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04.09.05 – LA LETTERATURA RABBINICA

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04.09.05 – LA LETTERATURA RABBINICA

La letteratura rabbinica si divide in due grandi rami: uno a carattere più spiccatamente precettistico (halachico), e l’altro di carattere narrativo (haggadico) e interpretativo del testo sacro e in particolare della Legge, della Torah. Al primo appartiene la Mishnah, Corpus di norme, redatto alla fine del II sec., contenente materiale giuridico ma soprattutto religioso; preziosa fonte per conosce re la vita del pio israelita nell’epoca intorno al sorgere del l’era cristiana, la sua vita liturgica, privata e pubblica, i suoi principi morali, ecc.
Si divide in sei « ordini »: Semente, Festività, Donne (diritto matrimoniale), Danni (diritto civile e penale), Cose sacre, Cose pure. Ciascun « ordine » è risuddiviso in « trattati ».
È la Mishnah che costituisce la base su cui si sviluppano le due redazioni del Talmud; le singole parti di essa vennero fatte oggetto di discussione approfondita da parte dei dottori (Rabbini) nelle accademie apposite, in Palestina e in Babilonia, dove era sempre rimasta una comunità ebraica fin dal tempo dell’esilio nel 586 a.C., comunità che dal III sec. in poi venne ad assumere una importanza preponderante nell’ebraismo. Possiamo considerare il Talmud babilonese e il Talmud gerosolimitano come la raccolta dei verbali delle discussioni intorno al testo della Mishnah.
La discussione tende soprattutto a riallacciare la prassi codificata nella Mishnah al testo biblico e a giustificarla in base ad esso, per mezzo di determinate regole ermeneutiche. Naturalmente nel corso della discussione si introducono gli argomenti più diversi, così che il Talmud è una fonte inesauribile per la conoscenza di tutta la vita degli ebrei nei primi secoli dell’era cristiana; vi troviamo materiale storico, mitico, aneddotico, geografico; in base ad esso possiamo ricostruire il credo degli ebrei intorno a Dio, la Sua attività creatrice, la Sua provvidenza, la Sua giustizia, gli angeli e i demoni, la vita futura, l’escatologia, il messianesimo, l’elezione d’Israele, ecc.; vi troviamo la saggezza di antichi maestri, e la spiritualità e la pietà d’Israele risuona profonda in numerose preghiere.
Il Talmud palestinese si ritiene concluso nel V sec.; quello babilonese fu invece sottoposto alla revisione dei dottori detti  » saborei « , che ne vagliarono minuziosamente il materiale, dandogli anche una forma non scevra di artifici letterari; la redazione di esso si conchiude nel VI secolo [Il Talmud babilonese è tradotto in tedesco da Goldschmidt, Berlin 1929-36 e in inglese da J. Epstein, London 1936-48; quello palestinese è tradotto in francese da M. Schwab, Paris 1871-89; ristampato a Parigi. La Mishnah è tradotta in italiano da V. Castiglioni, Mishnaioth, Sabatini 1962, di cui sono usciti per ora quattro ordini. Non ci dilunghiamo su questa letteratura, rimandando a: E. Zolli, Il Talmud Babilonese, Trattato delle Benedizioni, con Introd. alla Letteratura talmudica di S. Cavalletti, Bari 1958; Strack u. Billerbeck, Einleitung in Talmud u. Midrash, Munchen 1921].
Inseriti nel Talmud si trovano alcuni trattati di origine probabilmente posteriore alla Mishnah, fra cui famoso è Aboth de-Rabbi Nathan, che è un’esposizione a carattere moraleggiante del trattato mishnico « Sentenze dei Padri », e Sopherim, fonte di grande interesse per la conoscenza dell’antica liturgia giudaica.
Il materiale normativo (halachico) che non aveva trovato posto nella Mishnah venne anch’esso riunito, al principio del III sec., in un’altra raccolta, detta Tosephta « Aggiunta ».
La halakhah mirava a regolare le azioni secondo le norme del giure religioso, ma la funzione della Torah non si esaurisce in questo; essa deve anche consolare ed edificare. Questo compito viene assolto dalla haggadah, cioè dalla letteratura interpretativa e narrativa (haggadica), che viene indicata con il termine generico di midrash (dalla radice darash, « ricercare » e « indagare »).
