Archive pour décembre, 2013

IL PRESEPE AIUTA A RECUPERARE LA TEOLOGIA DELLO SGUARDO

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IL PRESEPE AIUTA A RECUPERARE LA TEOLOGIA DELLO SGUARDO

Il presepe è strettamente legato alla peculiarità del cristianesimo ed, in particolare, al mistero dell’incarnazione, realtà storica umanamente inimmaginabile, attraverso la quale Dio non appare come uomo ma si fa davvero uomo. Il cristianesimo, quindi, non è affatto una religione spiritualista ma, al contrario, pone attenzione alla carnalità e alla concretezza dei segni. Il presepe è un simbolo strettamente legato al mistero dell’incarnazione di Nostro Signore. Ma è anche un importante elemento di rafforzamento della cultura cristiana, specie nella sua dimensione pubblica. Sulla mistica dell’arte presepiale, ancora molto popolare in Italia, ZENIT ha intervistato il prof. Corrado Gnerre, docente di Storia delle Dottrine teologiche all’Università Europea di Roma (UER).  Qual è la cultura che fa da sfondo alla nascita dell’arte presepiale? Prof. Guerre: Il presepe è strettamente legato alla peculiarità del cristianesimo ed, in particolare, al mistero dell’incarnazione, realtà storica umanamente inimmaginabile, attraverso la quale Dio non appare come uomo ma si fa davvero uomo. Il cristianesimo, quindi, non è affatto una religione spiritualista ma, al contrario, pone attenzione alla carnalità e alla concretezza dei segni. San Bernardo di Chiaravalle affermava che, essendo noi carnali, il Signore fa sì che il nostro essere si manifesti anche nelle cose.  Il Medioevo, epoca in cui nasce l’arte presepiale, si caratterizza per una spiccata cultura del segno e della carnalità: si pensi al culto delle reliquie. Anche nelle crociate, fenomeno storicamente assai complesso, c’è un elemento di simbologia concreta e di carnalità: l’impossibilità di accedere al Santo Sepolcro di Nostro Signore, aveva indotto i cristiani di quel tempo a battersi per il recupero di quel simbolo sacro ma, al tempo stesso tangibile e concreto.  Con riguardo al presepe è noto che la prima rappresentazione della Natività fu realizzata da San Francesco a Greccio, nel 1223. Un confratello domandò a San Francesco se fosse giusto rispettare l’astinenza dalle carni, visto che quell’anno il 25 dicembre cadeva di venerdì. La risposta del santo patrono d’Italia fu inequivocabile: “Oggi anche i muri devono mangiare carne, vanno spalmati di carne…”.  La cultura secolarizzata tende a svalutare l’arte presepiale. A cosa è dovuto ciò? Prof. Guerre: È un fenomeno tipico della mentalità protestante che rifiuta sia la rappresentazione simbolica del sacro che la devozione mariana. La Vergine Maria è protagonista irrinunciabile del presepe. In fin dei conti il cattolicesimo, articolandosi sul culto mariana, è in armonia con la psicologia femminile che attribuisce importanza al valore dei segni e dei simboli concreti, laddove la mentalità maschile è più portata all’astrazione.  Per quale motivo, anche ai giorni nostri, è utile valorizzare il presepe? Prof. Guerre: In primo luogo perché l’arte presepiale è segno di un’identità culturale che va manifestata pubblicamente: il cristianesimo non è fatto per rimanere confinato nell’intimo della nostra coscienza. La mentalità secolare di oggi tende, al contrario, a cancellare la valenza pubblica dell’esperienza cristiana e a trasformare il cristianesimo in un mito. In secondo luogo il presepe può aiutare a recuperare l’essenza stessa della teologia cattolica, ovvero la teologia dello sguardo. Guardare un oggetto significa porre la propria intelligenza a confronto con la realtà che osserviamo. Lo sguardo aiuta a conoscere la realtà senza avere la pretesa di comprenderla integralmente, conservando l’elemento dello stupore, tipico della fanciullezza. Non a caso Gesù dice: “Se non tornerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli (Mt 18, 3)”. Guardare, quindi, non significa constatare freddamente. Tutto può essere conosciuto ma non tutto può essere compreso: gli stessi misteri della fede ci spingono a indagare sulla loro ragionevolezza ma non possiamo esigere di comprenderli fino in fondo. L’approccio alla Verità non può ridursi alla dimensione intellettuale: Dio non ci giudicherà in base alla nostra conoscenza, quanto all’apertura del nostro cuore al mistero.  La teologia dello sguardo, cui ho fatto accenno, ha ispirato i grandi dottori della Chiesa che vivevano la loro ricerca intellettuale in simbiosi con la preghiera. Penso a San Tommaso d’Aquino che studiava davanti al Santissimo Sacramento e, qualora incontrasse difficoltà di comprensione o riflessione, rivolgeva lo sguardo, verso il tabernacolo.  Come si manifesta la teologia dello sguardo nell’arte presepiale? Prof. Guerre: Teologicamente è più importante l’incarnazione, tuttavia con la sua nascita il Signore ha potuto rivelarsi e farsi guardare. Non è un caso che tutti i personaggi del presepe hanno lo sguardo rivolto al Bambino Gesù. Dallo sguardo scaturisce la dimensione della sequela, ovvero il legame intimo con Cristo: credere in Lui è dimensione necessaria ma non sufficiente, dobbiamo convivere con Lui. La riproduzione plastica del presepe, pertanto, non è la semplice rievocazione della Natività, ma la celebrazione della continua novità del nostro innesto in Lui (“Io sono la vite, voi i tralci”, Gv 15, 5).  Quindi ogni personaggio ha una sua dignità e una sua importanza nell’economia della rappresentazione presepiale. Prof. Guerre: Certamente. La composizione del presepe richiede una grandissima attenzione ai particolari. Chi lo osserva deve calarsi nella realtà concreta della Natività, immaginare l’odore della paglia, il vagito di Gesù Bambino, ecc. Il Dio cristiano, infatti, è il Dio del particolare, in quanto non ci ama astrattamente ma presi nella nostra singolarità. Dio, Signore dell’Universo, crea e ama ogni singola creatura facendone il proprio universo. Questa teologia del particolare è legata al paradosso di un Dio bambino.  In che misura il presepe può diventare uno strumento di dialogo interreligioso e di apostolato in una società multirazziale e multiculturale? Prof. Guerre: La società multirazziale è un dato di fatto, mentre la società multiculturale è pericolosa in quanto preludio e sintomo di relativismo. Pertanto, valorizzare l’arte presepiale può aiutare a recuperare l’affezione verso la nostra cultura e a rafforzare la nostra identità, evitando che la società multirazziale degeneri in società multiculturale.    

