Archive pour janvier, 2014

ST. PAUL PRAYER WARRIOR [San Paolo guerriero della preghiera]

http://www.stceciliacalgary.com/reflectionsOnStPaul/StPaul_insert6.htm

ANNO DI SAN PAOLO

ST. PAUL PRAYER WARRIOR

[San Paolo guerriero della preghiera]

(traduzione Google dall’inglese, ho provato, è comprensibile)

Ognuno di noi almeno una volta nella nostra vita ha lottato con la preghiera. Anche gli Apostoli si rivolse a Gesù e disse. « Signore, insegnaci a pregare ». Lc. 11:01 . Gesù risponde con la preghiera che è universale per tutti i cristiani, la preghiera del Signore, o, come noi, come cattolici conosciamo, il Padre Nostro. Come leggiamo attraverso le lettere di St. Paul e dei suoi viaggi missionari registrate negli Atti degli Apostoli vediamo il filo costante della preghiera che attraversa le pagine della Sacra Scrittura. Siamo tutti chiamati alla preghiera. E ‘la linfa vitale del nostro rapporto con Gesù. Senza la preghiera diventiamo spiritualmente impoverito e soggetto alle tentazioni del mondo, la carne e il diavolo. St. Paul ci può insegnare tanto per quanto riguarda la preghiera come la sua vita è stato catturato in Cristo, e quindi tutto quello che faceva e diceva era in risposta a questa profonda relazione con Gesù che è stata alimentata dalla preghiera. Uno dei miei preferiti conti di St. Paul in preghiera può essere trovato in Atti 16: 25 . Paolo e Sila sono stati picchiati e imprigionati in seguito alla liberazione di una giovane donna da uno spirito di divinazione. Leggiamo che, « a mezzanotte, mentre Paolo e Sila, pregando, cantavano inni a Dio come i loro compagni prigionieri ascoltavano, un forte terremoto ha scosso improvvisamente il posto. » Mettiti in questa situazione e fare la domanda. Avrei, dopo essere stato flagellato e picchiato, gettato in una prigione puzzolente, incatenato da catene, essere lodando Dio con la preghiera, cantavano inni? O dovrei essere pieno di autocommiserazione, la rabbia per essere stato ingiustamente imprigionato o dire: « Dio non ti importa di me? » St. Paul e Sila ci danno un esempio di fede e di fiducia assoluta in Dio, non importa quali siano le circostanze che si trovano dentro il risultato è che non solo sono liberati dal carcere, ma il carceriere e tutta la sua famiglia sono convertiti e battezzati che notte stessa. St. Paul in tutta le sue lettere prega incessantemente e intercede per le Chiese che ha stabilito durante i suoi viaggi missionari. Egli è veramente un guerriero preghiera, un intercessore straordinario. Basta leggere Efesini 3:14-21 . « Ecco perché mi inginocchio davanti al Padre da cui ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome, e io prego che egli concederà doni in linea con la ricchezza della sua gloria egli rafforzerà interiormente attraverso il lavoro di. il suo Spirito. maggio Cristo abiti nei vostri cuori per mezzo della fede, e può la carità è la radice e il fondamento della tua vita. Così sarete in grado di cogliere appieno, con tutti i santi, l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo , e l’esperienza questo amore che sorpassa ogni conoscenza, in modo che si può raggiungere la pienezza di Dio stesso. A colui che ora potenza che già opera in noi, può fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare, a lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli. Amen.  » Si inginocchia davanti al Padre pregare non solo con la sua mente e le labbra, ma con tutto il corpo. Egli prega che Dio concederà a noi i doni di cui abbiamo bisogno per servirlo in modo efficace. Egli prega che saremo rafforzati dallo Spirito Santo. Egli prega che saremo fedeli e pieno di amore per l’altro e per conoscere l’amore che Dio ha per ciascuno di noi. Poi, nella gioia alza la sua voce, dando gloria a Dio e concludendo con le Amen. L’affermazione di fede, credo. Durante i restanti mesi di quest’anno dedicate a St. Paul, apriamo nuovamente la Bibbia e preghiera leggiamo queste parole sacre e preghiere di St. Paul in modo che anche noi possiamo essere rafforzati nella fede e crescere nell’amore per Cristo e la sua Chiesa.

Peter Thompson.

St. Paul, prega per noi.

The Angel Called Gabriel Tells Mary: You Are the Mother of God’s Son; Native American Madonnas

The Angel Called Gabriel Tells Mary: You Are the Mother of God's Son; Native American Madonnas dans immagini sacre indianannoun

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Publié dans:immagini sacre |on 29 janvier, 2014 |Pas de commentaires »

L’APOSTOLO PAOLO, ALBERIONE E LA FAMIGLIA PAOLINA (1Cor 9,16) (Gal 2,2)

http://www.alberione.org/beatificazione/beatificazione/programma/anno/26-06bosetti.htm

L’APOSTOLO PAOLO, ALBERIONE E LA FAMIGLIA PAOLINA

“Guai a me se non predicassi il Vangelo” (1Cor 9,16) ma in comunione “per non correre invano” (Gal 2,2)

di sr. Elena Bosetti sgbp – Roma 26 giugno 2003

Cosa dice alla Famiglia Paolina di oggi il fascino che l’apostolo Paolo ha esercitato su don Giacomo Alberione? Cosa significa e comporta per la nostra spiritualità apostolica? E come entrare a nostra volta in questo fascino, come lasciarci coinvolgere dai sentimenti del beato Giacomo Alberione? Parlo di fascino perché a mio avviso si tratta di un singolare incanto, che rapisce il cuore prima ancora della mente. Non si può certo dire che il nostro fondatore fosse un romantico… ma indubbiamente rimase affascinato dall’a­more di Paolo per Gesù Cristo. Che cosa lo avvinceva di san Paolo? Direi il mistico e l’apostolo in massimo grado e in modo reversibile: Paolo mistico e dunque apostolo, apostolo perché mistico. Ecco cosa dice alle Figlie di San Paolo nel 1931: “L’anima apostola della buona stampa è colei che prima di tutto è innamorata di  Dio. E’ quella  che ha lungamente meditato, è un’anima che ha fatto come San Paolo che si è  ritirato per tre  anni nel deserto e ha meditato le cose sante, la vita di Gesù, e fu istruito da Gesù  Cristo stesso… E’ quella che riempie il proprio cuore di fede, di tanta speranza dei beni  eterni; è un’anima  che esercita la povertà, la castità, che esercita l’obbedienza alla Chiesa, ai suoi  pastori; è  un’anima che prima di tutto ha purificato se stessa; è un’anima che riempie il  proprio cuore di  Dio, e poi riempirà il cuore degli altri e otterrà per gli altri la benedizione e  le grazie di  cui ha pieno il cuore. In secondo luogo, l’anima apostola è quella che ama gli altri uomini (…). Vorrebbe  allora  mettersi sulla strada che percorrono tutti e gridare: « non per la via storta, non per  la via larga  che conduce all’inferno; tutti per la via stretta ma che è la via diritta che conduce  al cielo ».  L’anima apostola vorrebbe vuotare l’inferno e riempire il paradiso; vorrebbe  aiutare tutti i  moribondi, vorrebbe aiutare anche tutte le anime che sono in purgatorio, vorrebbe  uscire di  casa, andare per le vie della città, passare per le spiagge, cercare tutti gli uomini  nelle montagne, nelle grotte, andare in Africa, nell’America, nell’Asia e nell’Oceania e  poter dire a tutti: “O uomini, Dio vi attende in cielo…”. Articolo questa riflessione in tre passaggi seguendo il racconto di Paolo nella lettera ai Galati. Lo schema che vorrei sviluppare è il seguente:

1.          Conquistato da Gesù Cristo, Paolo vive di Lui: è tutto preso dalla passione di comunicare il Vangelo. 2.          Paolo non si considera però un libero battitore, né intende “correre invano” nella predicazione del Vangelo. A tale scopo sale due volte a Gerusalemme per incontrare Cefa. La prima volta passa con lui 15 giorni (Gal 1,18): è più che una visita di cortesia! Vi ritorna una seconda volta con Barnaba dopo 14 anni e partecipa all’assemblea di Gerusalemme, il primo concilio della Chiesa. 3.          Il riconoscimento del ministero di Pietro non impedisce in alcun modo l’evangelica franchezza: Paolo ad Antiochia contesta apertamente Cefa, perché “aveva torto” (Gal 2,11-14). Chiedo al beato Giacomo Alberione, nostro padre e maestro, di aiutarmi nell’interpretare il testo biblico in accordo con la sua lettura sapienziale e di concedere a tutti noi la grazia di vivere ciò che lo Spirito ci darà di comprendere. 1. “Guai a me se non predicassi il Vangelo” (1Cor 9,16) Il Paolo che affascina don Alberione è indubbiamente l’apostolo innamorato di Gesù Cristo, che non si preoccupa di consultare nessuno in prima istanza, ma semplicemente di rispondere con tutto l’ardore a Colui che liberamente e gratuitamente gli si è fatto incontro. Ecco cosa dice l’Apostolo nel primo capitolo della lettera ai Galati: “Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco. In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore” (Gal 1,13-19). Fermiamoci un attimo sulla dinamica spirituale sottesa al comportamento di Paolo, così come egli si racconta. Qual è il suo primo atteggiamento quando Dio si compiacque di rivelargli Gesù Cristo? Lo dice chiaramente: non si preoccupò di consultare la gerarchia ecclesiastica, non sentì affatto bisogno o dovere di salire a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di lui… Conquistato dal Cristo, Paolo non si preoccupa di tutelarsi presso gli uomini. Pensa semplicemente a seguire – meglio, a “correre” – dietro Colui che lo ha chiamato. Per conquistarlo a sua volta con piena risposta d’amore. Dalla frequentazione delle Scritture egli ha appreso che bisogna giocare fino in fondo, in maniera diretta e personale il rapporto con Dio che si rivela. Le mediazioni umane hanno indubbiamente il loro valore, ma stanno al secondo posto e lì vanno lasciate. Con buona pace. Il primo passo di Paolo non è di andare da Pietro o da altri, ma di continuare la sua corsa dietro il Cristo che lo conduce anzitutto nel deserto (in Arabia) e poi ancora a Damasco. Gli interessa Gesù Cristo e il suo vangelo. Dunque dalla contemplazione alla missione. Primo e imbattibile nella missione perché primo e imbattibile nella contemplazione. Paolo proteso in avanti, lanciatissimo nella missione perché innamorato, conquistato dal fascino di Gesù Cristo. Paolo si è lasciato trasformare dall’incontro dinamico con il Crocifisso risorto. Gli diventa conforme nei pensieri e sentimenti. Il mistero del Cristo trova così prolungamento nella vita dell’Apostolo che si lascia crocifiggere al mondo e alla sua logica di vanità: “Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo” (Fil 3,7-8). Paolo entra decisamente nella kenosi del Cristo che da ricco che era si fece povero (2Cor 8,9). Anche lui si impoverisce liberamente e gioiosamente, stimando futilità e spazzatura tutto ciò che non concorre alla conoscenza amante di Gesù Cristo: “che io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11). L’appassionato apostolo di Gesù Cristo scrive ai Corinzi: “Non è per me un vanto predicare il vangelo; è per me un dovere: guai a me se non predicassi il Vangelo” (1Cor 9,16). E non credo pensasse al “guai” del castigo divino, come a dire: se non predico sarò rimproverato dal Cristo! Non è in questo senso. E’ questione di amore. Un innamorato non può tacere, gli parlano gli occhi! Dilexit me et tradidit semetipsum pro me: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Per san Paolo è un insopprimibile bisogno dell’amore comunicare Gesù Cristo. Deve aver sperimentato qualcosa di simile il giovane Alberione in quella prolungata adorazione eucaristica nella notte tra i due secoli. Egli scrive di sé in terza persona: “Si sentì profondamente obbligato a prepararsi a far qualcosa per il Signore e gli uomini del nuovo secolo con cui sarebbe vissuto” (AD 15). Non un vanto, ma un obbligo apostolico: l’amante non si rassegna a tacere dell’Amato! Come Paolo anche don Alberione è stato afferrato dall’amore del Cristo che rende “apostoli”, felici di comunicare agli altri la gioia del grande amore che abbiamo sperimentato. Felici di vivere e dare al mondo Gesù Cristo via, verità e vita (Gv 14,7). Da innamorato di Gesù Cristo don Alberione capì che non servono invettive e lamenti. Non servono geremiadi: la gente non viene più in Chiesa, le famiglie si sfasciano, i giovani disertano la catechesi… Anziché sciupare il tempo in sterili lamenti bisogna investire tutti i talenti: i mezzi, le scienze e nuove tecnologie… per fare “a tutti la carità della Verità”,  dove Verità è sinonimo di Vangelo, di Gesù Cristo Maestro e Pastore. Come Paolo don Alberione si sente “debitore” di tutti, in particolare di chi cerca la Verità nel buio e come a tentoni, nei moderni areopaghi della cultura che parla di comunicazione ma rischia di moltiplicare solitudine e povertà… Entra con umiltà e coraggio don Alberione in questa nuova via, con l’ardire di chi vuole comunicare il bene più grande: la bella notizia che Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio suo Gesù! “Guai a me se non evangelizzo, se non predico il vangelo!”. Su questo punto credo siamo tutti d’accordo, pur sentendoci personalmente e come Famiglia Paolina assai distanti. Tiepidi e distanti dalla passione evangelizzatrice di Paolo e del nostro Fondatore che ha saputo trascinare e coinvolgere nel suo entusiasmo per il Vangelo schiere di ragazzi e di giovani donne. Non possiamo tuttavia rassegnarci. La coscienza della distanza personale e comunitaria – i nostri limiti, povertà e peccati di Famiglia Paolina – lungi dal farci tirare i remi in barca lasciando spazio a ripiegamenti di vario tipo, devono spronarci nel “mi protendo in avanti” sul duplice versante della spiritualità e della missione: donec formetur Christus, in noi e in coloro a cui siamo inviati! 2. In comunione “per non correre invano” (Gal 2,1-10) Non c’è dubbio che nella concezione del nostro Fondatore, e dunque nella genesi spirituale e pastorale della Famiglia Paolina, Paolo e Pietro vanno insieme. La cosa non riguarda solo le Pastorelle che invocano entrambi gli Apostoli e celebrano come festa patronale della loro Congregazione la solennità liturgica di Pietro e Paolo il 29 giugno. Direi piuttosto: alle Pastorelle don Alberione affida in termini di esemplarità quell’istanza di comunione che è dimensione fondamentale dell’intera Famiglia Paolina. Lo suggeriscono diversi indizi. Ad esempio, il capitolo di Abundantes Divitiae intitolato: “La ricchezza della romanità”. Nel 1925 al termine del pellegrinaggio per l’anno santo don Alberione matura la decisione di aprire a Roma la prima Casa filiale, e il senso è evidente: Paolo con Pietro, la Famiglia Paolina a servizio della Chiesa, in comunione col Papa. Un altro indizio è il quarto voto che vincola i membri della Società San Paolo: obbedienza al Papa per quanto concerne l’apostolato. Riguarda solo la Società San Paolo o in qualche modo tutti? Sappiamo che nella mente del Fondatore la prima Congregazione ha funzione di altrice nei confronti delle sorelle e dei fratelli (= congregazioni e istituti) nati dopo. Dunque quel loro voto e impegno di obbedienza tocca implicitamente l’intera Famiglia. Sarebbe assurdo che i Paolini debbano obbedienza al Papa per quanto concerne l’apostolato e le Paoline siano invece libere di fare come vogliono! E’ decisamente impensabile per don Alberione. In Abundantes Divitiae egli afferma che la “romanità” – ovvero la comunione della Famiglia Paolina con Pietro – è un dono che sgorga come gli altri dall’Eucarestia. Non è questa la sede per analisi dettagliate. Ma leggendo i nn. 49-55 di Abundantes Divitiae si coglie facilmente il filo rosso del discorso. In momenti di forti contrapposizioni politiche, sociali e culturali, come quelle in cui è nata la Famiglia Paolina, e di fronte all’urgenza di non restare indietro sui tempi, di “essere all’altezza dei nuovi compiti”, il Fondatore esprime un criterio di comportamento: attenersi alle indicazioni del Romano Pontefice. In AD 56 dichiara: “sempre, solo ed in tutto, la romanità”. Una frase che mi sembra vada decodificata in questo senso: sempre, solo e in tutto il bene della Chiesa nella piena comunione con Pietro. Non comunione di retorica e sterile adulazione del primato, quanto di operosa dedizione a servizio del Vangelo. In altre parole, nell’apostolato la carta vincente è la comunione che esige anche obbedienza. Non la caricatura dell’obbedienza, ma l’obbedienza umile e coraggiosa del vangelo. Vorrei approfondire questo tema sulla falsariga del comportamento di Paolo, come lui stesso si racconta nella lettera ai Galati. Tra parentesi ricordo che l’esegesi contemporanea ci ha resi più attenti alle discordanze narrative, ad esempio tra la verità di Paolo (lettera ai Galati) e la verità di Luca (Atti degli Apostoli). Dal confronto di Galati con Atti appare evidente che la verità di Paolo non collima con quella di Luca, redattore degli Atti. Secondo quest’ultimo la porta del vangelo ai Pagani l’avrebbe aperta suo malgrado lo stesso san Pietro, il quale con grande umiltà si rese conto che lo Spirito santo lo aveva preceduto in casa di Cornelio centurione romano. Poteva lui opporsi negando il battesimo di acqua a chi già mostrava di essere stato battezzato nello Spirito? E’ decisamente “umile” il primo Papa, nel senso migliore del termine: non si sente al governo come talora intendiamo noi, ma docilmente al seguito dello Spirito che secondo la promessa di Gesù guida verso la verità tutta intera (Gv 16,13). I primi a rimproverare Pietro sono i giudei cristiani tradizionalisti, per niente intenzionati ad aprire le porte ai gentili: «Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!». Allora Pietro raccontò per ordine come erano andate le cose” (At 11,2-3). Nell’assemblea di Gerusalemme Pietro ha un ruolo di primo piano secondo Luca, se non proprio come uomo punta, certamente come uomo ponte. E’ lui che “dopo una lunga discussione”, prende per primo la parola raccontando la propria esperienza in difesa della predicazione del vangelo ai pagani (At 15,7ss). Direi che Luca offre fondamento agli iconografi per il fraterno abbraccio dei due Apostoli. Anche in senso teologico perché qui il discorso di Pietro si sposa in pieno con la teologia di Paolo. Basti questa frase: “Dio, che conosce i cuori, ha reso testimonianza in loro favore (= dei pagani) concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi; e non ha fatto nessuna discriminazione tra noi e loro, purificandone i cuori con la fede. Or dunque, perché continuate a tentare Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri, né noi siamo stati in grado di portare?” (At 15,8-10). Qui Pietro dice parole che siamo abituati a sentire da Paolo. Ma veniamo alla lettera ai Galati dove emergono tre momenti della relazione tra i due Apostoli:

-  Paolo da Pietro: Gal 1,18 -  Paolo con Pietro: Gal 2,1-10 -  Paolo contesta Pietro: Gal 2,11-20