Forse più ancora della letteratura halachica, quella haggadica è un mondo, e possiamo indicarne solo le raccolte più importanti; bisogna distinguere in essa i midrashim di carattere più direttamente esegetico, da quelli prevalentemente narrativi o a sfondo etico; alcuni rispecchiano la predicazione nella Sinagoga, ecc.
Raccolte haggadiche esistevano a partire dall’inizio del III sec., ma nelle più antiche fra di esse sono raccolti elementi anteriori, così che possiamo asserire di cogliervi, almeno qua e là, l’eco del mondo in cui ha vissuto Gesù. Il periodo veramente produttivo del midrash corrisponde all’epoca talmudica e si esaurisce più o meno intorno al VI sec. Comincia allora l’epoca della raccolta e della redazione definitiva del materiale, periodo che arriva fino circa al XII sec.
I più antichi midrashim dovuti ai maestri del periodo della Mishnah si attribuiscono parte alla scuola di Rabbi Aqiba (m. 135), e parte alla scuola del suo contemporaneo Rabbi Jishmael; li divide una certa differenza nell’uso delle regole ermeneutiche, e l’interesse giuridico che, nelle opere dovute alla scuola di Rabbi Aqiba, si mescola a quello haggadico, mentre nelle opere della scuola di Rabbi Jishmael l’intento narrativo è prevalente.
Al primo gruppo appartiene il Sifrà, detto anche Torath Kohanim, che prende in considerazione il Levitico; il Sifrè a Numeri e a Deuteronomio. Ci sono poi due commenti a Esodo, detti ambedue Mekhilta: quello che prende il nome di Rabbi Shimon ben Johaj è della Scuola di Rabbi Aqiba, mentre l’altro appartiene alla Scuola di Rabbi Jishmael, insieme con un altro Sifrè a Deuteronomio; tuttavia l’attribuzione a una scuola o all’altra non va intesa in maniera assoluta. Si tratta di commenti parziali e non sistematici ai libri biblici.
Carattere di commento sistematico al Genesi ha il più antico midrash esegetico, detto Genesi rabba (be-reshit rabba); esso contiene materiale assai antico, anche se il periodo della redazione di esso è incerto. Non vi mancano interpretazioni a carattere normativo, ma vi si rispecchia soprattutto la tradizione haggadica palestinese, come nel midrash a Lamentazioni (Ekhah Rabbathi), che appartiene anch’esso ai più antichi midrashim esegetici. Fra i più recenti ricordiamo invece il midrash ai Salmi e ai Proverbi.
Quanto ai midrashim omiletici, si discute se il più antico sia la raccolta Pesiqta de Rab Kahana (detta anche Pesiqta semplicemente) o il Levitico rabba (wa-jiqra rabba). C’è chi ritiene addirittura Pesiqta come la più antica raccolta midrashica; alcuni la ritengono contemporanea di Genesi rabba, altri vedono invece in Lamentazioni rabbati e in Levitico rabba una fonte di Pesiqta.
Si tratta comunque di testi antichi, contenenti materiale assai antico. Pesiqta contiene le omelie alle letture del Pentateuco prescritte per i sabati distinti e le feste, e le omelie ad alcune letture profetiche. Omelie alle stesse letture e ad altre letture della Torah e dei profeti sono raccolte in Pesiqta rabbati, così detta per distinguerla dalla più antica raccolta dello stesso nome.
Alla letteratura haggadica del primo periodo appartiene anche la Megillath Taanit, « Rotolo del digiuno », dove sono indicati i giorni in cui si è prodotto qualche fausto evento della storia d’Israele e nei quali quindi è proibito digiunare. È un’opera a carattere storico, nella quale tuttavia la storia è abbellita da elementi popolari. Dello stesso genere ma posteriori sono il Seder Olam e i Pirqè Rahhi Eliezer, databili forse all’VIII sec.
Nel V sec. vive in Palestina il famoso haggadista Rabbi Tanhuma bar Abba, che iniziò la raccolta sistematica e la presentazione letteraria della haggadah. Sotto il suo nome è nota la grande collezione omiletica che copre tutto il Pentateuco, seguendo le divisioni in pericopi della lettura liturgica settimanale. Esiste un midrash Tanhuma A (edito da Salomone Buber), e un midrash Tanhuma B, conosciuto anche come Jelammedenu (« Insegnaci »), dalla frase con cui si introducono le domande su questioni halachiche. Sono caratteristiche di queste omelie le conclusioni consolatorie a carattere messianico.
