L’APOSTOLO PAOLO, ALBERIONE E LA FAMIGLIA PAOLINA (1Cor 9,16) (Gal 2,2)

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L’APOSTOLO PAOLO, ALBERIONE E LA FAMIGLIA PAOLINA

“Guai a me se non predicassi il Vangelo” (1Cor 9,16) ma in comunione “per non correre invano” (Gal 2,2)

di sr. Elena Bosetti sgbp – Roma 26 giugno 2003

Cosa dice alla Famiglia Paolina di oggi il fascino che l’apostolo Paolo ha esercitato su don Giacomo Alberione? Cosa significa e comporta per la nostra spiritualità apostolica? E come entrare a nostra volta in questo fascino, come lasciarci coinvolgere dai sentimenti del beato Giacomo Alberione? Parlo di fascino perché a mio avviso si tratta di un singolare incanto, che rapisce il cuore prima ancora della mente. Non si può certo dire che il nostro fondatore fosse un romantico… ma indubbiamente rimase affascinato dall’a­more di Paolo per Gesù Cristo. Che cosa lo avvinceva di san Paolo? Direi il mistico e l’apostolo in massimo grado e in modo reversibile: Paolo mistico e dunque apostolo, apostolo perché mistico. Ecco cosa dice alle Figlie di San Paolo nel 1931: “L’anima apostola della buona stampa è colei che prima di tutto è innamorata di  Dio. E’ quella  che ha lungamente meditato, è un’anima che ha fatto come San Paolo che si è  ritirato per tre  anni nel deserto e ha meditato le cose sante, la vita di Gesù, e fu istruito da Gesù  Cristo stesso… E’ quella che riempie il proprio cuore di fede, di tanta speranza dei beni  eterni; è un’anima  che esercita la povertà, la castità, che esercita l’obbedienza alla Chiesa, ai suoi  pastori; è  un’anima che prima di tutto ha purificato se stessa; è un’anima che riempie il  proprio cuore di  Dio, e poi riempirà il cuore degli altri e otterrà per gli altri la benedizione e  le grazie di  cui ha pieno il cuore. In secondo luogo, l’anima apostola è quella che ama gli altri uomini (…). Vorrebbe  allora  mettersi sulla strada che percorrono tutti e gridare: « non per la via storta, non per  la via larga  che conduce all’inferno; tutti per la via stretta ma che è la via diritta che conduce  al cielo ».  L’anima apostola vorrebbe vuotare l’inferno e riempire il paradiso; vorrebbe  aiutare tutti i  moribondi, vorrebbe aiutare anche tutte le anime che sono in purgatorio, vorrebbe  uscire di  casa, andare per le vie della città, passare per le spiagge, cercare tutti gli uomini  nelle montagne, nelle grotte, andare in Africa, nell’America, nell’Asia e nell’Oceania e  poter dire a tutti: “O uomini, Dio vi attende in cielo…”. Articolo questa riflessione in tre passaggi seguendo il racconto di Paolo nella lettera ai Galati. Lo schema che vorrei sviluppare è il seguente:

