5 GENNAIO – 2A DOMENICA DOPO NATALE: «IN PRINCIPIO ERA IL VERBO…»

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5 GENNAIO | 2A DOMENICA DOPO NATALE| OMELIA DI APPROFONDIMENTO

«IN PRINCIPIO ERA IL VERBO…»

Direi che la liturgia della seconda Domenica dopo Natale, più delle altre di questo medesimo periodo di tempo, è carica di riflessione teologica altissima: non astratta però, o addirittura fredda, ma appassionata e coinvolgente.

Oltre «l’umano» di quel bambino… Andando al di là della pur sempre emozionante scena di quel bambino celeste, che la madre bacia ed accarezza con somma felicità, pur nella disadorna grotta di Betlemme, la Liturgia odierna vuol soprattutto farci «penetrare» nel «mistero» di quel fanciullo, apparentemente povero e bisognoso di tutto, ma in realtà figlio del cielo più che della terra, Signore della creazione e della storia, Dio stesso che si è fatto uomo per riscattare gli uomini. Più che l’umanità del nostro Salvatore, la Liturgia di oggi ci invita a meditare sulla sua «divinità», che rende anche più ammirabile e adorabile la sua «umanità», che altro non è se non quella che tutti noi partecipiamo. Perciò, meditando e contemplando la sua «divinità» siamo nello stesso tempo invitati a «rimodellare» la nostra «umanità» sulla sua, per non essere indegni di «convivere» con lui, che si è incarnato proprio per rendere anche noi «partecipi della divina natura» (cf 2 Pt 1,4). Una profonda riflessione teologica, come si vede, che diventa vita, sforzo per non essere dissimili dal «modello» che la Liturgia intende proporci. Mi sembra che tutte e tre le letture si muovano in questa direzione, con stimolazioni e illuminazioni convergenti, che partono però da un dato primordiale: il «mistero» di questo Figlio di Dio fatto uomo si può solo conoscere ed accettare alla luce della «fede». È per questo che Paolo, nel brano della lettera agli Efesini, proposto oggi alla nostra considerazione, verso la fine prega per i suoi cristiani «perché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi» (Ef 1,17-18). Abbiamo dunque bisogno di uno «spirito di sapienza e di rivelazione» per poter accedere al mistero di Cristo, che non si esaurisce in una «conoscenza», sia pure profonda ed appassionata, ma comporta addirittura una partecipazione alla ricchezza di vita che esso contiene: il «tesoro di gloria», che noi «speriamo» di poter condividere con lui, allude certo alla gloria futura, quella della vita eterna; però di fatto incomincia già a realizzarsi nella vita terrena, perché per mezzo della fede in Cristo e la forza rigenerante dei Sacramenti veniamo associati alla sua stessa vita, diventiamo anche noi «figli di Dio», assimilati in un certo senso al suo stesso «unico» Figlio.

In Cristo Dio «ci ha scelti prima della creazione del mondo»… È quanto Paolo ci dice nei primi versetti del prologo della lettera agli Efesini, in cui «benedice», cioè esalta, Dio per il suo meraviglioso piano di salvezza, che da sempre ci vede associati in Cristo, predestinati a condividere la sua stessa «vita», che è vita di totale donazione a Dio e ai fratelli: «Benedetto sia Iddio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale, nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto» (Ef 1,3-6). Almeno due riflessioni si impongono davanti a questo brano di altissima contemplazione teologica. La prima riguarda il posto centrale che Cristo occupa nel piano eterno di Dio: egli non è un «accidens», qualcosa che interviene soltanto per rimediare qualche frattura che poteva essere intervenuta nella progettazione di Dio. Egli è «da sempre» presente al Padre, non tanto come rimedio ad una situazione disperata (il peccato), quanto piuttosto come «modello» su cui costruire, o anche «ricostruire», se necessario, l’uomo. Ecco perché Paolo scrive: «In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo». La condizione di «figli adottivi» è il risultato della nostra adesione di fede in Gesù come Figlio di Dio. Ma questo non è un dato di fatto già precostituito, o costituito per sempre: se Gesù è il «modello» a cui veniamo assimilati, è anche il suo «stile di vita» che dobbiamo saper esprimere nella nostra condotta quotidiana, aperta soprattutto alla carità. «Per essere santi ed immacolati nella carità al suo cospetto», abbiamo appena sentito.

