Archive pour novembre, 2013

L’OBLIO DI PAOLO NEI PRIMI SECOLI

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L’OBLIO DI PAOLO NEI PRIMI SECOLI 

 Frainteso e respinto specie da giudeocristiani 
  
L’Apostolo delle genti, proprio perché si rivolse ai gentili e abbandonò la legge di Mosè, fu in vita attaccato violentemente e poi dimenticato, soprattutto dai cristiani provenienti dal giudaismo. Il relativo silenzio circa i suoi scritti presso alcuni autori della prima ora dipende anche dall’uso fatto della sua dottrina in ambienti gnostici. Differenze poi superate.                                     
         
Autore: Claudio Gianotto  
(Docente di storia del cristianesimo antico presso l’Università di Torino)
  
Tratto da: Vita Pastorale del 01/01/2006
 

Paolo dovette fronteggiare già durante la sua vita serie difficoltà, sia in riferimento alla sua rivendicazione di un’autorità apostolica, sia a proposito dei contenuti dell’Evangelo che annunciava (cf Gal 1). Analoghe difficoltà incontrò, dopo la sua morte, la ricezione dei suoi scritti; per tutto il secolo II, infatti, si registra, accanto a violente contestazioni del personaggio e della sua teologia, un rifiuto, o quantomeno un oblio, dei suoi scritti, che resta difficile da spiegare.
 
DATI GNOSTICI
 Una delle ipotesi cui volentieri si fa ricorso nel tentativo di trovare una motivazione per questo imbarazzante silenzio è suggerita da Tertulliano, il quale definisce Paolo come «haereticorum apostolus» (Adv. Marc. III, 5, 4). Sappiamo che, verso la metà del secolo II, Marcione, nel suo sforzo di identificare e fissare in modo preciso l’insegnamento di Gesù, operò una drastica selezione tra gli scritti attribuiti agli apostoli e destinati a far parte del Nuovo Testamento, accogliendo soltanto il vangelo di Luca (anche questo opportunamente epurato), alcune lettere di Paolo, ed escludendo tutto il resto.
 Sappiamo, inoltre, che Paolo godette di una certa fortuna presso i diversi gruppi gnostici del secolo II, che dimostrano di conoscerne gli scritti e li utilizzano nell’elaborazione delle loro complesse teologie. Questa situazione avrebbe condizionato gli altri autori cristiani, i quali, con il loro silenzio, manifesterebbero un atteggiamento, se non di vero e proprio rifiuto, almeno di sospetto nei confronti dell’Apostolo.
 Alla luce di un più attento esame delle fonti, questa ipotesi deve essere precisata e sfumata. In primo luogo, non si può dire che il silenzio su Paolo nei primi secoli sia generalizzato. Dimostrano di conoscere e di utilizzare le tradizioni paoline la Lettera ai Corinzi di Clemente di Roma; le lettere di Ignazio di Antiochia e di Policarpo di Smirne; la Lettera a Diogneto; l’Epistula apostolorum; gli Atti di Paolo e gli Atti di Pietro apocrifi. In molti scritti che tacciono di Paolo, il silenzio sembra potersi meglio spiegare sulla base di ragioni contingenti (problematiche affrontate, genere letterario utilizzato, ambiente d’origine, ecc.) piuttosto che in riferimento a un atteggiamento di sospetto o di consapevole rifiuto.
È questo, ad esempio, il caso della Didachè, che sceglie di affrontare il problema della legge nella prospettiva di Matteo piuttosto che in quella di Paolo; del Pastore di Erma, che, in forza della sua ispirazione profetica e della sua condizione di visionario, si rifiuta di richiamarsi a qualsiasi tradizione precedente; della Lettera dello Pseudo-Barnaba, il quale sviluppa la sua proposta di un’interpretazione non letterale, bensì allegorica e simbolica dei precetti della legge mosaica esclusivamente all’interno di un confronto con gli scritti dell’Antico Testamento; degli apologisti Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo, i quali in certa misura dimostrano di conoscere gli scritti di Paolo, benché non ne sviluppino le tematiche teologiche.
 Anche nel caso di autori come Papia di Gerapoli o Egesippo, la cui opera peraltro ci è giunta in modo solo frammentario, non si può parlare di un vero e proprio rifiuto di Paolo, ma piuttosto di scarso interesse per la forma di annuncio tipicamente paolina.
 
