Archive pour février, 2014

PRIMA LETTERA AI CORINZI : « LA SAPIENZA DI DIO »

http://www.gelacittadimare.it/Catechesi%202005/4.doc

(questo commento è preso dalla parrocchia di Gela, non conosco il giorno del commento, l’anno dal link sembra il 2005)

PARROCCHIA REGINA PACIS – GELA

ANNO PAOLINO: LA PRIMA LETTERA AI CORINZI

« LA SAPIENZA DI DIO »

Preghiera iniziale Signore Dio nostro, noi deponiamo dinanzi a te tutto ciò che ci opprime: i nostri peccati, i nostri errori, le nostre trasgressioni, le nostre tristezze, le nostre preoccupazioni, anche la nostra rivolta e la nostra amarezza, tutto il nostro cuore, tutta la nostra vita, che tu conosci meglio di noi stessi. Riponiamo tutto nelle mani fedeli che tu hai tese verso di noi, nel nostro Salvatore. Prendici come siamo, rinfrancaci, perché siamo deboli, arricchiscici nella tua pienezza perché siamo poveri! Amen

Dalla prima lettera di s. Paolo apostolo ai Corinzi 1,18-2,9 Fratelli, la parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per í Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini. Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio. Ed è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto: Chi si vanta si vanti nel Signore. Anch’io, o fratelli, quando sano venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio. Tra i perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla; parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Sta scritto infatti: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che la amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non la spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. L’uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno. Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere? Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo. Parola di Dio

Pausa per la riflessione in silenzio Chi sono per S. Paolo questi « perfetti »? Non si pensi a qualcosa come gli « iniziati » dei misteri pagani, quasi che il Cristianesimo sia una dottrina esoterica da rivelarsi solo ad alcuni privilegiati: i « perfetti » sono quei cristiani, anche i più semplici e meno colti, che sono arrivati, mediante una fede infrangibile e un amore operante, a una assimilazione feconda dei principi del Cristianesimo, al pieno sviluppo della vita e del pensiero cristiano. Questi possono davvero « gustare » la « sapientia » la sublime bellezza e la meravigliosa coerenza delle verità del Vangelo: ad essi fanno contrasto i « fanciulli », che si identificano con i « carnali », cioè quei cristiani che non hanno fatto maturare il loro cristianesimo. Non vi è perciò differenza di casta: la « sapienza » è aperta a tutti, e tutti, in modi diversi, ne sono capaci e devono essere anzi guidati a riceverla. Qual è pertanto la <matura » di questa « sapienza »? Essa non è « la sapienza di questo mondo, né dei principi di questo mondo che vengono distrutti, bensì… la sapienza di Dio avvolta nel mistero, che è stata nascosta… ». « Questo mondo » (propriamente  » questo secolo « ) sta a significare, secondo la concezione giudaica, il periodo di tempo anteriore al Messia e si oppone al  » secolo (o mondo) futuro « , che si identifica praticamente con il Regno di Dio ». In quanto non ancora completamente riscattato dal Messia, il « secolo » presente soggiace all’influsso di Satana, che ne è come il « signore ». Soltanto alla seconda venuta di Cristo tutto sarà  » soggetto  » al Padre. « I principi di questo mondo che vengono distrutti » sono difficili a identificare. Secondo alcuni esegeti antichi e moderni sarebbero tutti coloro che hanno potere, onore, lustro, saggezza, vale a dire i politici, i filosofi, i retori ecc. Nel caso concreto al v. $ si tratterebbe di Erode, Pilato, i sommi sacerdoti, i membri del Sinedrio. Secondo altri invece si tratterebbe esclusivamente delle potenze cattive ostili a Cristo e da lui vinte: « i demoni » che regnano su « questo mondo ». Per conto nostra S. Paolo può bensì riferirsi alle potenze demoniache, ma intende anche e soprattutto le autorità terrene spesso strumento delle prime, o i falsi sapienti di questo mondo, tutti tronfi della loro dottrina. I « principi di questo mondo » però hanno già segnato la loro sorte: saranno irrimediabilmente « distrutti » da Cristo; essi cioè sono temporanei e il loro compito si esaurisce in questo mondo. Non sapienza « mondana », dunque, la sapienza cristiana, ma « sapienza di Dio avvolta nel mistero », cioè segreta, impenetrabile nella sua intima essenza e nei suoi motivi, ignota, nel passato, anche ai Profeti, rivelata agli Apostoli… Questa sapienza « misteriosa », « nascosta » in Dio e facente parte della sua stessa vita, egli l`ha « predestinata », 1`ha voluta sin dall’eternità « per la nostra gloria », cioè per là nostra felicità e salvezza eterna, che già da questa terra incomincia a fiorire nel nostro spirito mediante la grazia e avrà il suo pieno sviluppo solo alla fine dei tempi. Il contenuto di tale « sapienza » è il « mistero di Cristo », cioè il piano della Redenzione del mondo, la morte del Figlio di Dio in croce e il trionfo della sua resurrezione, con le loro conseguenze: della salvezza offerta a tutti e dell’entrata, mediante la fede e il Battesimo, in una « vita nuova » a somiglianza del Cristo risuscitato. Tutto ciò è chiaro che si può accettare solo mediante una fede umile e riconoscente. È per questo che « nessuno dei principi dl questo mondo ha conosciuto » tale divina « sapienza ». (S. Cipriani, in « Le lettere di S. Paolo)

Salmo 130 Resp. Sei il mio pastore nulla mi mancherà. (bis) Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze. Io sono tranquillo e sereno come bimba svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia. Speri Israele nel Signore, ora e sempre.