Publié dans:NATALE 2013, TEOLOGIA |on 29 décembre, 2013 |Pas de commentaires »

SANTI INNOCENTI MARTIRI

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Publié dans:immagini sacre |on 28 décembre, 2013 |Pas de commentaires »

LA FESTA DEI SANTI INNOCENTI – 28 DICEMBRE

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LA FESTA DEI SANTI INNOCENTI – 28 DICEMBRE

(9.12.09)

« Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s’infuriò e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù. » (Mt 2,16)

Ogni anno, il 28 dicembre, la Chiesa celebra la Festa dei Santi Innocenti, quei bambini che furono le vittime innocenti di Erode: vittime della sua gelosia, della sua paura e della sua bramosia, che lo spinsero a cercare di distruggere Cristo. I bambini più piccoli di una città intera furono massacrati purché lui potesse continuare a vivere come gli piaceva, senza alcuna minaccia al proprio trono. Ciò mi ricorda un detto di Madre Teresa: « E’ la povertà che decide la morte di un bambino, così tu puoi vivere come desideri. » Non è la prima volta che nella storia di salvezza assistiamo al massacro dei bambini. Mosè nacque in un periodo in cui il Faraone aveva decretato che tutti i bambini maschi nati agli ebrei dovessero essere gettati nel fiume. Gesù è il nuovo Mosè, il mediatore della Nuova ed eterna Alleanza, non scritta sulle tavole di pietra, ma nei cuori umani con « il dito di Dio » (lo Spirito Santo). I bambini che morirono al tempo di Mosè erano stati uccisi perché il Faraone temeva che il popolo di Israele stesse diventando troppo numeroso, ma i bambini di Betlemme erano stati uccisi perché erano stati scambiati per Cristo. Ecco perché sono dei « martiri » (« martur » è la parola greca che significa « testimone »); sono i più piccoli « testimoni » di Cristo. Questa festa è particolarmente significativa per i nostri propri tempi. Anzitutto, vediamo che anche noi possiamo dare testimonianza a Cristo a ogni età, nessuno è troppo giovane per ciò. Non dobbiamo pensare che i bambini siano troppo giovani per imparare conoscere Cristo… imparano una quantità di cose riguardo al mondo, in tenera età, attraverso la televisione e attraverso i computers. In secondo luogo, ci viene richiamata l’innocenza che Gesù richiede a ciascuno dei suoi discepoli: « Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.  » (Mt 18,3) Questa innocenza può crescere dentro di noi: è aprirsi alla volontà di Dio,  rispondere abitualmente alla Sua grazia (virtù), partecipare alla vita e alle sofferenze di Cristo mediante i sacramenti (in particolare il battesimo, la confessione e l’Eucarestia) e sopportare con pazienza le sofferenze che incontriamo nel nostro cammino e che sono intese per la nostra purificazione interiore. Alla fine, la festa di oggi ci ricorda del grande dono che è la vita umana e che dev’essere difesa in ogni fase del suo sviluppo, soprattutto quando è più vulnerabile e soggetta alla violenza, all’abuso e alla morte. Questa festa dovrebbe inculcarci disgusto interiore per ogni forma di violenza e di odio, soprattutto per la violenza e l’odio contro i bambini. Quando un bambino viene ucciso nel grembo, questo si chiama aborto; se viene ucciso dopo la nascita lo chiamiamo assassinio – non importa come lo chiamiamo, tutte le forme di violenza contro i più innocenti tra gli esseri umani  sono ingiustificabili. Il pensiero di Madre Teresa, riportato sopra, fu espresso in relazione all’aborto e indica la povertà in cui la società si è gettata e che cerca di imporre nelle altre parti del mondo. Noi ci meravigliamo perché l’odio e la violenza continuano ad aumentare nel mondo. Per qualche motivo molti ne accusano Dio. Madre Teresa invece indicò una delle radici più profonde della questione, durante un suo discorso nel 1994 al National Prayer Breakfast, quando chiese: « Se una madre può uccidere il proprio figlio, come possiamo dire alle altre nazioni di non uccidersi tra di loro? » Possa la festa odierna dei Santi Innocenti rafforzare in noi la nostra personale decisione di seguire Cristo e di testimoniarLo, riconoscendo che nessun tipo di violenza o di odio possono trovar posto nel Suo Regno

RAPITO IN ESTASI DALLA TERRA AL CIELO – 1Tess

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RAPITO IN ESTASI DALLA TERRA AL CIELO – 1Tess

Siamo nell’anno 51. San Paolo è a Corinto. Alle spalle ha il ricordo delle settimane trascorse a Tessalonica, capitale della Macedonia, dell’accoglienza festosa dei pagani, della dura reazione degli Ebrei là residenti, della sommossa da loro ordita e della fuga a cui è stato costretto, il discepolo Timoteo gli reca ora notizie della neonata Chiesa tessalonicese e delle sue prime incertezze. Paolo decide, allora, di inviare un messaggio a quella comunità, «da leggersi a tutti i fratelli»: è la prima Lettera ai Tessalonicesi, il primo scritto paolino a noi giunto, quasi certamente il primo testo del Nuovo Testamento.

Proponiamo ora questa Lettera anche perché ben s’adatta al clima dell’Avvento che sta iniziando. Serpeggia, infatti, nelle pagine di quest’opera una specie di brivido d’attesa: la Chiesa di quella città sentiva come imminente la nuova e definitiva venuta del Signore per suggellare la storia. L’Apostolo cerca di contrastare questa tensione eccessiva che, come si vedrà, svaluta l’impegno nel presente e, usando un’immagine introdotta da Gesù, elimina ogni tentazione di avere oroscopi sulla fine del mondo: «Il giorno del Signore verrà come un ladro nella notte» (5,2).