2.1 Paolo da Pietro: fraterna conoscenza Il primo incontro ha luogo tre anni dopo l’esperienza travolgente sulla via di Damasco dove Paolo incontra Gesù (o meglio, dove Gesù viene incontro a Paolo). “Dopo tre anni – scrive l’Apostolo – andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni” (Gal 1,18). Dicevo in apertura: è più che una visita di cortesia! Dopo il suo personalissimo cammino con il Dio di Gesù Cristo, Paolo si reca da Cefa, non semplicemente per fare la conoscenza, ma per “consultarlo”. Una visita che non può prescindere da ciò che profondamente li unisce: la dedizione all’evangelo di Gesù Cristo. 2.2 Paolo con Pietro: uniti nel Vangelo Il secondo incontro avviene 14 anni dopo (dalla conversione o dal primo incontro?). Il viaggio è comunque il medesimo di cui riferisce Atti 15 e Paolo ne precisa la motivazione: per non rischiare “di correre o di aver corso invano”. La narrazione di questa seconda salita a  Gerusalemme è assai più articolata rispetto alla prima e più ricca di particolari. Nuovi personaggi entrano in scena a fianco di Paolo che non è più un evangelizzatore solitario (vedi anche Gal 1,2). E’ accompagnato da Barnaba e Tito, decisamente importanti in ordine allo scopo del viaggio. Inoltre non è più solo Pietro l’interlocutore di Paolo, ma i “notabili” della comunità gerosolimitana, le persone più ragguardevoli: Giacomo, Cefa e Giovanni, “ritenuti le colonne”. Come si comporta Paolo in questa circostanza? Direi con grande cautela e diplomazia: è in gioco infatti il bene più prezioso, la libertà in Cristo. – Paolo “diplomatico” e il codice di compagnia Osserviamo come Paolo, che siamo abituati a definire libero e franco, proceda qui con cautela. Non parla subito a tutta la comunità, non espone a tutti ciò che pensa e predica, non svuota il sacco ai quattro venti. Come si comporta invece? Ecco cosa scrive a Galati: “Esposi loro il vangelo che io predico tra i pagani, ma lo esposi privatamente alle persone più ragguardevoli” (2,2). Questa davvero è politica, è autentica capacità diplomatica! Paolo non può permettersi di perdere la battaglia: non per se stesso ma per la causa in gioco, la libertà cristiana! E dunque studia bene come muoversi. Comincia con le persone più ragguardevoli. Se guadagna il loro consenso, il resto sarà più facile. Non sarà solo contro tutti. Potrà contrastare i “falsi fratelli” – gli intrusi conservatori – avvalendosi del conquistato appoggio dei tre uomini più influenti: Giacomo, Cefa e Giovanni. È l’inizio di un consenso che culminerà in una bella stretta di mano, segno di comunione e di unità.

-Per non correre invano Il verbo “correre” appartiene al linguaggio agonistico: con l’idea di progresso esprime anche faticoso impegno e dispendio di energie. Paolo ama questo verbo per descrivere la propria esperienza spirituale e apostolica. Il correre di Paolo è strettamente unito al correre delle sue comunità. Ai cristiani di Filippi scrive di essere irreprensibili e semplici, tenendo alta la parola di vita. “Allora nel giorno di Cristo, io potrò vantarmi di non aver corso invano né invano faticato” (Fil 2,16). Nel contesto dell’assemblea gerosolimitana il timore di aver corso invano riguardava il destino delle comunità cristiane provenienti dal paganesimo. Ma proprio il caso di Tito mostra che Paolo non ha corso invano. Se Tito non è obbligato a circoncidersi, significa che ciò che vale per lui è valido come principio per tutti.

Il codice di compagnia comincia a mostrare i suoi buoni frutti! – Il vangelo affidato a Paolo e a Pietro Paolo e Pietro sono accomunati da una medesima responsabilità, poichè ad entrambi è stato affidato il vangelo. Si registra un notevole sguardo di fede nell’assemblea di Gerusalemme. L’esperienza di Pietro, per quanto importante per la prima comunità cristiana, non esaurisce il manifestarsi dell’agire divino. Le persone più ragguardevoli vedono (con sguardo credente) che a Paolo è stato affidato il vangelo per i non circoncisi come a Pietro quello per i circoncisi (Gal 2,7-8). Non si tratta di privilegi ma di un incarico, di una missione. È il vangelo il criterio sommo di valutazione: per Paolo e anche per i responsabili di Gerusalemme. Nessuno ne è proprietario, perché il vangelo è affidato da Dio e l’evangelizzatore è solo un ministro (cf. 1Cor 3,5). 2.3 Paolo contesta Pietro: per amore del Vangelo La narrazione dell’evento di Antiochia ha un tono certamente più duro rispetto all’episodio precedente. Anzi, sembra perfino contraddire quell’armonia appena ricordata tra Paolo e le «colonne» di Gerusalemme. Ad Antiochia, capitale della provincia romana di Siria e terza città dell’impero dopo Roma e Alessandria d’Egitto, era nata una delle comunità cristiane più vivaci. A portare il vangelo erano stati i credenti costretti a lasciare Gerusalemme in seguito alla persecuzione scoppiata al tempo del martirio di Stefano. Essi si erano rivolti anzitutto ai Giudei, ma ben presto in quella città multirazziale “la buona novella del Signore Gesù” fu annunciata anche ai Greci, e un gran numero credette e si convertì al Signore (vedi Atti 11,19-21). A guidare questa giovane comunità aperta, che vedeva riuniti nella fede in Cristo credenti provenienti dal giudaismo e dal mondo greco, la Chiesa di Gerusalemme aveva inviato Barnaba, “uomo pieno di Spirito Santo e di fede” che davanti a tanta grazia del Signore non poté che rallegrarsi. Ma si premurò anche di trovare collaboratori. Andò infatti a Tarso in cerca di Saulo / Paolo e lo coinvolse nell’animazione della comunità di Antiochia. Cosa avviene in seguito e perché Paolo si sente in dovere di richiamare alla coerenza il primo Papa? Non mi piace chiamarlo “incidente di Antiochia”, è qualcosa di più. Attenzione però che nella lettera ai Galati noi sentiamo solo una campana, quella di Paolo. Le “ragioni” di Pietro non vengono dette (il che non significa che non ne abbia avute). La lettura degli eventi è «paolina» e non di un terzo situato in posizione neutrale (gli Atti non raccontano questo episodio).

Ecco dunque cosa scrive l’Apostolo: “Quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: “Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?” (Gal 2,11-14). Paolo era preoccupato che la comunità di Antiochia venisse disorientata dal comportamento mutevole di Pietro, il quale probabilmente cercava di mediare tra i diversi gruppi, in particolare dopo l’arrivo dei giudeo-cristiani di Gerusalemme che avevano difficoltà ad accettare la comunione di mensa così come era praticata nella comunità mista di Antiochia. Qui l’uomo punta (Paolo) si scontra con l’uomo ponte (Pietro). D’altro canto il silenzio di Pietro lascia supporre che egli abbia accolto la critica di Paolo. Essa non distrugge la comunione tra i due apostoli. Le divergenze concrete sono evidenti all’intera comunità coinvolta nel diverbio, ma non fanno scadere il rapporto in mancanza di rispetto o in separazione. Trovo bello che Paolo e Pietro siano menzionati insieme non solo quando mostrano di condividere gli stessi principi (vedi At 15), ma anche quando sperimentano la possibilità di attuazioni pratiche diverse. La tensione dialettica tra il principio di fede attorno a cui si converge e la realizzazione pratica, è una tensione inerente alla pastorale di ogni tempo. E allora? Chiediamo anche per intercessione del beato Giacomo Alberione la grazia di cercare umilmente insieme la verità che libera, coniugando alla maniera di Paolo parresia evangelica e koinonia.

Conclusione Per stare a quanto citavo sopra del Fondatore che esortava ad attenersi alle indicazioni del Papa, vorrei concludere con l’invito a prendere il largo che ci viene da Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte. “Occorre riaccendere in noi – scrive il Papa – lo slancio delle origini, lasciandoci pervadere dall’ardore della predicazione apostolica seguita alla Pentecoste. Dobbiamo rivivere in noi il sentimento infuocato di Paolo, il quale esclamava: Guai a me se non predicassi il Vangelo! (1Cor 9,16).” (NMI, 40). E la Famiglia Paolina si propone appunto di vivere san Paolo oggi: “pensando, zelando, pregando e santificandosi come farebbe San Paolo, se oggi vivesse”, afferma don Alberione. “Se san Paolo vivesse oggi, continuerebbe ad ardere di quella duplice fiamma, di un  medesimo  incendio, lo zelo per Dio ed il suo Cristo, e per gli uomini d’ogni paese. E per farsi sentire  salirebbe sui pulpiti più elevati e moltiplicherebbe la sua parola con i mezzi del  progresso  attuale: stampa, cine, radio, televisione. Non sarebbe, la sua dottrina, fredda ed  astratta. Quando egli arrivava, non compariva per una conferenza occasionale: ma si fermava e formava…” (Ottobre 1954; Carissimi in San Paolo, 1151-1152). Dunque: entusiasmo per il Vangelo, passione di vivere e comunicare Gesù Cristo via verità e vita. E vivere questa passione per il Vangelo in modo tale che la Famiglia Paolina appaia “casa e scuola della comunione” (vedi NMI, 43-45). Preghiamo perché lo Spirito santo ci doni anche di realizzare qualcosa come Famiglia in quest’anno alberioniano: penso a una realtà inter-congregazionale, a un’oasi di vita per la nostra affascinante spiritualità paolina. Don Alberione diceva: “Le nostre Case vanno bene quando si fa  un centro Paolino in cui siano rappresentate tutte le Famiglie e vi sia la comprensione e lo  scambievole  aiuto spirituale non solo di preghiere, ma anche di buon esempio e di santa emulazione nello zelo” (alle Figlie di San Paolo nel 1954). Che lo Spirito illumini in particolare chi ha il compito di governare le nostre Congregazioni e Istituti, perché non abbiano paura di aprire strade nuove, e possano farlo in comunione: per non correre invano.  

