ricorda, che io sappia, dispute circa questa libertà umana all’interno del rabbanismo. È chiaro che queste affermazioni di R. Aqiba e di R. Hanina servono a chiarire il pensiero rabbanita contro attacchi esterni. Non c’è disputa all’interno. Ma il problema della libertà umana e dei suoi limiti non è nato né al tempo di Paolo e di Flavio Giuseppe, né a quello di Gesù. Ricordo Sir. 15,15, in cui è detto: «Se vuoi, puoi osservare i comandamenti…» [12] Il Siracide afferma cosa che è certamente nella tradizione veterotestamentaria. Poteva avere in mente un passo come Deut. 30,15: «Guarda, io pongo oggi, davanti a te, la vita e il bene, la morte e il male… Se ascolti gli ordini, …vivrai» [13]. Ma l’espressione del Siracide mostra che egli era sollecitato da un problema da cui non era toccato l’autore del Deuteronomio e lo risolve in un certo modo. Si è visto, dunque, che, dal secolo II a.C. fino al 300 d.C., si hanno nel mondo ebraico alcune prese di posizione in favore della libertà morale dell’uomo. È chiaro dal loro tono che queste affermazioni si fanno sempre più nette col passare degli anni. Ciò dipende dal fatto che parallelamente alla corrente farisaica si dovevano essere sviluppate nel mondo ebraico altre correnti che predicavano cose diverse e che dovevano essere sembrate pericolose al farisaismo, se questo prese posizione. Ci si può pertanto domandare se questa disperazione della Legge, da cui nasce il cristianesimo di Paolo come corrente di pensiero marcata da una ideologia ben precisa, risalga solo a Paolo o non abbia nell’ebraismo radici più antiche, non sia cioè una componente della cultura ebraica che, tenuta quasi in disparte perché temuta, ha finito con l’imporsi con l’evidenza di una realtà indiscutibile, quando si è presentato all’uomo la possibilità di inquadrare in nuove sistemazioni ideologiche una concezione così temuta. Prima di guardare i testi qumranici, giova porsi ancora un problema riguardo a Paolo. Abbiamo visto come il mondo ebraico del tempo, grosso modo, di Gesù appare diviso circa il grave problema della libertà umana, o meglio dei limiti e delle possibilità della libertà umana. È certo che Paolo ebbe la sensazione precisa dei limiti di questa libertà e ne abbiamo già parlato. Si pone il problema se questa concezione limitata della libertà umana si possa considerare in Paolo nata con la conversione, oppure rappresenti uno stato d’animo dell’uomo radicato da tempo nella coscienza di Saulo. In altri termini, ci si domanda se quell’incrinatura nella concezione farisaica della libertà che appare nella versione che ce ne ha lasciato Flavio Giuseppe e di cui abbiamo già parlato, non possa ritrovarsi anche in Saulo. Quando Paolo guarda la Legge, da qualunque parte la guardi, trova sempre la sua inutilità, almeno per l’uomo del suo tempo. Può darsi che Paolo sia così disilluso della Legge, proprio perché le chiede di più di quanto essa possa dare; ma questa richiesta alla Legge non può essere invenzione di Paolo; deve essere un’opinio communis abbastanza diffusa. Per esempio, in Gal 3,21 Paolo dice che per credere a una giustificazione dalla Legge, bisognerebbe che Dio avesse dato agli uomini una Legge che dà la vita. Un modo di ragionare di questo genere svela un discreto lembo dell’animo di Saulo, che aspirava alla Vita e che sentiva che fra lui e la Vita c’era sempre la barriera rappresentata dal peccato, a lui presentato proprio dalla Legge con ogni evidenza. C’è in fondo all’anima di Paolo un anelito in direzione di una libertà dalle cose, che difficilmente è nato con la conversione. La conversione gli avrà piuttosto indicato la via per superare certe aporie della sua cultura in una visione organica del mondo. Si rilegga Gal 4,1 ss.: l’uomo senza Cristo è schiavo degli elementi del cosmo e degli astri; la fede in Cristo ha liberato Paolo ed ora si sentirebbe forse più grande dell’umano, se Dio non gli avesse dato, per non farlo salire in superbia, un angelo di Satana che lo schiaffeggiasse [14]. «Nessun uomo è giusto davanti a te» (Sal 143,2) aveva cantato un salmista e la saggezza ebraica aveva riecheggiato questo tema; e se nessuno è giusto, che senso ha attendere la salvezza dalla propria giustizia? Si veda Gal 2,15 ss. dove è detto: «Noi, giudei di nascita… sapendo che non è giustificato nessuno per le opere della Legge…». Mi sembra che Paolo sottolinei il nesso che c’è fra l’essere ebreo e il sapere che nessuno è giusto. In questa luce, lo stesso senso del Patto ancorato alle clausole della Torah si sfalda, perché l’uomo tradisce inesorabilmente il patto [15]. Quando fu data la Legge ci fu un mediatore, anzi fu consegnata al mediatore stesso attraverso mani angeliche: la funzione della Legge è quindi puramente contingente, storica, come diciamo noi? Solo la promessa ha valore universale, perché soltanto nella promessa Dio agisce solo, senza collaborazione umana, destinata di per sé a produrre il fallimento. Idee di questo genere, come la Legge data da Dio agli uomini per mezzo di angeli, mostrano di non derivare dalla fede cristiana, ma da un ambiente colto, le cui idee assorbite da Paolo sono state da questo svolte in funzione cristiana. E chiunque, fariseo o no, sapesse che la Legge era stata data a Mosè attraverso mani angeliche non poteva non sentire una certa umanità della Legge, una sua svalorizzazione di fronte a chi la sentiva come ipostasi divina, o qualcosa del genere. 4. CONFRONTO CON GLI SCRITTI DI QUMRAN Guardiamo ora se nell’ebraismo precristiano si trovano già tracce di quella disperazione della Legge che viene con Paolo alla sua più lucida e drammatica formulazione. Compito di questo articolo è di dare uno sguardo a quel gruppo di testi detti di Qumran, dal luogo del loro ritrovamento, i quali, anche se non esprimono tutti idee necessariamente omogenee di uno stesso gruppo, tuttavia è certo che esprimono idee ebraiche. Quelli comunque di cui ci serviremo in questo articolo appartengono certamente alla setta di tipo essenico, nota come setta di Qumran. A rigore assoluto, non è certo nemmeno che tutti i testi siano anteriori a Gesù, perché l’unico dato veramente certo è quello fornito dall’archeologia, per cui si può affermare solo che si tratta di testi copiati prima del 70 d.C. Credo comunque, che con la maggior parte degli autori i testi si possano ritenere scritti fra il II e il I sec. a.C. Essi ci mostrano pertanto squarci di ideologie ebraiche anteriori di un certo tempo al cristianesimo nascente, all’ingrosso un secolo. Non stupirà trovare a Qumran una grande esaltazione della Legge, che è concepita come il pernio di tutta la vita sociale. Coloro infatti che entrano nell’alleanza, formano una comunità incardinata innanzi tutto sulla Legge: lhjwt ljhd btwrh wbhwn, «per essere una comunità nella Legge e nel patrimonio» (1QS V,l ss.). Era dunque una comunanza di beni spirituali e materiali, e la comunanza di beni spirituali è indicata dal più grande di essi, la Legge. La Legge avrà pieno vigore nell’Israele vero (lQSa 1,11); intanto essa è già il paradigma assoluto per valutare ogni condotta umana (1QS 5,21). Quando infatti si esamina un adepto, per vedere se è degno di divenire membro dell’alleanza, si dovrà esaminare quale è la sua parte in ciascuno dei due spiriti che dalla creazione del mondo si contendono l’uomo; ma per far questo, in pratica, si dovrà solo esaminare la comprensione che l’adepto ha della Legge e la sua capacità di osservarla: lpj sklw wm‘sjw btwrh. Così con la Legge l’uomo può dare giudizi estremamente sicuri. Chiunque poi non osservi la Legge non può restare a far parte della comunità e viene scacciato (1QS 8,22). È