Dipendono dal midrash Tanhuma le raccolte omiletiche di Esodo rabba (shemoth rabba), Numeri rabba (be-midbar rabba); mentre Deuteronomio rabba (debharim rabba) dipende piuttosto dal Talmud palestinese, da Genesi rabba e da Lamentazioni rabbati; secondo Zunz andrebbe datato al 900.
Si collega invece ancora al midrash Tanhuma la Aggadath Eereshith, la cui particolarità consiste nella triplice divisione di ogni omelia: la prima parte si collega a un passo di Genesi, la seconda a un brano profetico e la terza a un testo degli agiografi. Si può forse trarre da qui l’indicazione di quale fosse la lettura profetica (haftarah} che seguiva ciascuna pericope di Genesi. I midrashim omiletici sono comunque preziosa fonte per la conoscenza dell’anno liturgico giudaico e in genere della vita liturgica della Sinagoga.
I midrashim ai « Cinque Rotoli » (Esther, Cantico dei Cantici, Lamentazioni, Ruth ed Ecclesiaste) si trovano riuniti a partire dalla editio princeps di Pesaro nel 1519; si tratta tuttavia di opere indipendenti l’una dall’altra. Di Lamentazioni rabbati abbiamo già detto. Cantico rabba (shir ha-shirim rabba) è un’opera di compilazione che raccoglie, seguendo verso per verso il testo biblico, materiale tratto in gran parte dal Talmud palestinese, da Genesi rabba, da Pesiqta e Levitico rabba. Il testo biblico viene interpretato per lo più in senso allegorico, ricercandovi allusioni di carattere mistico all’incontro tra Dio e il Suo popolo.
Anche Ruth rabba è un commento verso per verso al libro biblico, preceduto da un lungo proemio. Le fonti sono le stesse del midrash al Cantico.
Opera di compilazione è anche il midrash a Ecclesiaste (Qoheleth rabba); il compilatore attinge a Genesi rabba al midrash a Lamentazioni e a Cantico, e anche a fonti omiletiche, come Pesiqta e Levitico rabba.
Il midrash Megillath Esther, contiene anch’esso materiale attinto a fonti antiche (Talmud palestinese, Genesi rabba, Levitico rabba), com’è naturale, dato che il Libro di Esther fu fatto oggetto di studio nelle scuole rabbini – che già in tempi assai remoti; inoltre vi si trovano dei brani interpolati, che si ritengono tratti dal Josippon, opera composta in Italia nel IX sec. che tratta, alla maniera haggadica, la storia d’Israele dalla caduta di Babilonia alla distruzione del Tempio. Le interpolazioni riguardano il sogno di Mardocheo e la sua preghiera, la preghiera di Esther e la sua comparsa davanti al re, passi che non fanno parte del testo ebraico di Esther, ma ci sono pervenuti in greco.
Le grandi raccolte midrashiche ci riportano infine a tempi più tardi. Leqah tobh sarebbe dovuto a Tobia ben Eliezer (sec. XI-XIl) e copre tutto il Pentateuco e i Cinque Rotoli. Il Midrash ha-gadol è posteriore a Maimonide, ma conserva alcuni midrashim del primo periodo che non ci sono altrimenti noti. Il grande Thesaurus a tutto l’ Antico Testamento porta il nome di Jalqut Shimoni; contiene materiale halachico e haggadico. Di un secolo più tardo è il Jalqut ha-Makhiri.
L’enumerazione dei midrashim è ben lungi dall’essere completa, ma per amore di chiarezza preferiamo limitarci alle opere di importanza fondamentale [Un certo numero di midrashim è stato tradotto da A. Wünsche in " Biblioteca Rabbinica "; per notizie su di essi v. Strack u.. Billerbeck, o.c.; il Midrash rabba è tradotto in inglese, ed. Soncino, Londra 1939, ristampato nel 1951 e 1961].