LA FIGURA DI CRISTO NELLE EPISTOLE DI SAN PAOLO – ROMANO GUARDINI

http://www.esegesidellescritture.it/index.php?option=com_content&view=article&id=122:la-figura-di-cristo-nelle-epistole&catid=20&Itemid=127

LA FIGURA DI CRISTO NELLE EPISTOLE DI SAN PAOLO

ROMANO GUARDINI  -  FRAMMENTI DA – LA FIGURA DI GESÙ CRISTO NEL NUOVO TESTAMENTO – ED. MORCELLIANA

Chi ricorra al Nuovo Testamento per sapere chi sia il Signore, può fare un’esperienza curiosa.

Senza volerlo egli penserà che saranno i Vangeli a servirgli di guida e di questi, anzitutto i primi, cioè i Sinottici. E se avrà una qualche idea del sistema moderno di ricerca delle fonti storiche, porrà al primo posto il Vangelo di Marco, o si proporrà in cuor suo di cercare il Marco delle origini e la fonte dei versetti… ma ben presto rileverà come i Sinottici, presunti facili, siano, in realtà, tutt’altro che semplici. E se saprà scrutare sufficientemente in profondità, si accorgerà anche donde provenga tale parvenza di semplicità, cioè dal fatto ch’egli ha considerato la figura di Gesù dal lato della sola umanità, trascurando o stimando leggenda quanto di essa va oltre l’umana natura… Ed allora lo studioso che sta cercando uno spiraglio attraverso il quale entrare nell’argomento che l’attrae prosegue nelle indagini e perviene a Giovanni. Questo si presenta già più accessibile, ma non proprio del tutto, non quanto basti affinchè abbia la sensazione si essersi messo per la via giusta. Ancora un passo avanti ed eccolo a Paolo. Qui sente ben presto di essere in porto: chi ci schiude la via per penetrare nel mondo del Nuovo Testamento non sono né i Sinottici , né Giovanni, nessuno quindi dei Vangeli, ma Paolo e appunto per il fatto di essersi trovato nella identica situazione in cui ci troviamo noi stessi. Paolo è l’unico apostolo che non abbia visto con i propri occhi Gesù durante la sua vita terrena… di Lui Paolo aveva avuto notizie solo come ne possiamo avere noi: dall’esterno, ad opera di quelli che riferiscono di Lui e per gli effetti che da Lui si ripercossero nella storia, poi dall’interno, allorché il Signore lo chiamò e gli si rivelò nello Spirito e nel cuore. E allorché Paolo delinea la propria figura di Cristo, attinge dunque fondamentalmente alle stesse fonti alle quali noi pure facciamo ricorso: al messaggio tramandato e alla propria esperienza. Ciò che manca a noi, e che ebbe invece  così grande parte nei riguardi dei primi apostoli, vale a dire l’essere stati testimoni oculari… mancava anche a lui, e non saremo certamente in errore asserendo che ciò lo abbia addolorato molto… ma appunto per essersi trovato in tali condizioni nei riguardi delle sue cognizioni sulla vita terrena di Gesù, egli è proprio l’uomo che fa al caso nostro. E se qualcuno afferma di comprendere il Nuovo Testamento senza far ricorso a Paolo, è da temersi che non sia riuscito a comprendere ancora molto della vera figura di Cristo. Negli Atti degli Apostoli si narra come la giovane Chiesa conducesse dapprima una esistenza tranquilla, anche allora completamente basata sull’Antico Testamento, circondata d’amore ed insieme di rispetto dal popolo. I detentori del potere tentarono due volte di farsi avanti, senza riuscire, però, a scuotere la fermezza degli apostoli, mentre temevano, inoltre, il popolo. Ed ecco che si mette in evidenza un uomo, all’ardore pneumatico del quale scoppia l’incendio: Stefano. Lo si incolpa di avere offeso la Legge e lo si trascina innanzi ai giudici. Ottenuta la parola per difendersi dall’accusa, egli parla, e lo fa, tutto permeato com’è dalla grazia di Cristo, con tanta foga e potenza da incidere nei loro cuori. Ed essi digrignando i denti contro di lui, urlano, lo proclamano colpevole e lo sospingono subito violentemente fuori della città per lapidarlo. E si legge: “I testimoni deposero le vesti ai piedi di un giovane chiamato Saulo: Poi il racconto prosegue: “E Saulo consentì alla  morte di lui”. E avvenne allora una grande persecuzione contro la Chiesa, e Saulo, infierisce con la minaccia e con la strage contro i discepoli del Signore. “Saulo devastava la Chiesa, entrava per le case e quanti trovava, uomini e donne, li cacciava in prigione  “ ( At. 8,1 ss. ). Ottenuto l’incarico di dare ulteriore sviluppo alla persecuzione, egli si muove alla volta di Damasco. Ma lungo la strada Gesù gli appare all’improvviso, come si narra nel nono capitolo degli Atti degli Apostoli.

Che uomo era Paolo? Possiamo desumerlo dalle sue epistole… Sarà forse opportuno cominciare col dire che Paolo non era prestante nella persona e aveva una certa timidezza nel tratto… nella seconda epistola ai Corinzi egli dice delle voci che corrono sul conto suo, secondo le quali egli sarebbe umile tra la gente, tanto da non osare di parlare, mentre di lontano si farebbe coraggio, sì da scrivere lettere aspre. Piccinerie, queste, che egli ha disprezzato certamente nel suo spirito, e cristianamente compatite, ma proprio queste piccinerie incidono in profondità e dicono molto. A ciò si aggiunga quanto egli dice, nella stessa epistola, dello “stimolo” che ha nella carne e dell’angelo di Satana che lo schiaffeggia, di liberarlo dal quale ha pregato tre volte il Signore per poi doversi accontentare di sentirsi rispondere. “Basti a te la mia grazia”! ( 2 Cor. 12,7 ss. ). Qualunque sia l’interpretazione congetturale che si voglia dare a tutto ciò, se ne deve concludere che, in ogni caso, Paolo non deve avere avuto la freschezza naturale dell’uomo perfettamente sano e completamente sicuro di sé. Se ci si immedesima nel suo modo di pensare e di esprimersi e nel suo temperamento, si potrà forse dire anche di più. Egli sembra essere stato uno di quegli uomini che attirano le calamità, che predispongono contro di sé la loro sorte, un uomo tormentato.”Io gli mostrerò quanto dovrà patire per il mio nome” ( At 9,16 ), aveva detto di lui il Signore ad Anania, e queste parole si riferiscono anzitutto alla sua vita di apostolo, ma rivelano anche qualcosa dell’essere suo. Paolo ha dovuto soffrire molto, continuamente e per tutto. Leggiamo in proposito gli appassionati ultimi capitoli della seconda epistola ai Corinti. Altrettanto si può dire della sua vita  morale e religiosa. Egli voleva divenire buono, giusto, santo, ma riteneva di potervi riuscire facendo violenza a se stesso, considerava la bontà come una continua imposizione a base di devi e non devi, così che era sempre in uno stato di tensione della volontà. In lui erano potenti energie religiose: ardeva di zelo per la legge e la santità di Dio. Ma tali energie erano sorde, inceppate, e quindi finivano per intossicare se stesse; il suo zelo era violento e non illuminato, atto soltanto ad assoggettare e demolire. Paolo era tormentato da due forti passioni: da una sensualità potente e da una grande ambizione. È assurdo precisare se fosse anche avido di possedere: comunque è singolare come egli sia il solo degli apostoli che parli di collette. Egli vuol dominare tali istinti, e li contiene, ma essi gli si voltano contro, turbinano, ribolliscono. Lotta contro ciò che è malvagio, riesce a piegarlo, ma sperimenta anche che il male diviene sempre più insidioso. In se stesso, nelle sue membra, egli sente il contrasto di due potenze, una buona e una cattiva. Ma non riesce a fare in modo di dare libero il passo a quella buona e di soggiogare con la grandezza dell’animo quella malvagia e piuttosto, odia se stesso, si fa violenza e finisce per sentirsi sempre più disperatamente misero. La legge è tutto per lui. Egli si adopera con zelo per rispettarla, si sacrifica e si fa violenza per le mille e le diecimila prescrizioni che fanno della vita una schiavitù, una esistenza contro natura. Da esse egli vede dipendere la rettitudine, ma non può conseguirla, perché vuol basarsi sulle sole sue forze. Egli percepisce come tutto ciò che è cattivo si desti proprio sotto la costrizione della Legge, ciononostante non riesce ad uscire dal vortice angosciante perché l’unica conseguenza che ne sa dedurre è quella di essere ancora più severo verso se stesso. Assolutamente privo di libertà, anela ad essa, ma già per il solo fatto di desiderarla ritiene di essere in fallo… Sulla via di Damasco venne per Paolo la grande ora. Una luce lo irraggia. Non è retorica questa, ma verità, perché si tratta qui di luce interna, spirituale, divina, luce che lo abbatte e, come si costaterà in seguito, gli toglie la vista. Qualcuno però, parla e si designa come Colui che Saulo ha perseguitato, come Gesù Cristo. Nella figura spiritualmente luminosa di Stefano, negli uomini e nelle donne incamminati per le vie del Signore, egli ha odiato quello stesso Cristo, e forse proprio perché non riusciva a trovare una diversa maniera per difendersi da un ardentissimo desiderio che lo sospingeva verso di Lui. Cristo lo aveva già toccato, ed ora egli gli va incontro apertamente. Tutto ciò è ormai evidente. Il brano  riportato a frammenti è tratto dall’opera di Romano Guardini “ La figura di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento”.