chiaro che la Legge rappresenta un perfetto paradigma di giudizio, cosa fondamentale per una comunità, in cui la necessità di giudicare è incessantemente presente, che ogni anno (1QS 5,24) devono essere giudicati tutti i membri prima dell’attribuzione delle nuove cariche. Ma oltre che questo paradigma di giudizio, la Legge può anche essere uno strumento pratico per la salvezza? In questi termini il quesito non fu posto a Qumran, né poteva esserlo. Se il problema fosse stato posto, probabilmente avrebbe provocato turbamenti. A noi interessa solo stabilire quale funzione di fatto la Legge aveva nel pensiero qumranico. In 1QS 8,14 si spiega il passo di Isaia 41,3: «Nel deserto spianate le vie del Signore». L’interpretazione qumranica è che bisogna studiare la Legge per aprire la via all’avvento di Dio. Però l’avvento divino non è determinato dallo studio della Legge, ma al contrario si dovrà iniziare questo studio tutto speciale della Legge solo quando vi saranno nell’aria i segni della prossima venuta del Messia. Allora essi si separeranno dagli altri Ebrei e andranno nel deserto come è scritto. Qui essi, sempre per realizzare la profezia, indagheranno sulla Legge. È chiaro che lo studio della Legge non ha la funzione di provocare la venuta del regno di Dio, come è nella più elaborata concezione rabbinica, ma solo quella di realizzare una profezia. L’azione divina è manifestamente indipendente da ogni contingenza storica. Questo atteggiamento può essere simile a quello di chi vede la possibilità di un acceleramento, ma solo di un acceleramento dei tempi della parusia [16]. Qualcosa ancora di più si ricava da 1QS 9,17. In questo passo si stanno dando norme per il maskil, perché possa degnamente guidare coloro che gli sono stati affidati. Fra l’altro è fatto divieto al maskil di disputare con gli altri ebrei, detti in linea generale “uomini della fossa”. Il motivo di questo rifiuto è che egli deve tener nascosto a tutti coloro che non siano membri della setta ’t ‘st htwrh btwk ’nšj h‘wl, consilium legis inter malos. È chiaro che non si tratta dei comandamenti della Legge scritta, perché tutti gli Ebrei li conoscevano benissimo. Si doveva trattare di comandamenti segreti, nascosti (o della loro interpretazione segreta), e tali, se trasgrediti, da provocare la vendetta di Dio [17]. Per salvarsi, dunque, non basta la Legge, ma ci vuole qualcosa di più, qualcosa che possiede solo la setta e che tiene segreto. Questo qualcosa è l’esatta interpretazione della Legge, quella che Enoc dice di attendere solo dal messia. Si veda Enoc 49,2: «II messia sarà potente in tutti i segreti della giustizia». Si tratta di un passo contemporaneo degli scritti della setta di Qumran, forse anche anteriore, dato che dovrebbe appartenere alla fine del sec. II a.C. Enoc, come l’anonimo autore del Manuale di Disciplina, hanno la percezione di una insufficienza della Legge che può essere colmata sia per l’uno come per l’altro solo da un supplemento di rivelazione, che Enoc proietta senz’altro al tempo del messia, mentre l’autore del Manuale di Disciplina pensa a una ispirazione di Dio già avvenuta e riservata alla Setta. Ma su un punto sono d’accordo: la Legge scritta o le sue interpretazioni umane non bastano. Questa tôrâ della setta è una vera e propria tôrâ rivelata. L’autore di una hôdajâ (IV, 10) ricorda di aver difeso la purezza di questa rivelazione contro gli uomini di Belial che cercavano di costringerlo a «cambiare la Tôrâ che hai scolpito nel mio cuore». Šinnanta, “hai scolpito”, riprende Deut 7,6; ma qui l’uomo deve tramandare i comandamenti di Dio scolpendoli nei figli, mentre a Qumran l’azione di tramandare l’insegnamento è interamente assorbita dall’ispirazione divina. È Dio che scolpisce direttamente e per Sua scelta la Sua Legge nel cuore dell’autore della hôdajâ. La Legge, sia scritta sia orale, è pertanto svalutata. Essa non può salvare, perché non è adeguatamente interpretata [18], ma questa interpretazione esatta che permette la salvezza non è opera dell’uomo: Enoc proietta questa interpretazione definitiva della Legge nell’éschaton. Essa sarà un segno dell’avvento del messia. È interessante notare che Gesù, almeno nell’interpretazione di Matteo, si presenta come interprete assoluto della Legge. L’autore della hôdajâ in questione sa di possedere un’interpretazione nuova della Legge, ma questa interpretazione non ha origine umana: è stata rivelata a lui come la Legge fu rivelata a tutti gli Ebrei. L’autore della hôdajâ è messo in salvo da Dio che lo nasconde agli occhi dei suoi nemici (5,11), ma in lui ha nascosto e la Sua Legge, che resterà nascosta fino alla rivelazione della Sua salvezza. È questa la Legge che ha la capacità di salvare, la Legge segreta e nascosta, non quella che si chiama Tôrâ; e questa Legge che salva non uscirà dal cuore dell’autore della hôdajâ che quando Dio realizzerà il Suo regno. Toccherà all’uomo produrla. In questo contesto di idee è chiaro che l’origine della salvezza è sentita come solamente divina: la Legge che è stata data all’autore della hôdajâ ha una capacità salvifica che si rivelerà solo quando Dio lo vorrà; essa ha più l’aspetto di un segno che non di uno strumento, come è, al contrario, nella concezione farisaica. Un altro passo ancora mostra come la salvezza di Dio non sia, nell’ideologia qumranica, la giustizia di Israele. È pHab. 8,1. Vi è rammentato il versetto di Abacuc «Il giusto vivrà per mezzo della fede». Il versetto è così interpretato : «Questo riguarda tutti coloro che nella casa di Giuda osservano la Legge (certamente la vera Legge); Dio li salverà dal giudizio (mbjt hmšpt) per riguardo alla loro sofferenza e alla fiducia che hanno avuto nel Maestro di giustizia». Da queste parole risulta chiaro che la salvezza riguarda coloro che osservano la Legge, ma non perché la osservano. Dio salva il suo popolo, perché ha pietà delle sue sofferenze e perché (e questo è un elemento nuovo nell’ebraismo) ha avuto una certa fiducia in qualcuno che era stato inviato Dio. È inutile sottolineare le differenze che ci sono fra la concezione cristiana della fede e questa concezione qumranica [19] Ciò che qui interessa non è la differenza fra le due “fedi”; interessa rilevare che nel mondo ebraico è detto con sufficiente chiarezza che la salvezza non deriva dall’aver praticato la Legge, ma da un’altra cosa, che forse non era ben chiara nemmeno alla coscienza dei qumranici stessi. Del resto l’idea che l‘swt htwrh, “fare la Legge”, non è sufficiente a salvare l’uomo è sottintesa anche dall’insistenza con cui i qumranici sottolineano non solo la natura genericamente peccatrice dell’uomo, ma anche la colpa del singolo (1QS 11,9 ss. e Hod., passim). La loro giustizia (tzdqh, dikaiosyne) è talmente un dono di Dio, da essere identificata con Dio stesso, anche nella sua accezione di virtù umana. Penso a quel meraviglioso passo che è 1QS 10,12, in cui l’autore dice, rivolto a Dio: «Tu sei la mia giustizia». Non si può certo pensare che questa tzdqh sia frutto della Legge! Essa è data a coloro che Egli ha scelto ab aeterno, perché ab aeterno li ha amati [20]. Dio tutto ha destinato fino da prima del tempo e per realizzare i Suoi piani si serve di due spiriti, il principe della Luce e il principe delle tenebre. Ma le azioni, perfino i pensieri dei singoli sono stati incrollabilmente fissati ab aeterno, senza che niente da parte di nessuno possa essere cambiato dei piani divini. Allora che funzione ha la Legge per i qumranici? Altissima, ma di segno più che di strumento: segno destinato a distinguere gli eletti, che solo così possono vivere la loro elezione, esserne coscienti.

