IL TESTAMENTO DI PAOLO: UN PROGRAMMA DI VITA PER OGNI APOSTOLO – .At 20,17- 35
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IL TESTAMENTO DI PAOLO: UN PROGRAMMA DI VITA PER OGNI APOSTOLO.
At 20,17- 35
Da Mileto, Paolo mandò a chiamare subito ad Efeso i presbiteri della Chiesa. Quando essi giunsero disse loro: «Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù. Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio (la diakonia) che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al vangelo della grazia di Dio. Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio. Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come custodi (vescovi “episcopoi”) a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni ad insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi.
Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l’eredità con tutti i santificati.
Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia (makarion) nel dare che nel ricevere!».
Appunti per la lectio
Il discorso d’addio di Paolo si rifà al testamento di Giacobbe (Gen 47,29-50); di Mosè (Dt 31-34); di Gesù (Gv 13-17); e soprattutto di Samuele, di cui si riportano alcune frasi (1Sam 12,1-4).
È il terzo grande discorso di Paolo negli Atti:
- Il primo rappresentava la sua predicazione davanti ai Giudei (c. 13),
- il secondo la sua predicazione davanti ai pagani (c. 17);
- il terzo costituisce il suo testamento pastorale (c. 20).
Paolo raccomanda agli anziani di Efeso – e attraverso loro a tutti i pastori delle Chiese – vigilanza, disinteresse e carità. Atteggiamenti che acquistano maggior valore dagli stessi esempi dell’Apostolo, del quale il discorso ci offre uno splendido profilo.
Paolo, modello di ogni ministro nella Chiesa
L’Apostolo, in tutto il suo impegno ministeriale e pastorale per le sue Comunità, non pretende altro che “servire il Signore” Gesù Cristo (cf. Rm 1,1; Fil 1,1; Gal 1,10). Questa “diakonia” implica un atteggiamento di obbedienza estrema verso Dio e una disponibilità assoluta verso i fratelli per i quali si svolge il ministero. Per questo va donata “in tutta umiltà”, con la consapevolezza che la propria debolezza (cf. 2Cor 12,9s), accettata davanti a Dio e agli uomini, ci renderà miti e capaci di edificare la fraternità (cf. Fil 2,3).
Ministero sempre difficile
Lo Spirito Santo, non salva il missionario dalle “prove” e dalle persecuzioni, perché queste lo rendono più simile al Cristo (cf. Lc 22,28). All’apostolo non saranno neanche risparmiate lacrime vere, come quelle di cui parla Paolo in 2Cor 2,4 e Fil 3,18, e quelle di Gesù stesso (Eb 5,7).
Senza discriminazioni
Il Vangelo non è dottrina esoterica riservata ad un’élite, esso è annuncio di salvezza universale. L’apostolato è, dunque, impegno e dono per tutti e per ciascuno:
- In ogni forma: annuncio ed istruzione;
- in tutti i modi: pubblico e privato;
- a tutti i destinatari: Giudei e Greci;
- con tutto il contenuto: di conversione e di fede.
Come Paolo, l’evangelizzatore chiederà a tutti di «convertirsi a Dio (come se tutti fossimo ancora pagani) e di credere nel Signor nostro Gesù Cristo (come se ci fossimo fermati alla Legge dei Giudei)». Infatti non c’è fede senza conversione, e la conversione non è possibile senza la fede (cf. l’appello di Gesù in Mc 1,15).
Il pastore buono
I presbiteri che presiedono le Comunità hanno l’impegno di essere “episkopoi”, cioè custodi nella Chiesa (cf. Tt 1,7; 1Tm 3,2). Ma, per coerenza, essi devono prima “vegliare” su se stessi e, solo dopo, su chi è loro affidato. Ricordando che questi sono coloro che Cristo «si è acquistato con il suo sangue» (cf. Ap 5,9s).
I nemici da cui guardarsi perché attentano alla Comunità, sono quei “lupi rapaci” (cf. Mt 7,15; Gv 10,12) che diffondono dottrine perverse (cf. 1Gv 2,19). Ma il più terribile nemico del Vangelo può essere lo stesso evangelizzatore, quando lo strumentalizza il suo ministero per “attirare discepoli dietro sé” e non dietro Cristo! [Confronta, invece, l’atteggiamento di Maria alle nozze di Cana (Gv 2,11)].