«…Secondo la ricchezza della sua grazia» La seconda riflessione attinge alla motivazione «ultima» che fonda e struttura il disegno di Dio: ed è la sua benevolenza, il suo «beneplacito» (in greco eudokía), cioè il suo amore totalmente gratuito, che si manifesta in maniera eclatante nel «dono» che egli ci ha fatto del «suo Figlio diletto» nel quale, continua il testo che qui è stato maldestramente mutilato, «abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia» (v. 7). Nel disegno della redenzione si esalta in maniera sconvolgente la «grazia», cioè l’amore senza limiti del Padre. Riprendendo questo stesso pensiero, poco dopo Paolo così si esprimerà: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere in Cristo: per grazia infatti siete stati salvati» (2,4).

«E il Verbo era Dio» Questo sfondo di pensieri, pur espressi in linguaggio molto diverso, lo ritroviamo nella più alta pagina del Vangelo di Giovanni che, a confessione di tutti, è rappresentata dal «prologo»: in esso stupore, forza immaginativa, vertiginosa capacità di «concettualizzare» la storia di Gesù, senza tuttavia strapparla dalla concretezza «carnosa» della nostra esistenza, si fondono in maniera mirabile. Ed è chiaro che anche qui, anzi soprattutto qui, domina la dimensione del «divino», del trascendente, dell’eterno, che pur tuttavia non teme di imprigionarsi nel tempo, nel fragile, nel transeunte, nell’umano appunto. E al divino, a ciò che trascende da sempre la storia, pur guidandola ed illuminandola, si riferiscono i primi 5 versetti che fanno da preludio a tutto il prologo: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio… In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta» (vv. 1-5)

L’ultimo versetto già ci introduce nella storia con tutte le sue potenzialità di rifiuto della «luce», che però non si nega a nessuno, o di accettazione della medesima: i versetti che precedono ci introducono tutti, e subito, nella immensità trascendente del mistero. Colui che si farà «carne» (v. 14) esiste da sempre «presso il Padre», distinto da lui, ma con lui partecipante la stessa natura divina: «E il Verbo era Dio». E non è inerte «presso il Padre», ma con lui è «creatore» dell’universo: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui». Sembrerebbe che il Padre abbia bisogno di lui per creare! E in realtà, se stiamo al racconto della Genesi, è solo attraverso la incontenibile potenza della sua «parola» che Iddio crea l’universo e tutte le cose che lo riempiono: «E Dio disse: “Sia fatta la luce!”. E la luce fu fatta…» (Gn 1,3.6.9, ecc.).

«Dio nessuno l’ha mai visto» Proprio avendo presente il racconto della creazione, ci possiamo rendere conto perché Giovanni chiami Gesù con un appellativo che potrebbe apparire anche strano, derivante più da speculazioni filosofiche che dalla genuina tradizione biblica: «Verbo» (in greco lógos, in latino verbum), che vuol dire «parola», «discorso», «comando». Si è che l’evangelista proprio questo vuole dirci: che Dio in Cristo ci «ha parlato» (cf Eb 1,2), in lui ci ha detto la «parola» più grande, che lo rende palese agli uomini, svelandoci il suo volto: il Dio di Gesù è il Dio dell’amore, che è stato capace di «donarci» il suo Figlio, «affinché chiunque crede in lui non perisca ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Perciò «parola» più eloquente Dio non poteva né dirci, né darci per farsi conoscere da noi, come si afferma al termine del prologo: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (v. 18). Quello che stiamo dicendo sarà anche più comprensibile se pensiamo ad un’altra cosa: che cioè Cristo non sta all’origine della prima creazione soltanto, ma anche e soprattutto della «nuova» creazione che si realizza proprio in lui e per mezzo di lui. Assumendo infatti la nostra natura umana, e facendoci così comunicare con la sua natura divina, egli ha «rinnovato» la nostra umanità, l’ha come «divinizzata»: in lui siamo come «ricreati». Paolo direbbe che «in Cristo» siamo diventati «nuova creatura» (2 Cor 5,17).