Predicare il Vangelo é l’oggetto della missione di Paolo, il quale offre se stesso quale strumento umile e povero per il trionfo della Croce. Ai Corinzi che ambivano la sapienza della Parola e probabilmente traevano da essa motivo di partigianeria per i predicatori, provocando divisioni nella Comunità l’apostolo richiama un principio fondamentale della storia biblica: per la realizzazione dei suoi disegni di salvezza, Dio si serve di elementi inadeguati, secondo una logica umanamente incomprensibile. Per illustrare come l’agire di Dio trascenda l’orizzonte sapienziale umano, San Paolo evoca progressivamente, come in un trittico, l’immagine del Crocifisso, le condizioni sociali della comunità di Corinto, e il periodo delle sua missione nella città: ne deriva la riduzione all’assurdo di tutte le presunzioni sapienziali umane; Dio non si è rivelato nella sapienza. Il carattere paradossale dell’azione di Dio che prescinde dalle risorse della sapienza, viene illustrato con l’evocazione della condizione sociale dei cristiani di Corinto, che dovevano essere per la maggior parte di umile estrazione. Delineazione sintetica di ciò che è Cristo per il cristiano: sapienza vera che introduce nei disegni di Dio e nel sentiero della vita; giustizia e santificazione interiore, cioè liberazione dalla servitù del peccato e dell’egoismo grazie alla comunicazione del suo Spirito; e tale liberazione, analogamente al riscatto operato da Dio per il suo popolo in Egitto, viene chiamata Redenzione,suggellata nel sacrificio di Cristo sulla croce. (P. Rossano, « Lettere ai Corinzi »)

Tutti: O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti, chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì che abbia a riceverne il contraccambio? Poiché da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen.

Preghiera finale Padre, donami occhi che siano capaci di vedere Cristo; orecchi che capiscano la sua parola; un cuore che sia commosso dal suo amore, e insegnami a porre fidente la mia mano nella sua. Cristo è la « luce del mondo », ma anche il « segno di contraddizione ». E lo è per ciascuno di noi. Tutti siamo in pericolo di scandalo! Tocca tu il nostro intimo e sveglia in noi il buon volere, affinché possiamo sostenere la prova. Insegnami a conoscere il segreto della redenzione. Fammi intuire che cosa comanda la fede. Nell’incontro col tuo Figlio Gesù Cristo rinnovami! Spirito Santo, donami il coraggio che si rallegra del divino rischio perennemente ricominciante e si perfeziona attraverso tutte le intenzioni. (Romano Guardini)

16 FEBBRAIO 2014 – 6A DOMENICA T.O. : « AVETE INTESO CHE FU DETTO AGLI ANTICHI… MA IO VI DICO… »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/5-Ordinario-A-2014/Omelie/06a-Domenica-A/12-6aDomenica-A-2014-SC.htm

16  FEBBRAIO 2014 | 6A DOMENICA A | TEMPO ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO+

« AVETE INTESO CHE FU DETTO AGLI ANTICHI…  MA IO VI DICO… »

C’è un’ideale continuità fra le varie letture di questa Domenica, incentrata sulla tematica della « legge » e dei diversi « comandamenti » che la esprimono, e che Gesù non è venuto ad abolire, ma a completare: « Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento » (Mt 5,17). È proprio vero allora, come sostengono alcuni, che « vangelo » e « legge » sono antitetici? O non piuttosto è vero che anche la « legge » può e deve diventare « vangelo »?

« Beato l’uomo che cammina nella legge del Signore » Il tema della « legge » è esplicito nel canto responsoriale, che riporta alcuni versetti del Salmo 119, il quale è tutto una commossa esaltazione della rivelazione divina, espressa in ognuna delle 22 strofe che lo compongono con otto termini alternati, più o meno equivalenti: legge, testimonianza, precetto, comando, promessa, parola, giudizio, via. Non è un generico moralismo quello che viene proposto, né un ideale vagamente stoico che fa affidamento solo sulla ferrea volontà dell’uomo per realizzare i suoi traguardi, ma una meditazione « sapienziale » sulle esigenze della volontà di Dio e soprattutto una invocazione per un « di più » di « intelligenza » e di buon volere, sia per contemplare le « meraviglie » della legge, sia per « farla » e « custodirla » nel proprio cuore. La prima lettura, poi, propone alcune riflessioni del libro del Siracide sulla « radice » stessa della moralità, che si basa sul libero arbitrio. La « legge » non avrebbe senso se l’uomo non fosse libero: egli è grande anche quando sbaglia, perché compie un gesto autonomo, personale, anche se questo lo conduce alla « morte ». Però è una « morte » che si costruisce con le proprie mani! È questa una « tragica » grandezza; ma che differenzia radicalmente l’uomo da una pietra, da un minerale, da un animale, che hanno pure le loro « leggi », che essi però seguono per fatalità connaturata al loro stesso essere. « Se vuoi, osserverai i comandamenti; l’esser fedele dipenderà dal tuo buonvolere. Egli ti ha posto davanti il fuoco e l’acqua; là dove vuoi stenderai la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte; a ognuno sarà dato ciò che vorrà… » (Sir 15,16-18). La « morte » e la « vita » non sono qui tanto concetti fisici quanto « etici »: la « vita », infatti, sta a significare la comunione con Dio, l’accettazione della sua « legge », che permette all’uomo di realizzarsi secondo il progetto divino; la « morte », invece, è il rifiuto di questa progettazione, e perciò una forma di fallimento, un non-senso della propria esistenza. È evidente perciò che la grandezza più vera dell’uomo consiste nel saper scegliere la « vita ». Qui soprattutto egli è artefice di se stesso, sia pure sempre subordinatamente al disegno di Dio: « Egli non ha comandato a nessuno di essere empio e non ha dato a nessuno il permesso di peccare » (v. 20).