 DAI GIUDEOCRISTIANI
Un’aperta ostilità nei confronti di Paolo e un rifiuto radicale dei suoi scritti si registra invece, anche se in modo differenziato, negli ambienti giudeocristiani. Sappiamo che Paolo fu contestato, già durante il suo ministero pubblico, da esponenti e gruppi legati a Giacomo, fratello del Signore (cf Gal 2; At 15), i quali gli rimproveravano di insegnare «a tutti i giudei che sono tra i gentili ad allontanarsi da Mosè, dicendo loro di non far più circoncidere i loro figli e di non comportarsi più secondo i costumi tradizionali» (At 21,21). Il pericolo di un ritorno a un legalismo giudaizzante è segnalato negli ambienti legati alla missione di Paolo (cf Col 2, 16-19) e l’autore delle lettere pastorali si vede costretto a prendere posizione contro gente che viene dalla circoncisione (1Tm, 1,6-7; Tt 1,10).
 In alcuni casi, il perdurare del legame con il giudaismo produce atteggiamenti di esplicito rifiuto di Paolo, Ireneo, nella sua notizia sugli ebioniti, riferisce che costoro continuano a praticare la circoncisione e a vivere secondo gli usi e i costumi propri dei giudei, così come sono prescritti dalla legge; e inoltre attesta che «solo autem eo, quod est secundum Matthaeum, evangelio utuntur et apostolum Paulum recusant, apostatam eum legis dicentes» (Adversus haereses I, 26, 2). Accanto al gruppo degli ebioniti, Origene menziona anche gli elcasaiti come eretici che respingevano le lettere di Paolo. Epifanio, infine, spiega il rifiuto di Paolo da parte di questi gruppi facendo riferimento a due espressioni dell’Apostolo tratte da Gal 5,2.4.
 Ma l’opposizione più radicale a Paolo viene da un complesso di scritti noti sotto il nome di Pseudoclementine, in cui si sono raccolti, attraverso una lunga e complessa storia di trasmissione, materiali letterari di epoche diverse, i più antichi dei quali potrebbero risalire ai primi decenni del secolo III. La polemica contro Paolo e il paolinismo non vi è mai sviluppata in modo esplicito e aperto, ma più o meno velato. Il principale avversario che si oppone a Pietro e alla sua predicazione nelle Pseudoclementine è Simon Mago. Ora la descrizione di questo personaggio documentata da questo gruppo di scritti non trova rispondenza in nessuna delle presentazioni che la tradizione eresiologica ci ha lasciato di lui.
 Si tratta, quindi, con ogni verosimiglianza, di una costruzione letteraria che, utilizzando il testo di At 8,9-24 e le leggende su Simone diffuse in particolare in Siria e nelle regioni limitrofe, dà vita a un personaggio polivalente, dietro il quale si celano diversi obiettivi polemici, tra i quali i pensatori gnostici, Marcione e anche Paolo. A quest’ultimo allude Pietro quando, scrivendo a Giacomo, capo della Chiesa madre di Gerusalemme, gli segnala che alcuni gentili hanno respinto il suo insegnamento di fedeltà alla legge, preferendogli quello insensato dell’inimicus homo. (Ep. Petri 2, 3-4).
 Lo stesso epiteto riferito a Paolo ritorna in un passo dove si racconta del tentativo messo in atto da parte di Giacomo per convertire la gente di Gerusalemme, insieme con i sacerdoti del tempio, e indurli a farsi battezzare nel nome di Gesù; operazione che non riesce unicamente per l’intervento violento dell’inimicus homo, il quale arringa la folla, suscitando odio e risentimento nei confronti dei seguaci di Gesù e arriva addirittura ad alzare le mani su Giacomo, che viene scaraventato giù dalla scalinata del Tempio e quasi ne muore (Rec. I, 70-71).
 In questi ambienti giudeocristiani, la diffidenza e anche l’opposizione esplicita nei confronti del personaggio di Paolo e della sua teologia erano motivate dal fatto che l’Apostolo, identificando in Gesù Cristo il mediatore esclusivo della salvezza, metteva in discussione la validità e soprattutto la funzione salvifica della legge mosaica, nella quale essi continuavano a riconoscersi. I gruppi giudeocristiani sopravvivranno per diversi secoli soprattutto nelle regioni orientali dell’impero romano, ma saranno sempre più marginalizzati.
 In ogni caso, a partire dalla fine del secolo II, con Ireneo di Lione, l’eredità paolina, superate le diffidenze e le esitazioni, entrerà pienamente a far parte del patrimonio dottrinale della grande Chiesa.

“Voi siete una lettera di Cristo scritta con lo Spirito del Dio vivente” II Cor 3,3

http://www.battistine.it/Upload/pdf/Don_Francesco_-_Siete_una_lettera_di_Cristo.pdf 
 
“Voi siete una lettera di Cristo scritta con lo Spirito del Dio vivente” II Cor 3,3
 
Nel mondo antico era prassi esibire referenze o lettere di raccomandazioni per accreditare la propria persona e dare lustro alle proprie attività o iniziative. Queste lettere erano necessarie soprattutto per i filosofi, gli insegnanti o i predicatori. Anche l’Apostolo Paolo usava scrivere lettere di raccomandazione in favore dei suoi collaboratori quando li inviava presso le chiese locali. Sembra invece che egli non portasse lettere di questo tipo dopo la sua “conversione”, esponendosi così ad accuse tese a screditare la sua persona e la sua opera. Discutendo con i Corinti, una comunità
difficile e litigiosa, San Paolo chiede loro con humor se per annunciare il Vangelo di Gesù hanno bisogno di una lettera di raccomandazione e lancia questa superba affermazione: “La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. E’ noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori” (II Lettera ai Corinzi 3, 2-3). Paolo fa cinque affermazioni che caratterizzano la lettera di raccomandazione che sono i Corinti: 1. Essi sono “una lettera di Cristo”. Non si tratta di una lettera “che parla di Cristo”, ma di una lettera “scritta da Cristo” il quale, dunque, ne è l’autore. 2. Paolo ne è stato lo strumento: è stata scritta “mediante il nostro
servizio”. 3. Colui che ha scritto le righe è lo Spirito del Dio vivente e vero.  2 4. La lettera è scritta su “cuori di carne” e non su tavolette di pietra o di cera. 5. E’ una lettera manifesta, pubblica, palpabile, “conosciuta e letta
da tutti gli uomini”. 
 
Noi siamo un pensiero di Dio e portiamo il suo messaggio 
L’Apostolo scrive alla comunità cristiana di Corinto e pertanto attribuisce al suo messaggio un valore comunitario e personale: cioè è lettera di Cristo sia la comunità che il singolo cristiano. Io, la Comunità in cui vivo, la Congregazione delle Battistine siamo “una lettera” scritta da Cristo. Si tratta di qualcosa di grandioso e di spaventoso perché siamo chiamati ad essere libro di coloro che non credono. In altre parole l’annuncio più efficace di Cristo è la mia vita e la vita della mia comunità cristiana. Per cercare di cogliere l’insegnamento di Paolo è importante sapere che cosa l’Apostolo intende quando parla di “lettera scritta su tavole di pietra” e “lettera scritta con lo Spirito del Dio vivente”.
La prima è la legge di Mosè la quale essendo una legge scritta rimane esteriore a chi la doveva osservare. Il cristiano, invece, è mosso da una legge interiore, scritta nei cuori, quella che altrove l’Apostolo definisce la legge dello Spirito che dà la vita in Gesù Cristo e che libera dalla legge del peccato e della morte (Rm. 8, 2). 
 