Guardini, abbiamo letto, sottolinea l’importanza della lettura delle epistole di Paolo e degli Atti degli Apostoli per una migliore e sicura intelligenza dei Vangeli. Nulla di assolutamente personale, ma quanto sperimentato e conosciuto da coloro che amano la Parola di Dio e cercano una intelligenza che vada oltre il velo del semplice senso letterale. È Paolo in definitiva la chiave che apre l’ingresso nel senso spirituale delle parole e della vita di Gesù. La Parola non si comprende se non in virtù della Parola: è regola aurea. Chi più dell’Apostolo ci aiuta a comprendere i santi Vangeli? Paolo è l’Apostolo più vicino a noi, non soltanto perché non ha conosciuto Gesù secondo la carne, ma anche perché porta alla luce  tutto quel sottofondo spirituale dell’uomo che  trova la propria soluzione e giustificazione soltanto nella grazia del Salvatore mandato dal cielo. Gli Evangelisti annunciano la Parola semplicemente, Paolo l’annuncia alla luce della propria esperienza di uomo risorto in Cristo. E non capisce Paolo se non chi è come lui tutto preso da una sincera volontà di essere obbediente a Dio in tutto e per tutto. Colui che può sembrare l’eccezione, non è compreso se non quando diviene la regola, il modello di ogni santità, nello spirito di osservanza del primo e più grande comandamento: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. Se non c’è questa totalità dell’impegno, il Vangelo è lettera morta. Non è parola per la salvezza, ma parola per la dannazione, perché il cuore falso convincerà se stesso di giustizia e non di peccato, facendosi meritevole di un giudizio di eterna condanna da parte di Dio. Perché mai Gesù parla in parabole? Per rendere più chiaro, più semplice ed intellegibile un discorso o al contrario perché appaia oscuro quello che è fin troppo chiaro? Perché tutti possano comprendere, anche quelli che stanno fuori o perché comprendano soltanto quelli che sono entrati dentro? “ Parlo in parabole perché sentendo non intendano, né io li risani”. Giustamente Guardini rileva che i Vangeli non sono di facile comprensione. Tutto diventa più chiaro solo quando siamo rivestiti dal Signore di occhi nuovi, illuminati da una luce diversa che viene dal cielo. Se è difficile entrare da soli nel senso nascosto della Parola di Dio, tutto è più facile quando seguiamo l’apostolo Paolo. Non basta leggere i Vangeli, bisogna leggere la spiegazione che ne dà l’Apostolo. Non la parola dell’uomo illumina la parola di Dio, ma è la stessa Parola di Dio che getta una luce su se stessa, per chi ha orecchi di ascolto. E lo fa in virtù dell’insegnamento di un uomo che riassume in sé e porta alle estreme conseguenze della fede in Cristo tutto il proprio vissuto, senza celare ambiguità e contraddizioni, senza falsità ed ipocrisie, unicamente desideroso di compiacere a Dio in tutto e per tutto. La complessità delle parabole, ripercorre la molteplicità di aspetti di un cammino spirituale che vuol raggiungere ed ottenere quella semplicità del cuore che unicamente è gradita e accetta a Dio. Le parabole sono complesse nello sviluppo interno del discorso, sono assolutamente semplici nella loro conclusione. Partono da realtà e situazioni diverse, per approdare all’unica àncora di salvezza che ha nome di Cristo. La conclusione è sempre la stessa: non c’è salvezza senza la fede in Cristo Salvatore e non è fatto salvo chi non è perduto. Ciò che è sicuramente vero e fuori discussione per Dio Padre non lo è altrettanto per l’uomo che  di fronte al Salvatore si pone in una posizione di giudizio e di superba sufficienza a se stesso. Se Cristo è venuto per i peccatori, per riportare all’ovile la pecorella smarrita, allora va fatta salva la situazione di chi peccatore non è e cerca un’altra via di salvezza che è quella dell’osservanza della Legge e di una giustificazione che gli è accreditata dallo stesso Dio. E allora la parabola, partendo dal punto di vista dell’uomo che si crede giusto, deve ribaltare un giudizio falso e frettoloso, fatto in proprio ed affermare un peccato che abbraccia tutto il genere, per concludere nella necessità di una salvezza che è donata gratuitamente da Colui che è stato mandato dal cielo. C’è un solo giusto ed è Cristo Gesù: in Lui e per Lui, in virtù della sua morte e resurrezione i molti sono giustificati e  ottengono in dono la salvezza per la fede nel Salvatore. Non c’è parabola che non sia esaltazione dell’unico giusto e dell’unico santo: speranza e gioia per chi crede in Cristo , giudizio di condanna ed amarezza senza fine per chi rifiuta il Salvatore. Il Vangelo è annuncio di una grande gioia: in Cristo la terra è riconciliata col cielo, coloro che si sono perduti ritrovano la via della salvezza, i peccati sono  perdonati, un cuore nuovo è dato all’uomo, perché senta e comprenda quanto grande l’amore di Dio Padre. Tutto semplice e tutto facile dunque? Niente affatto, perché l’uomo è di dura cervice, non vuole vedere e non vuole comprendere la necessità di una morte che è per la vita. La mancanza di fede rende vano il sacrificio di Cristo e nasconde ai nostri occhi la grandezza e la bellezza dell’Amore divino. L’uomo che con il peccato di Adamo si è condannato alla solitudine, dopo aver crocifisso Cristo si trova ancora più solo, senza gioia e senza speranza. Non comprende il Vangelo chi non è come Paolo, chi non si riconosce e non fa proprio il suo cammino spirituale, che è passaggio dalle tenebre alla luce, dalla consapevolezza del proprio peccato alla consapevolezza dell’amore di Dio, così come si è a noi tutti manifestato in virtù della morte e resurrezione del Figlio suo. Le lettere che Paolo invia alle comunità da lui fondate altro non sono che la spiegazione del Vangelo, così come è dato comprendere soltanto attraverso un cammino di salvezza, che l’Apostolo prima di altri ha percorso. “Fatevi miei imitatori come anch’io lo sono di Cristo”. Se Cristo è l’unico vero modello di santità, è pur vero che non è compreso se non in virtù di un modello a noi più vicino che è l’apostolo Paolo. La conversione di Paolo non è un semplice prodotto del pensiero, o sforzo etico, ma è innanzitutto un fatto, un evento: l’incontro con Gesù risorto sulla via di Damasco. L’iniziativa è sempre di Dio e nessuno va al Figlio se non è attirato dal Padre che è nei cieli. Una nuova luce, misteriosa ed inaccessibile investe la nostra vita: non abbiamo occhi per portarla e abbiamo bisogno di una vista spirituale che Dio ci dona attraverso la sua Chiesa. L’uomo vecchio è fatto uomo nuovo, vede diversamente non soltanto se stesso in rapporto a Dio, ma anche Dio in rapporto a se stesso. Scopre il proprio peccato di fronte al Signore, ma anche l’infinita sua misericordia. Se noi siamo nulla, Lui è tutto, se noi siamo poveri, Lui ci arricchisce di ogni dono spirituale, se noi siamo ingiusti, Lui ci fa giusti. Paolo è tutto questo e solo questo: un morto che è tornato in vita, un ingiusto che è stato fatto giusto, un cieco che ha trovato in Cristo non una semplice luce, ma la luce che conduce a vita eterna.