« Interiorizzare » la legge Il brano di Vangelo è piuttosto lungo (Mt 5,17-37), ma la seconda parte (vv. 21-37) in pratica ribadisce, con esemplificazioni diverse, lo stesso concetto: la « legge » ha valore soltanto nella misura in cui viene « interiorizzata », colta cioè nella sua ispirazione di fondo, che è quella di trasformare l’uomo nei suoi rapporti con gli altri. Finché il comandamento del « non uccidere » non si trasformerà in quello positivo di « amare », io continuerò a uccidere il fratello dentro il mio cuore; finché il comandamento del « non spergiurare » non si trasformerà in quello dell’essere « leale » e sincero fino a rendere trasparenti i miei stessi pensieri, io continuerò egualmente ad essere spergiuro. E così si dica di tutti gli altri precetti. Quello che conta non è la « materialità » o, come si dice, la « lettera », ma lo spirito che « vivifica » la « legge » e la fa diventare espressione spontanea di bontà, di sincerità, di comprensione fraterna, di obbedienza, di fedeltà a Dio e agli uomini. A questo punto la « legge » è già diventata « vangelo », cioè « grazia », perché agisce dall’interno, in virtù dello Spirito, quasi per moto spontaneo!

« Non sono venuto per abolire, ma per dare compimento » Ma cerchiamo adesso di analizzare questo tratto così significativo del discorso della Montagna, che nella sua quasi totalità contiene materiale esclusivo di Matteo. La prima parte (vv. 17-19) vuol far vedere la « continuità » fra Antico e Nuovo Testamento, in polemica contro alcuni cristiani che formavano la comunità a cui si rivolge Matteo, provenienti forse dal mondo ellenistico, e che ritenevano del tutto superata l’antica « legge » con la venuta di Cristo. Egli, al contrario, dichiara di non essere « venuto per abolire, ma per dare compimento (in greco pler&hibar;osai) ». Il « compimento » si può intendere sia nel senso di « perfezionamento », come dimostreranno le successive contrapposizioni, sia nel senso che ormai l’Antico Testamento assume il suo « pieno » significato in Cristo, come insegnerà Paolo: « Fine della legge è Cristo » (Rm 10,4). Sia nell’un senso che nell’altro è vero quanto dice Gesù: « In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà della legge neppure un iota o un segno,1 senza che tutto sia compiuto » (v. 18). Si noti la solennità con cui si esprime qui Gesù: « la Legge e i Profeti », espressione sintetica per indicare tutto l’Antico Testamento, avranno la stabilità del « cielo » e della « terra », proprio perché in essi si è rivelata e continua a rivelarsi la volontà di Dio. Di qui l’invito a osservarli « scrupolosamente » e anche a « insegnarli » agli altri, per non essere esclusi dal « regno » (v. 19).

« Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei » Se non esiste rottura con il passato, questo non significa, però, che la continuità si riduca a mera ripetizione; tanto più che con Gesù di Nazaret è entrata nel mondo la misura nuova della « giustizia » (dikaios´yne), cioè della interpretazione e dell’adempimento della « volontà » del Padre che sta nei cieli. Perciò egli aggiunge subito la frase: « Ma io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli » (v. 20). Questo versetto fa da ponte alla seconda parte del brano (vv. 21-37), in cui per sei volte consecutive si fa un confronto serrato fra la giustizia « superiore », introdotta da Cristo, e quella « antica », come la interpretavano gli scribi e i farisei. In questo brano quasi certamente Matteo polemizza con un’altra parte di cristiani che formavano la sua comunità, provenienti dall’ambiente giudaico: essi dovevano ritenere « perfetto » l’Antico Testamento con la minuziosità delle sue norme; al massimo, per loro, Gesù era un grande « maestro » che poteva « interpretare » la « legge », ma non proporne una nuova. Invece Matteo intende dimostrare che Gesù si presenta qui come un « nuovo » Mosè, superiore a quello che ci ha trasmesso la legislazione del Sinai. Difatti, ne corregge alcuni precetti e soprattutto parla a nome proprio, mentre Mosè parlava solo a nome di Dio. È impressionante quel continuo ritornello: « Avete inteso che fu detto agli antichi… Ma io vi dico » (vv. 21.27.33.38.42). Più che maestro, perciò, egli è « rivelatore » e « profeta », che porta agli uomini il messaggio definitivo della salvezza. In tutto il discorso della Montagna, ma soprattutto in queste così martellanti contrapposizioni, Gesù manifesta la sua lucida coscienza messianica.2 A differenza degli scribi e dei farisei, che con le loro sottili casistiche stemperavano il senso della « legge », Gesù ne riscopre il significato primordiale che afferra tutto l’uomo, esteriorità e interiorità, per farne in ogni momento della sua esistenza e in ogni suo gesto, o pensiero, o sentimento, una perfetta « epifania » della volontà di Dio. Gesù in tal modo « rigorizza » la legge, ma nello stesso tempo ne « facilita » l’adempimento perché la porta ad essere autentico specchio dell’uomo e non una maschera, che permette di essere sempre diverso da quello che uno può apparire all’esterno.