NOTE [1] L’individuazione dell’esistenza nel mondo ebraico del tempo di Gesù (dai Maccabei ai Tannaim) di una certa crisi della Legge parte da certe affermazioni di Paolo. Questo naturalmente non significa che queste affermazioni contengano tutto il pensiero di Paolo, e non lo significa anche se così qualcuno lo ha interpretato, come Marcione, Lutero, Harnack, Barth. Specialmente i cattolici tendono a sdrammatizzare certe espressioni, inserendole in tutta la complessa ideologia paolina. Si veda per esempio un classico come F. Prat, La théologie de Saint Paul, I, Parigi 1961 (43a edizione), pp. 243-45, dove fra l’altro è scritto: «L’esatta interpretazione di questo passo (Rom 3,21-26) è subordinata ad altri problemi…». Compito di queste pagine non è stabilire quale sia la portata di certe affermazioni di Paolo in seno alla sua stessa ideologia, ma solo di seguire lo sviluppo di idee, la cui importanza è sottolineata dal loro ricorrere a grande distanza nel tempo coi nomi sopra ricordati, da Marcione fino a oggi. Sul problema del valore della Legge in Paolo ricordo il recente lavoro di R. Bring, Christus und das Gesetz, Leida 1969. [2] Su questa impostazione del pensiero di Paolo come strettamente legato alle sue vicende di uomo ebreo, che ha vissuto il dramma di una conversione radicale e ha sentito il dramma della storia del suo popolo, si veda C.H. Dodd, The Epistle of Paul to the Romans, Londra 1960 (14a edizione), p. XXXII. Sulla drammaticità (lutte douloureuse) paolina si veda Prat, op. cit., I, p. 16. [3] Già in testi antichi si dice, per esempio, che Dio indurì il cuore di Faraone (Es 7,3-4): «Farò ostinare Faraone e moltiplicherò i mie prodigi… Tuttavia Faraone non vi darà ascolto». Un passo particolarmente notevole per mostrare questa capacità divina di intervenire nella storia fino a farle prendere una via diametralmente opposta a quello che vorrebbe la logica umana dei fatti si ha nel cantico di Anna. «L’arco dei forti è spezzato, i deboli si son cinti di forza». Si veda sul passo P. Sacchi, in “Rivista degli Studi Orientali”. Sulla datazione del Cantico di Anna ci sono molti dubbi e problemi, raccolti dal Bressan in “Biblica” 32 (1951), pp. 503-521, e 33 (1952), pp. 67-89. Pare escluso che possa essere del II sec. a.C. come taluno vorrebbe, per quanto alcune idee di questo secolo trovino una loro corrispondenza nel Cantico. Comunque deve trattarsi di opera posteriore all’esilio (diversamente le conclusioni del Bressan). Ricordo ancora Sal 139,4-5 e Qohelet, che insiste come tutto nella vita sia dono di Dio (2,25-26; 3,13; 5,18), il quale ad alcuni concede di godere delle loro fatiche e ad altri lo nega, ma non certo per punire e ricompensare (8,10). [4] Che la religione ebraica postesilica (il giudaismo) sia religione essenzialmente etica, è luogo comune. Rimando a G. Ricciotti, Storia di Israele, II, Torino 1969 (2a edizione), pp. 77 ss., dove sono riportati brani che mostrano come Israele riconosca causa della propria rovina il proprio peccato e veda la salvezza nel ritorno alla Legge. [5] Il problema del rapporto fra l’azione di Dio e quella dell’uomo e della responsabilità di quest’ultimo è stato drammaticamente sentito più volte nella storia. Ricordo S. Agostino. Si noti però che Agostino (per esempio, De Civitate Dei, V) imposta il problema sulle tracce di Cicerone, seguendo la problematica del suo tempo e della sua civiltà. I termini del problema nel mondo tardo-giudaico sono diversi. Qui i termini del problema non sono prescienza divina e libertà umana, ma elezione divina e funzione umana nella storia. Il termine che riguarda Dio, nelle due problematiche, è diverso. [6] Gv 15,16: «Non voi avete scelto me, ma io ho eletto voi e vi ho destinati…»; e con tanto maggiore umanità: 1Gv 4,10: «Non noi abbiamo amato Dio, ma Lui ha amato noi». 7] Sulla Legge intesa nel tardo giudaismo come unità assoluta si veda M. Noth, in Gesammelte Studien zum Alten Testament, Monaco 1957, p. 129. Al tempo di Gesù la Legge si andava ipostatizzando. Paolo dice che l’ebreo, in quanto possiede la Legge, ha ten mórphosin tês gnoseos kaì tês aletheías en tô-i nómo (Rom 2,20). La Legge, già identificata con la Sapienza (Sir 24,22-23), nel pensiero rabbinico (Berešit rabba VII, 2) diventa il paradigma eterno della creazione, dotata di una sua personalità, per cui essa sa e conosce; ma l’uomo non deve tentare di indagare i segreti di là dal limite della creazione. La coscienza infatti di possedere in qualche modo lo strumento stesso della creazione era tale da indurre alla superbia e l’equilibrio rabbanita supera la difficoltà secondo il principio di Sir 3,17 ss.: «Tu non devi occuparti…». Ma è sempre un limite che si pone l’uomo. È chiaro che nel mondo ebraico, molto probabilmente per influsso dell’ellenismo greco, si produce un “gonfiamento” della Legge, che cresce da norma morale umana data da Dio fino a paradigma divino della creazione. Essa diviene l’oggettivazione e rivelazione storica dell’idea di bene. È evidente che la crisi della Legge è legata anche a questo “gonfiamento”. Quanto più essa è posta in alto, quanto più essa è avvicinata, anche ontologicamente, a Dio, tanto più da essa ci si attende. Quanto più grande l’attesa, tanto più amara la disillusione. Questo fenomeno poi del “gonfiamento” della Legge è legato alla credenza nell’immortalità, che nel mondo ebraico si andava affermando nel tempo di cui ci occupiamo. Una frase come quella di Lev 18,5, hà koiesas ho ánthropos resetéi en autoîs cambia ormai di significato. Chi legge non capisce più ciò che fu scritto secoli prima. Chi scrisse pensava che attraverso l’osservanza dei comandamenti si sarebbe avuto una buona, lunga vita. Chi legge ora, intende che chi aderisce alla Legge avrà la vita eterna. [8] Cfr. A. Viard, Epître aux Romains (La Sainte Bible, curata da L. Pirot e A. Clamer), Parigi 1951, p. 91, nota a 7,15. [9] Cfr. Berešit Rabba IX. Intorno alla metà del sec. III R. Semuel b. Nahman insegnava a proposito dell’espressione di Gen 1,31 «molto buono», che essa si riferiva non solo allo jetzer tob, ma anche allo jetzer hara‘. «Infatti, se lo jetzer hara‘ non ci fosse, nessun uomo si costruirebbe una casa, si sposerebbe, genererebbe figli, eserciterebbe un’attività». Circa un secolo prima R. Meir aveva insegnato, a proposito di lbb di Deut 6,5 (scritto con due b) che la cosa andava spiegata col fatto che l’uomo doveva onorare Dio sia con lo jetzer buono, sia con quello cattivo. (T. Berakhot 7,7). In genere però il problema sembra piuttosto turbare i rabbini che spesso insegnano che Dio si pentì di aver creato lo jetzer hara‘. Si veda sul problema l’Excursus di P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament…, Monaco 1928, IV, pp. 466-483, dal quale sono tratte le citazioni di questa nota.