È, certo, necessaria la vigilanza e la veglia, senza però fanatismi e ossessioni perché «Dio non ci ha destinati all’ira ma a ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (5,9). Anzi, contro l’eccitazione di coloro che si dimettono dalle responsabilità quotidiane per decollare idealmente verso quell’alba eterna di luce, Paolo raccomanda come «punto d’onore quello di vivere in pace, di attendere ai propri impegni, di lavorare con le proprie mani così da condurre una vita dignitosa di fronte agli estranei e da non aver bisogno di nessuno» (4,11-12).

Tuttavia anche l’Apostolo vuole gettare uno sguardo su quell’orizzonte atteso ma ignoto, forse per non sembrare troppo evasivo. Egli cerca, però, di risolvere solo un quesito secondario avanzato dai cristiani di Tessalonica: nell’istante supremo, coloro che saranno ancora in vita alla seconda venuta del Cristo quale sorte avranno? Ecco la risposta paolina intrisa del linguaggio simbolico apocalittico, linguaggio che abbiamo già imparato a conoscere a suo tempo leggendo il libro dell’Apocalisse: «I morti in Cristo risorgeranno. Poi, noi ancor vivi e superstiti, saremo rapiti insieme con loro nella morte per andare incontro al Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore» (4,16-17).

Scenari cosmici, dunque, per un passaggio indolore dal tempo all’eterno, dallo spazio terreno all’infinito celeste. Una visione che l’Apostolo nella prima Lettera ai Corinzi in qualche modo varierà, introducendo la necessità di una metamorfosi radicale anche dei viventi in quel transito estremo: «Non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati» (15,51). La risposta di Paolo, a quanto pare, non basterà a calmare i Tessalonicesi. Ci sarà una seconda Lettera a loro indirizzata, più tesa e di più ardua lettura, segno comunque di un cristianesimo che non si perde e disperde nelle pieghe della storia, ma che neppure migra verso i cieli mitici e mistici dell’alienazione religiosa.

San Giovanni Apostolo ed Evangelista

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Publié dans:immagini sacre |on 27 décembre, 2013 |Pas de commentaires »