A quanti lo accolgono «ha dato il potere di diventare figli di Dio» È quanto Giovanni dice verso la metà del prologo quando ci descrive il conflitto che la incarnazione del Verbo ha provocato nel mondo degli uomini, pur da lui «creato», ma che si è rifiutato di «riconoscerlo» come l’inviato di Dio che dà nuovo senso alla storia (vv. 10-11). Non tutti, però, lo hanno misconosciuto! Alcuni, pochi o molti che siano, lo hanno «accolto» e riconosciuto come Figlio di Dio, la «parola» ultima e definitiva mandata dal Padre per guidarli nel loro cammino. Orbene, a tutti quelli che «lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (vv. 12-13). In questi versetti sta racchiuso tutto il senso sconvolgente del Natale! Il Figlio di Dio non si è fatto «carne» per fare una passeggiata nel mondo, lasciandolo come l’aveva trovato! È venuto nel mondo per «attirarlo a sé» (cf Gv 12,32), vorrei dire per «divinizzarlo»: almeno il mondo degli uomini. Ma c’è una «condizione» previa per far parte di questa nuova «creazione»: la «fede» in lui come Figlio di Dio e Signore del mondo e della storia. Solo la fede in lui apre all’accoglienza: «A quanti l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome» (v. 12). E la fede è bensì «dono» di Dio, ma è anche libera scelta fatta alla luce della grazia: è un «potere» che viene offerto, e che possiamo accettare o rifiutare, utilizzare bene o male. Di qui la enorme responsabilità della scelta di fede. L’autore ci tiene a sottolineare la originalità di questa nuova «nascita»; perciò spiega che essa non avviene a modo di quella naturale, che dipende tutta dal «volere» dell’uomo, dal suo atto «generativo» (v. 13): qui invece è Dio stesso a «generarci» in un modo del tutto particolare. Ma può Dio davvero «generare»? Certamente no! Salvo l’unica possibilità, che di fatto lui ha scelto: cioè quella di «incorporarci» al suo Figlio, di inserirci in lui che, per l’incarnazione, si è assimilato a tutti noi: «imparentati» con il Figlio, resi partecipi della sua stessa «carne», anche noi veniamo misteriosamente assunti per diventare suoi intimi, suoi «familiari» (cf Ef 2,19), «figli nel Figlio», qualora sappiamo «accoglierlo» per la fede nella vostra vita.

«E il Verbo si è fatto carne» Proprio per questo il prologo raggiunge il suo vertice nell’affermazione del v. 14, che con arditezza estrema afferma quello che sembrerebbe inconcilabile, cioè che il Figlio di Dio, onnipotente, eterno, infinito, creatore dell’universo, si è fatto lui stesso «creatura» per «riconciliare a sé il mondo» (cf Col 1,20) e riportare l’uomo nel circuito del suo amore. «E il Verbo si fece carne: e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria: gloria come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità». Il termine «carne» (in greco sarx) è un ebraismo che vuol dire semplicemente «uomo»: ma uomo proprio come essere limitato, friabile, soggetto alla mortalità. Perciò il dislivello è tutto fra i due termini: il «Verbo» e la «carne» come espressione dell’uomo concreto, considerato in tutta la sua fragilità. Eppure questo salto quasi nel nulla o, comunque, nella estrema povertà dell’umano, il Figlio di Dio ha osato farlo! Per l’evangelista, però, questo inabissamento nella pochezza dell’uomo non è tanto una umiliazione, quanto una «glorificazione», pur nell’opacità della carne, della potenza e dell’amore di Dio: perché solo così la «pienezza di grazia e di verità», di cui il Verbo è ricolmo, si poteva riversare su di noi e salvarci. È quanto si ribadisce al v. 16: «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia». Perciò nella incarnazione del Figlio Iddio glorifica se stesso, nel senso che dilata la «paternità» anche agli uomini, diventati ormai «consanguinei» e «fratelli» di Cristo. Il problema è solo quello di respirare in questo clima di «pienezza» divina che si è riversata sulla nostra terra, di vivere cioè da «figli di Dio», sul modello di quello che Gesù, Verbo di Dio «fatto carne», ha fatto e ha insegnato.

«E venne ad abitare in mezzo a noi» Ma c’è un’espressione nel v. 14, che non vorremmo trascurare e che approfondisce quanto abbiamo appena detto: «Il Verbo… venne ad abitare in mezzo a noi». Nel testo greco abbiamo un verbo al tempo aoristo (eskéno¯sen), che propriamente vuol dire «pose la sua tenda (in greco skenè) in mezzo a noi», con riferimento alla presenza salvifica di Dio in mezzo a Israele, prima nella «tenda» dell’alleanza che continuamente si spostava nel deserto, e poi nel tempio di Gerusalemme (cf Es 40,34-35; 1 Re 8,10-13; Ez 43,7, ecc.). L’incarnazione non è stata un gesto grandioso, consumatosi ormai nel tempo, ma l’inizio di una «coabitazione» di Dio con gli uomini, per mezzo del suo Figlio, che mai cesserà: soltanto che adesso questa «coabitazione» è allargata a tutti gli uomini, senza esclusione di nessuno, proprio perché Gesù, assumendo carne umana, ha assunto la rappresentanza di tutti, «Giudei e gentili», come dirà Paolo (cf Col 3, 11, ecc.). La Chiesa è questo nuovo, immenso «popolo di Dio», che il Cristo incomincia a convocare attorno a sé fin dal suo nascere terreno: si pensi ai pastori che accorrono ad adorarlo e ai magi che vengono dall’Oriente lontano per offrirgli doni!