« Avete inteso che fu detto agli antichi: « Non uccidere »" Le esemplificazioni che seguono voglio essere la dimostrazione concreta di come Gesù intende ricomporre l’uomo, partendo dall’equilibrio interiore. Esse si riferiscono al quinto, al sesto e in parte al secondo comandamento facendo vedere come tali comandamenti abbiano senso soltanto se riportati alla radice intima, donde sgorga la moralità umana, cioè il « cuore ». « Avete inteso che fu detto agli antichi: « Non uccidere »; chi avrà ucciso sarà sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna » (vv. 21-22). È facile notare la progressione nella pena: dalla condanna nel tribunale locale (« giudizio »), o nazionale (« sinedrio »), si arriva sino alla punizione del fuoco dell’inferno (« geenna »). E ciò non in base a un effettivo gesto di uccisione, ma solo a un sentimento interiore di collera, o ad espressioni offensive solamente verbali. Il che significa due cose: primo, che il bene e il male stanno nel cuore dell’uomo; secondo, che è già un « uccidere » il fratello quando si cerca di squalificarlo o di denigrarlo nella propria o nell’altrui reputazione. Infatti, non accettarlo per quello che è realmente, significa toglierlo dal nostro circuito di rapporti affettivi, considerarlo come già morto. Si capisce perciò l’invito di Gesù a « riconciliarci » con il fratello offeso, o offensore, prima di « offrire » il proprio sacrificio: « Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono » (vv. 23-24). Anche qui tutto è riportato all’interiorità: il « sacrificio » vero consiste nell’amore e nel perdono, che sono sentimenti profondi che possono nascere solo dal « cuore » dell’uomo.

« Avete inteso che fu detto: « Non commettere adulterio »" La seconda e la terza esemplificazione riguardano ambedue il caso dell’adulterio, che deve essere colpito anch’esso alla radice, cioè là dove nascono i cattivi desideri, gli insani ribollimenti delle passioni, le brame adulterine che già si esprimono negli sguardi curiosi o provocanti: « Avete inteso che fu detto: « Non commettere adulterio »; ma io vi dico: Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già compiuto adulterio con lei nel suo cuore » (vv. 27-28). Al di là della soglia del desiderio, l’adulterio viene colpito anche nella sua occasione concreta, che era fornita dalla stessa legislazione mosaica, la quale consentiva il « ripudio » della propria moglie in alcuni casi (cf Dt 24,1; Ml 2,14-16). Perciò Gesù dichiara solennemente: « Chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all’adulterio; e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio » (v. 32). Il « libello di ripudio » in realtà equivaleva a un adulterio già consumato, o comunque sempre consumabile da parte di ognuno dei due partners. Qui Gesù, più che correggere, abolisce la legge mosaica, considerandola fomentatrice di adulterio per il solo fatto di « permetterlo » in alcuni casi. Pur ribadendo l’assoluto primato dell’interiorità, Gesù riconosce una funzione « pedagogica » alla legge codificata: quando invece questa rinuncia alla sua finalità educativa e legittima le cattive tendenze degli uomini o la loro degradazione spirituale, è chiaro che la legge non ha più nessun significato ed è bene riformarla perché non diventi non solo complice, ma addirittura legittimatrice del male.

« Avete inteso che fu detto agli antichi: « Non spergiurare »" L’ultima esemplificazione, che mette a confronto la nuova « giustizia » con quella dell’Antico Testamento, è relativa al giuramento: « Avete anche inteso che fu detto agli antichi: « Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti ». Ma io vi dico: Non giurate affatto; né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello per i suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re… Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal Maligno » (vv. 33-35.37). Contrariamente a quanto può sembrare, il giuramento è un atto di sfiducia verso il prossimo: perché ci si fida poco dell’altro, si interpone il « nome » di Dio come garante delle affermazioni o degli impegni che si accettano reciprocamente. Infatti in una comunità di credenti, il « nome » di Dio dovrebbe essere definitivo e vincolante. Ma se si ha l’animo sleale verso il fratello, basterà una mera formula di giuramento per sentirsi vincolati da quello che diciamo con le parole, ma non con il cuore? O non piuttosto si diventerà doppiamente spergiuri: verso Dio e verso i fratelli? Proprio per evitare questa possibilità di « doppio » spergiuro, Gesù invita a « non giurare affatto » (v. 34). Anche qui egli propone di andare alla radice delle cose: poiché la falsità nasce dalla tendenza dell’uomo a dissociarsi interiormente, Gesù esige dai suoi discepoli la fedeltà a se stessi: ciò che è sulle nostre labbra, sia anche nel nostro cuore, si tratti del « sì », o si tratti del « no ». Quello che si aggiunge « in più » alle nostre parole, per dar loro maggiore credibilità, viene « dal Maligno » (v. 37), cioè da Satana, che è « menzognero e padre della menzogna » (Gv 8,44) fin da principio.