GIOVANNI, IL TEOLOGO – 27 DICEMBRE – BENEDETTO XVI

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20060809_it.html  

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

AULA PAOLO VI

MERCOLEDÌ, 9 AGOSTO 2006

GIOVANNI, IL TEOLOGO – 27 DICEMBRE

Cari fratelli e sorelle,

prima delle vacanze avevo cominciato con piccoli ritratti dei dodici Apostoli. Gli Apostoli erano compagni di via di Gesù, amici di Gesù e questo loro cammino con Gesù non era solo un cammino esteriore, dalla Galilea a Gerusalemme, ma un cammino interiore nel quale hanno imparato la fede in Gesù Cristo, non senza difficoltà perché erano uomini come noi. Ma proprio per ciò perché erano compagni di via di Gesù, amici di Gesù che in un cammino non facile hanno imparato la fede, sono anche guide per noi, che ci aiutano a conoscere Gesù Cristo, ad amarLo e ad avere fede in Lui. Avevo già parlato su quattro dei dodici Apostoli: su Simon Pietro, sul fratello Andrea, su Giacomo, il fratello di San Giovanni, e l’altro Giacomo, detto “il Minore”, che ha scritto una Lettera che troviamo nel Nuovo Testamento. Ed avevo cominciato a parlare di Giovanni l’evangelista, raccogliendo nell’ultima catechesi prima delle vacanze i dati essenziali che delineano la fisionomia di questo Apostolo. Vorrei adesso concentrare l’attenzione sul contenuto del suo insegnamento. Gli scritti di cui oggi, quindi, ci vogliamo occupare sono il Vangelo e le Lettere che vanno sotto il suo nome. Se c’è un argomento caratteristico che emerge negli scritti di Giovanni, questo è l’amore. Non a caso ho voluto iniziare la mia prima Lettera enciclica con le parole di questo Apostolo: “Dio è amore (Deus caritas est); chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4,16). E’ molto difficile trovare testi del genere in altre religioni. E dunque tali espressioni ci mettono di fronte ad un dato davvero peculiare del cristianesimo. Certamente Giovanni non è l’unico autore delle origini cristiane a parlare dell’amore. Essendo questo un costitutivo essenziale del cristianesimo, tutti gli scrittori del Nuovo Testamento ne parlano, sia pur con accentuazioni diverse. Se ora ci soffermiamo a riflettere su questo tema in Giovanni, è perché egli ce ne ha tracciato con insistenza e in maniera incisiva le linee principali. Alle sue parole, dunque, ci affidiamo. Una cosa è certa: egli non ne fa una trattazione astratta, filosofica, o anche teologica, su che cosa sia l’amore. No, lui non è un teorico. Il vero amore infatti, per natura sua, non è mai puramente speculativo, ma dice riferimento diretto, concreto e verificabile a persone reali. Ebbene, Giovanni come apostolo e amico di Gesù ci fa vedere quali siano le componenti o meglio le fasi dell’amore cristiano, un movimento caratterizzato da tre momenti. Il primo riguarda la Fonte stessa dell’amore, che l’Apostolo colloca in Dio, arrivando, come abbiamo sentito, ad affermare che “Dio è amore” (1 Gv 4,8.16). Giovanni è l’unico autore del Nuovo Testamento a darci quasi una specie di definizione di Dio. Egli dice, ad esempio, che “Dio è Spirito” (Gv 4,24) o che “Dio è luce” (1 Gv 1,5). Qui proclama con folgorante intuizione che “Dio è amore”. Si noti bene: non viene affermato semplicemente che “Dio ama” e tanto meno che “l’amore è Dio”! In altre parole: Giovanni non si limita a descrivere l’agire divino, ma procede fino alle sue radici. Inoltre, non intende attribuire una qualità divina a un amore generico e magari impersonale; non sale dall’amore a Dio, ma si volge direttamente a Dio per definire la sua natura con la dimensione infinita dell’amore. Con ciò Giovanni vuol dire che il costitutivo essenziale di Dio è l’amore e quindi tutta l’attività di Dio nasce dall’amore ed è improntata all’amore: tutto ciò che Dio fa, lo fa per amore e con amore, anche se non sempre possiamo subito capire che questo