Lo Spirito Santo ci plasma secondo l’immagine di Cristo 
Nella nuova alleanza Dio non si limita più a comandare all’uomo di fare o non fare, ma fa egli stesso con lui e in lui le cose che egli comanda. La vita cristiana, allora, non è tanto l’adempimento di precetti esterni, l’osservanza di una legge esteriore, ma un assecondare lo Spirito che  3 vive in noi, ci muove, ci guida nell’amore, nella gioia, nella pace. S. Ireneo afferma che “sotto l’azione dello Spirito Santo l’uomo diventa un essere composto di corpo, anima e Spirito Santo”. Pertanto possiamo dire che il cristiano è una persona condotta, guidata, influenzata, mossa dallo Spirito.
Scrive il Card. Martini che “una delle tentazioni più sottili e perfide del Maligno [è ] quella di farci dimenticare la presenza dello Spirito, di farci cadere nella tristezza come se Dio ci avesse abbandonato in un mondo cattivo, contro il quale lottiamo ad armi impari, perché l’indifferenza, l’egoismo e la dimenticanza di Dio hanno a poco a poco il sopravvento (Tre racconti dello Spirito, Centro Ambrosiano). Il Cardinale si chiede poi se questo atteggiamento non sia “un grave peccato contro lo Spirito Santo, che nega in pratica la sua forza e la sua capacità persuasiva, la sua penetrazione come vento e come soffio nei meandri della storia”. 
 
Lo Spirito ci guida nella conoscenza del Vangelo e della volontà di Dio 
Ma come agisce, in concreto, questa legge nuova che è lo Spirito? Agisce attraverso l’amore. Il Veni Creator dice: riempi d’amore i nostri cuori. Solo lo Spirito possiede l’amore e fa sì che tutta la vita umana sia impregnata e governata dall’amore e trasformata in amore. L’amore che ci dona lo Spirito Santo non è da confondersi con il
sentimentalismo o le emozioni o la compassione: è l’amore di Dio e di Cristo che ci viene donato, è lo stesso amore che circola all’interno della Santissima Trinità. La legge dello Spirito crea nel cristiano un dinamismo che lo spinge a
fare tutto ciò che Dio vuole, perché ha fatto propria la volontà di Dio e ama tutto ciò che Dio ama. Il Figlio di Dio, Cristo, è la mano attraverso la quale il Padre ci abbraccia, ci accarezza, ci aiuta, ci dice che ci ama. Il Figlio a sua
volta, toccandoci ci dona lo Spirito. Esso è il dito della destra di Dio e sta ad indicare l’intervento concreto ed immediato di Dio nella mia vita per farmi creatura nuova. Lo Spirito, soprattutto, porta con sé  4 Cristo. E’ il principio trasformante che ci assimila progressivamente a Cristo. Come? Aiutandoci ad interpretare correttamente le sue parole.
Infatti lo Spirito non dice nulla di suo, ma ci aiuta a “ricordare” le parole di Gesù, a comprenderle, ad approfondirle e a viverle. In questo senso egli è Spirito di “sapienza e di scienza”. E’ voce che parla al cuore (Gv. 16,13; Rm. 8,26; Gal. 4,6) e ci dice che tutto quello che Gesù ha detto, quando era in mezzo agli uomini, non è arida dottrina, ma legge di vita. Mi insegna che il Vangelo non è solo né principalmente un testo di studio, ma è codice esistenziale, legge e
segnaletica per una vita nuova, finalizzata all’adorazione al Padre. 
 
Maria… lettera perfetta di Cristo
 La presenza dello Spirito chiede docilità, obbedienza, abbandono. Non è sufficiente ascoltare, non è sufficiente neppure prestare attenzione, ma è necessario l’affidamento a Lui come ha fatto la Vergine Maria. Quando l’anima sarà totalmente abbandonata allo Spirito Santo allora la Parola si incarnerà in lei e avverrà la nostra identificazione con
Cristo. In questa prospettiva, allora, la perfetta lettera di Cristo, la più bella, la pagina più splendente che Dio ha scritto è la Vergine Maria. Lei è il capolavoro di Dio. Nei Messali ed antifonari antichi troviamo delle bellissime lettere miniate, così è Maria. E’ la lettera d’oro, ricercata, curata che nobilita, abbellisce e dà senso a tutta l’umanità. 
 
I Santi realizzano il messaggio di Dio a loro affidato 
Dopo di lei i Santi sono somiglianza di Cristo, coloro nei quali risplende il volto di Gesù, che hanno gli stessi sentimenti di Cristo, e sono riproposizione del messaggio di Cristo. I Santi sono spiegazione viva del Vangelo che la Chiesa, che è comunione dei santi, è chiamata ad annunciare in ogni tempo.  5 Il Concilio Vaticano II ricorda che i santi sono coloro “che hanno seguito fedelmente Cristo”. Attraverso di loro impariamo “la via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose del mondo e secondo lo  stato e la condizione propria di ciascuno, potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè alla santità. Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono più perfettamente
trasformati nell’immagine di Cristo, Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto. In loro è egli stesso che ci parla e ci dà un segno del suo regno verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati” (LG 50). Nella vita dei santi Cristo si fa di nuovo presente in mezzo a noi perché è lo specchio di Cristo. La sua esistenza è la più efficacia opera di convinzione della bontà della Parola di Dio, della sua verità per l’esistenza gioiosa dell’umanità.
 
Lo Spirito ci dà la forza per annunciare e testimoniare il messaggio 
I Santi non sono figure eccezionali o degli eroi leggendari, ma persone che – poiché si sono resi docili all’azione dello Spirito Santo e si sono abbandonati alla sua forza trasformante – sono diventati nuovi nei pensieri, nuovi nella volontà, nuovi nei desideri e nuovi nei sentimenti. In particolare, chi è ripieno dello Spirito, sperimenta una creatività inattesa e una forza nuova. Una forza quanto mai necessaria oggi, soprattutto per non tradire il messaggio di Cristo o ridurlo, come si dice, ad una forma di buonismo, a buoni sentimenti, a parole che vanno bene per qualsiasi situazione.
A questo proposito vorrei ricordare che S. Ippolito (inizio III sec.) fa presente che gli apostoli hanno tradito Cristo prima della Pentecoste, mentre dopo hanno predicato e testimoniato con fortezza il Cristo. Esiste uno stretto legame tra Spirito e testimonianza. Io sono niente. Davanti al mondo sono un disarmato. E’ lo Spirito che mi dà coraggio,
fortezza, generosità; che mi rende annunciatore e testimone. Rimane quanto mai attuale anche per noi ’ammonimento, quando qualche nostra opera ha successo, a non dimenticare l’origine della  6 nostra “forza”: “Guardati dal dire: è stata la mia forza, il vigore del mio braccio a procurarmi questo potere”. Soprattutto la vita dei santi è tutto un atto di amore. Hanno compiuto tante cose, ma tutto quello che hanno fatto si riassume nel duplice comandamento dell’amore.
 