« Beatitudini » e « giustizia » nuova Qualcuno avrà notato che queste quattro contrapposizioni, intese a mettere in evidenza lo spirito nuovo con cui il cristiano deve adempiere le esigenze della « legge », sono la traduzione in atto di due delle « beatitudini »: gli « operatori di pace » sono coloro che non solo « non uccidono », ma neppure dicono « stupido » o « pazzo » al fratello, proprio perché vogliono realizzare la grande « riconciliazione » di tutti gli uomini fra loro, con la creazione e con Dio; i « puri di cuore » sono coloro che hanno il cuore e la mente limpidi e perciò non sono doppi nel loro linguaggio (« sì, sì; no, no »), e tanto meno nutrono inconfessati desideri di fornicazione o di « adulterio » verso la prima donna che incontrano. La « giustizia » superiore predicata da Cristo si muove dunque nell’ambito delle « beatitudini » e ne è una espressione coerente. Proprio per questo essa non è un’imposizione legalistica, ma un « dono » e un supplemento di buona volontà e di amore, che egli fa a chiunque « desideri » vivere la novità evangelica. A questo punto ci rendiamo ancor meglio conto che la « legge », che Cristo è venuto a « perfezionare », non ha più nulla in comune con il legalismo, e neppure con il tradizionale « moralismo », ma è già « grazia ». Il Vangelo ha le sue esigenze, rigorosissime e scarnificanti, fino al punto di farci paura: ma ci dà anche la forza di attuarle mediante la « grazia » che sempre ci soccorre in Cristo.

« Parliamo di una sapienza divina, misteriosa… » In questa prospettiva si muove la seconda lettura, dove Paolo parla del Vangelo come di una « sapienza misteriosa che è rimasta nascosta e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria » (1 Cor 2,7). Soltanto quelli che si affidano alla forza dello Spirito possono farne esperienza e penetrarla. Solo perché abbiamo il « dono » dello Spirito (cf Rm 8,2-4) possiamo compiere le opere della « legge » propostaci da Cristo. « Quando Dio istruisce non con la lettera della legge, ma con la grazia dello Spirito Santo, lo fa in maniera che colui che si degna di istruire, non solo conosca perfettamente, ma ancora voglia sinceramente adempiere e adempia effettivamente ciò che ha imparato. Questo insegnamento non viene in aiuto alla sola facoltà naturale di volere, ma alla volontà stessa e all’opera della volontà »

Da: CIPRIANI S.,

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 14 février, 2014 |Pas de commentaires »

Martiri di Abitene

Martiri di Abitene dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/immagini/?mode=view&album=92140&pic=92140.JPG&dispsize=Original&start=0

Publié dans:immagini sacre |on 13 février, 2014 |Pas de commentaires »

MERCOLEDÌ 12 FEBBRAIO : SS. MARTIRI (49) DI ABITENE, ODIERNA TUNISIA († 304)

http://www.vangelodelgiorno.org/main.php?language=IT&module=saintfeast&localdate=20140212&id=3979&fd=0

(la memoria (facoltativa) è di ieri, ma non riesco a fare tutto quello ceh vorrei)

MERCOLEDÌ 12 FEBBRAIO : SS. MARTIRI (49) DI ABITENE, ODIERNA TUNISIA († 304)