1.          Conquistato da Gesù Cristo, Paolo vive di Lui: è tutto preso dalla passione di comunicare il Vangelo. 2.          Paolo non si considera però un libero battitore, né intende “correre invano” nella predicazione del Vangelo. A tale scopo sale due volte a Gerusalemme per incontrare Cefa. La prima volta passa con lui 15 giorni (Gal 1,18): è più che una visita di cortesia! Vi ritorna una seconda volta con Barnaba dopo 14 anni e partecipa all’assemblea di Gerusalemme, il primo concilio della Chiesa. 3.          Il riconoscimento del ministero di Pietro non impedisce in alcun modo l’evangelica franchezza: Paolo ad Antiochia contesta apertamente Cefa, perché “aveva torto” (Gal 2,11-14). Chiedo al beato Giacomo Alberione, nostro padre e maestro, di aiutarmi nell’interpretare il testo biblico in accordo con la sua lettura sapienziale e di concedere a tutti noi la grazia di vivere ciò che lo Spirito ci darà di comprendere. 1. “Guai a me se non predicassi il Vangelo” (1Cor 9,16) Il Paolo che affascina don Alberione è indubbiamente l’apostolo innamorato di Gesù Cristo, che non si preoccupa di consultare nessuno in prima istanza, ma semplicemente di rispondere con tutto l’ardore a Colui che liberamente e gratuitamente gli si è fatto incontro. Ecco cosa dice l’Apostolo nel primo capitolo della lettera ai Galati: “Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco. In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore” (Gal 1,13-19). Fermiamoci un attimo sulla dinamica spirituale sottesa al comportamento di Paolo, così come egli si racconta. Qual è il suo primo atteggiamento quando Dio si compiacque di rivelargli Gesù Cristo? Lo dice chiaramente: non si preoccupò di consultare la gerarchia ecclesiastica, non sentì affatto bisogno o dovere di salire a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di lui… Conquistato dal Cristo, Paolo non si preoccupa di tutelarsi presso gli uomini. Pensa semplicemente a seguire – meglio, a “correre” – dietro Colui che lo ha chiamato. Per conquistarlo a sua volta con piena risposta d’amore. Dalla frequentazione delle Scritture egli ha appreso che bisogna giocare fino in fondo, in maniera diretta e personale il rapporto con Dio che si rivela. Le mediazioni umane hanno indubbiamente il loro valore, ma stanno al secondo posto e lì vanno lasciate. Con buona pace. Il primo passo di Paolo non è di andare da Pietro o da altri, ma di continuare la sua corsa dietro il Cristo che lo conduce anzitutto nel deserto (in Arabia) e poi ancora a Damasco. Gli interessa Gesù Cristo e il suo vangelo. Dunque dalla contemplazione alla missione. Primo e imbattibile nella missione perché primo e imbattibile nella contemplazione. Paolo proteso in avanti, lanciatissimo nella missione perché innamorato, conquistato dal fascino di Gesù Cristo. Paolo si è lasciato trasformare dall’incontro dinamico con il Crocifisso risorto. Gli diventa conforme nei pensieri e sentimenti. Il mistero del Cristo trova così prolungamento nella vita dell’Apostolo che si lascia crocifiggere al mondo e alla sua logica di vanità: “Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo” (Fil 3,7-8). Paolo entra decisamente nella kenosi del Cristo che da ricco che era si fece povero (2Cor 8,9). Anche lui si impoverisce liberamente e gioiosamente, stimando futilità e spazzatura tutto ciò che non concorre alla conoscenza amante di Gesù Cristo: “che io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11). L’appassionato apostolo di Gesù Cristo scrive ai Corinzi: “Non è per me un vanto predicare il vangelo; è per me un dovere: guai a me se non predicassi il Vangelo” (1Cor 9,16). E non credo pensasse al “guai” del castigo divino, come a dire: se non predico sarò rimproverato dal Cristo! Non è in questo senso. E’ questione di amore. Un innamorato non può tacere, gli parlano gli occhi! Dilexit me et tradidit semetipsum pro me: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Per san Paolo è un insopprimibile bisogno dell’amore comunicare Gesù Cristo. Deve aver sperimentato qualcosa di simile il giovane Alberione in quella prolungata adorazione eucaristica nella notte tra i due secoli. Egli scrive di sé in terza persona: “Si sentì profondamente obbligato a prepararsi a far qualcosa per il Signore e gli uomini del nuovo secolo con cui sarebbe vissuto” (AD 15). Non un vanto, ma un obbligo apostolico: l’amante non si rassegna a tacere dell’Amato! Come Paolo anche don Alberione è stato afferrato dall’amore del Cristo che rende “apostoli”, felici di comunicare agli altri la gioia del grande amore che abbiamo sperimentato. Felici di vivere e dare al mondo Gesù Cristo via, verità e vita (Gv 14,7). Da innamorato di Gesù Cristo don Alberione capì che non servono invettive e lamenti. Non servono geremiadi: la gente non viene più in Chiesa, le famiglie si sfasciano, i giovani disertano la catechesi… Anziché sciupare il tempo in sterili lamenti bisogna investire tutti i talenti: i mezzi, le scienze e nuove tecnologie… per fare “a tutti la carità della Verità”,  dove Verità è sinonimo di Vangelo, di Gesù Cristo Maestro e Pastore. Come Paolo don Alberione si sente “debitore” di tutti, in particolare di chi cerca la Verità nel buio e come a tentoni, nei moderni areopaghi della cultura che parla di comunicazione ma rischia di moltiplicare solitudine e povertà… Entra con umiltà e coraggio don Alberione in questa nuova via, con l’ardire di chi vuole comunicare il bene più grande: la bella notizia che Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio suo Gesù! “Guai a me se non evangelizzo, se non predico il vangelo!”