L’APOSTOLO SENZA FRONTIERE
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L’APOSTOLO SENZA FRONTIERE
Questa voce è stata pubblicata il 31 marzo, 2010, in Approfondimenti, Per conoscere Paolo. di Franco Cardini
Testo tratto dal numero speciale di “Luoghi dell’infinito” (supplemento mensile del quotidiano “Avvenire”) dedicato all’Anno Paolino (n. 7, luglio 2008, pp. 16-23).
«Io non Enea, io non Paolo sono»: così Dante, al principio della Commedia (Inferno, II, 32), dichiara la sua indegnità e impossibilità di ascendere al cielo, come invece avevano fatto, per speciale grazia divina, sia il progenitore del fondatore di Roma, sia il vas electionis, Paolo di Tarso, com’egli testimonia nella Seconda lettera ai Corinti (12,2-5). Delle narrazioni che hanno per tema le ascese al cielo, l’Alighieri tace quella – nella quale non credeva, ma di cui aveva pur notizia – del profeta Muhammad, attestata in quel Kitab al-Miraj, il Libro della Scala arabo-ispanico, che potrebbe essere tra le fonti del grandioso poema. In materia di viaggi di Paolo, sarebbe bello poter cominciare da quello arcano e ineffabile che lo lasciò turbato e impaurito, e del quale non osava parlare se non in terza persona: «So di un uomo del Cristo, quattordici anni fa – fu nel corpo, non lo so, oppure fuori del corpo, non lo so, Dio lo sa – il quale venne rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – fosse nel corpo o senza corpo, non lo so, Dio lo sa – venne rapito nel Paradiso e udì parole indicibili, che è proibito a un uomo dire. Di quest’uomo mi vanterò, ma non mi vanterò di me stesso…». Non è però all’ineffabile che ci volgeremo. L’uomo che Agostino definì “il gran leone di Dio” e che Antonio Gramsci vedeva – in una prosperava, ai suoi occhi, sommamente laudatoria – come “il Lenin del cristianesimo”, era un indomabile genio dell’azione. Nacque in una data che gli specialisti non sono stati in grado di fissare e che continua a oscillare fra il 5 e il 15 d.C. Il fariseo Saul di Tarso in Cilicia, della tribù di Beniamino, allievo di rabbi Gamaliele, era ebreo di formazione rigorosissima eppure fiero della versione latina del suo nome, Paulus, che ne sottolineava la cittadinanza romana conferita agli abitanti di Tarso già da Marco Antonio. Era stato educato a Gerusalemme, dove aveva appreso il mestiere di tessitore di tende, tipico della gente della sua regione. In Gerusalemme guidò la lotta con i primi nuclei cristiani e fu, a quanto sembra, ispiratore o istigatore della lapidazione del protomartire Stefano. Poteva avere dai 23 ai 33 anni allorché, nel 38, quel misterioso incidente sulla via di Damasco lo mutò per sempre. Se già prima di allora si era dimostrato instancabile, dopo il battesimo ricevuto nella metropoli siriaca da Anania lo fu ancora di più. Dev’esser chiaro che di lui non abbiamo notizie storiche extrascritturali: ne sappiamo solo quel po’ che ci dicono gli Atti degli Apostoli, attribuiti all’evangelista Luca, medico amico e collaboratore di Paolo, e le Lettere paoline. La critica lavora sulle corrispondenze tra i dati storici che possiamo trarre dai testi .neotestamentari e quello che sappiamo con documentata certezza: gli esiti di tale confronto sono obiettivamente esigui e non consentono di replicare con certezza a chi propende per l’ipotesi che Atti e Lettere siano stati abilmente redatti da autori posteriori ai fatti narrati, i quali avrebbero costruito un castello di architettate corrispondenze storiche. Sul piano della ragione e della critica, la questione resta aperta. Il cristiano non deve dimenticare che la veridicità di alcuni dati storici relativi alla fede è garantita non già dalla documentabile realtà storica bensì dal dogma: il Simbolo elaborato dal concilio di Nicea del 325, cioè il Credo, fonda come materia di fede quanto riguarda la vita, la morte e la resurrezione di Cristo, quindi il nucleo del racconto evangelico e del magistero paolino. La critica storica, che appartiene alla ragione, non può sostituirsi alla fede: ed è in forza di questa che noi sappiamo essere Verità anche ciò che alla luce di quella non può essere affermato con certezza razionale. Come sottolinea egli stesso nella Prima lettera ai Galati (1,1), Paolo era profondamente convinto di aver ricevuto la sua missione apostolica «non da parte di uomini… bensi per mezzo di Gesù Cristo e da parte di Dio Padre». Ciò non significa tuttavia ch’egli non tenesse nel massimo conto il suo rapporto con la Mater Ecclesiarum, la comunità gerosolimitana, e i suoi capi Pietro, Giacomo e Giovanni dal 45 al 65. Ma furono essi stessi a riconoscere che il suo territorio missionario era non già il popolo eletto, bensì quello delle gentes, ovvero tutte le “nazioni” escluso Israele. Non che questo avvenisse facilmente. Al contrario. I pareri secondo i quali la Buona Novella era riservata agli ebrei, e non era possibile se non una Ecclesia e circumcisione (cioè destinata a chi fosse ebreo e in quanto tale esclusivo destinatario della Rivelazione), erano forti e in un primo momento prevalenti. Solo dopo quello che è stato definito il “primo viaggio missionario”, iniziato secondo gli Atti degli Apostoli (13-14) verso il 45, e il fondamentale contatto con la comunità antiochena che pare avesse già accolto degli incirconcisi, la legittimazione di una Ecclesia e gentibus cominciò a prendere piede. Ciò si verificò approssimativamente nel triennio 45-48, allorché Paolo, con Barnaba e Marco, visitò l’Asia Minore, quell’Anatolia ch’era la terra della sua stessa natia Tarso, fondando comunità aperte a fedeli di estrazione pagana. Non si può al riguardo minimizzare la tensione, se non l’esplicito contrasto, soprattutto con Pietro, al quale Paolo rimprovera la perdurante discriminazione tra fedeli d’origine ebraica e fedeli d’estrazione “gentile” (Galati 2,11-14). Gli Atti sorvolano su questa specie di braccio di ferro, ma le Lettere paoline non danno adito a dubbi.
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