Essere Santi secondo la propria vocazione 
I santi, prima di diventare tali, erano scrittura comune, scarabocchio, fango, libri sigillati dall’incoerenza, come noi. Come hanno conseguito la pienezza della vocazione cristiana, la santità? La vita spirituale del cristiano è un cammino che è molto differente dal cammino dell’uomo sul piano naturale. Il cammino dell’uomo sul piano naturale si qualifica come una lenta conquista della propria indipendenza ed autonomia. Nella vita spirituale è il contrario. Nasciamo che siamo vecchi a causa del peccato ed il cammino dell’anima è un cammino a ritroso, un cammino cioè che va dalla
vecchiaia alla giovinezza, all’infanzia: “Se non vi convertirete e non diventerete come bambini non entrerete nel Regno dei cieli” (Mt 18, 3). Si tratta di un’esperienza meravigliosa! Invece di invecchiare si ringiovanisce. Si nasce vecchi e si muore bambini. In definitiva il cammino della vita spirituale consiste in una rinuncia progressiva alla propria indipendenza per aderire alla volontà di colui che amiamo: Cristo. Quanto più cresce l’amore per il Signore tanto si
è disposti a rinunciare con gioia alle proprie vedute, ai propri giudizi, alle proprie vie per seguire le vie attraverso le quali il Signore ci conduce. Fino all’abbandono! Proprio come un bambino in braccio a sua madre. E’ questo il cammino dell’anima. Anche se abbiamo i capelli bianchi bisogna ritornare bambini, tra le braccia di Dio. Se Cristo vive, cresce, risplende in noi saremo un “segno chiaro” leggibile di Cristo. Se Cristo, invece, viene messo ai margini
dell’esistenza e dell’apostolato – perché ha prevalso una mentalità mondana, perché sono assecondate mode o atteggiamenti effimeri e mutevoli, perché ci si è mimetizzati con il mondo – saremo un “segno oscuro” con grave pericolo per la nostra vita spirituale e per i fratelli. Il giorno della professione religiosa, per usare parole di Paolo VI,  7
abbiamo detto al Signore: “La mia vita è tua; da te, mio Dio, mi è stata data, a te, o Dio, la restituisco”. 
 
Il Beato Alfonso M. Fusco, lettera chiara e trasparente di Cristo 
La lettera di Cristo per noi è il nostro Fondatore: il beato Alfonso Maria Fusco. Attraverso la sua vita, la sua opera, i suoi scritti, il suo amore per i poveri, la sua attività apostolica… noi vediamo il volto di Cristo. E’ lui che dà concretezza alla nostra sequela di Cristo. Noi, infatti, non seguiamo un Cristo astratto, generico, disincarnato, ma il
Cristo che si rende presente e si rivela in una comunità ben definita: la Chiesa. Ed è all’interno di questa Comunità che vengono generati figli santi, tra i quali il nostro Fondatore. In lui il Signore Gesù ha assunto fattezze concrete e storiche, si è quasi “umanizzato”. Pertanto la nostra conoscenza di Cristo oltre che dalla Chiesa è mediata dal Beato Alfonso Maria Fusco. I Corinti sono diventati lettera di Cristo mediante il servizio apostolico di S. Paolo. Noi
diventiamo “lettera di Cristo” per mezzo del ministero del nostro Fondatore. E’ questo che voleva il nostro Fondatore quando alle Suore ripeteva: “Cosa credete di essere venute a fare nell’Istituto? Forse a formare una famiglia qualsiasi? No! Siete venute a formare una famiglia di Sante. Scopo della vostra vita è santificarvi” 
 
La nostra vocazione è la chiamata alla santità 
Dio ci chiama alla grandezza, alla bellezza dell’ideale della santità: diventare santi per essere rivelazione della presenza di Cristo in mezzo agli uomini. Davanti alle altezze alle quali il Signore ci chiama può nascere in noi sgomento e smarrimento perché ci sentiamo estremamente poveri ed infinitamente lontani. Eppure la nostra  8 povertà e miseria non deve diventare un pretesto per diminuire le esigenze di Dio ed accontentarci di essere delle persone buone.
Il Signore non ci chiede una qualunque bontà ci chiede la santità che è trasparenza di Dio, che è liberazione dall’egoismo, che è rivestimento di Cristo, testimonianza della presenza di lui in mezzo agli uomini. No! la nostra miseria non deve diventare il pretesto per diminuire le esigenze di Dio. Se veramente noi siamo figli di Dio noi possiamo confidare che anche dalla nostra miseria Dio saprà trarre prodigi di santità e di grazia.

Don Francesco Cavina
 

Interno della Basilica di San Clemente a Roma

Interno della Basilica di San Clemente a Roma dans immagini sacre

http://en.wikipedia.org/wiki/File:Interior_of_San_Clemente,_Rome.JPG

Publié dans:immagini sacre |on 22 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI: SAN CLEMENTE ROMANO – (23 NOVEMBRE MF)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20070307_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

AULA PAOLO VI

MERCOLEDÌ, 7 MARZO 2007

SAN CLEMENTE ROMANO – (23 NOVEMBRE MF)