. Su questo punto credo siamo tutti d’accordo, pur sentendoci personalmente e come Famiglia Paolina assai distanti. Tiepidi e distanti dalla passione evangelizzatrice di Paolo e del nostro Fondatore che ha saputo trascinare e coinvolgere nel suo entusiasmo per il Vangelo schiere di ragazzi e di giovani donne. Non possiamo tuttavia rassegnarci. La coscienza della distanza personale e comunitaria – i nostri limiti, povertà e peccati di Famiglia Paolina – lungi dal farci tirare i remi in barca lasciando spazio a ripiegamenti di vario tipo, devono spronarci nel “mi protendo in avanti” sul duplice versante della spiritualità e della missione: donec formetur Christus, in noi e in coloro a cui siamo inviati! 2. In comunione “per non correre invano” (Gal 2,1-10) Non c’è dubbio che nella concezione del nostro Fondatore, e dunque nella genesi spirituale e pastorale della Famiglia Paolina, Paolo e Pietro vanno insieme. La cosa non riguarda solo le Pastorelle che invocano entrambi gli Apostoli e celebrano come festa patronale della loro Congregazione la solennità liturgica di Pietro e Paolo il 29 giugno. Direi piuttosto: alle Pastorelle don Alberione affida in termini di esemplarità quell’istanza di comunione che è dimensione fondamentale dell’intera Famiglia Paolina. Lo suggeriscono diversi indizi. Ad esempio, il capitolo di Abundantes Divitiae intitolato: “La ricchezza della romanità”. Nel 1925 al termine del pellegrinaggio per l’anno santo don Alberione matura la decisione di aprire a Roma la prima Casa filiale, e il senso è evidente: Paolo con Pietro, la Famiglia Paolina a servizio della Chiesa, in comunione col Papa. Un altro indizio è il quarto voto che vincola i membri della Società San Paolo: obbedienza al Papa per quanto concerne l’apostolato. Riguarda solo la Società San Paolo o in qualche modo tutti? Sappiamo che nella mente del Fondatore la prima Congregazione ha funzione di altrice nei confronti delle sorelle e dei fratelli (= congregazioni e istituti) nati dopo. Dunque quel loro voto e impegno di obbedienza tocca implicitamente l’intera Famiglia. Sarebbe assurdo che i Paolini debbano obbedienza al Papa per quanto concerne l’apostolato e le Paoline siano invece libere di fare come vogliono! E’ decisamente impensabile per don Alberione. In Abundantes Divitiae egli afferma che la “romanità” – ovvero la comunione della Famiglia Paolina con Pietro – è un dono che sgorga come gli altri dall’Eucarestia. Non è questa la sede per analisi dettagliate. Ma leggendo i nn. 49-55 di Abundantes Divitiae si coglie facilmente il filo rosso del discorso. In momenti di forti contrapposizioni politiche, sociali e culturali, come quelle in cui è nata la Famiglia Paolina, e di fronte all’urgenza di non restare indietro sui tempi, di “essere all’altezza dei nuovi compiti”, il Fondatore esprime un criterio di comportamento: attenersi alle indicazioni del Romano Pontefice. In AD 56 dichiara: “sempre, solo ed in tutto, la romanità”. Una frase che mi sembra vada decodificata in questo senso: sempre, solo e in tutto il bene della Chiesa nella piena comunione con Pietro. Non comunione di retorica e sterile adulazione del primato, quanto di operosa dedizione a servizio del Vangelo. In altre parole, nell’apostolato la carta vincente è la comunione che esige anche obbedienza. Non la caricatura dell’obbedienza, ma l’obbedienza umile e coraggiosa del vangelo. Vorrei approfondire questo tema sulla falsariga del comportamento di Paolo, come lui stesso si racconta nella lettera ai Galati. Tra parentesi ricordo che l’esegesi contemporanea ci ha resi più attenti alle discordanze narrative, ad esempio tra la verità di Paolo (lettera ai Galati) e la verità di Luca (Atti degli Apostoli). Dal confronto di Galati con Atti appare evidente che la verità di Paolo non collima con quella di Luca, redattore degli Atti. Secondo quest’ultimo la porta del vangelo ai Pagani l’avrebbe aperta suo malgrado lo stesso san Pietro, il quale con grande umiltà si rese conto che lo Spirito santo lo aveva preceduto in casa di Cornelio centurione romano. Poteva lui opporsi negando il battesimo di acqua a chi già mostrava di essere stato battezzato nello Spirito? E’ decisamente “umile” il primo Papa, nel senso migliore del termine: non si sente al governo come talora intendiamo noi, ma docilmente al seguito dello Spirito che secondo la promessa di Gesù guida verso la verità tutta intera (Gv 16,13). I primi a rimproverare Pietro sono i giudei cristiani tradizionalisti, per niente intenzionati ad aprire le porte ai gentili: «Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!». Allora Pietro raccontò per ordine come erano andate le cose” (At 11,2-3). Nell’assemblea di Gerusalemme Pietro ha un ruolo di primo piano secondo Luca, se non proprio come uomo punta, certamente come uomo ponte. E’ lui che “dopo una lunga discussione”, prende per primo la parola raccontando la propria esperienza in difesa della predicazione del vangelo ai pagani (At 15,7ss). Direi che Luca offre fondamento agli iconografi per il fraterno abbraccio dei due Apostoli. Anche in senso teologico perché qui il discorso di Pietro si sposa in pieno con la teologia di Paolo. Basti questa frase: “Dio, che conosce i cuori, ha reso testimonianza in loro favore (= dei pagani) concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi; e non ha fatto nessuna discriminazione tra noi e loro, purificandone i cuori con la fede. Or dunque, perché continuate a tentare Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri, né noi siamo stati in grado di portare?” (At 15,8-10). Qui Pietro dice parole che siamo abituati a sentire da Paolo. Ma veniamo alla lettera ai Galati dove emergono tre momenti della relazione tra i due Apostoli:

