1 CORINZI 4,1-5

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1 CORINZI 4,1-5

1 Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. 2 Ora, quanto si richiede negli amministratori è che ognuno risulti fedele. 3 A me però, poco importa di venir giudicato da voi o da un consesso umano; anzi, io neppure giudico me stesso, 4 perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore! 5 Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio.   COMMENTO 1 Corinzi 4,1-5

I ministri di Dio e della comunità Il primo problema che Paolo affronta nella 1Corinzi è quello delle lacerazione presenti nella comunità. Egli afferma anzitutto che esse dipendono dalla ricerca di una sapienza puramente umana (1,18 – 3,4), ma sottolinea anche che un’altra causa sono i rapporti sbagliati che i membri della comunità hanno stabilito con i diversi predicatori che hanno annunziato loro il vangelo (3,5 – 4,21). È quindi importante precisare i rapporti che i corinzi devono avere con essi. Dopo aver delineato il loro ruolo nella comunità (cfr. 3,5-23), Paolo passa a indicare quali sono le condizioni perché questa abbia con loro un rapporto corretto (4,1-13). Egli torna qui a parlare in prima persona plurale, poi passa al singolare e infine ritorna al plurale: di fatto egli parla di se stesso e in una certa misura anche di Apollo, sempre però con l’intenzione di dare indicazioni di carattere più generale. La liturgia riprende la prima parte dell’argomentazione di Paolo, in cui egli sottolinea che i ministri della comunità possono sbagliare ma in forza del loro ruolo, non possono venire giudicati da essa (4,1-5). Anzitutto l’Apostolo ricorda che egli deve essere considerato come «servo (hypêretê, lavoratore sottoposto a un padrone) di Cristo e amministratore (oikonomos) dei misteri (mystêria) di Dio» (v. 1): questi misteri, che gli sono stati conferiti e che egli deve mettere a disposizione della comunità, si identificano con la sapienza di Dio, che è misteriosa, in quanto è nascosta agli occhi dei sapienti di questo mondo ma si è resa visibile in Cristo crocifisso (cfr. 2,1.6-7). Pur parlando di se stesso egli si esprime in prima persona plurale, in quanto intende fare un’affermazione di carattere generale. Da questo principio ricava una conseguenza di carattere generale: dagli amministratori, in quanto prestatori d’opera, non si richiede se non di essere fedeli a colui per il quale lavorano (v. 2). Dopo queste premesse l’apostolo passa a parlare di se stesso in prima persone singolare: per lui ha ben poca importanza il fatto di essere giudicato dai corinzi o anche da un qualsiasi altro tribunale (hêmêra, giorno, in senso traslato) umano, anzi neppure lui si sente autorizzato a giudicare se stesso (v. 3). Il «giudicare» è designato qui con il verbo anakrinô, che significa «sottoporre a inchiesta giudiziaria». Egli rifiuta una procedura di questo tipo non solo se è compiuta da altri, ma ritiene di non essere autorizzato neppure lui ad applicarla a se stesso. Infatti, anche se non si sente consapevole (synoida, da cui deriva syneidêsis, coscienza) di qualcosa, cioè di aver commesso qualche sbaglio nel suo ministero presso di loro, non per questo si ritiene giustificato (dedikaiômai): il verbo dikaioô, che nelle lettere ai Galati e Romani verrà utilizzato per indicare la liberazione dal peccato e il ritorno a Dio mediante la fede (cfr. Gal 2,16, Rm 3,28), qui significa semplicemente (come in Rm 2,13) «essere riconosciuto innocente». Nessun tribunale umano è dunque competente nei suoi confronti: solo Dio è il giudice che, nel momento finale della storia umana, dovrà emettere una sentenza definitiva nei confronti di ogni uomo, e in modo speciale dei suoi ministri (v. 4). Di conseguenza Paolo invita i corinzi a evitare qualunque pre-giudizio: «Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode» (v. 5). Solo Dio potrà giudicare in modo veramente oggettivo, perché è l’unico che possa scrutare l’uomo nel profondo del suo cuore: di fronte a lui infatti non contano le opere esterne, ma le intenzioni più profonde. È significativo però che, parlando del giudizio divino, l’Apostolo menzioni solo il verdetto positivo: a ciascuno verrà la lode (epainos, come in Rm 2,29) da parte di Dio.

Linee interpretative Paolo si mette al riparo da eventuali critiche da parte dei corinzi appellandosi al giudizio finale di Dio. Egli però non intende sottrarre il suo operato a ogni tipo di controllo o a una critica costruttiva da parte della comunità. Ciò che esclude tassativamente è l’atteggiamento di chi, ponendosi al di fuori di una dinamica di partecipazione e di solidarietà, vorrebbe giudicarlo e condannarlo in base a criteri o attese che non hanno nulla a che vedere con quelli che sono i fondamenti e le finalità della comunità stessa. L’annunzio del vangelo dà origine a un’aggregazione di persone che fondano la loro unione esclusivamente su Cristo e sulla salvezza da lui realizzata nella debolezza e nella sofferenza della croce. Su questo punto nessuno può giudicare l’apostolo, ma chiaramente non può neppure giudicare gli altri membri della stessa comunità. In altre parole nessuno deve giudicare gli altri in base alle proprie idee, ai propri interessi personali o di gruppo, alla propria interpretazione del cristianesimo. Questo meccanismo, oltre che tradire la dinamica della salvezza, è la causa principale dei contrasti e delle divisioni che emergono in seno a una comunità. Le molteplici eresie che punteggiano la storia della chiesa lo dimostrano ampiamente. Questo non significa naturalmente che i capi e i singoli membri della comunità siano sottratti al controllo di tutti gli altri. In una comunità questo controllo avviene attraverso la solidarietà reciproca, in forza della quale ciascuno è accolto per quello che è ed è ascoltato fino in fondo, sentendosi così libero di esprimere senza reticenze il proprio punto di vista. Proprio questa possibilità di «dire tutto» (parresia) aiuta le persone a rendersi conto di ciò che portano in sé e in ultima analisi a correggere se stesse. In questo processo un’autorità che viene da Dio e a lui deve rispondere si manifesta essenzialmente nella capacità di creare l’unità di tutti in ciò che riguarda il cammino di fede, salvaguardando al tempo stesso il pluralismo delle forme in cui tale messaggio viene incarnato nella vita di ciascuno. Se ciò non si verifica, la comunità cade inevitabilmente, come si è verificato a Corinto, nella logica dei partiti che si contrappongono e alla fine si escludono a vicenda.

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