« Sine dominico non possumus »   Da chi e perché è stata pronunciata questa frase e quale significato profondo è racchiuso nel termine latino dominicum,  da spingere i martiri ad affrontare la morte piuttosto che rinunciarvi? Sono interrogativi che non si possono eludere se non si vuole ridurre questa espressione ad un incomprensibile slogan.  Abitene era una città della provincia romana detta Africa proconsularis, nell’odierna Tunisia, situata, secondo un’indicazione di S. Agostino, a sud ovest dell’antica Mambressa, oggi Medjez el–Bab, sul fiume Medjerda. Nel 303 d.C. l’imperatore Diocleziano, dopo anni di relativa calma, scatena una violenta persecuzione contro i cristiani ordinando che “si dovevano ricercare i sacri testi e santi Testamenti del Signore e le divine Scritture, perché fossero bruciati; si dovevano abbattere le basiliche del Signore; si doveva proibire di celebrare i sacri riti e le santissime riunioni del Signore” (Atti dei Martiri, I).  Ad Abitene un gruppo di 49* cristiani, contravvenendo agli ordini dell’Imperatore, si riunisce settimanalmente in casa di uno di loro per celebrare l’Eucaristia domenicale. È una piccola, ma variegata comunità cristiana: vi è un senatore, Dativo, un presbitero, Saturnino, una vergine, Vittoria, un lettore, Emerito… Sorpresi durante una loro riunione in casa di Ottavio Felice, vengono arrestati e condotti a Cartagine davanti al proconsole Anulino per essere interrogati. Al proconsole, che chiede loro se possiedono in casa le Scritture, i Martiri confessano con coraggio che “le custodiscono nel cuore”, rivelando così di non voler distaccare in alcun modo la fede dalla vita. Il loro stesso martirio si trasforma in una liturgia “eucaristica”; tra i tormenti, infatti, si possono ascoltare dalle labbra dei Martiri espressioni come queste: « Ti prego, Cristo, esaudiscimi. Ti rendo grazie, o Dio… Ti prego, Cristo, abbi misericordia ». La loro preghiera è accompagnata dall’offerta della propria vita e unita alla richiesta di perdono per i loro carnefici.  Tra le diverse testimonianze, significativa è quella resa da Emerito. Questi afferma, senza alcun timore, di aver ospitato in casa sua i cristiani per la celebrazione. Il proconsole gli chiede: “Perché hai accolto nella tua casa i cristiani, contravvenendo così alle disposizioni imperiali? ”. Ed ecco la risposta di Emerito : « Sine dominico non possumus »; non possiamo, cioè, né essere né tanto meno vivere da cristiani senza riunirci la domenica per celebrare l’Eucaristia. Il termine dominicum racchiude in sé un triplice significato. Esso indica il giorno del Signore, ma rinvia anche, nel contempo, a quanto ne costituisce il contenuto: alla Sua resurrezione e alla Sua presenza nell’evento eucaristico.  Questi 49 (*) martiri di Abitene hanno affrontato coraggiosamente la morte, pur di non rinnegare la loro fede nel Cristo risorto e non venir meno all’incontro con Lui nella celebrazione eucaristica domenicale. Perché? non certamente per la sola osservanza di un “precetto” – visto che solo in seguito la Chiesa stabilirà il precetto festivo. Allora, perché? Perché i cristiani, fin dall’inizio, hanno visto nella domenica e nell’Eucaristia celebrata in questo giorno un elemento costitutivo della loro stessa identità. È quanto emerge con chiarezza dal commento che il redattore degli Atti dei martiri fa alla domanda rivolta dal proconsole al martire Felice: “Se sei cristiano non farlo sapere. Rispondi piuttosto se hai partecipato alle riunioni”. Ed ecco il commento: «Come se il cristiano potesse esistere senza celebrare i misteri del Signore o i misteri del Signore si potessero celebrare senza la presenza del cristiano! Non sai dunque, satana, che il cristiano vive della celebrazione dei misteri e la celebrazione dei misteri del Signore si deve compiere alla presenza del cristiano, in modo che non possono sussistere separati l’uno dall’altro? Quando senti il nome di cristiano, sappi che si riunisce con i fratelli davanti al Signore e, quando senti parlare di riunioni, riconosci in essa il nome di cristiano».  Il proconsole Anulino, al termine della giornata impiegata per gli interrogatori, 12 febbraio 304, e constatato la loro professione di fede cristiana, li fece rinchiudere in carcere. Negli Atti non è riportato come morirono, ma sembra che siano stati alcuni giustiziati, altri morti di fame e torture nel carcere, comunque in tempi diversi.  Alla luce della testimonianza dei martiri di Abitene acquista maggiore forza quanto scrivono i Vescovi italiani negli Orientamenti pastorali: «Ci sembra fondamentale ribadire che la comunità cristiana potrà essere una comunità di servi del Signore soltanto se custodirà la centralità della domenica, “giorno fatto dal Signore” (Sal 118,24), “Pasqua settimanale”, con al centro la celebrazione dell’Eucaristia, e se custodirà nel contempo la parrocchia quale luogo – anche fisico – a cui la comunità stessa fa costante riferimento» (CVMC 47).   (*) I nomi dei 49 SS. martiri, secondo il Martirologio Romano (Ed. 2004 p.198), sono: Saturnino, sacerdote, con i suoi quattro figli, cioè Saturnino il giovane e Felice, lettori, Maria e Ilarione, un ragazzo; Dativo, o Sanatore, Felice; un altro Felice, Emerito e Ampelio, lettori; Rogaziano, Quinto, Massimiano o Massimo, Telica o Tazelita, un altro Rogaziano, Rogato, Gennaro, Cassiano, Vittoriano, Vincenzo, Ceciliano, Restituta, Prima, Eva, ancora un altro Rogaziano, Givalio, Rogato, Pomponia, Seconda, Gennara, Saturnina, Martino, Clauto, Felice il giovane, Margherita, Maggiore, Onorata, Regiola, Vittorino, Pelusio, Fausto, Daciano, Matrona, Cecilia, Vittoria vergine di Cartagine, Berettina, Seconda Matrona, Gennara.

Fonte principale: chiesacattolica.it (“RIV./gpm”).

 

L’ELMO DELLA SALVEZZA

http://camcris.altervista.org/medelmo.html

L’ELMO DELLA SALVEZZA

da uno scritto di Giacinto Butindaro

« Rivestitevi della completa armatura di Dio, affinché possiate star saldi contro le insidie del diavolo; il nostro combattimento infatti non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti. Perciò prendete la completa armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio, e restare in piedi dopo aver compiuto tutto il vostro dovere. State dunque saldi: prendete la verità per cintura dei vostri fianchi; rivestitevi della corazza della giustizia; mettete come calzature ai vostri piedi lo zelo dato dal vangelo della pace; prendete oltre a tutto ciò lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infocati del maligno. Prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio; pregate in ogni tempo, per mezzo dello Spirito, con ogni preghiera e supplica » (Efesini 6:11-18).