Va aggiunta ancora una parola a proposito delle traduzioni aramaiche della Bibbia, il Targum [V. A. Diez Macho, Targum y Nuevo Testamento, Melan E. Tisserant, Città del Vaticano 1964, I, 153 ss.]. L’origine del Targum è sinagogale; sorse presto – forse addirittura dall’epoca del ritorno dall’esilio – il bisogno di tradurre il testo biblico per quelle comunità che non capivano la lingua ebraica. Anche la traduzione greca, detta dei settanta, è dovuta a un’esigenza dello stesso genere. Il Trattato Sopherim (10,1) stabilisce le regole per tali traduzioni: il traduttore (meturgeman) deve tradurre la Torah un versetto alla volta; i profeti tre versetti alla volta. Si sono venute formando così varie raccolte targumiche.
Ogni traduzione, anche letterale, è sempre un po’ un’interpretazione del testo; nel Targum poi molto spesso il meturgeman si allontana dal testo, lo abbellisce, vi aggiunge materiale haggadico. In tal modo il Targum diventa una importantissima fonte per la conoscenza del giudaismo tanto più importante in quanto gli studiosi sono oggi per lo più d’accordo nel riconoscere un’origine precristiana al materiale targumico, anche se redatto più tardi.
La scoperta sensazionale avvenuta nel 1956 di un manoscritto di un Targum completo – meno pochi versetti tralasciati per errore di scriba – al Pentateuco, chiamato dall’indicazione del frontespizio Codice Neofiti, ha destato nuovo interesse per questi studi, e si è visto che gli argomenti che il Kahle aveva portato per rivendicare una data assai antica ad alcuni frammenti targumici d’origine palestinese rinvenuti al Cairo, valevano anche per questo testo.
Il Codice Neofiti contiene un Targum per lo più – sopratutto per Levitico e Deuteronomio – sobrio e fedele al testo biblico, tanto che si pensa a una redazione più o meno ufficiale. I lunghi passi haggadici, che malgrado tutto si sono conservati, sarebbero dovuti probabilmente alla veneranda antichità di talune tradizioni o anche a particolari usi liturgici.
Sta di fatto che la situazione degli studi targumici si è venuta capovolgendo: il Targum detto Onqelos, traduzione quasi letterale dei cinque Libri di Mosè, era ritenuto come il più antico e di origine babilonese; ora si pensa invece che esso sia un’abbreviazione del Targum palestinese, detto pseudo Jonatham e che contenga haggadah palestinese. L ‘Onqelos è redatto in un aramaico di scuole, detto « aramaico imperiale », idioma in cui sono redatte anche le parti aramaiche della Bibbia.
Il Targum pseudo-Jonathan, detto anche Jerushalmi, copre anch’esso tutto il Pentateuco, ma è più perifrastico dell’ Onqelos, incorporando materiale haggadico, che diventa assai abbondante nella seconda recensione di esso, nota come  » Targum frammentario « , perché conservato solo per un numero complessivo di 800 versetti. E’ stato constatato che l’antico midrash Genesi rabba si riferisce sempre – meno una o due volte – al Targum palestinese, e non all’Onqelos, cosa che viene a confermare la datazione antica del primo.
Esiste ancora un Targum ai profeti detto di Jonathan ben Uzziel, scritto nella lingua del Targum Onqelos. Anche in esso sono state conservate tradizioni assai antiche: è spiegabile ad es. che l’interpretazione in chiave messianica che esso dà del passo di Michea 5,2 « Da Te, Betlemme, uscirà il Messia ») sia stata conservata dopo la nascita del cristianesimo, ma non si può supporre che vi sia stata inserita dopo.
Mentre il Targum al Pentateuco e ai profeti era la traduzione ufficiale della Sinagoga palestinese, il Targum agli agiografi non ha mai raggiunto l’importanza degli altri; la cosa ha il suo lato positivo, perché esso ha così goduto di una maggiore libertà nell’uso delle parafrasi, conservando quindi tradizioni haggadiche interessanti. Le constatazioni di una parentela tra il Targum di Proverbi e la traduzione siriaca dello stesso testo, anzi la supposizione Che la seconda dipenda dal primo, fanno pensare anche in questo caso a una datazione antica.
L’attribuzione del Targum al Pentateuco a Onqelos e di quello dei profeti a Jonathan è una finzione, con la quale si voleva affermare che quello che Aquila e Teodozione avevano fatto per gli ebrei di lingua greca era stato fatto anche per quelli fra loro che parlavano aramaico. I Targumim non sono opera personale, fatta a tavolino, ma rispecchiano la catechesi viva.