Cari fratelli e sorelle,

abbiamo meditato nei mesi scorsi sulle figure dei singoli Apostoli e sui primi testimoni della fede cristiana, che gli scritti neo-testamentari menzionano. Adesso dedichiamo la nostra attenzione ai santi Padri dei primi secoli cristiani. E così possiamo vedere come comincia il cammino della Chiesa nella storia.
San Clemente, Vescovo di Roma negli ultimi anni del primo secolo, è il terzo successore di Pietro, dopo Lino e Anacleto. Riguardo alla sua vita, la testimonianza più importante è quella di sant’Ireneo, Vescovo di Lione fino al 202. Egli attesta che Clemente «aveva visto gli Apostoli», «si era incontrato con loro», e «aveva ancora nelle orecchie la loro predicazione, e davanti agli occhi la loro tradizione» (Contro le eresie 3,3,3). Testimonianze tardive, fra il quarto e il sesto secolo, attribuiscono a Clemente il titolo di martire.
L’autorità e il prestigio di questo Vescovo di Roma erano tali, che a lui furono attribuiti diversi scritti, ma l’unica sua opera sicura è la Lettera ai Corinti. Eusebio di Cesarea, il grande «archivista» delle origini cristiane, la presenta in questi termini: «E’ tramandata una lettera di Clemente riconosciuta autentica, grande e mirabile. Fu scritta da lui, da parte della Chiesa di Roma, alla Chiesa di Corinto … Sappiamo che da molto tempo, e ancora ai nostri giorni, essa è letta pubblicamente durante la riunione dei fedeli» (Storia Eccl. 3,16). A questa lettera era attribuito un carattere quasi canonico. All’inizio di questo testo – scritto in greco – Clemente si rammarica che «le improvvise avversità, capitate una dopo l’altra» (1,1), gli abbiano impedito un intervento più tempestivo. Queste «avversità» sono da identificarsi con la persecuzione di Domiziano: perciò la data di composizione della lettera deve risalire a un tempo immediatamente successivo alla morte dell’imperatore e alla fine della persecuzione, vale a dire subito dopo il 96.
L’intervento di Clemente era sollecitato dai gravi problemi in cui versava la Chiesa di Corinto: i presbiteri della comunità, infatti, erano stati deposti da alcuni giovani contestatori. La penosa vicenda è ricordata, ancora una volta, da sant’Ireneo, che scrive: «Sotto Clemente, essendo sorto un contrasto non piccolo tra i fratelli di Corinto, la Chiesa di Roma inviò ai Corinti una lettera importantissima per riconciliarli nella pace, rinnovare la loro fede e annunciare la tradizione, che da poco tempo essa aveva ricevuto dagli Apostoli» (Contro le eresie 3,3,3). Potremmo quindi dire che questa lettera costituisce un primo esercizio del Primato romano dopo la morte di san Pietro. La lettera di Clemente riprende temi cari a san Paolo, che aveva scritto due grandi lettere ai Corinti, e in particolare la dialettica teologica, perennemente attuale, tra indicativo della salvezza e imperativo dell’impegno morale. Prima di tutto c’è il lieto annuncio della grazia che salva. Il Signore ci previene e ci dona il perdono, ci dona il suo amore, la grazia di essere cristiani, suoi fratelli e sorelle. E’ un annuncio che riempie di gioia la nostra vita e dà sicurezza al nostro agire: il Signore ci previene sempre con la sua bontà, e la bontà del Signore è sempre più grande di tutti i nostri peccati. Occorre però che ci impegniamo in maniera coerente con il dono ricevuto e rispondiamo all’annuncio della salvezza con un cammino generoso e coraggioso di conversione. Rispetto al modello paolino, la novità è che Clemente fa seguire alla parte dottrinale e alla parte pratica, che erano costitutive di tutte le lettere paoline, una «grande preghiera», che praticamente conclude la lettera.
L’occasione immediata della lettera schiude al Vescovo di Roma la possibilità di un ampio intervento sull’identità della Chiesa e sulla sua missione. Se a Corinto ci sono stati degli abusi, osserva Clemente, il motivo va ricercato nell’affievolimento della carità e di altre virtù cristiane indispensabili. Per questo egli richiama i fedeli all’umiltà e all’amore fraterno, due virtù veramente costitutive dell’essere nella Chiesa: «Siamo una porzione santa», ammonisce, «compiamo dunque tutto quello che la santità esige» (30,1). In particolare, il Vescovo di Roma ricorda che il Signore stesso «ha stabilito dove e da chi vuole che i servizi liturgici siano compiuti, affinché ogni cosa, fatta santamente e con il suo beneplacito, riesca bene accetta alla sua volontà … Al sommo sacerdote infatti sono state affidate funzioni liturgiche a lui proprie, ai sacerdoti è stato preordinato il posto loro proprio, ai leviti spettano dei servizi propri. L’uomo laico è legato agli ordinamenti laici» (40,1-5: si noti che qui, in questa lettera della fine del I secolo, per la prima volta nella letteratura cristiana, compare il termine greco laikós, che significa «membro del laós», cioè «del popolo di Dio»).
In questo modo, riferendosi alla liturgia dell’antico Israele, Clemente svela il suo ideale di Chiesa. Essa è radunata dall’«unico Spirito di grazia effuso su di noi», che spira nelle diverse membra del Corpo di Cristo, nel quale tutti, uniti senza alcuna separazione, sono «membra gli uni degli altri» (46,6-7). La netta distinzione tra il «laico» e la gerarchia non significa per nulla una contrapposizione, ma soltanto questa connessione organica di un corpo, di un organismo, con le diverse funzioni. La Chiesa infatti non è luogo di confusione e di anarchia, dove uno può fare quello che vuole in ogni momento: ciascuno in questo organismo, con una struttura articolata, esercita il suo ministero secondo la vocazione ricevuta. Riguardo ai capi delle comunità, Clemente esplicita chiaramente la dottrina della successione apostolica. Le norme che la regolano derivano in ultima analisi da Dio stesso. Il Padre ha inviato Gesù Cristo, il quale a sua volta ha mandato gli Apostoli. Essi poi hanno mandato i primi capi delle comunità, e hanno stabilito che ad essi succedessero altri uomini degni. Tutto dunque procede «ordinatamente dalla volontà di Dio» (42). Con queste parole, con queste frasi, san Clemente sottolinea che la Chiesa ha una struttura sacramentale e non una struttura politica. L’agire di Dio che viene incontro a noi nella liturgia precede le nostre decisioni e le nostre idee. La Chiesa è soprattutto dono di Dio e non creatura nostra, e perciò questa struttura sacramentale non garantisce solo il comune ordinamento, ma anche questa precedenza del dono di Dio, del quale abbiamo tutti bisogno.
Al termine, la «grande preghiera» conferisce un respiro cosmico alle argomentazioni precedenti. Clemente loda e ringrazia Dio per la sua meravigliosa provvidenza d’amore, che ha creato il mondo e continua a salvarlo e a santificarlo. Particolare rilievo assume l’invocazione per i governanti. Dopo i testi del Nuovo Testamento, essa rappresenta la più antica preghiera per le istituzioni politiche. Così, all’indomani della persecuzione, i cristiani, ben sapendo che sarebbero continuate le persecuzioni, non cessano di pregare per quelle stesse autorità che li avevano condannati ingiustamente. Il motivo è anzitutto di ordine cristologico: bisogna pregare per i persecutori, come fece Gesù sulla croce. Ma questa preghiera contiene anche un insegnamento che guida, lungo i secoli, l’atteggiamento dei cristiani dinanzi alla politica e allo Stato. Pregando per le autorità, Clemente riconosce la legittimità delle istituzioni politiche nell’ordine stabilito da Dio; nello stesso tempo, egli manifesta la preoccupazione che le autorità siano docili a Dio e «esercitino il potere, che Dio ha dato loro, nella pace e nella mansuetudine con pietà» (61,2). Cesare non è tutto. Emerge un’altra sovranità, la cui origine ed essenza non sono di questo mondo, ma «di lassù»: è quella della Verità, che vanta anche nei confronti dello Stato il diritto di essere ascoltata.
Così la lettera di Clemente affronta numerosi temi di perenne attualità. Essa è tanto più significativa, in quanto rappresenta, fin dal primo secolo, la sollecitudine della Chiesa di Roma, che presiede nella carità a tutte le altre Chiese. Con lo stesso Spirito facciamo nostre le invocazioni della «grande preghiera», là dove il Vescovo di Roma si fa voce del mondo intero: «Sì, o Signore, fa’ risplendere su di noi il tuo volto nel bene della pace; proteggici con la tua mano potente … Noi ti rendiamo grazie, attraverso il Sommo Sacerdote e guida delle anime nostre, Gesù Cristo, per mezzo del quale a te la gloria e la lode, adesso, e di generazione in generazione, e nei secoli dei secoli. Amen» (60-61).