Abbiamo letto: « Prendete anche l’elmo della salvezza » (verso 17). Siccome l’elmo, il soldato se lo mette sul capo, e Paolo dice che dobbiamo prendere « per elmo la speranza della salvezza » (1 Tess. 5:8), noi credenti, che abbiamo creduto al Vangelo di Cristo, ci dobbiamo armare di questo pensiero, e cioè che noi siamo stati salvati in speranza. Ora, fermo restando che noi che abbiamo creduto siamo stati salvati dai nostri peccati ed abbiamo la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore rimane il fatto che ancora non abbiamo ottenuto « la redenzione del nostro corpo » (Rom. 8:23); questa è la ragione per cui noi diciamo di aspettare quella che Paolo chiama « la piena redenzione di quelli che Dio s’è acquistati » (Ef. 1:14), la quale sarà manifestata quando il nostro Signore Gesù apparirà dal cielo. È proprio così fratelli; per questo noi figliuoli di Dio in questa tenda, che è la nostra dimora terrena, « gemiamo » (Rom. 8:23), perchè desideriamo che ciò che è mortale (il nostro corpo) sia sopravvestito della nostra abitazione che è celeste. Noi sappiamo che questo nostro buon desiderio sarà esaudito alla risurrezione dei giusti, quando al suono della tromba di Dio i morti in Cristo risusciteranno ed i santi che saranno trovati viventi saranno mutati in un batter d’occhio per andare insieme ai risorti ad incontrare il Signore nell’aria. Quello è il giorno della nostra salvezza che noi vediamo avvicinarsi in gran fretta e che abbiamo speranza di vedere. È vero che quando parliamo della nostra redenzione parliamo di qualche cosa che non vediamo ma d’altronde non può essere altrimenti perchè « la speranza di quel che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perchè lo spererebbe egli ancora? » (Rom. 8:24); ma noi abbiamo la fede che Dio ci ha dato, la quale è certezza di cose che si sperano, e sorretti da questa fede, con la pazienza prodotta dalle nostre afflizioni e mediante la consolazione delle Scritture noi aspettiamo ciò che non vediamo, sicuri che il Signore Gesù ci salverà dall’ira a venire quando in quel giorno verrà con gli angeli della sua potenza a prendere tutti i suoi eletti, per portarci nel cielo. Per entrare nel Paradiso di Dio dobbiamo possedere un corpo immortale ed incorruttibile perchè « carne e sangue non possono eredare il regno di Dio » (1 Cor. 15:50), e per ottenerlo dobbiamo aspettare quel giorno: Dio ha stabilito così, è il suo disegno, quindi fratelli continuiamo ad attendere il Signore perchè di certo Egli al tempo fissato da Dio apparirà dal cielo « a quelli che l’aspettano per la loro salvezza » (Ebr. 9:28) e ci darà un corpo glorioso e potente con il quale potremo ereditare il Regno eterno del nostro Signore Gesù Cristo.

Publié dans:Lettera agli Efesini |on 13 février, 2014 |Pas de commentaires »

Icona Copta di Cristo

Icona Copta di Cristo dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 12 février, 2014 |Pas de commentaires »

RICERCA DI DIO (IL BAAL SHEM)

http://www.donboscoland.it/articoli../articolo.php?id=123968

RICERCA DI DIO (IL BAAL SHEM)

(da Wikipedia: Ba’al Shem Tov, Israel ben Eliezer in ebraico …, Yisroel ben Eliezer – meglio noto come Ba’al Shem Tov (Podolia, 1698 – Medžybiž, 1760) è stato un rabbino e mistico polaccomistico religioso. Noto anche con il nome di Besht (acronimo ebraico di Baal Shem Tov), per la sua reputazione di guaritore itinerante, fu il fondatore del movimento ebraico del Chassidismo[2] moderno: l’appellativo Baal Shem Tov significa infatti Maestro del nome di Dio.)

Dio vuole essere cercato, e come potrebbe non voler essere trovato?…l’uomo e il suo mondo sono la sfera di interesse di Dio, che la rivelazione di Dio precede e fonda la conoscenza che l’uomo può avere di Lui… «Dio vuole essere cercato, e come potrebbe non voler essere trovato? Il nipote di R. Baruch, il quale era a sua volta nipote del Baal Shem, giocava una volta a rimpiattino con un altro ragazzo. Egli si nascose e stette lungo tempo là ad attendere, credendo che il compagno lo cercasse e non riuscisse a trovarlo. Ma dopo che ebbe aspettato a lungo, uscì fuori, e non vedendo più quell’altro, capì che costui non l’aveva mai cercato. E corse nella camera del nonno, piangendo e gridando contro il cattivo compagno. Con le lacrime agli occhi R. Baruch disse: “Lo stesso dice anche Dio”». Dio vuole essere cercato, dice questa storiella chassidica. Oggi, altre storie e altre lacrime, sempre ebraiche, pongono in modo differente la questione della ricerca di Dio: sono le storie e le lacrime sgorgate da quell’abisso di male rappresentato da Auschwitz. Scrive Elie Wiesel: «Dio e Auschwitz non vanno insieme. Non accetto e reclamo, esigo una risposta… Dio nel male? In quale male? E Dio nella sofferenza? In quale sofferenza? lo non so. Non ho risposta. Cerco sempre». E accanto ad Auschwitz, prima e dopo, gli altri genocidi, gli altri sterminii, le sofferenze degli innocenti, di milioni di uomini ovunque nel mondo, pongono in modo tragicamente rinnovato la domanda «dov’è Dio?». Nel conflitto con il male che si gioca nella storia Dio sembra soccombere, e nettamente! E tutto questo non può non dare un orientamento particolare al modo di interrogarsi oggi sulla ricerca di Dio, su quel quaerere Deum che è sempre stato uno dei temi più significativi e importanti della spiritualità cristiana. Anzi, tutto questo arriva a porre in radicale questione i termini dell’argomento: quale ricerca? e di quale Dio?