In quanto all’importanza del Targum per la conoscenza dell’ambiente in cui è sorto il Vangelo, ci limitiamo a riportare le parole del noto studioso francese, Roger Le Deaut: « …le ricchezze contenute nelle fonti targumiche fanno parte di quella ‘tradizione’ del popolo di Dio, in Cui gli autori ispirati hanno attinto per esprimere il messaggio di Cristo. Noi cattolici che insistiamo tanto, a ragione, sul valore della Tradizione dovremmo essere pronti a considerare con molta simpatia tutte queste ricchezze religiose che costituivano una parte della religione di coloro per mezzo dei quali ci è venuta la luce del Vangelo » (La Nuit Pascal, Rome, 1963, p. 58).
Ci siamo talvolta riferiti anche a testi liturgici; aggiungiamo quindi qualche notizia sommaria anche intorno ad essi.
Il grande riformatore della liturgia giudaica fu Rabban Gamlièl Il, che visse al tempo della distruzione del Tempio (70 d.C.). Come il suo contemporaneo Rabbi Johannan ben Zakkaj riconobbe la necessità di alcuni cambiamenti nella Legge (abolì per esempio la prova delle  » acque amare  » per la donna sospetta di adulterio), così Rabban Gamlièl sentì un bisogno analogo per quel che riguarda la liturgia e affrontò con decisione la situazione cambiata, in conseguenza della caduta del Tempio. Come Rabbi Johannan ben Zakkaj cercò in qualche modo di sostituire Gerusalemme, organizzando l’accademia di Jabne, così Rabban Gamlièl compensò con l’ organizzazione della preghiera – considerata « sacrificio delle labbra » – il culto sacrificale, caduto con il Tempio.
Le più antiche indicazioni liturgiche si trovano nella Mishnah e nella Tosefta, dove troviamo però per lo più indicazioni di carattere rubristico (v. in particolare i trattati dell’ordine « Festività » ), e solo raramente il testo vero e proprio di preghiere.
Si incomincia evidentemente ad andare verso una fissazione della struttura liturgica, rimasta fino ad allora piuttosto fluida; tale fissazione riguarda però ancora piuttosto il quadro esteriore e non le formule. Mishnah e Tosefta sono tuttavia preziose per ricostruire almeno la struttura di gran parte dell’antica liturgia ebraica, e ci permettono di constatare il perdurare fino ad oggi di antichi elementi liturgici. Le notizie contenute nelle due antiche raccolte rabbiniche vengono naturalmente riprese e ampliate più tardi nella discussione talmudica.
Carattere ancora più o meno rubristico ha Massekheth Sopherim (il trattato degli  » Scribi  » ), che fornisce fra l’altro importanti notizie intorno alle letture liturgiche sinagogali (benedizioni che le accompagnano, spiegazione e traduzione di esse, numero dei lettori, ecc.), e rispecchia gli usi gerosolomitani. Si discute se far risalire la sua redazione al VI o all’VIII sec.; comunque contiene materiale, che risale all’epoca della Mishnah.
Non sappiamo se la terribile proibizione contenuta in Tosefta Shab. 14, 4: « Chiunque redige in iscritto una preghiera, commette un peccato, come se bruciasse la Torah » sia stata realmente ritenuta valida e per quanto tempo. Comunque la grande epoca di redazione delle raccolte di preghiere (siddurim) inizia nell’VIII-IX sec., con il siddur di Amram gaonita [Di una parte del siddur di AMRAM esiste una traduzione inglese con testo e commento: Hedegard D., Lund 1951.]; è un documento ufficiale dell’accademia di Sura, la cui fonte principale è il Talmud babilonese e rispecchia la tradizione liturgica babilonese.
Nel X sec. il gaonista Saadjah redige egli pure un siddur, che rispecchia la prassi liturgica palestinese.
Una specie di Thesaurus liturgico è il Mahsor Vitry, compilato da Simha ben Shemuel, talmudista francese del XII sec. alunno di Rashj, con aggiunte di altri; vi troviamo raccolte di rubriche, preghiere, commenti a testi liturgici ecc. Altra inesauribile fonte di notizie liturgiche è Mishneh Torah di Maimonide.