[10] Cfr. Bellum Judaicum II, 8, § 162 ss. per quanto riguarda i farisei e i sadducei; Antiquitates Judaicae XVIII, I, 5, § 18; XIII, 5, 9, § 172.

[11] Si veda la rapida, ma efficace rappresentazione dell’ideologia sadducea di I. Epstein, Il Giudaismo, Milano 1967, pp. 83 ss. Sul destino, si veda poi tutta la produzione del Festugière. L’uomo ellenistico avvertiva la necessità di liberarsi da questa forza oscura dalla quale si sentiva schiacciato, in qualunque cosa la identificasse. Credo che la liberazione dagli elementi del mondo di cui parla Paolo vada inquadrata in questa spiritualità. Si veda specialmente L’idéal religieux des Grecs et l’évangile, Parigi 1932, pp. 101-115. [12] Cfr. anche il testo ebraico: edizione recente di F. Vattioni, Ecclesiastico, Napoli 1968. [13] D’altra parte il Deuteronomio stesso sviluppa, e con una coscienza del problema che in queste parole è assente, anche il motivo opposto. Cfr. 9,5, dove è detto che Israele entra in possesso della Palestina, non per la sua giustizia, ma solo perché Dio è fedele alla promessa e a causa della malvagità degli indigeni. La incapacità di avvertire la contraddizione, o, se si vuole, la capacità di non essere legati a ogni aspetto del principio di non contraddizione, in favore di un’osservazione immediata del reale, seguita da un giudizio morale, ha permesso all’ebraismo una grande ricchezza di sviluppi. [14] Se il giudaismo, diciamo così, classico, sorge dall’interpretazione della propria storia in termini rigidamente etici (Dio ha punito il suo popolo con la distruzione del tempio e con la deportazione, perché non ha rispettato la Sua Legge), nel giudaismo più tardo la sventura del popolo non è più sentita come conseguenza della inosservanza della Legge, o almeno qualche voce si alza in tal senso. L’osservazione è del Renan (Vie de Jésus, Parigi 1863, p. 52), che attribuiva questa atmosfera all’epoca maccabaica. Non so su che cosa si fondasse: forse sul Sal 44,23-27. Si veda su ciò A. Jaubert, La notion d’alliance dans le judaïsme aux abords de l’ère chrétienne, Parigi 1963, p. 78. Anche se la data del passo in questione dovesse essere un po’ più alta del sec. II a.C, la cosa non avrebbe importanza per la storia della cultura. Sul problema della datazione del Salmo 44, cfr. G. Castellino, Libro dei Salmi, Torino 1955, p. 298 ss. [15] Sulla concezione di “patto” presso i Qumranici, cfr. Jaubert, La notion d’alliance…, cit. Le sue conclusioni (p. 137) bene si accordano con la tesi generale di questo mio scritto: «A che serviva, dunque, per un giudeo essere figlio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, figlio della circoncisione, se in pratica era necessaria una elezione particolare (choix préalable) da parte di Dio…?». [16] Cfr. 2Pt 3,12. [17] Sui comandamenti segreti e la loro importanza nel giudaismo, cfr. N. Wieder, The Judean Scrolls and Karaism, Londra 1962, pp. 53 ss. [18] Su questa inadeguatezza della interpretazione della Legge, W. Davies, The Setting of the Sermon on the Mount, Cambridge 1964, p. 155. [19] Cfr. J. Carmignac, Les textes de Qumran traduits et annotés (Interprétations de prophétes), Parigi 1963, p. 107, nota n. 4. In maniera diametralmente opposta il Dupont-Sommer, Les écrits esséniens découverts près de la Mer Morte, Parigi 1964 (3a edizione), p. 275, nota n. 6. Quanto all’interpretazione del Davies, op. cit., p. 217, che la salvezza, secondo questo passo qumranico, sarebbe attraverso le opere della Legge, si può dire che essa mostra solo una notevole distorsione del testo: «È chiaro che i membri della Setta saranno salvati da Dio in quanto “facitori della Legge”, e per le loro sofferenze».

Beata Maria Vergine di Lourdes

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G. RAVASI. SAN PAOLO SU ANIMA E CORPO

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G. RAVASI. SAN PAOLO SU ANIMA E CORPO

Di Pmartucci

Come spesso gli accadeva, san Girolamo era stato sbrigativo: san Paolo «non curabat magnopere de verbis cum sensum haberet in tuto», “non si preoccupava più di tanto delle parole quando aveva messo al sicuro il significato”. Questo può essere vero per lo stile, meno per l’uso della lingua greca che egli aveva in realtà assunto e plasmato con molta originalità, assegnando a vari termini nuove e originali accezioni. Questo atteggiamento brilla soprattutto nella sua antropologia teologica che vorremmo approfondire tenendo conto in particolare dell’esito escatologico del cristiano, ossia del suo destino ultimo oltre la morte. A sorpresa l’apostolo si è scarsamente interessato alla questione della psyché, l’“anima” in senso greco classico, un termine secondario nel suo epistolario. La sua vera originalità è, invece, nell’aver puntato l’attenzione su un altro contrasto, quello tra spirito e carne, in greco pneuma e sarx, contrasto che si sostituisce a quello classico greco tra psyché e sôma, anima e corpo. A quella coppia di vocaboli egli, però, attribuisce un nuovo significato. La sarx, infatti, non è la “carnalità” in senso sessuale, né la “carne” fragile, finita e caduca della creatura umana. È, invece, per Paolo un principio negativo efficace e deleterio che si annida nella coscienza dell’uomo, divenendo terreno per il peccato. Al contrario, lo pneuma non è tanto il principio della vita psicofisica, ma è lo spirito divino che si effonde nella persona rendendola figlia adottiva di Dio (Rm 8,16). Illuminante è un passo della Lettera ai Galati ove si oppongono questi due principi: «Camminate secondo lo spirito [pneuma] e non sarete condotti a compiere i desideri della carne [sarx]. La carne [sarx], infatti, ha desideri contrari allo spirito [pneuma] e lo spirito [pneuma] a sua volta è contro la carne [sarx], poiché queste due realtà sono vicendevolmente contrapposte» (5,16-17). L’uomo, quindi, può ridursi alla qualità di essere “carnale”, impigliato nelle reti della sarx e del peccato; ma può anche elevarsi alla dignità di essere “spirituale”, animato dallo Spirito di Dio e dalla grazia salvatrice. In questa impostazione, che rivisita in chiave squisitamente teologica l’interiorità della persona, si riesce a decifrare un’altra