è amore, il vero amore. A questo punto, però, è indispensabile fare un passo avanti e precisare che Dio ha dimostrato concretamente il suo amore entrando nella storia umana mediante la persona di Gesù Cristo, incarnato, morto e risorto per noi. Questo è il secondo momento costitutivo dell’amore di Dio. Egli non si è limitato alle dichiarazioni verbali, ma, possiamo dire, si è impegnato davvero e ha “pagato” in prima persona. Come appunto scrive Giovanni, “Dio ha tanto amato il mondo (cioè: tutti noi) da donare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). Ormai, l’amore di Dio per gli uomini si concretizza e manifesta nell’amore di Gesù stesso. Ancora Giovanni scrive: Gesù “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1). In virtù di questo amore oblativo e totale noi siamo radicalmente riscattati dal peccato, come ancora scrive San Giovanni: “Figlioli miei, … se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è propiziazione per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1 Gv 2,1-2; cfr 1 Gv 1,7). Ecco fin dove è giunto l’amore di Gesù per noi: fino all’effusione del proprio sangue per la nostra salvezza! Il cristiano, sostando in contemplazione dinanzi a questo “eccesso” di amore, non può non domandarsi quale sia la doverosa risposta. E penso che sempre e di nuovo ciascuno di noi debba domandarselo. Questa domanda ci introduce al terzo momento della dinamica dell’amore: da destinatari recettivi di un amore che ci precede e sovrasta, siamo chiamati all’impegno di una risposta attiva, che per essere adeguata non può essere che una risposta d’amore. Giovanni parla di un “comandamento”. Egli riferisce infatti queste parole di Gesù: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Dove sta la novità a cui Gesù si riferisce? Sta nel fatto che egli non si accontenta di ripetere ciò che era già richiesto nell’Antico Testamento e che leggiamo anche negli altri Vangeli: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18; cfr Mt 22,37-39; Mc 12,29-31; Lc 10,27). Nell’antico precetto il criterio normativo era desunto dall’uomo (“come te stesso”), mentre nel precetto riferito da Giovanni Gesù presenta come motivo e norma del nostro amore la sua stessa persona: “Come io vi ho amati”. E’ così che l’amore diventa davvero cristiano, portando in sé la novità del cristianesimo: sia nel senso che esso deve essere indirizzato verso tutti senza distinzioni, sia soprattutto in quanto deve pervenire fino alle estreme conseguenze, non avendo altra misura che l’essere senza misura. Quelle parole di Gesù, “come io vi ho amati”, ci invitano e insieme ci inquietano; sono una meta cristologica che può apparire irraggiungibile, ma al tempo stesso sono uno stimolo che non ci permette di adagiarci su quanto abbiamo potuto realizzare. Non ci consente di essere contenti di come siamo, ma ci spinge a rimanere in cammino verso questa meta. Quell’aureo testo di spiritualità che è il piccolo libro del tardo medioevo intitolato Imitazione di Cristo  scrive in proposito: “Il nobile amore di Gesù ci spinge a operare cose grandi e ci incita a desiderare cose sempre più perfette. L’amore vuole stare in alto e non essere trattenuto da nessuna bassezza. L’amore vuole essere libero e disgiunto da ogni affetto mondano… l’amore infatti è nato da Dio, e non può riposare se non in Dio al di là di tutte le cose create. Colui che ama vola, corre e gioisce, è libero, e non è trattenuto da nulla. Dona tutto per tutti e ha tutto in ogni cosa, poiché trova riposo nel Solo grande che è sopra tutte le cose, dal quale scaturisce e proviene ogni bene” (libro III, cap. 5). Quale miglior commento del “comandamento nuovo”, enunciato da Giovanni? Preghiamo il Padre di poterlo vivere, anche se sempre in modo imperfetto, così intensamente da contagiarne quanti incontriamo sul nostro cammino.