Il far memoria dell’atteggiamento di Paolo, diventa incentivo per imitarlo nella sua dedizione pastorale. Con ciò si imita lo stesso Cristo Gesù. Conseguentemente il vero apostolo:
- È un uomo “avvinto dallo Spirito”, strumento docile per portare ovunque la Parola che salva.
- È un fondatore di Chiese che, tuttavia, “non ritiene la propria vita meritevole di nulla”, sentendosi veramente “servo inutile” (Lc 9,24); attento solo ad annunciare Cristo (cf. Fil 1,20).
- È un missionario che, come Cristo, annuncia a tutti “il regno di Dio”, gratuitamente, in modo che a tutti si riveli “il Vangelo della grazia di Dio” (cf. Rm 3,22ss).
Tuttavia, anche il più zelante degli apostoli sa che la salvezza è, prima di tutto, opera di Dio (cf. 1Cor 3,6). Per questo, nel suo testamento, Paolo non affida la Parola ai presbiteri, ma questi alla protezione e alla forza salvifica della Parola. Infatti in essa, Dio stesso opera, salva ed edifica, cioè costruisce, la Chiesa.
La “povertà” paolina
Paolo, con un rimando, quasi letterale al Testamento di Samuele (1Sam 12,3) e a ciò che di se stesso afferma nelle sue lettere (cf. 1Cor 9,11-12), dice di non aver cercato dai suoi discepoli «né argento né oro…». Egli è povero come Pietro e Giovanni che «non hanno né argento né oro, ma solo Cristo» (At 3,6). In più, con l’orgoglio di chi è stato alla scuola del grande Gamaliele, può affermare: «Alle necessità mie e di quelli che erano con me, hanno provveduto queste mie mani»(cf. 2Ts 3,8). Non è soltanto il distacco tutto lucano dalle ricchezze terrene, è anche il bisogno paolino di evitare qualsiasi strumentalizzazione che mettesse in ombra la gratuità dell’impegno apostolico.
Questo comportamento viene assunto dal monachesimo e, specificamente, dalla Regola di san Benedetto, il quale afferma: «Se le esigenze locali o la povertà richiedono che i fratelli si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli, non se ne lamentino, perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle loro mani come i nostri Padri (Antonio, Pacomio) e gli Apostoli» (RB 48,7-8). E, aggiungiamo noi, come Gesù, “il falegname” (Mc 6,3), conosciuto come «il figlio del carpentiere» (Mt 13,55).
Proprio la testimonianza di quella che il Codice di Diritto Canonico, rivolgendosi a noi Religiosi, chiama “povertà operosa”, permette a Paolo di trasmetterci un “agrafon” (un detto di Gesù al di fuori dei Vangeli) che sintetizza bene l’insegnamento sociale del Cristo (cf. Lc 6,30.34-35.38), e l’atteggiamento pastorale di Paolo: «Si è più beati (makarion) nel dare che nel ricevere». Beatitudine che ci assimila a quella «benevolenza del Signore nostro Gesù Cristo, il quale da ricco che era si fece povero per noi, perché noi diventassimo ricchi della sua povertà» (2Cor 8,9).
La povertà è, per Paolo, conseguenza della scelta radicale per il Cristo e il suo Vangelo. Anzi è essa stessa evangelo, perché s’inserisce in quella gratuità propria del “Vangelo della grazia” annunciato dall’Apostolo quale superamento della Legge.
Per noi Consacrati il testamento di Paolo è un’occasione ottima per rivedere il nostro modo di vivere il voto di povertà. Esso non può essere fine a se stesso, né semplice libertà dalle cose, piuttosto, esso deve seguire, come sua conseguenza il voto di castità, l’avere il cuore indiviso per Cristo (cf. 1Cor 7,32-34).
Per l’oratio
Propongo il Salmo 71: la preghiera di un vecchio.
Oppure il Salmo 112: essere trasparenza di Dio.