-  Paolo da Pietro: Gal 1,18 -  Paolo con Pietro: Gal 2,1-10 -  Paolo contesta Pietro: Gal 2,11-20

2.1 Paolo da Pietro: fraterna conoscenza Il primo incontro ha luogo tre anni dopo l’esperienza travolgente sulla via di Damasco dove Paolo incontra Gesù (o meglio, dove Gesù viene incontro a Paolo). “Dopo tre anni – scrive l’Apostolo – andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni” (Gal 1,18). Dicevo in apertura: è più che una visita di cortesia! Dopo il suo personalissimo cammino con il Dio di Gesù Cristo, Paolo si reca da Cefa, non semplicemente per fare la conoscenza, ma per “consultarlo”. Una visita che non può prescindere da ciò che profondamente li unisce: la dedizione all’evangelo di Gesù Cristo. 2.2 Paolo con Pietro: uniti nel Vangelo Il secondo incontro avviene 14 anni dopo (dalla conversione o dal primo incontro?). Il viaggio è comunque il medesimo di cui riferisce Atti 15 e Paolo ne precisa la motivazione: per non rischiare “di correre o di aver corso invano”. La narrazione di questa seconda salita a  Gerusalemme è assai più articolata rispetto alla prima e più ricca di particolari. Nuovi personaggi entrano in scena a fianco di Paolo che non è più un evangelizzatore solitario (vedi anche Gal 1,2). E’ accompagnato da Barnaba e Tito, decisamente importanti in ordine allo scopo del viaggio. Inoltre non è più solo Pietro l’interlocutore di Paolo, ma i “notabili” della comunità gerosolimitana, le persone più ragguardevoli: Giacomo, Cefa e Giovanni, “ritenuti le colonne”. Come si comporta Paolo in questa circostanza? Direi con grande cautela e diplomazia: è in gioco infatti il bene più prezioso, la libertà in Cristo. – Paolo “diplomatico” e il codice di compagnia Osserviamo come Paolo, che siamo abituati a definire libero e franco, proceda qui con cautela. Non parla subito a tutta la comunità, non espone a tutti ciò che pensa e predica, non svuota il sacco ai quattro venti. Come si comporta invece? Ecco cosa scrive a Galati: “Esposi loro il vangelo che io predico tra i pagani, ma lo esposi privatamente alle persone più ragguardevoli” (2,2). Questa davvero è politica, è autentica capacità diplomatica! Paolo non può permettersi di perdere la battaglia: non per se stesso ma per la causa in gioco, la libertà cristiana! E dunque studia bene come muoversi. Comincia con le persone più ragguardevoli. Se guadagna il loro consenso, il resto sarà più facile. Non sarà solo contro tutti. Potrà contrastare i “falsi fratelli” – gli intrusi conservatori – avvalendosi del conquistato appoggio dei tre uomini più influenti: Giacomo, Cefa e Giovanni. È l’inizio di un consenso che culminerà in una bella stretta di mano, segno di comunione e di unità.