Riconsideriamo insieme a Guardini alcune caratteristiche fondamentali della personalità dell’Apostolo. Nell’ora di Damasco, Paolo viene liberato dal giogo che lo opprimeva col dover operare da sé, e, conseguentemente, dal tormento assillante di non potervi riuscire. Impara, così, quanto esprimerà più tarsi con queste parole: “Vivo, ma non sono io a vivere: è Cristo che vive in m,e”. e con queste altre: “Da me solo nulla posso, ma posso tutto in Colui che mi dà la forza, in Cristo”. Per il tramite di Cristo viene a noi la grazia divina, ed è essa che agisce, ma insieme la grazia opera tutto: illumina la conoscenza, libera la coscienza, infiamma il cuore, muta la volontà, eleva e dà ali all’essere, e proprio così l’uomo è quello che deve essere… Una singolarità colpisce, la visione è una luce. Colpito da essa, Paolo cade a terra, accecato, e una voce dice: “Saulo, Saulo perché mi perseguiti?”. Poi soggiunge: “Io sono Gesù che tu perseguiti”. Dunque Paolo non ha scorto il volto del Signore sulla via di Damasco. Non è nelle nostre intenzioni fare affermazioni affrettate, e ci chiediamo se Paolo abbia sollevato mai gli occhi – dello spirito, beninteso – alla sua figura, al suo volto. Comunque, in chi legge le sue epistole si forma il convincimento che il Gesù Cristo di cui esse trattano è più potenza in atto, energia creativa, luce illuminante, vita irradiante e creante che non una figura fisica sulla quale si possa fissare lo sguardo, un volto da poter rimirare. Quest’ultima possibilità si ha per il Gesù dei Sinottici. Anche in Giovanni la si riscontra, ma soprattutto in Matteo, in Marco e in Luca. In essi egli è il Gesù che ci viene incontro per la via, che guarda verso di noi, che ci rivolge la parola, che agisce. Ciò costituisce la più spiccata singolarità degli evangelisti, il loro privilegio prezioso, ma nello stesso tempo un elemento che ci dà l’impressione di essere tanto lontani dalla loro narrazione, in quanto non abbiamo mai visto con gli stessi nostri occhi il Signore. Ed appunto per questo ci sentiamo, invece, tanto più vicini a Paolo, e forse non ci inganniamo reputando che egli non tanto guardi a Cristo come figura e come volto, quanto lo senta come potenza. Con quest’ultima espressione non intendiamo, ovviamente, una energia religiosa impersonale, ma sempre Lui, Gesù, nella sua persona divina, il Signore nostro vero Dio e vero Uomo, e non, però, come figura, ma come potenza in atto che agisce, che impera, che crea; come creatore di un’opera prodigiosa, immensa, di un’opera che può paragonarsi soltanto alla creazione del mondo… Il mondo paolino è tutto pieno di questo Cristo. Egli agisce negli uomini, nel singolo credente, come nella Chiesa. Egli impera su tutte le cose create. È in tutto, e tutto è in Lui. “In Lui, infatti, viviamo, ci muoviamo e siamo” disse Paolo agli uomini dell’Areòpago parlando di Dio, e tali parole le ripeterebbe anche nei riguardi di Cristo. “Nel nome di Dio”, si saluta e si ringrazia, si giudica e si ammonisce, si fa il bene e si sopporta il male, si esercita la pazienza e si conseguono vittorie. Essere cristiano significa essere partecipe di Lui. Vivere da cristiano vuol dire che Egli respira ed opera in noi. Il meraviglioso mistero della vita cristiana consiste nel fatto che Egli vive in ogni credente la sua vita umana e divina, in una singolarità sempre nuova, che non si ripete mai, rimanendo sempre l’Uno, l’Uguale, l’Immenso. In ognuno di noi Egli nasce, cresce, “si avvia alla maturità”… Cristo è nell’uomo, e l’uomo è in Lui. E quando l’uomo crede e riceve il battesimo, accade in esso qualche cosa di singolare, afferma Paolo. Egli viene a trovarsi in comunanza di esistenza con Cristo, proprio come se questi penetrasse in lui e vi permanesse come figura a dominarlo, come forza ad agire in lui. E quando Gesù si è stabilito dentro di noi vuole rivelarsi nell’esistenza umana… Nell’uomo che si unisce al Signore nella fede entra una nuova figura e una nuova forma, lo stesso Cristo risorto nella sua mistica spiritualità. Egli si impadronisce di quest’uomo e, così com’è, lo plasma nella sua particolarità di essere e di vita, nei suoi doveri, nei suoi destini. Con ciò Cristo rinnova il ciclo della sua esistenza di Uomo-Dio, come vita eterna di origine divina, nel suo Spirito, in questo uomo vagante nel tempo. Egli rivive in lui la sua fanciullezza, la sua adolescenza, la sua maturità, il compimento del suo eterno destino. Ma la possanza di Cristo è anche nella totalità, nella Chiesa. La stessa impronta che caratterizza il singolo cristiano caratterizza anche il complesso della cristianità, vi domina, vi urge, vi agisce, ne soffre danno. Allorché Paolo perseguita Stefano, Cristo gli grida: “Saulo, Sauolo, perché mi perseguiti?”: poiché è Cristo che viene oppresso nelle persecuzioni alla Chiesa, come è Cristo che soffre per le divisioni, per gli irrigidimenti, per le ingiustizie che possano turbarla. Poiché Cristo domina in una stessa maniera tanto l’individuo quanto la comunità, il rapporto del credente nei riguardi della Chiesa è, così, diverso da quello che abitualmente si riscontra in ogni altra società umana. In essi circola, infatti, una stessa linfa, palpita una stessa vita, impera la stessa figura umana e divina… ma la Chiesa va ben più lontano dalla cerchia rappresentata dal complesso degli uomini. Le epistole agli Efesini e ai Colossesi dicono come sia piaciuto a Dio di “riunire sotto un solo capo, in Cristo, tutto ciò che è in cielo e in terra, affinchè Egli sia “il capo del corpo della Chiesa, Egli, il principio, il primogenito dai morti, affinchè si elevi, primo fra tutti. Perché così gli piacque, che in Lui fosse tutta la pienezza” ( Col. 1,18-19 ). In tal modo la Chiesa è orientata alla creazione, destinata ad attirarla nell’ambito di quel primo inizio in Cristo. Da ciò deve sorgere l’universo della libertà suprema, “il nuovo cielo e la nuova terra” ( Ap. 21,1 ) della fine. Questo Cristo che domina così nell’uomo siede alla destra del Padre. E noi intendiamo appieno Paolo allorchè afferma che il Cristo che domina in noi è nello stesso tempo nell’alto dei cieli e ci innalza a Lui. Egli ci conquista interiormente , urgendo sulla essenza viva dell’anima nostra, ci trae a sé dall’alto, facendoci udire la sua voce dal trono della sua eterna maestà. Ma Egli è anche il Veniente che si approssima avanzando dalla fine dei tempi. Emergendo dal misterioso interno della profondità di Dio, Egli penetra nell’uomo per manifestarsi nella sua esistenza ed alla fine spinge nel tempo per scuoterlo e prepararlo all’evento supremo. Così il mondo di san Paolo è tutto pieno di Lui. Egli è ovunque.

Publié dans:Paolo e Gesù, TEOLOGIA |on 29 janvier, 2014 |Pas de commentaires »

Felice Cignani, San Tommaso d’Aquino, 1683-91, Forlì, Pinacoteca Civica

Felice Cignani, San Tommaso d'Aquino, 1683-91, Forlì, Pinacoteca Civica dans immagini sacre 22550AP
http://www.lettereadioealluomo.com/tomismo_filosofia_buonsenso.htm

Publié dans:immagini sacre |on 28 janvier, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI : SAN TOMMASO D’AQUINO – 28 GENNAIO – I CATECHESI

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100602_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 2 giugno 2010