BENEDETTO XVI: CANTICO CFR COL 1,3.12-20

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20060104_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

AULA PAOLO VI

MERCOLEDÌ, 4 GENNAIO 2006

CANTICO CFR COL 1,3.12-20

Cristo fu generato prima di ogni creatura,
è il primogenito di coloro che risuscitano dai morti
Vespri – Mercoledì 4a settimana

1. In questa prima Udienza generale del nuovo anno ci soffermiamo a meditare il celebre inno cristologico contenuto nella Lettera ai Colossesi, che è quasi il solenne portale d’ingresso di questo ricco scritto paolino ed è anche un portale di ingresso in questo anno. L’Inno proposto alla nostra riflessione è incorniciato da un’ampia formula di ringraziamento (cfr vv. 3.12-14). Essa ci aiuta a creare l’atmosfera spirituale per vivere bene questi primi giorni del 2006, come pure il nostro cammino lungo l’intero arco del nuovo anno (cfr vv. 15-20).
La lode dell’Apostolo e così la nostra sale a « Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (v. 3), sorgente di quella salvezza che è descritta in negativo come « liberazione dal potere delle tenebre » (v. 13), cioè come « redenzione e remissione dei peccati » (v. 14). Essa è poi riproposta in positivo come « partecipazione alla sorte dei santi nella luce » (v. 12) e come ingresso « nel regno del Figlio diletto » (v. 13).
2. A questo punto si schiude il grande e denso Inno, che ha al centro il Cristo, del quale è esaltato il primato e l’opera sia nella creazione sia nella storia della redenzione (cfr vv. 15-20). Due sono, quindi, i movimenti del canto. Nel primo è presentato Cristo come il primogenito di tutta la creazione, Cristo, « generato prima di ogni creatura » (v. 15). Egli è, infatti, l’ »immagine del Dio invisibile », e questa espressione ha tutta la carica che l’ »icona » ha nella cultura d’Oriente: si sottolinea non tanto la somiglianza, ma l’intimità profonda col soggetto rappresentato.
Cristo ripropone in mezzo a noi in modo visibile il « Dio invisibile ». In Lui vediamo il volto di Dio, attraverso la comune natura che li unisce. Cristo per questa sua altissima dignità precede « tutte le cose » non solo a causa della sua eternità, ma anche e soprattutto con la sua opera creatrice e provvidente: « per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili… e tutte sussistono in lui » (vv. 16-17). Anzi, esse sono state create anche « in vista di lui » (v. 16). E così san Paolo ci indica una verità molto importante: la storia ha una meta, ha una direzione. La storia va verso l’umanità unita in Cristo, va così verso l’uomo perfetto, verso l’umanesimo perfetto. Con altre parole san Paolo ci dice: sì, c’è progresso nella storia. C’è – se vogliamo – una evoluzione della storia. Progresso è tutto ciò che ci avvicina a Cristo e ci avvicina così all’umanità unita, al vero umanesimo. E così, dentro queste indicazioni, si nasconde anche un imperativo per noi: lavorare per il progresso, cosa che vogliamo tutti. Possiamo farlo lavorando per l’avvicinamento degli uomini a Cristo; possiamo farlo conformandoci personalmente a Cristo, andando così nella linea del vero progresso.
3. Il secondo movimento dell’Inno (cfr Col 1, 18-20) è dominato dalla figura di Cristo salvatore all’interno della storia della salvezza. La sua opera si rivela innanzitutto nell’essere « capo del corpo, cioè della Chiesa » (v. 18): è questo l’orizzonte salvifico privilegiato nel quale si manifestano in pienezza la liberazione e la redenzione, la comunione vitale che intercorre tra il capo e le membra del corpo, ossia tra Cristo e i cristiani. Lo sguardo dell’Apostolo si protende alla meta ultima verso cui converge la storia: Cristo è « il primogenito di coloro che risuscitano dai morti » (v. 18), è colui che dischiude le porte alla vita eterna, strappandoci dal limite della morte e del male.
Ecco, infatti, quel pleroma, quella « pienezza » di vita e di grazia che è in Cristo stesso e che è a noi donata e comunicata (cfr v. 19). Con questa presenza vitale, che ci rende partecipi della divinità, siamo trasformati interiormente, riconciliati, rappacificati: è, questa, un’armonia di tutto l’essere redento nel quale ormai Dio sarà « tutto in tutti » (1Cor 15, 28) e vivere da cristiano vuol dire lasciarsi in questo modo interiormente trasformare verso la forma di Cristo. Si realizza la riconciliazione, la rappacificazione.
4. A questo mistero grandioso della redenzione dedichiamo ora uno sguardo contemplativo e lo facciamo con le parole di san Proclo di Costantinopoli, morto nel 446. Egli nella sua Prima omelia sulla Madre di Dio Maria ripropone il mistero della Redenzione come conseguenza dell’Incarnazione.
Dio, infatti, ricorda il Vescovo, si è fatto uomo per salvarci e così strapparci dal potere delle tenebre e ricondurci nel regno del Figlio diletto, come ricorda questo inno della Lettera ai Colossesi. « Chi ci ha redento non è un puro uomo – osserva Proclo -: tutto il genere umano infatti era asservito al peccato; ma neppure era un Dio privo di natura umana: aveva infatti un corpo. Che, se non si fosse rivestito di me, non m’avrebbe salvato. Apparso nel seno della Vergine, Egli si vestì del condannato. Lì avvenne il tremendo commercio, diede lo spirito, prese la carne » (8: Testi mariani del primo millennio, I, Roma 1988, p. 561).
Siamo, quindi, davanti all’opera di Dio, che ha compiuto la Redenzione proprio perché anche uomo. Egli è contemporaneamente il Figlio di Dio, salvatore ma è anche nostro fratello ed è con questa prossimità che Egli effonde in noi il dono divino.