-Per non correre invano Il verbo “correre” appartiene al linguaggio agonistico: con l’idea di progresso esprime anche faticoso impegno e dispendio di energie. Paolo ama questo verbo per descrivere la propria esperienza spirituale e apostolica. Il correre di Paolo è strettamente unito al correre delle sue comunità. Ai cristiani di Filippi scrive di essere irreprensibili e semplici, tenendo alta la parola di vita. “Allora nel giorno di Cristo, io potrò vantarmi di non aver corso invano né invano faticato” (Fil 2,16). Nel contesto dell’assemblea gerosolimitana il timore di aver corso invano riguardava il destino delle comunità cristiane provenienti dal paganesimo. Ma proprio il caso di Tito mostra che Paolo non ha corso invano. Se Tito non è obbligato a circoncidersi, significa che ciò che vale per lui è valido come principio per tutti.

Il codice di compagnia comincia a mostrare i suoi buoni frutti! – Il vangelo affidato a Paolo e a Pietro Paolo e Pietro sono accomunati da una medesima responsabilità, poichè ad entrambi è stato affidato il vangelo. Si registra un notevole sguardo di fede nell’assemblea di Gerusalemme. L’esperienza di Pietro, per quanto importante per la prima comunità cristiana, non esaurisce il manifestarsi dell’agire divino. Le persone più ragguardevoli vedono (con sguardo credente) che a Paolo è stato affidato il vangelo per i non circoncisi come a Pietro quello per i circoncisi (Gal 2,7-8). Non si tratta di privilegi ma di un incarico, di una missione. È il vangelo il criterio sommo di valutazione: per Paolo e anche per i responsabili di Gerusalemme. Nessuno ne è proprietario, perché il vangelo è affidato da Dio e l’evangelizzatore è solo un ministro (cf. 1Cor 3,5). 2.3 Paolo contesta Pietro: per amore del Vangelo La narrazione dell’evento di Antiochia ha un tono certamente più duro rispetto all’episodio precedente. Anzi, sembra perfino contraddire quell’armonia appena ricordata tra Paolo e le «colonne» di Gerusalemme. Ad Antiochia, capitale della provincia romana di Siria e terza città dell’impero dopo Roma e Alessandria d’Egitto, era nata una delle comunità cristiane più vivaci. A portare il vangelo erano stati i credenti costretti a lasciare Gerusalemme in seguito alla persecuzione scoppiata al tempo del martirio di Stefano. Essi si erano rivolti anzitutto ai Giudei, ma ben presto in quella città multirazziale “la buona novella del Signore Gesù” fu annunciata anche ai Greci, e un gran numero credette e si convertì al Signore (vedi Atti 11,19-21). A guidare questa giovane comunità aperta, che vedeva riuniti nella fede in Cristo credenti provenienti dal giudaismo e dal mondo greco, la Chiesa di Gerusalemme aveva inviato Barnaba, “uomo pieno di Spirito Santo e di fede” che davanti a tanta grazia del Signore non poté che rallegrarsi. Ma si premurò anche di trovare collaboratori. Andò infatti a Tarso in cerca di Saulo / Paolo e lo coinvolse nell’animazione della comunità di Antiochia. Cosa avviene in seguito e perché Paolo si sente in dovere di richiamare alla coerenza il primo Papa? Non mi piace chiamarlo “incidente di Antiochia”, è qualcosa di più. Attenzione però che nella lettera ai Galati noi sentiamo solo una campana, quella di Paolo. Le “ragioni” di Pietro non vengono dette (il che non significa che non ne abbia avute). La lettura degli eventi è «paolina» e non di un terzo situato in posizione neutrale (gli Atti non raccontano questo episodio).