coppia di termini usati da Paolo, termini palesemente applicati in modo contraddittorio agli occhi della cultura greca. L’apostolo, infatti, parla di sôma psychikón “corpo psichico”, e di sôma pneumatikón, “corpo spirituale”, espressioni paradossali se non assurde per un greco, considerata la ben nota antitesi e incompatibilità tra anima, spirito e corpo. In realtà, come vedremo, il retroterra di queste locuzioni paoline è biblico ed è modulato da Paolo secondo la sua teologia del peccato e della grazia. Da un lato, infatti, il “corpo psichico” è la persona chiusa nella sua creaturalità di essere vivente limitato, finito e colpevole. D’altro lato, il “corpo spirituale” è la persona aperta all’irruzione dello Spirito di Dio, che trasfigura la povertà della nostra condizione umana e ci introduce nella gloria e nell’eternità. Per questo, il corpo del Cristo risorto è per eccellenza “spirituale”, non certo perché etereo o incorporeo ma perché immerso nell’infinito e nell’eterno. In pratica, è la piena manifestazione del nostro essere “immagine di Dio”, come aveva insegnato Genesi 1,27, che l’apostolo così sviluppa e parafrasa: «Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste« (1Cor 15,49). Questa distinzione può aprire un varco all’interno del delicato e complesso problema dell’immortalità dell’anima o della risurrezione dei corpi: ricordiamo che il Credo apostolico, che è una professione di fede cristiana degli inizi del III secolo, preferisce la formula «risurrezione della carne», mentre il Credo niceno-costantinopolitano del 381, che si recita ogni domenica nella liturgia eucaristica, parla di «risurrezione dei morti». Apriamo solo una finestra su questo tema che affascina non soltanto il teologo o il filosofo, ma anche la persona comune, protesa verso il futuro e desiderosa di gettare uno sguardo oltre la frontiera della morte. Il pensiero generale di Paolo è, infatti, piuttosto ampio: il corpus delle tredici lettere che recano il nome dell’apostolo (anche se non tutte sono direttamente da ricondurre a lui) occupa ben 2003 versetti sui 5621 dell’intero Nuovo Testamento. Ebbene, in qualche passo paolino sembra occhieggiare la concezione greca quando si parla di un «esulare dal corpo […], quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra» (2 Cor 5,1.8-9); tuttavia, subito dopo si aggiunge che «riceveremo un’altra abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mano d’uomo«, facendo riemergere l’idea di un corpo risorto. Ecco, proprio a quest’ultima notazione ci connettiamo per la nostra breve considerazione che ripropone l’antitesi sopra indicata tra “corpo psichico” e “corpo spirituale”. Nella risurrezione è la creazione intera che viene ricondotta, attraverso l’intervento divino, a un nuovo progetto “cosmico” (nel senso etimologico di “ordine, armonia”). In esso cadranno le coordinate limitative del tempo e dello spazio e, quindi, della finitudine, in cui ora siamo immersi, e della corruzione materiale e morale. Alcuni teologi, soprattutto protestanti, pensano che nella morte avvenga una fine totale, così come nella conclusione dell’intera realtà creata: la risurrezione sarebbe, allora, una vera e propria “ri-creazione” divina, condotta ex novo. Ma in realtà nella visione paolina, esplicitamente modellata sulla risurrezione di Cristo, la cui identità personale permane, si sottolinea una continuità, anche se di difficile definizione e descrizione: l’essere attuale, individuale e cosmico sotto l’azione divina viene trasformato in un nuovo statuto di essere e di esistere, immesso nell’eterno e nell’infinito. Tra presente e futuro dell’uomo e del mondo c’è, allora, un rapporto di continuità nell’identità individuale, ma anche di discontinuità nella qualità dell’essere. Non è certo facile delineare in modo puntuale e accurato questa transizione e lo stesso Paolo nel capitolo 15 della Prima lettera ai Corinzi fatica nel rappresentare questa uscita dalla prigione dello spazio e del tempo e l’evolversi della realtà presente e storica verso quell’orizzonte trascendente. Infatti, fa ricorso a immagini come quella del nesso tra seme e albero, un nesso di continuità, ma anche di novità e di diversità, e conclude: «Si semina corruttibile e risorge incorruttibile, si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza, si semina un corpo psichico [sôma psychikón] e risorge un corpo spirituale [sôma pneumatikón]» (15,42-44). Si riaffaccia, dunque, il contrasto tra il “corpo psichico”, che indica la creatura umana con la suapsyché, la sua interiorità, inserita però nello stato presente, storico della realtà, e il “corpo spirituale” che è quello del futuro escatologico, ossia della pienezza di vita della nuova creazione, oltre lo spazio e il tempo. “Corpo spirituale” non è, allora, qualcosa di evanescente o simile a un ectoplasma; con questa espressione Paolo intende il corpo risorto, cioè la persona umana pienamente pervasa dallo Pneuma, lo Spirito di Dio operante nel Cristo risorto. Per l’apostolo il modello e il principio della nostra futura trasfigurazione è proprio Cristo risorto che incarna lo statuto dell’uomo redento, in comunione perfetta con l’eterno e l’infinito divino. Si potrebbe, quindi, concludere affermando che Paolo ha considerato l’“anima” (psyché) come il segno della nostra umanità terrena e lo “spirito” (pneuma) come emblema della nostra meta oltremondana quando «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28). La redenzione futura coinvolge tutto l’essere creato e, quindi, anche la materia che è in noi e fuori di noi. Con una battuta si potrebbe dire che, mentre nella concezione greca l’oltrevita è liberazione dalla materia considerata come un gravame maligno, nel cristianesimo l’oltrevita è liberazione anche della materia destinata a essere trasfigurata e integrata in una creazione rinnovata. È per questo che nella Lettera ai Romani si legge: «La creazione stessa [quindi anche la materia] attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio. Essa, infatti, è stata sottomessa alla caducità […] ma nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloria dei figli di Dio» (8, 19-21).  