È realmente il Dio con noi. Amen!

24 NOV. 2013 | 34A DOM. CRISTO RE : « RICORDATI DI ME QUANDO ENTRERAI NEL TUO REGNO »

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24 NOV. 2013  | 34A DOM. CRISTO RE – TEMPO ORDINARIO C 

« RICORDATI DI ME QUANDO ENTRERAI NEL TUO REGNO »

Il significato spirituale e teologico della festa di Cristo Re, che si pone a coronamento di tutto il ciclo liturgico, è messo in evidenza dall’orazione che apre l’odierna Liturgia: « Dio onnipotente ed eterno, che hai voluto rinnovare tutte le cose in Cristo tuo Figlio, Re dell’universo, fa’ che ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato, ti serva e ti lodi senza fine ». Mi sembra che le idee fondamentali qui espresse siano due: a) Cristo è « Re dell’universo » in quanto in se stesso, polarizzandole, « rinnova » tutte le cose (in latino abbiamo il più efficace « instaurare », o « restaurare »); b) gli uomini partecipano alla « regalità » di Cristo « liberandosi », per la sua grazia, dalla « schiavitù del peccato » e offrendosi a lui come sacrificio di « lode ». Cristo è Re non per asservire, ma per rendere liberi e « sovrani » tutti gli uomini.
Le letture bibliche ci aiutano ad approfondire e ad articolare meglio questi concetti.

Dio « gli darà il trono di Davide, suo padre »
La prima lettura ci descrive uno degli avvenimenti fondamentali della storia ebraica, e cioè il riconoscimento e l’unzione di Davide come re di tutto Israele e non della sola tribù di Giuda, come era già avvenuto in precedenza: « Ecco noi ci consideriamo come tue ossa e tua carne. Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: Tu pascerai Israele mio popolo, tu sarai capo in Israele » (2 Sam 5,1 2).
Certo, la regalità di Davide non ci aiuta gran che a comprendere quella di Cristo, perché siamo davanti a due realtà di significato e di contenuto diversi: quella di Davide, pur rientrando in un piano di interventi salvifici, rimane una regalità terrena, con tutti i limiti e con tutte le colpevolezze dell’uomo; quella di Cristo è di ordine divino e trascendente, e si realizza nella misura in cui allontana dal cuore dell’uomo il male e il peccato.
Ciò nonostante, nel N. Testamento Gesù viene chiamato più d’una volta « figlio di Davide »; l’Angelo annuncia a Maria che « Dio gli darà il trono di Davide, suo padre » (Lc 1,32), ecc. C’è dunque un rapporto di prefigurazione « profetica » tra Davide e Cristo, soprattutto per quanto riguarda la durata « eterna » del suo regno, il senso religioso della regalità, la elezione da parte di Dio, il compimento delle promesse salvifiche, ecc.
A noi basti qui l’averlo accennato, per cogliere il senso di « continuità » fra A. e N. Testamento, ma anche per sottolineare la « superiorità » di quest’ultimo, a cui intendiamo adesso rivolgere tutta la nostra attenzione.