Ecco dunque cosa scrive l’Apostolo: “Quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: “Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?” (Gal 2,11-14). Paolo era preoccupato che la comunità di Antiochia venisse disorientata dal comportamento mutevole di Pietro, il quale probabilmente cercava di mediare tra i diversi gruppi, in particolare dopo l’arrivo dei giudeo-cristiani di Gerusalemme che avevano difficoltà ad accettare la comunione di mensa così come era praticata nella comunità mista di Antiochia. Qui l’uomo punta (Paolo) si scontra con l’uomo ponte (Pietro). D’altro canto il silenzio di Pietro lascia supporre che egli abbia accolto la critica di Paolo. Essa non distrugge la comunione tra i due apostoli. Le divergenze concrete sono evidenti all’intera comunità coinvolta nel diverbio, ma non fanno scadere il rapporto in mancanza di rispetto o in separazione. Trovo bello che Paolo e Pietro siano menzionati insieme non solo quando mostrano di condividere gli stessi principi (vedi At 15), ma anche quando sperimentano la possibilità di attuazioni pratiche diverse. La tensione dialettica tra il principio di fede attorno a cui si converge e la realizzazione pratica, è una tensione inerente alla pastorale di ogni tempo. E allora? Chiediamo anche per intercessione del beato Giacomo Alberione la grazia di cercare umilmente insieme la verità che libera, coniugando alla maniera di Paolo parresia evangelica e koinonia.

Conclusione Per stare a quanto citavo sopra del Fondatore che esortava ad attenersi alle indicazioni del Papa, vorrei concludere con l’invito a prendere il largo che ci viene da Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte. “Occorre riaccendere in noi – scrive il Papa – lo slancio delle origini, lasciandoci pervadere dall’ardore della predicazione apostolica seguita alla Pentecoste. Dobbiamo rivivere in noi il sentimento infuocato di Paolo, il quale esclamava: Guai a me se non predicassi il Vangelo! (1Cor 9,16).” (NMI, 40). E la Famiglia Paolina si propone appunto di vivere san Paolo oggi: “pensando, zelando, pregando e santificandosi come farebbe San Paolo, se oggi vivesse”, afferma don Alberione. “Se san Paolo vivesse oggi, continuerebbe ad ardere di quella duplice fiamma, di un  medesimo  incendio, lo zelo per Dio ed il suo Cristo, e per gli uomini d’ogni paese. E per farsi sentire  salirebbe sui pulpiti più elevati e moltiplicherebbe la sua parola con i mezzi del  progresso  attuale: stampa, cine, radio, televisione. Non sarebbe, la sua dottrina, fredda ed  astratta. Quando egli arrivava, non compariva per una conferenza occasionale: ma si fermava e formava…” (Ottobre 1954; Carissimi in San Paolo, 1151-1152). Dunque: entusiasmo per il Vangelo, passione di vivere e comunicare Gesù Cristo via verità e vita. E vivere questa passione per il Vangelo in modo tale che la Famiglia Paolina appaia “casa e scuola della comunione” (vedi NMI, 43-45). Preghiamo perché lo Spirito santo ci doni anche di realizzare qualcosa come Famiglia in quest’anno alberioniano: penso a una realtà inter-congregazionale, a un’oasi di vita per la nostra affascinante spiritualità paolina. Don Alberione diceva: “Le nostre Case vanno bene quando si fa  un centro Paolino in cui siano rappresentate tutte le Famiglie e vi sia la comprensione e lo  scambievole  aiuto spirituale non solo di preghiere, ma anche di buon esempio e di santa emulazione nello zelo” (alle Figlie di San Paolo nel 1954). Che lo Spirito illumini in particolare chi ha il compito di governare le nostre Congregazioni e Istituti, perché non abbiano paura di aprire strade nuove, e possano farlo in comunione: per non correre invano.  

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