SAN TOMMASO D’AQUINO – 28 GENNAIO

Cari fratelli e sorelle,

dopo alcune catechesi sul sacerdozio e i miei ultimi viaggi, ritorniamo oggi al nostro tema principale, alla meditazione cioè di alcuni grandi pensatori del Medio Evo. Avevamo visto ultimamente la grande figura di san Bonaventura, francescano, e oggi vorrei parlare di colui che la Chiesa chiama il Doctor communis: cioè san Tommaso d’Aquino. Il mio venerato Predecessore, il Papa Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica Fides et ratio ha ricordato che san Tommaso “è sempre stato proposto dalla Chiesa come maestro di pensiero e modello del retto modo di fare teologia” (n. 43). Non sorprende che, dopo sant’Agostino, tra gli scrittori ecclesiastici menzionati nel Catechismo della Chiesa Cattolica, san Tommaso venga citato più di ogni altro, per ben sessantuno volte! Egli è stato chiamato anche il Doctor Angelicus, forse per le sue virtù, in particolare la sublimità del pensiero e la purezza della vita.
Tommaso nacque tra il 1224 e il 1225 nel castello che la sua famiglia, nobile e facoltosa, possedeva a Roccasecca, nei pressi di Aquino, vicino alla celebre abbazia di Montecassino, dove fu inviato dai genitori per ricevere i primi elementi della sua istruzione. Qualche anno dopo si trasferì nella capitale del Regno di Sicilia, Napoli, dove Federico II aveva fondato una prestigiosa Università. In essa veniva insegnato, senza le limitazioni vigenti altrove, il pensiero del filosofo greco Aristotele, al quale il giovane Tommaso venne introdotto, e di cui intuì subito il grande valore. Ma soprattutto, in quegli anni trascorsi a Napoli, nacque la sua vocazione domenicana. Tommaso fu infatti attratto dall’ideale dell’Ordine fondato non molti anni prima da san Domenico. Tuttavia, quando rivestì l’abito domenicano, la sua famiglia si oppose a questa scelta, ed egli fu costretto a lasciare il convento e a trascorrere qualche tempo in famiglia.
Nel 1245, ormai maggiorenne, poté riprendere il suo cammino di risposta alla chiamata di Dio. Fu inviato a Parigi per studiare teologia sotto la guida di un altro santo, Alberto Magno, sul quale ho parlato recentemente. Alberto e Tommaso strinsero una vera e profonda amicizia e impararono a stimarsi e a volersi bene, al punto che Alberto volle che il suo discepolo lo seguisse anche a Colonia, dove egli era stato inviato dai Superiori dell’Ordine a fondare uno studio teologico. Tommaso prese allora contatto con tutte le opere di Aristotele e dei suoi commentatori arabi, che Alberto illustrava e spiegava.
In quel periodo, la cultura del mondo latino era stata profondamente stimolata dall’incontro con le opere di Aristotele, che erano rimaste ignote per molto tempo. Si trattava di scritti sulla natura della conoscenza, sulle scienze naturali, sulla metafisica, sull’anima e sull’etica, ricchi di informazioni e di intuizioni che apparivano valide e convincenti. Era tutta una visione completa del mondo sviluppata senza e prima di Cristo, con la pura ragione, e sembrava imporsi alla ragione come “la” visione stessa; era, quindi, un incredibile fascino per i giovani vedere e conoscere questa filosofia. Molti accolsero con entusiasmo, anzi con entusiasmo acritico, questo enorme bagaglio del sapere antico, che sembrava poter rinnovare vantaggiosamente la cultura, aprire totalmente nuovi orizzonti. Altri, però, temevano che il pensiero pagano di Aristotele fosse in opposizione alla fede cristiana, e si rifiutavano di studiarlo. Si incontrarono due culture: la cultura pre-cristiana di Aristotele, con la sua radicale razionalità, e la classica cultura cristiana. Certi ambienti erano condotti al rifiuto di Aristotele anche dalla presentazione che di tale filosofo era stata fatta dai commentatori arabi Avicenna e Averroè. Infatti, furono essi ad aver trasmesso al mondo latino la filosofia aristotelica. Per esempio, questi commentatori avevano insegnato che gli uomini non dispongono di un’intelligenza personale, ma che vi è un unico intelletto universale, una sostanza spirituale comune a tutti, che opera in tutti come “unica”: quindi una depersonalizzazione dell’uomo. Un altro punto discutibile veicolato dai commentatori arabi era quello secondo il quale il mondo è eterno come Dio. Si scatenarono comprensibilmente dispute a non finire nel mondo universitario e in quello ecclesiastico. La filosofia aristotelica si andava diffondendo addirittura tra la gente semplice.
Tommaso d’Aquino, alla scuola di Alberto Magno, svolse un’operazione di fondamentale importanza per la storia della filosofia e della teologia, direi per la storia della cultura: studiò a fondo Aristotele e i suoi interpreti, procurandosi nuove traduzioni latine dei testi originali in greco. Così non si appoggiava più solo ai commentatori arabi, ma poteva leggere personalmente i testi originali, e commentò gran parte delle opere aristoteliche, distinguendovi ciò che era valido da ciò che era dubbio o da rifiutare del tutto, mostrando la consonanza con i dati della Rivelazione cristiana e utilizzando largamente e acutamente il pensiero aristotelico nell’esposizione degli scritti teologici che compose. In definitiva, Tommaso d’Aquino mostrò che tra fede cristiana e ragione sussiste una naturale armonia. E questa è stata la grande opera di Tommaso, che in quel momento di scontro tra due culture – quel momento nel quale sembrava che la fede dovesse arrendersi davanti alla ragione – ha mostrato che esse vanno insieme, che quanto appariva ragione non compatibile con la fede non era ragione, e quanto appariva fede non era fede, in quanto opposta alla vera razionalità; così egli ha creato una nuova sintesi, che ha formato la cultura dei secoli seguenti.
Per le sue eccellenti doti intellettuali, Tommaso fu richiamato a Parigi come professore di teologia sulla cattedra domenicana. Qui iniziò anche la sua produzione letteraria, che proseguì fino alla morte, e che ha del prodigioso: commenti alla Sacra Scrittura, perché il professore di teologia era soprattutto interprete della Scrittura, commenti agli scritti di Aristotele, opere sistematiche poderose, tra cui eccelle la Summa Theologiae, trattati e discorsi su vari argomenti. Per la composizione dei suoi scritti, era coadiuvato da alcuni segretari, tra i quali il confratello Reginaldo di Piperno, che lo seguì fedelmente e al quale fu legato da fraterna e sincera amicizia, caratterizzata da una grande confidenza e fiducia. È questa una caratteristica dei santi: coltivano l’amicizia, perché essa è una delle manifestazioni più nobili del cuore umano e ha in sé qualche cosa di divino, come Tommaso stesso ha spiegato in alcune quaestiones della Summa Theologiae, in cui scrive: “La carità è l’amicizia dell’uomo con Dio principalmente, e con gli esseri che a Lui appartengono” (II, q. 23, a.1).
Non rimase a lungo e stabilmente a Parigi. Nel 1259 partecipò al Capitolo Generale dei Domenicani a Valenciennes dove fu membro di una commissione che stabilì il programma di studi nell’Ordine. Dal 1261 al 1265, poi, Tommaso era ad Orvieto. Il Pontefice Urbano IV, che nutriva per lui una grande stima, gli commissionò la composizione dei testi liturgici per la festa del Corpus Domini, che celebriamo domani, istituita in seguito al miracolo eucaristico di Bolsena. Tommaso ebbe un’anima squisitamente eucaristica. I bellissimi inni che la liturgia della Chiesa canta per celebrare il mistero della presenza reale del Corpo e del Sangue del Signore nell’Eucaristia sono attribuiti alla sua fede e alla sua sapienza teologica. Dal 1265 fino al 1268 Tommaso risiedette a Roma, dove, probabilmente, dirigeva uno Studium, cioè una Casa di studi dell’Ordine, e dove iniziò a scrivere la sua Summa Theologiae (cfr Jean-Pierre Torrell, Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, Casale Monf., 1994, pp. 118-184).
Nel 1269 fu richiamato a Parigi per un secondo ciclo di insegnamento. Gli studenti – si può capire – erano entusiasti delle sue lezioni. Un suo ex-allievo dichiarò che una grandissima moltitudine di studenti seguiva i corsi di Tommaso, tanto che le aule riuscivano a stento a contenerli e aggiungeva, con un’annotazione personale, che “ascoltarlo era per lui una felicità profonda”. L’interpretazione di Aristotele data da Tommaso non era accettata da tutti, ma persino i suoi avversari in campo accademico, come Goffredo di Fontaines, ad esempio, ammettevano che la dottrina di frate Tommaso era superiore ad altre per utilità e valore e serviva da correttivo a quelle di tutti gli altri dottori. Forse anche per sottrarlo alle vivaci discussioni in atto, i Superiori lo inviarono ancora una volta a Napoli, per essere a disposizione del re Carlo I, che intendeva riorganizzare gli studi universitari.
Oltre che allo studio e all’insegnamento, Tommaso si dedicò pure alla predicazione al popolo. E anche il popolo volentieri andava ad ascoltarlo. Direi che è veramente una grande grazia quando i teologi sanno parlare con semplicità e fervore ai fedeli. Il ministero della predicazione, d’altra parte, aiuta gli stessi studiosi di teologia a un sano realismo pastorale, e arricchisce di vivaci stimoli la loro ricerca.
Gli ultimi mesi della vita terrena di Tommaso restano circondati da un’atmosfera particolare, misteriosa direi. Nel dicembre del 1273 chiamò il suo amico e segretario Reginaldo per comunicargli la decisione di interrompere ogni lavoro, perché, durante la celebrazione della Messa, aveva compreso, in seguito a una rivelazione soprannaturale, che quanto aveva scritto fino ad allora era solo “un mucchio di paglia”. È un episodio misterioso, che ci aiuta a comprendere non solo l’umiltà personale di Tommaso, ma anche il fatto che tutto ciò che riusciamo a pensare e a dire sulla fede, per quanto elevato e puro, è infinitamente superato dalla grandezza e dalla bellezza di Dio, che ci sarà rivelata in pienezza nel Paradiso. Qualche mese dopo, sempre più assorto in una pensosa meditazione, Tommaso morì mentre era in viaggio verso Lione, dove si stava recando per prendere parte al Concilio Ecumenico indetto dal Papa Gregorio X. Si spense nell’Abbazia cistercense di Fossanova, dopo aver ricevuto il Viatico con sentimenti di grande pietà.
La vita e l’insegnamento di san Tommaso d’Aquino si potrebbero riassumere in un episodio tramandato dagli antichi biografi. Mentre il Santo, come suo solito, era in preghiera davanti al Crocifisso, al mattino presto nella Cappella di San Nicola, a Napoli, Domenico da Caserta, il sacrestano della chiesa, sentì svolgersi un dialogo. Tommaso chiedeva, preoccupato, se quanto aveva scritto sui misteri della fede cristiana era giusto. E il Crocifisso rispose: “Tu hai parlato bene di me, Tommaso. Quale sarà la tua ricompensa?”. E la risposta che Tommaso diede è quella che anche noi, amici e discepoli di Gesù, vorremmo sempre dirgli: “Nient’altro che Te, Signore!” (Ibid., p. 320). 

BENEDETTO XVI – SAN TOMMASO D’AQUINO – II Catechesi

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100616_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 16 giugno 2010

SAN TOMMASO D’AQUINO (2)