« Egli è immagine del Dio invisibile… »
Particolarmente ricca, per affermare la fondazione teologica della regalità di Cristo, è la seconda lettura, ripresa dalla lettera di S. Paolo ai Colossesi (1,12 20).
I primi tre versetti contengono un ringraziamento a Dio Padre per aver preso l’iniziativa della salvezza e averci « trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati » (vv. 13 14). Il « regno » di Cristo qui è visto in antitesi con « il potere delle tenebre » (v. 13), cioè con il regno di Satana, che si esercita appunto « soggiogando » gli uomini; nel regno di Cristo, invece, essi acquistano la vera « libertà » (ivi).
I rimanenti versetti contengono il famoso inno « cristologico », che pare di composizione prepaolina e che reca in sé una quantità di problemi che non stiamo qui ad analizzare. Ci preme soltanto far notare la centralità « cosmica » di Cristo: in lui trovano « senso » tutte le cose create, appunto perché egli ne è stato l’ideatore e il « creatore ». Un filo d’erba, che oggi c’è e domani è seccato dal sole, ha il suo perché in questo disegno mirabile della creazione, così come lo hanno l’uomo e il mondo sterminato delle galassie: tutto in qualche modo è « immagine » di lui, come lui è « immagine » perfetta del Padre.
Così infatti ce lo presenta in forma altamente poetica, che non cessa peraltro di essere rigorosamente teologica, S. Paolo: « Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui » (vv. 15 17).
Cristo però non è solo all’inizio delle cose, ma anche al termine: egli infatti le fa « sussistere » e le indirizza a se stesso come a « fine » ultimo di tutto il creato. È quanto ci dicono le ultime parole: « Tutte le cose sono state create… in vista di lui » (v. 16). Non c’è solo un « exitus » della creazione da Cristo, ma ci deve essere anche un « reditus » di tutte le cose a lui, evidentemente stimolate e guidate dall’uomo. Qui può aprirsi uno spiraglio immenso sull’impegno del cristiano nel mondo, che già come creazione porta il sigillo della « cristicità » e deve perciò ritornare alla sua sorgente.
La « sovranità » di Cristo non può rinchiudersi all’interno degli spiriti, pena l’abbandono e il ritorno di tutta la creazione sotto il « potere delle tenebre » (cf v. 13)!
È certo, però, che fin da adesso Cristo ha uno « spazio » privilegiato, in cui già esercita la sua regalità, ed è la Chiesa: « Egli è anche capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli » (vv. 18 20).
L’immagine di Cristo come « capo del corpo », cioè della Chiesa, sta a dire la sua forza di unificazione e di plasmazione di questa realtà di salvezza che è la Chiesa: tutta la sua vita e tutta la sua ricchezza direi che si trovano in questo « prolungamento » di se stesso che è la Chiesa. Essa dice però anche la sua « sovranità »: il « capo », infatti, ha anche funzione di coordinamento e di controllo di tutte le attività vitali del « corpo ». Ma questo è un pensiero, oltre che bello, estremamente compromettente: c’è da domandarsi se la Chiesa sempre e in tutti i suoi membri, dai semplici fedeli ai pastori, si fa dominare e guidare da Cristo « capo », se si assoggetta sempre e incondizionatamente alla « signoria » del suo Re!
E un altro pensiero mi sembra emergere da tutto il contesto: mediante la Chiesa, che è il suo « corpo », il Cristo tende a conquistare di fatto, oltre che di diritto, « il primato su tutte le cose » (v. 18); così come mediante la Chiesa si dilata la « riconciliazione » di « tutte le cose », che egli ha operato « con il sangue della sua croce » (v. 20).
La « regalità » di Cristo non può essere solo un’affermazione di principio, ma deve diventare un’esperienza di vita per tutta la Chiesa e per il mondo intero.

« In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso »
Il brano di Vangelo ci aiuta a comprendere, in maniera molto concreta, la « natura » di questa misteriosa regalità di Cristo, che sembra fatta di aspetti contrastanti e antitetici; per un verso, infatti, attira prepotentemente gli uomini, per un altro sembra allontanarli da lui.
È un tratto della storia della Passione che, accanto a elementi comuni (Lc 23,35 38), riporta materiale esclusivamente lucano (vv. 39 43). Il tema della regalità di Cristo domina tutta la scena; e la domina proprio con i suoi aspetti contrastanti, come abbiamo appena accennato. Per i capi del popolo e per i soldati che assistono alla esecuzione capitale, Gesù è motivo di scherno e di irrisione: « Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto… Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso » (vv. 35.37).
L’irrisione nasce da un doppio motivo: primo, un vero re, come i Giudei potevano immaginarlo ed attenderlo, non poteva finire sulla croce; secondo, in ogni caso Dio avrebbe potuto sempre salvarlo, sia pure all’ultimo momento. Non si dimentichi infatti che nel caso concreto il « re », di cui qui si parla, è uno che si è presentato come « il Cristo di Dio » (v. 35), cioè il Messia inviato a salvare Israele. È l’impotenza e l’apparente fallimento di quest’uomo che accusa la sua impostura: tutt’al più un « re da burla » può essere uno che finisce sulla croce!
Anche il « titulus » che è apposto in cima alla croce: « Questi è il re dei Giudei » (v. 38), più che esprimere il motivo vero della condanna a morte, nella sua ambiguità è un gesto di estrema irrisione.
Eppure c’è qualcosa, in tutta questa tragedia, che permette di intravedere delle luci insospettate di autentica e grandiosa regalità: la regalità dell’amore, dell’offerta gratuita di se stesso per gli altri, della salvezza e del riscatto donati inaspettatamente a un assassino che si pente, della libertà assoluta davanti all’ingiustizia degli uomini, della sicurezza di fronte alla morte.
È quanto risulta dall’episodio, esclusivo di Luca, dei due ladroni, uno dei quali proclama l’innocenza di Cristo e ne riconosce la dignità regale: « Neanche tu hai timore di Dio, benché sia condannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male ». E aggiunse: « Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno » (vv. 40 42).
Queste ultime parole del ladrone sono non tanto un gesto di fiducia in Gesù, quanto una « preghiera » rivolta a lui: e infatti non poche preghiere dell’A. Testamento, in cui ci si rivolge a Dio in casi di estremo abbandono, sono formulate proprio in questa maniera. Per il ladrone, dunque, Gesù si muove ormai nella sfera del divino e la sua morte imminente è solo l’inaugurazione del vero e unico « regno »: quello escatologico, in cui la « sovranità » di Dio sarà assoluta.
La risposta di Gesù non si fa attendere: « In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso » (v. 43). È l’assicurazione di una salvezza, che incomincia già da quel momento: l’ »oggi » della sua sofferenza e della sua morte, accettate come espressione suprema dell’amore, fa già esplodere il « regno », lo fa irrompere nel mondo, e vi fa entrare per primo un assassino pentito, a significare non solo che esso è aperto a tutti, ma anche la sua forza di trasformazione e di novità. Non è il ladrone che si è conquistato il regno, ma Gesù morente che lo ha fatto « nascere » nel suo cuore!
È lo stesso « dono » che noi tutti con la Chiesa vogliamo chiedere a Dio nella festa di Cristo Re: « O Dio nostro Padre… fa’ che obbediamo con gioia a Cristo, Re dell’universo, per vivere senza fine con lui nel suo regno glorioso » (Preghiera dopo la Comunione).

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche,

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 22 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

Simon Vouet, Saint Cecilia

 Simon Vouet, Saint Cecilia dans immagini sacre 442px-Vouet%2C_Simon_-_Saint_Cecilia_-_c._1626

http://it.wikipedia.org/wiki/File:Vouet,_Simon_-_Saint_Cecilia_-_c._1626.jpg

Publié dans:immagini sacre |on 21 novembre, 2013 |Pas de commentaires »
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