La Scrittura attesta l’indiscutibile priorità della ricerca che Dio fa dell’uomo, afferma che l’uomo e il suo mondo sono la sfera di interesse di Dio, che la rivelazione di Dio precede e fonda la conoscenza che l’uomo può avere di Lui. Ovviamente non si tratta tanto di una priorità cronologica, perché il problema di Dio è inscritto nell’uomo stesso, nelle domande che egli porta su di sé e sul senso della propria vita e del mondo. Pertanto, domanda su Dio e domanda sull’uomo sono naturalmente unite. Le grandi tradizioni religiose hanno sempre affermato l’inscindibilità delle due questioni: non solo i tre monoteismi, ma anche la religione grecoromana, la cui linfa è stata assorbita dalle nostre radici di europei occidentali. L’uomo che si recava al tempio di Apollo a Delfi per consultare l’oracolo si vedeva rimandato a se stesso dall’iscrizione posta sul frontone del tempio: «Conosci te stesso». Riproporre oggi questa tematica implica il rendersi conto della drammaticità assunta da questa doppia domanda: alla figura del filosofo cinico Diogene che in pieno giorno si aggira per le strade di Atene con una lanterna gridando: «Cerco un uomo! », si sovrappone la figura del pazzo nietzschiano che, anch’egli in pieno giorno e munito di lanterna, grida sulla pubblica piazza: «Cerco Dio!», e rivela a chi lo deride che Dio è morto, è stato assassinato dall’uomo, e celebra il funesto evento entrando in una chiesa e intonando un Requiem aeternam Deo. E risponde a chi lo interroga: «Che altro sono ancora le chiese se non le tombe e i monumenti funebri di Dio?». Ma, osservava giustamente M. Foucault, «più che la morte di Dio, ciò che annuncia il pensiero di Nietszche è la morte del suo assassino, cioè dell’uomo». Nell’attuale clima culturale nichilista, di secolarizzazione della secolarizzazione, l’uomo contemporaneo «è non solo senza Dio, ma anche senza l’uomo» (C. Geffré). Egli si muove smarrito nell’assenza di certezze, respira un assurdo caratterizzato non tanto dal non-senso, quanto dall’isolamento degli innumerevoli sensi, dall’assenza di un senso che li orienti, dalla mancanza del senso del senso, come ricordava Lévinas. Sintomatico di questo smarrimento di sé tipico dell’uomo contemporaneo è il tanto conclamato «ritorno di Dio», visibile dietro ai fenomeni di ritorno del sacro, dietro al fiorire di sètte, movimenti sincretistici, aggregazioni varie, dietro al diffondersi di sensibilità e atteggiamenti spirituali in cui Dio è immediatamente trovato, più che cercato, in un divino impersonale, nella fusione con l’Oceano dell’Essere, nell’evasione verso il taumaturgico, nella preghiera ridotta a ingiunzione a Dio affinché soddisfi il bisogno umano. Tutto questo ci dice che oggi ricerca di Dio dev’essere anche ricerca e approfondimento dell’umano, ricerca di ciò che è veramente umano, capacità di ridestare l’umanità là dove è assopita. li Dio rivelato dalle Scritture ebraico-cristiane non ha infatti altri luoghi in cui essere cercato se non la storia e la carne umana, l’umanità. Storia e carne umana che sono anche i due ambiti abitati da Dio nell’incarnazione per andare incontro all’uomo, alla sua ricerca, e consentire così all’uomo di trovarlo. E non dimentichiamo che Dio non lo si possiede nemmeno quando lo si conosce: «Si comprehendis, non est Deus» scrive Agostino; cioè, «se pensi di averlo compreso, non è più Dio». La categoria della ricerca salvaguarda la distanza fra cercatore e Cercato: distanza essenziale perché il Cercato non è oggetto, ma è anch’egli soggetto, anzi è il vero soggetto, in quanto è colui che per primo ha cercato, chiamato, amato, suscitando così, come risposta alla sua iniziative, la ricerca e il desiderio dell’uomo. L’atteggiamento di ricerca implica l’atteggiamento fondamentale dell’umiltà, grazie alla quale soltanto può fondarsi il rapporto con l’altro. Cercare Dio significa deporre le presunzioni di autosufficienza, smettere di pensare di essere i detentori della verità, cessare di considerarsi superiori agli altri. Ricerca di Dio, allora, significa anche cercarlo nell’altro che abbiamo di fronte, confessarlo come non estraneo all’altro.

(L’autore) Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità – autore: Enzo Bianchi

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 12 février, 2014 |Pas de commentaires »
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