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei continuare la presentazione di san Tommaso d’Aquino, un teologo di tale valore che lo studio del suo pensiero è stato esplicitamente raccomandato dal Concilio Vaticano II in due documenti, il decreto Optatam totius, sulla formazione al sacerdozio, e la dichiarazione Gravissimum educationis, che tratta dell’educazione cristiana. Del resto, già nel 1880 il Papa Leone XIII, suo grande estimatore e promotore di studi tomistici, volle dichiarare san Tommaso Patrono delle Scuole e delle Università Cattoliche.
Il motivo principale di questo apprezzamento risiede non solo nel contenuto del suo insegnamento, ma anche nel metodo da lui adottato, soprattutto la sua nuova sintesi e distinzione tra filosofia e teologia. I Padri della Chiesa si trovavano confrontati con diverse filosofie di tipo platonico, nelle quali si presentava una visione completa del mondo e della vita, includendo la questione di Dio e della religione. Nel confronto con queste filosofie, loro stessi avevano elaborato una visione completa della realtà, partendo dalla fede e usando elementi del platonismo, per rispondere alle questioni essenziali degli uomini. Questa visione, basata sulla rivelazione biblica ed elaborata con un platonismo corretto alla luce della fede, essi la chiamavano la « filosofia nostra ». La parola « filosofia » non era quindi espressione di un sistema puramente razionale e, come tale, distinto dalla fede, ma indicava una visione complessiva della realtà, costruita nella luce della fede, ma fatta propria e pensata dalla ragione; una visione che, certo, andava oltre le capacità proprie della ragione, ma che, come tale, era anche soddisfacente per essa. Per san Tommaso l’incontro con la filosofia pre-cristiana di Aristotele (morto circa nel 322 a.C.) apriva una prospettiva nuova. La filosofia aristotelica era, ovviamente, una filosofia elaborata senza conoscenza dell’Antico e del Nuovo Testamento, una spiegazione del mondo senza rivelazione, per la sola ragione. E questa razionalità conseguente era convincente. Così la vecchia forma della « filosofia nostra » dei Padri non funzionava più. La relazione tra filosofia e teologia, tra fede e ragione, era da ripensare. Esisteva una « filosofia » completa e convincente in se stessa, una razionalità precedente la fede, e poi la “teologia”, un pensare con la fede e nella fede. La questione pressante era questa: il mondo della razionalità, la filosofia pensata senza Cristo, e il mondo della fede sono compatibili? Oppure si escludono? Non mancavano elementi che affermavano l’incompatibilità tra i due mondi, ma san Tommaso era fermamente convinto della loro compatibilità – anzi che la filosofia elaborata senza conoscenza di Cristo quasi aspettava la luce di Gesù per essere completa. Questa è stata la grande “sorpresa” di san Tommaso, che ha determinato il suo cammino di pensatore. Mostrare questa indipendenza di filosofia e teologia e, nello stesso tempo, la loro reciproca relazionalità è stata la missione storica del grande maestro. E così si capisce che, nel XIX secolo, quando si dichiarava fortemente l’incompatibilità tra ragione moderna e fede, Papa Leone XIII indicò san Tommaso come guida nel dialogo tra l’una e l’altra. Nel suo lavoro teologico, san Tommaso suppone e concretizza questa relazionalità. La fede consolida, integra e illumina il patrimonio di verità che la ragione umana acquisisce. La fiducia che san Tommaso accorda a questi due strumenti della conoscenza – la fede e la ragione – può essere ricondotta alla convinzione che entrambe provengono dall’unica sorgente di ogni verità, il Logos divino, che opera sia nell’ambito della creazione, sia in quello della redenzione.
Insieme con l’accordo tra ragione e fede, si deve riconoscere, d’altra parte, che esse si avvalgono di procedimenti conoscitivi differenti. La ragione accoglie una verità in forza della sua evidenza intrinseca, mediata o immediata; la fede, invece, accetta una verità in base all’autorità della Parola di Dio che si rivela. Scrive san Tommaso al principio della sua Summa Theologiae: “Duplice è l’ordine delle scienze; alcune procedono da principi conosciuti mediante il lume naturale della ragione, come la matematica, la geometria e simili; altre procedono da principi conosciuti mediante una scienza superiore: come la prospettiva procede da principi conosciuti mediante la geometria e la musica da principi conosciuti mediante la matematica. E in questo modo la sacra dottrina (cioè la teologia) è scienza perché procede dai principi conosciuti attraverso il lume di una scienza superiore, cioè la scienza di Dio e dei santi” (I, q. 1, a. 2).
Questa distinzione assicura l’autonomia tanto delle scienze umane, quanto delle scienze teologiche. Essa però non equivale a separazione, ma implica piuttosto una reciproca e vantaggiosa collaborazione. La fede, infatti, protegge la ragione da ogni tentazione di sfiducia nelle proprie capacità, la stimola ad aprirsi a orizzonti sempre più vasti, tiene viva in essa la ricerca dei fondamenti e, quando la ragione stessa si applica alla sfera soprannaturale del rapporto tra Dio e uomo, arricchisce il suo lavoro. Secondo san Tommaso, per esempio, la ragione umana può senz’altro giungere all’affermazione dell’esistenza di un unico Dio, ma solo la fede, che accoglie la Rivelazione divina, è in grado di attingere al mistero dell’Amore di Dio Uno e Trino.
D’altra parte, non è soltanto la fede che aiuta la ragione. Anche la ragione, con i suoi mezzi, può fare qualcosa di importante per la fede, rendendole un triplice servizio che san Tommaso riassume nel proemio del suo commento al De Trinitate di Boezio: “Dimostrare i fondamenti della fede; spiegare mediante similitudini le verità della fede; respingere le obiezioni che si sollevano contro la fede” (q. 2, a. 2). Tutta la storia della teologia è, in fondo, l’esercizio di questo impegno dell’intelligenza, che mostra l’intelligibilità della fede, la sua articolazione e armonia interna, la sua ragionevolezza e la sua capacità di promuovere il bene dell’uomo. La correttezza dei ragionamenti teologici e il loro reale significato conoscitivo si basano sul valore del linguaggio teologico, che è, secondo san Tommaso, principalmente un linguaggio analogico. La distanza tra Dio, il Creatore, e l’essere delle sue creature è infinita; la dissimilitudine è sempre più grande che la similitudine (cfr DS 806). Ciononostante, in tutta la differenza tra Creatore e creatura, esiste un’analogia tra l’essere creato e l’essere del Creatore, che ci permette di parlare con parole umane su Dio.
San Tommaso ha fondato la dottrina dell’analogia, oltre che su argomentazioni squisitamente filosofiche, anche sul fatto che con la Rivelazione Dio stesso ci ha parlato e ci ha, dunque, autorizzato a parlare di Lui. Ritengo importante richiamare questa dottrina. Essa, infatti, ci aiuta a superare alcune obiezioni dell’ateismo contemporaneo, il quale nega che il linguaggio religioso sia fornito di un significato oggettivo, e sostiene invece che abbia solo un valore soggettivo o semplicemente emotivo. Questa obiezione risulta dal fatto che il pensiero positivistico è convinto che l’uomo non conosce l’essere, ma solo le funzioni sperimentabili della realtà. Con san Tommaso e con la grande tradizione filosofica noi siamo convinti, che, in realtà, l’uomo non conosce solo le funzioni, oggetto delle scienze naturali, ma conosce qualcosa dell’essere stesso – per esempio conosce la persona, il Tu dell’altro, e non solo l’aspetto fisico e biologico del suo essere.
Alla luce di questo insegnamento di san Tommaso, la teologia afferma che, per quanto limitato, il linguaggio religioso è dotato di senso – perché tocchiamo l’essere -, come una freccia che si dirige verso la realtà che significa. Questo accordo fondamentale tra ragione umana e fede cristiana è ravvisato in un altro principio basilare del pensiero dell’Aquinate: la Grazia divina non annulla, ma suppone e perfeziona la natura umana. Quest’ultima, infatti, anche dopo il peccato, non è completamente corrotta, ma ferita e indebolita. La Grazia, elargita da Dio e comunicata attraverso il Mistero del Verbo incarnato, è un dono assolutamente gratuito con cui la natura viene guarita, potenziata e aiutata a perseguire il desiderio innato nel cuore di ogni uomo e di ogni donna: la felicità. Tutte le facoltà dell’essere umano vengono purificate, trasformate ed elevate dalla Grazia divina.
Un’importante applicazione di questa relazione tra la natura e la Grazia si ravvisa nella teologia morale di san Tommaso d’Aquino, che risulta di grande attualità. Al centro del suo insegnamento in questo campo, egli pone la legge nuova, che è la legge dello Spirito Santo. Con uno sguardo profondamente evangelico, insiste sul fatto che questa legge è la Grazia dello Spirito Santo data a tutti coloro che credono in Cristo. A tale Grazia si unisce l’insegnamento scritto e orale delle verità dottrinali e morali, trasmesso dalla Chiesa. San Tommaso, sottolineando il ruolo fondamentale, nella vita morale, dell’azione dello Spirito Santo, della Grazia, da cui scaturiscono le virtù teologali e morali, fa comprendere che ogni cristiano può raggiungere le alte prospettive del “Sermone della Montagna” se vive un rapporto autentico di fede in Cristo, se si apre all’azione del suo Santo Spirito. Però – aggiunge l’Aquinate – “anche se la grazia è più efficace della natura, tuttavia la natura è più essenziale per l’uomo” (Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 6, ad 2), per cui, nella prospettiva morale cristiana, c’è un posto per la ragione, la quale è capace di discernere la legge morale naturale. La ragione può riconoscerla considerando ciò che è bene fare e ciò che è bene evitare per il conseguimento di quella felicità che sta a cuore a ciascuno, e che impone anche una responsabilità verso gli altri, e, dunque, la ricerca del bene comune. In altre parole, le virtù dell’uomo, teologali e morali, sono radicate nella natura umana. La Grazia divina accompagna, sostiene e spinge l’impegno etico ma, di per sé, secondo san Tommaso, tutti gli uomini, credenti e non credenti, sono chiamati a riconoscere le esigenze della natura umana espresse nella legge naturale e ad ispirarsi ad essa nella formulazione delle leggi positive, quelle cioè emanate dalle autorità civili e politiche per regolare la convivenza umana.
Quando la legge naturale e la responsabilità che essa implica sono negate, si apre drammaticamente la via al relativismo etico sul piano individuale e al totalitarismo dello Stato sul piano politico. La difesa dei diritti universali dell’uomo e l’affermazione del valore assoluto della dignità della persona postulano un fondamento. Non è proprio la legge naturale questo fondamento, con i valori non negoziabili che essa indica? Il Venerabile Giovanni Paolo II scriveva nella sua Enciclica Evangelium vitae parole che rimangono di grande attualità: “Urge dunque, per l’avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l’esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell’essere umano, ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere” (n. 71).
In conclusione, Tommaso ci propone un concetto della ragione umana largo e fiducioso: largo perché non è limitato agli spazi della cosiddetta ragione empirico-scientifica, ma aperto a tutto l’essere e quindi anche alle questioni fondamentali e irrinunciabili del vivere umano; e fiducioso perché la ragione umana, soprattutto se accoglie le ispirazioni della fede cristiana, è promotrice di una civiltà che riconosce la dignità della persona, l’intangibilità dei suoi diritti e la cogenza dei suoi doveri. Non sorprende che la dottrina circa la dignità della persona, fondamentale per il riconoscimento dell’inviolabilità dei diritti dell’uomo, sia maturata in ambienti di pensiero che hanno raccolto l’eredità di san Tommaso d’Aquino, il quale aveva un concetto altissimo della creatura umana. La definì, con il suo linguaggio rigorosamente filosofico, come “ciò che di più perfetto si trova in tutta la natura, cioè un soggetto sussistente in una natura razionale” (Summa Theologiae, Ia, q. 29, a. 3).
La profondità del pensiero di san Tommaso d’Aquino sgorga – non dimentichiamolo mai – dalla sua fede viva e dalla sua pietà fervorosa, che esprimeva in preghiere ispirate, come questa in cui chiede a Dio: “Concedimi, ti prego, una volontà che ti cerchi, una sapienza che ti trovi, una vita che ti piaccia, una perseveranza che ti attenda con fiducia e una fiducia che alla fine giunga a possederti”.

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