«La Sapienza loda se stessa» Questa idea di Dio che «abita» presso il suo popolo, se raggiunge il massimo di significatività in Cristo fatto «uomo», è già preannunciata e presignificata nell’Antico Testamento: e non solo nel fatto della «tenda», che abbiamo appena ricordato; ma soprattutto in alcuni passi dei libri cosiddetti «sapienziali» (cf Prv 1,20-33; 8,1-36; 9,1-6), in cui si fa riferimento ad una misteriosa «sapienza» che, per un verso, sembra essere un attributo di Dio, e per un altro verso sembra una realtà distinta, ma sempre in intima unione con lui. Nel brano odierno, ripreso dal Siracide, cosiddetto dall’autore che nel titolo viene presentato come un certo «Gesù, figlio di Sirach», un pio Giudeo vissuto nel II secolo a.C., si fa l’elogio della «sapienza»; anzi, meglio, viene introdotta la «sapienza», quasi fosse una persona, che magnifica se stessa con immagini fantasiose, ma anche molto espressive. Essa descrive prima di tutto se stessa all’opera nella creazione: «Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo / e ho ricoperto come nube la terra. / Ho posto la mia dimora lassù, / il mio trono era su una colonna di nubi» (24,3-4). Le prime espressioni dovrebbero riferirsi alla «parola», uscita dalla bocca dell’Altissimo, con cui egli pone in essere le cose: «E Dio disse…» (Gn 1,3), come abbiamo già ricordato; nonché allo «spirito del Signore» che aleggiava sulle acque primordiali (Gn 1,2). La «sapienza» appare qui come potenza «creatrice», dotata di forza e di intelligenza: un «lógos» di Dio, anche lei, immanente in lui ma anche tendente a fuoriuscirne.

«Fissa la tenda in Giacobbe» Se il mondo creato è il luogo dove si coestende ed abita la «sapienza», c’è però un luogo particolare ed un popolo particolare dove Dio le ha «comandato» di «piantare la tenda», cioè di prendere dimora: Israele. Questo sta a dimostrare una particolare predilezione di Dio verso il popolo che egli ha scelto fra tutti i popoli. «Il Creatore dell’universo mi diede un ordine, / il mio creatore mi fece piantare la tenda / e mi disse: Fissa la tenda in Giacobbe / e prendi in eredità Israele… / Nella città santa mi fece abitare; / in Gerusalemme è il mio potere. / Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, / nella porzione del Signore, sua eredità» (24,8.11-12). Sono interessanti in questo brano i titoli attribuiti a Israele, che mettono ancora più in evidenza la predilezione di Dio verso di lui: esso è la «eredità» peculiare di Dio, la sua «porzione scelta» (vv. 8.12), un «popolo glorioso» (v. 8). Gerusalemme, poi, è la «città amata» fra tutte (v. 11), da dove la «sapienza» esercita il suo potere. Addirittura si fa riferimento ad un servizio «cultuale» che essa eserciterebbe nel tempio stesso di Gerusalemme: «Ho officiato nella tenda santa davanti a lui» (v. 10). Letto in contesto con il prologo di Giovanni è chiaro che il brano del Siracide acquista di concretezza e si fa anticipazione profetica. Il «mistero» del Natale è talmente grande e stupefacente che abbisognava di una qualche lenta, sia pur cifrata, preparazione. La «sapienza» creatrice, che ha scelto di fissare la sua «tenda in Giacobbe» era una immagine, ed anche una realtà, adattissima, per Giovanni, a prefigurare una realtà immensamente più grande: la venuta del Figlio stesso di Dio, che nella incarnazione ha posto davvero «la sua tenda in mezzo a noi», inondandoci della sua «pienezza di grazia e di verità» (Gv 1,14).

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche, Editrice Elledici, Torino         

Publié dans : OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |le 4 janvier, 2014 |Pas de Commentaires »

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