Gianfranco Ravasi

SAN PAOLO E MARIA

 http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=15337

SAN PAOLO E MARIA

(volevo mettere qualcosa per la memoria della Madonna di Lourdes, riguardo San Paolo ho trovato questa Omelia in data 13.5.2009, non riesco a ricostruire le letture della liturgia del giorno, ma mi sembra il commento a Galati 4,4 come è scritto sotto)

Quello che è stato proclamato come prima lettura è l’unico brano in san Paolo in cui si parla di Maria santissima. Le tredici lettere di san Paolo contano 2029 versetti, di essi solo uno è dedicato alla persona della Madre di Gesù, questo, il numero 4 del capitolo quarto della lettera ai Galati: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge”. La madre del Signore non viene nemmeno chiamata per nome, ma solo menzionata come di passaggio. Stando così le cose, sembra che a san Paolo la figura di Maria interessi minimamente e che dunque sia inutile interrogarci sull’apporto dell’Apostolo delle genti alla nostra devozione per la Madre del Signore. Prima però di abbandonare delusi la nostra ricerca e di tirare della conclusioni indebite soffermiamoci un attimo almeno su questo frammento. Potremmo scoprirvi delle ricchezze inaspettate e rivalutare anche il messaggio di san Paolo a riguardo dell’umanità di Gesù e del mistero della sua venuta nel mondo. Anzitutto la frase citata del versetto quattro si conclude solo nel versetto seguente, il cinque: ”Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.” Notiamo subito che ci sono alcuni termini che ritornano. Si può stabilire un collegamento tra la prima parte della frase e l’ultima: “Dio mandò il suo Figlio… perché ricevessimo l’adozione a figli.” Similmente sono parallele le due espressioni centrali: “(il Figlio di Dio…) nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge”. Resta in sospeso proprio l’espressione “nato da donna” che viene ad interrompere il collegamento fra figliolanza e sottomissione alla legge. In sintesi il ragionamento di san Paolo si può schematizzare così: nascendo in un mondo segnato dalla corruzione del peccato anche se frenato nella sua decadenza verso il male dalla legge ricevuta sul Sinai, il Figlio di Dio si sottopose volontariamente alle dure esigenze della legge di Mosè perché noi avessimo anche la gioia di sentirci figli di Dio. San Paolo aveva appena finito di dire che la Legge, anche la migliore possibile come quella dell’Antico Testamento, non è sufficiente per dare la salvezza. La funzione della legge è quella di un argine o di un paracarro: segnala un limite da non superare, ma non conduce alla mèta. Rende più difficile la trasgressione, ma non aiuta con nessuna spinta in avanti né attira con la forza della persuasione. Solo la fede in Gesù salva. La legge di Mosè dunque è servita come una preparazione e una guida in vista dell’incontro con Cristo. Riprendendo un esempio dei suoi tempi san Paolo dice anche che quando si entra nella maggiore età non si ha più bisogno di precettori e pedadoghi. Tutori e amministratori esercitano il loro ufficio finché uno non entra nel pieno possesso dei suoi diritti, poi essi devono cedere il campo. Alla stessa maniera non è più necessario seguire alla lettera le norme contenute nella legge di Mosè perché Gesù ci ha elevati alla dignità di figli di Dio con tutti i privilegi conseguenti. È un tema centrale nella predicazione di san Paolo, che egli svilupperà qualche anno più tardi nella lettera ai Romani. Per intanto ne traccia come un abbozzo, indotto a questo dal cambiamento di condotta intervenuto presso i Galati. Essi avevano aderito con entusiasmo al Vangelo di Gesù Cristo, ma dopo qualche tempo avevano lasciato spazio ad alcuni predicatori Giudei. Pensando di far bene si erano convinti così della necessità di osservare tutte le norme in uso presso gli Ebrei. San Paolo reagisce e ricorda ai Galati che la fede è immensamente superiore alle opere: “Questo solo io vorrei sapere da voi: è per le opere della legge che avete ricevuto lo Spirito o per aver creduto alla predicazione? Siete così privi d’intelligenza che, dopo aver incominciato con lo Spirito, ora volete finire con la carne (cioè con la materialità delle opere)? Tante esperienze le avete fatte invano? Se almeno fosse invano! Colui che dunque vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della legge o perché avete creduto alla predicazione?” È dunque in un contesto polemico che san Paolo cita la madre di Gesù, come un’oasi di pace, in mezzo a tante angustie. Anche se l’espressione “nato da donna” sembra qualcosa in più che interrompe la linearità del ragionamento, san Paolo inserisce lo stesso questo inciso a cui evidentemente attribuisce un valore particolare. Non c’è stata solo la Legge che ha accolto Gesù nel mondo, quella legge in nome della quale ad un certo punto sarebbe stato condannato. Gesù, il Figlio di Dio, è venuto nel mondo, nascendo da una donna. Il solo fatto di essere la Madre del Figlio di Dio rende questa donna particolare. Non ci dobbiamo meravigliare che san Paolo non approfondisca il punto e non aggiunga dettagli alla sua perentoria affermazione. Non dobbiamo cercare nelle lettere di san Paolo quello che troviamo contenuto così ampiamente nei Vangeli, ossia la descrizione della vita di Gesù. Non solo san Paolo omette il nome di Maria, ma non racconta di nessuna parabola, né miracolo del Signore. Se la nostra conoscenza fosse limitata a quello che ci ha lasciato per iscritto Paolo, ignoreremmo le beatitudini e quasi ogni altro detto del Signore. San Paolo non fu spettatore degli avvenimenti capitati nei tre anni della vita pubblica del Signore e perciò ne lascia il compito del resoconto ad altri, primi fra tutti al suo discepolo Luca. È interessante questa cosa, perché nel terzo Vangelo noi troviamo le informazioni più ampie che abbiamo nel Nuovo Testamento sulla figura di Maria; ma, come dice lui stesso, san Luca si decise a scrivere un racconto della vita di Gesù solo dopo avere fatto accurate ricerche in proposito e avere interrogato i testimoni diretti. L’espressione “nato da donna” dunque è come un concentrato di tutto quello che san Paolo ha da dire su Maria. Vale la pena di spiegarla seppure brevemente. Anzitutto l’attribuzione a Gesù della qualifica “nato da donna” serve a ribadire la concretezza dell’incarnazione del Figlio di Dio, che attraverso Maria diventa veramente compartecipe della nostra condizione umana, compresa la sua peculiare fragilità. Giobbe si esprime così: “L’uomo nato da donna, breve di giorni e sazio di inquietudine, come un fiore spunta e avvizzisce”. L’assenza di un padre umano per Gesù viene appena accennata, l’importante per san Paolo è che vi sia stata una madre. In quanto figlio di Maria Gesù appartiene al popolo eletto e alla discendenza del Re Davide. Essa assicura quindi il compimento delle promesse sul Messia salvatore. Non solo ma sviluppando l’intuizione contenuta nella lettera ai Romani in cui san Paolo stabilisce un confronto fra Adamo e Gesù è possibile stabilire un paragone fra Eva e Maria. La dicitura “donna” quindi richiamerebbe anche la prima donna. Come Eva fu la madre di tutti i viventi, così Maria a motivo del suo Figlio diventa la Madre di tutti i rendenti. Scrive san Paolo: “Come la disobbedienza di un solo uomo (Adamo) ha reso tutti peccatori, così l’obbedienza di uno solo (Gesù Cristo) renderà tutti giusti » e sant’Ireneo fa eco: « Ciò che la vergine Eva legò con la sua incredulità, la vergine Maria sciolse con la sua fede » Eva si lasciò sedurre e disobbedì, questa si lasciò persuadere e ubbidì. In tal modo la vergine Maria poté divenire avvocata della vergine Eva. “Il nemico infatti” dice ancora sant’Ireneo “non sarebbe stato sconfitto secondo giustizia, se il vittorioso non fosse stato un uomo nato da donna, poiché fin dall’inizio della storia il demonio ha dominato sull »uomo per mezzo di una donna, opponendosi a lui col suo potere. Per questo si proclama Figlio dell’uomo, egli che ricapitola in sé l’uomo primordiale, dal quale venne la prima donna e, attraverso questa, l’umanità. Il genere umano era sprofondato nella morte causa dell’uomo sconfitto. Ora risaliva alla vita a causa dell’uomo vittorioso.” Da San Paolo dunque possiamo imparare che la devozione a Maria è strettamente collegata alla fede nel suo Figlio e nostro Salvatore e che al contrario di essere una pratica confinata ai margini del nostro credo la nostra preghiera a Maria abbraccia l’intera storia del mondo, come anche la Madonna stessa apparendo a Fatima ci ha fatto capire…

BENEDETTO XVI – La Liturgia, scuola di preghiera: il Signore stesso ci insegna a pregare (2012)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2012/documents/hf_ben-xvi_aud_20120926_it.html

(oggi ricorre il primo anniversario dell dimissioni di Papa Bendetto, mi sembra bello ed utile mettere e meditare solo una sua catechesi, ho scelto questa, sul « desiderio di Dio »)  