*** (anche se la catechesi è del 2006 lascio l’appello per la pace in Medio Oriente)

APPELLO PER LA PACE IN MEDIO ORIENTE

Cari fratelli e sorelle, il mio accorato pensiero va ancora una volta all’amata regione del Medio Oriente. In riferimento al tragico conflitto in corso ripropongo le parole di Papa Paolo VI all’ONU, nell’ottobre del 1965. Disse in quella occasione: « Non più gli uni contro gli altri, non più, giammai!… Se volete essere fratelli, lasciate cadere le armi dalle vostre mani ». Di fronte agli sforzi in atto per giungere finalmente al cessate-il-fuoco e ad una soluzione giusta e duratura del conflitto ripeto, con l’immediato mio Predecessore, il grande Papa Giovanni Paolo II, che è possibile cambiare il corso degli avvenimenti quando prevalgono la ragione, la buona volontà, la fiducia nell’altro, l’attuazione degli impegni assunti e la cooperazione fra partners responsabili (cfr Discorso al Corpo Diplomatico, 13 gennaio 2003).  Così  ha  detto Giovanni Paolo II e quanto detto allora vale anche oggi, per tutti. A tutti rinnovo l’esortazione ad intensificare la preghiera per ottenere il desiderato dono della pace. 

COLOSSESI 3: 12-21 – seconda lettura della Festa della Santa Famiglia

http://www.chiesaevangelicadivolla.it/n-23-colossesi-3–12-21.html

DA: CHIESA EVANGELICA DI VOLLA

COLOSSESI 3: 12-21

L’epistola ai Colossesi costituisce un testo di cristologia che merita uno studio attento ed appropriato. Il testo prescelto si colloca nella parte parenetica o esortativa di questo scritto paolinico. Lo possiamo suddividere in due parti: la prima, costituita dai vv. 12-17, che presenta alcuni precetti generali di vita cristiana. Le diversità che connotano i credenti della comunità esigono l’esercizio quotidiano di misericordia, benevolenza, umiltà, mansuetudine, pazienza, sopportazione e perdono vicendevole.