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 26 settembre 2012

La Liturgia, scuola di preghiera: il Signore stesso ci insegna a pregare

Cari fratelli e sorelle,

in questi mesi abbiamo compiuto un cammino alla luce della Parola di Dio, per imparare a pregare in modo sempre più autentico guardando ad alcune grandi figure dell’Antico Testamento, ai Salmi, alle Lettere di san Paolo e all’Apocalisse, ma soprattutto guardando all’esperienza unica e fondamentale di Gesù, nel suo rapporto con il Padre celeste. In realtà, solo in Cristo l’uomo è reso capace di unirsi a Dio con la profondità e la intimità di un figlio nei confronti di un padre che lo ama, solo in Lui noi possiamo rivolgerci in tutta verità a Dio chiamandolo con affetto “Abbà! Padre!”. Come gli Apostoli, anche noi abbiamo ripetuto in queste settimane e ripetiamo a Gesù oggi: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1). Inoltre, per apprendere a vivere ancora più intensamente la relazione personale con Dio abbiamo imparato a invocare lo Spirito Santo, primo dono del Risorto ai credenti, perché è Lui che «viene in aiuto alla nostra debolezza: da noi non sappiamo come pregare in modo conveniente» (Rm 8,26), dice san Paolo, e noi sappiamo come abbia ragione. A questo punto, dopo una lunga serie di catechesi sulla preghiera nella Scrittura, possiamo domandarci: come posso io lasciarmi formare dallo Spirito Santo e così divenire capace di entrare nell’atmosfera di Dio, di pregare con Dio? Qual è questa scuola nella quale Egli mi insegna a pregare, viene in aiuto alla mia fatica di rivolgermi in modo giusto a Dio? La prima scuola per la preghiera – lo abbiamo visto in queste settimane – è la Parola di Dio, la Sacra Scrittura. La Sacra Scrittura è un permanente dialogo tra Dio e l’uomo, un dialogo progressivo nel quale Dio si mostra sempre più vicino, nel quale possiamo conoscere sempre meglio il suo volto, la sua voce, il suo essere; e l’uomo impara ad accettare di conoscere Dio, a parlare con Dio. Quindi, in queste settimane, leggendo la Sacra Scrittura, abbiamo cercato, dalla Scrittura, da questo dialogo permanente, di imparare come possiamo entrare in contatto con Dio. C’è ancora un altro prezioso «spazio», un’altra preziosa «fonte» per crescere nella preghiera, una sorgente di acqua viva in strettissima relazione con la precedente. Mi riferisco alla liturgia, che è un ambito privilegiato nel quale Dio parla a ciascuno di noi, qui ed ora, e attende la nostra risposta. Che cos’è la liturgia? Se apriamo il Catechismo della Chiesa Cattolica – sussidio sempre prezioso, direi indispensabile – possiamo leggere che originariamente la parola «liturgia» significa «servizio da parte del popolo e in favore del popolo» (n. 1069). Se la teologia cristiana prese questo vocabolo del mondo greco, lo fece ovviamente pensando al nuovo Popolo di Dio nato da Cristo che ha aperto le sue braccia sulla Croce per unire gli uomini nella pace dell’unico Dio. «Servizio in favore del popolo», un popolo che non esiste da sé, ma che si è formato grazie al Mistero Pasquale di Gesù Cristo. Di fatto, il Popolo di Dio non esiste per legami di sangue, di territorio, di nazione, ma nasce sempre dall’opera del Figlio di Dio e dalla comunione con il Padre che Egli ci ottiene. Il Catechismo indica inoltre che «nella tradizione cristiana (la parola “liturgia”) vuole significare che il Popolo di Dio partecipa all’opera di Dio» (n. 1069), perché il popolo di Dio come tale esiste solo per opera di Dio. Questo ce lo ha ricordato lo sviluppo stesso del Concilio Vaticano II, che iniziò i suoi lavori, cinquant’anni orsono, con la discussione dello schema sulla sacra liturgia, approvato poi solennemente il 4 dicembre del 1963, il primo testo approvato dal Concilio. Che il documento sulla liturgia fosse il primo risultato dell’assemblea conciliare forse fu ritenuto da alcuni un caso. Tra tanti progetti, il testo sulla sacra liturgia sembrò essere quello meno controverso, e, proprio per questo, capace di costituire come una specie di esercizio per apprendere la metodologia del lavoro conciliare. Ma senza alcun dubbio, ciò che a prima vista può sembrare un caso, si è dimostrata la scelta più giusta, anche a partire dalla gerarchia dei temi e dei compiti più importanti della Chiesa. Iniziando, infatti, con il tema della «liturgia» il Concilio mise in luce in modo molto chiaro il primato di Dio, la sua priorità assoluta. Prima di tutto Dio: proprio questo ci dice la scelta conciliare di partire dalla liturgia. Dove lo sguardo su Dio non è determinante, ogni altra cosa perde il suo orientamento. Il criterio fondamentale per la liturgia è il suo orientamento a Dio, per poter così partecipare alla sua stessa opera. Però possiamo chiederci: qual è questa opera di Dio alla quale siamo chiamati a partecipare? La risposta che ci offre la Costituzione conciliare sulla sacra liturgia è apparentemente doppia. Al numero 5 ci indica, infatti, che l’opera di Dio sono le sue azioni storiche che ci portano la salvezza, culminate nella Morte e Risurrezione di Gesù Cristo; ma al numero 7 la stessa Costituzione definisce proprio la celebrazione della liturgia come «opera di Cristo». In realtà questi due significati sono inseparabilmente legati. Se ci chiediamo chi salva il mondo e l’uomo, l’unica risposta è: Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, crocifisso e risorto. E dove si rende attuale per noi, per me oggi il Mistero della Morte e Risurrezione di Cristo, che porta la salvezza? La risposta è: nell’azione di Cristo attraverso la Chiesa, nella liturgia, in particolare nel Sacramento dell’Eucaristia, che rende presente l’offerta sacrificale del Figlio di Dio, che ci ha redenti; nel Sacramento della Riconciliazione, in cui si passa dalla morte del peccato alla vita nuova; e negli altri atti sacramentali che ci santificano (cfr Presbyterorum ordinis, 5). Così, il Mistero Pasquale della Morte e Risurrezione di Cristo è il centro della teologia liturgica del Concilio. Facciamo un altro passo in avanti e chiediamoci: in che modo si rende possibile questa attualizzazione del Mistero Pasquale di Cristo? Il beato Papa Giovanni Paolo II, a 25 anni dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium, scrisse: «Per attualizzare il suo Mistero Pasquale, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, soprattutto nelle azioni liturgiche. La liturgia è, di conseguenza, il luogo privilegiato dell’incontro dei cristiani con Dio e con colui che Egli inviò, Gesù Cristo (cfr Gv 17,3)» (Vicesimus quintus annus, n. 7). Sulla stessa linea, leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica così: «Ogni celebrazione sacramentale è un incontro dei figli di Dio con il loro Padre, in Cristo e nello Spirito Santo, e tale incontro si esprime come un dialogo, attraverso azioni e parole» (n. 1153). Pertanto la prima esigenza per una buona celebrazione liturgica è che sia preghiera, colloquio con Dio, anzitutto ascolto e quindi risposta. San Benedetto, nella sua «Regola», parlando della preghiera dei Salmi, indica ai monaci: mens concordet voci, « la mente concordi con la voce». Il Santo insegna che nella preghiera dei Salmi le parole devono precedere la nostra mente. Abitualmente non avviene così, prima dobbiamo pensare e poi quanto abbiamo pensato si converte in parola. Qui invece, nella liturgia, è l’inverso, la parola precede. Dio ci ha dato la parola e la sacra liturgia ci offre le parole; noi dobbiamo entrare all’interno delle parole, nel loro significato, accoglierle in noi, metterci noi in sintonia con queste parole; così diventiamo figli di Dio, simili a Dio. Come ricorda la Sacrosanctum Concilium, per assicurare la piena efficacia della celebrazione «è necessario che i fedeli si accostino alla sacra liturgia con retta disposizione di animo, pongano la propria anima in consonanza con la propria voce e collaborino con la divina grazia per non riceverla invano» (n. 11). Elemento fondamentale, primario, del dialogo con Dio nella liturgia, è la concordanza tra ciò che diciamo con le labbra e ciò che portiamo nel cuore. Entrando nelle parole della grande storia della preghiera noi stessi siamo conformati allo spirito di queste parole e diventiamo capaci di parlare con Dio. In questa linea, vorrei solo accennare ad uno dei momenti che, durante la stessa liturgia, ci chiama e ci aiuta a trovare tale concordanza, questo conformarci a ciò che ascoltiamo, diciamo e facciamo nella celebrazione della liturgia. Mi riferisco all’invito che formula il Celebrante prima della Preghiera Eucaristica: «Sursum corda», innalziamo i nostri cuori al di fuori del groviglio delle nostre preoccupazioni, dei nostri desideri, delle nostre angustie, della nostra distrazione. Il nostro cuore, l’intimo di noi stessi, deve aprirsi docilmente alla Parola di Dio e raccogliersi nella preghiera della Chiesa, per ricevere il suo orientamento verso Dio dalle parole stesse che ascolta e dice. Lo sguardo del cuore deve dirigersi al Signore, che sta in mezzo a noi: è una disposizione fondamentale. Quando viviamo la liturgia con questo atteggiamento di fondo, il nostro cuore è come sottratto alla forza di gravità, che lo attrae verso il basso, e si leva interiormente verso l’alto, verso la verità, verso l’amore, verso Dio. Come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La missione di Cristo e dello Spirito Santo che, nella Liturgia sacramentale della Chiesa, annunzia, attualizza e comunica il Mistero della salvezza, prosegue nel cuore che prega. I Padri della vita spirituale talvolta paragonano il cuore a un altare» (n. 2655): altare Dei est cor nostrum. Cari amici, celebriamo e viviamo bene la liturgia solo se rimaniamo in atteggiamento orante, non se vogliamo “fare qualcosa”, farci vedere o agire, ma se orientiamo il nostro cuore a Dio e stiamo in atteggiamento di preghiera unendoci al Mistero di Cristo e al suo colloquio di Figlio con il Padre. Dio stesso ci insegna a pregare, afferma san Paolo (cfr Rm 8,26). Egli stesso ci ha dato le parole adeguate per dirigerci a Lui, parole che incontriamo nel Salterio, nelle grandi orazioni della sacra liturgia e nella stessa Celebrazione eucaristica. Preghiamo il Signore di essere ogni giorno più consapevoli del fatto che la Liturgia è azione di Dio e dell’uomo; preghiera che sgorga dallo Spirito Santo e da noi, interamente rivolta al Padre, in unione con il Figlio di Dio fatto uomo (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2564). Grazie.