Tutto questo sarà possibile solo quando, come Paolo dice, “La parola di Cristo abita in voi abbondantemente; istruitevi ed esortatevi gli uni gli altri” (v 13). A rileggere il v. 12 si trova un elenco di cinque virtù (misericordia, benevolenza, umiltà, mansuetudine e pazienza), espressioni dell’uomo nuovo, che si contrappongono al catalogo dei cinque vizi elencati nel v. 8 (ira, collera, malignità, calunnia, oscenità) e che richiamano l’uomo vecchio. La pratica di queste virtù di relazione (v. 12) e la cancellazione dei detti vizi di relazione (v. 8) oggi sono consigliate da principi di educazione civica e dai migliori galatei, oltre che da seri psicologi. Poiché è vero che la virtù principe che presiede ogni buon comportamento è l’agàpe (v. 14) è altresì vero che si può parlare di « agàpe » come « educazione ». D’altra parte va ricordato che se le cinque virtù possono essere lette come semplici principi filantropici già noti nel mondo greco (e non manca chi pensa che Paolo le abbia semplicemente mutuate) ciò nulla toglie al fatto che l’apostolo ravvisa in questi comportamenti modelli ispirati e voluti dal Signore come aspetti visibili e percepibili di un corretto amore fraterno ben inserito nella comune vita associata della nostra quotidianità. I vv 15-17 ci pongono di fronte al tema della ‘pace’ quale segno e testimonianza di una riconciliazione avvenuta per mezzo della croce di Gesù Cristo. Per essa la pace è diventata una realtà che si manifesta innanzitutto nelle nostre relazioni più immediate per poi diventare speranza per l’umanità tutta intera. La pace, che costituisce motivo della nostra vocazione (v. 15), è il risultato della azione riconciliatrice della croce di Cristo per la quale si è riconciliato con il mondo (Rm 5:1-11) ed ha reso possibile la pacificazione tra gli uomini (Ef 2:11-22). Qui l’apostolo inserisce un’annotazione sulla importanza edificativa della liturgia o culto pubblico che, incentrato sulla parola annunziata, è occasione per esortarsi reciprocamente “con ogni sapienza, cantando di cuore a Dio, sotto l’impulso della grazia, salmi, inni e cantici spirituali” (v. 16). La seconda parte del nostro brano (vv. 18-21) presenta il cosiddetto “codice domestico” che ad uno studio attento non presenta alcuna novità, per così dire, “cristiana”. Le parole di Paolo si potrebbero senz’altro trovare in pagine di filosofi stoici. “Nell’accogliere questi codici, l’etica dei primi cristiani manifesta il suo carattere borghese. Essa inculca tutto ciò che nel mondo viene comunemente riconosciuto come conveniente (cfr Fil 4:8), non prospetta un programma di riforma nel mondo, si accetta l’ordine costituito (compresa la schiavitù)”, “Il cristianesimo dei primi tempi non cerca di instaurare in questo mondo caduco l’ordine cristiano del mondo. Un’idea del genere era completamente estranea al Nuovo Testamento”. Nel presentare come condotta esemplare la piena sottomissione della moglie al marito l’apostolo Paolo paga un tributo alla mentalità del suo tempo. Nel passo parallelo agli Efesini (5:23) aggiungerà che il marito è ‘capo’, cioè signore, della moglie. Con la espressione ‘nel Signore’ – tutta da comprendere – Paolo ‘cristianizza’ i costumi etici della famiglia ebraica e, in generale, orientale. L’amore dei mariti deve ispirarsi a quello che il Cristo ha verso la Sua chiesa. Un amore che non soffoca ma che alimenta la fiducia reciproca: nel corso del tempo l’amore dell’uno verso l’altro aumenta con l’aumentare della fiducia (‘fede’ per la chiesa) e, soprattutto, della conoscenza. L’obbedienza dei figli richiama il comandamento ma senza l’eccessiva severità di quel tempo. Questa è una novità.

Mario Affuso  

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