San Paolo Apostolo

San Paolo Apostolo dans IMMAGINI (DI SAN PAOLO, DEI VIAGGI, ALTRE SUL TEMA) apostle-paul-zennon4

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PAOLO, APOSTOLO DI GESÙ, IL CRISTO, PER DISEGNO ED ELEZIONE DI DIO

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PAOLO, APOSTOLO DI GESÙ, IL CRISTO, PER DISEGNO ED ELEZIONE DI DIO

P. Alberto Eronti

La notizia dice semplicemente che: « il prossimo 28 giugno alle 17,30 il Papa Benedetto XVI presiederà i Primi Vespri della Solennità di San Pietro e San Paolo nella Basilica di San Paolo fuori delle Mura, a Roma. Che cosa ha di particolare quest’annuncio?. Di per sé niente, perché è comune per questa Solennità, che i Papi abbiano questi gesti verso « l’apostolo dei gentili ». Ciononostante il Papa proclamerà in quel pomeriggio l’inizio « dell’Anno Paolino », in occasione dei 2000 anni dalla nascita di chi portava il Vangelo « fino ai confini ».

Al ricordare espressioni di P. Kentenich su San Paolo, di cui ha parlato in numerose opportunità, ce n’è una particolarmente illuminante: « …San Paolo è stato eletto nel seno di sua madre per annunciare al mondo il mistero di Cristo ». Se prendiamo le lettere attribuite a San Paolo nel Nuovo Testamento e leggiamo le prime righe di ognuna, costateremo che l’espressione che ho appena citato tocca il fondamento di quello che l’Apostolo ha vissuto e sentito come seguace di Cristo. Tutte le lettere cominciano con un’allusione al Messia (Cristo), e l’inizio della lettera ai Romani è la miglior sintesi: « Paolo, servo di Gesù Cristo, eletto apostolo, messo a parte per annunciare il Vangelo di Dio… « . Ciò che più colpisce di San Paolo è la sua coscienza d’elezione e la sua appartenenza a Cristo. In lui si riflette il proprio e l’essenziale dell’elezione ad essere discepolo del Figlio di Dio fatto Uomo. Non c’è dubbio che San Paolo aveva un temperamento appassionato, ha seguito e servito Cristo, e vissuto per Lui con assoluto radicalismo. Così che scriverà alla Chiesa della Galazia: « …non vivo già più io, ma Cristo vive in me; la vita poi che adesso vivo nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e dato se stesso per me ». (Gal. 2,20). In un mondo pagano è stato capace di vivere per Cristo e di annunciarlo con la sua vita e la sua parola. Per far notare la grandezza della fede che proponeva, sapeva che doveva cercare una coerenza tra il suo dire ed agire. E nemmeno dimostra timidezza al manifestare la sua decisione più intima e personale nei confronti del mondo e a quello che il mondo gli offre. Non mostra disprezzo per il mondo, bensì una stima totale per Colui che gli ha cambiato la vita e gliel’ha colmata di pienezza, e lo dirà alla Chiesa di Filippi: « Ma quel che per me era un vantaggio, questo per amore di Cristo ho ritenuto una perdita, che anzi ritengo tutto una perdita a paragone della suprema cognizione di Gesù, mio Signore… » (Fl.3, 7-8). Esagerato? Può essere, ma ci sono momenti che solo gli « esagerati » nell’amore, la dedizione e la lealtà, costituiscono una luce per il mondo ed una scelta di vita per tanti. Solo coloro che « vivono radicalmente le loro convinzioni, si distinguono dalla mediocrità e dalla noia in cui si immerge la massa umana ». In un tempo d’indifferenza verso l’avvenimento cristiano, in un’epoca in cui avviene un cambiamento secolare della civilizzazione che ha creato un neo paganesimo, in un tempo così, solo coloro che « vivono radicalmente le loro convinzioni, si distinguono dalla mediocrità e dalla noia in cui si immerge la massa umana ». Gesù aveva detto ai suoi « Voi siete la luce del mondo » (Mt. 5,14). Paolo si è costituito luce di Cristo per tanti. Ha parlato con passione di Colui che amava e al quale aveva dato la vita. Ha posto tanto amore in quello che faceva per Cristo, che l’uomo retto e lottatore, che arrischiava fino all’audacia, si è dichiarato madre di molti all’illuminarli per il Vangelo, così come lo manifesta in maniera sincera, quando manifesta l’essenza stessa di essere discepolo: « Figli miei, ancora una volta mi avete causato dolori di parto, fintantoché Cristo non si formi in voi ». Dirà, con la meravigliosa libertà interiore, propria di chi si sa discepolo di Gesù Cristo, a quelli che ha convertito al Vangelo che devono essere come lui. Non ha nessun problema in considerarsi modello di discepolo del suo Signore: « Siate dunque miei imitatori, come io lo sono di Cristo » (1ª Cor. 11,1). Conoscitore del suo mondo, sapeva che abbondavano le « offerte » ingannevoli per coloro che hanno abbracciato la fede, perciò capiva anche che non è sufficiente parlare, ma si deve incarnare quanto si annuncia. Si tratta di vivere in modo tale quanto si annuncia che non ci siano dubbi di quale strada si debba seguire. « Siate tutti miei imitatori, fratelli ed osservate quelli che si comportano secondo il modello che avete in noi » (Fl. 3,17) Pochi hanno saputo annunciare con la praticità di Paolo il mandato di Gesù: « Vi do un nuovo comandamento, che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato » (Gv. 13,34) nel suo desiderio che tutti capissero, che essere seguaci di Gesù suppone la novità di essere conosciuti per l’amore (« da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni verso gli altri » Gv.13,35) e darà insegnamenti bellissimi e concreti alle chiese che fondava. Alla comunità di Corinto lascerà come testamento il chiamato « Inno d’Amore » (1ª Cor 13,1-8), in cui s’insegna « un cammino eccezionale », perché solo  » l’amore non erra mai ». Alla Chiesa di Colossi dirà, che per amare come Gesù ci comanda ci si deve « spogliare » o togliersi il vestito del non amore: la collera, l’ira, la cattiveria, le oscenità…..e vestirsi del vestito nuovo dell’amore più grande: …. »vestitevi di sentita compassione, di generosità, di gentilezza, di pazienza, sopportandovi gli uni gli altri e perdonandovi… » (Cl. 3, 8) Accoglienza, trasformazione ed invio Nei nostri Santuari, al lato del Tabernacolo e di Maria, abbiamo le statue dei due apostoli. Uno ha « la chiave » , l’altro « la spada ». I simboli distinguono a ciascuno, e allo stesso tempo mettono in evidenza la loro identità e missione. Pietro e Paolo sono stati « eletti, chiamati e inviati », da Gesù Cristo. Si tratta di unire ciascuno di questi verbi alla grazie del Santuario: accoglienza, trasformazione ed invio. Il Padre Fondatore paragona la sua missione al vivere dell’Apostolo dei gentili: « Così come Paolo è stato eletto nel ventre di sua madre per annunciare al mondo il mistero di Cristo, io sono stato eletto nel venre di mia madre per annunciare al mondo il mistero di Maria ». Non sono due « misteri » paralleli, bensì un mistero solo: Maria ha vissuto per Gesù, il mistero di Maria è quello di Gesù, poiché per Lui ha vissuto, lottato e si è dedicata. Che quest’Anno Paolino ci trovi uniti e riuniti nei nostri Santuari facendo sì che l’amor ci accolga, trasformi e invii, affinché l’orizzonte della missione di Schoenstatt si apra sempre più alle vaste sfide del tempo e con il Padre della Famiglia possiamo pregare: Madre, che Schoenstatt continui ad essere il tuo luogo preferito, il baluardo dello spirito apostolico, il capo che conduce alla lotta santa, la sorgente di santità nella vita quotidiana, fuoco del fuoco di Cristo, che fiammeggiante sparga scintille luminose, finché il mondo, come ungere di fiamme, s’accenda per la gloria della Santissima Trinità. Amen » (Verso il cielo, nº 499-500)

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