Sofia Cavalletti

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 10 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

Though Your Sins Be as Scarlet

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Publié dans:immagini sacre |on 9 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

I 7 SALMI PENITENZIALI

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I 7 SALMI PENITENZIALI

Questi sette salmi (Sal 6; cfr. Sal 32; cfr. Sal 38; cfr. Sal 51; cfr. Sal 102; cfr. Sal 130; cfr. Sal 143) furono raccolti da sant’Agostino sotto il nome di “Sette salmi penitenziali”, che vengono recitati la sera, prima di confessarsi e dopo essersi pentiti di un peccato.
Questa raccolta era una delle preghiere preferite di san Luigi Gonzaga e altri santi.

SALMO 6
Signore, non punirmi nel tuo sdegno, non castigarmi nel tuo furore.
Pietà di me, Signore, vengo meno; guariscimi, Signore: tremano le mie ossa.
L’anima mia è tutta sconvolta. Ma tu, Signore, fino a quando…?
Volgiti Signore, a liberarmi, salvami per la tua misericordia.
Nessuno tra i morti ti ricorda. Chi negli inferi canta le tue lodi?
Sono stremato dai lunghi lamenti, ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio,
irroro di lacrime il mio letto.
I miei occhi si consumano nel dolore, invecchio fra tanti miei oppressori.
Via da me, voi tutti che fate il male: il Signore ascolta la voce del mio pianto.
Il Signore ascolta la mia supplica, il Signore accoglie la mia preghiera.
arrosiscano e tremino, i miei nemici, indietreggino all’istante.

SALMO 32 (31)
Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa, e perdonato il peccato.
Beato l’uomo a cui Dio non imputa alcun male e nel cui spirito non è inganno.
Tacevo e si logoravano le mie ossa, mentre gemevo tutto il giorno.
Giorno e notte pesava su di me la tua mano, come per arsura d’estate inaridiva il mio vigore.
Ti ho manifestato il mio peccato, non ho tenuto nascosto il mio errore.
Ho detto: <<Confesserò al Signore le mie colpe>> e tu hai rimesso la malizia del mio peccato.
Per questo ti prega ogni fedele nel tempo dell’angoscia.
Quando irromperanno grandi acque non lo potranno raggiungere.
Tu sei il mio rifugio, mi preservi dal pericolo, mi circondi di esultanza per la salvezza.
Ti farò saggio, t’indicherò la via da seguire; con gli occhi su di te, ti darò consiglio.
Non siate come il cavallo e come il mulo privi d’intelligenza;
si piega la loro fierezza con morso e briglie, se no, a te non si avvicinano.
Molti saranno i dolori dell’empio, ma la grazia circonda chi confida nel Signore.
Gioite nel Signore ed esultate, giusti, giubilate, voi tutti, retti di cuore.

SALMO 38 (37)
Signore, non castigarmi nel tuo sdegno, non punirmi nella tua ira.
Le tue frecce mi hanno trafitto, su di me è scesa la tua mano.
Per il tuo sdegno non c’è in me nulla di sano, nulla è intatto nelle mie ossa per i miei peccati.
Le mie iniquità hanno superato il mio capo, come carico pesante mi hanno oppresso.
Putride e fetide sono le mie piaghe a causa della mia stoltezza.
Sono curvo e accasciato, triste mi aggiro tutto il giorno.
Sono torturati i miei fianchi, in me non c’è nulla di sano.
Afflitto e sfinito all’estremo, ruggisco per il fremito del mio cuore.
Signore, davanti a te ogni mio desiderio e il mio gemito a te non è nascosto.
Palpita il mio cuore, la forza mi abbandona, si spegne la luce dei miei occhi.
Amici e compagni si scostano dalle mie piaghe, i miei vicini stanno a distanza.
Tende lacci chi attenta alla mia vita,
trama insidie chi cerca la mia rovina e tutto il giorno medita inganni.
Io, come un sordo, non ascolto e come un muto non apro la bocca;
sono come un uomo che non sente e non risponde.
In te spero, Signore; tu mi risponderai, Signore Dio mio.
Ho detto: <<Di me non godano, contro di me non si vantino quando il mio piede vacilla>>.
Poiché io sto per cadere e ho sempre dinanzi la mia pena.
Ecco, confesso la mia colpa, sono in ansia per il mio peccato.
I miei nemici sono vivi e forti, troppi mi odiano senza motivo,
mi pagano il bene col male, mi accusano perché cerco il bene.
Non abbandonarmi, Signore, Dio mio, da me non stare lontano;
accorri in mio aiuto, Signore, mia salvezza.

SALMO 51 (50)
Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato.
Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato.
Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto;
perciò sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio.
Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre.
Ma tu vuoi la sincerità del cuore e nell’intimo m’insegni la sapienza.
Purificami con issopo e sarò mondo; lavami e sarò più bianco della neve.
Fammi sentire gioia e letizia, esulteranno le ossa che hai spezzato.
Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe.
Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo.
Non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito.
Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me un animo generoso.
Insegnerò agli erranti le tue vie e i peccatori a te ritorneranno.
Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza, la mia lingua esalterà la tua giustizia.
Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode;
poiché non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi.
Nel tuo amore fa grazia a Sion, rialza le mura di Gerusalemme.
Allora gradirai i sacrifici prescritti, l’olocausto e l’intera oblazione,
allora immoleranno vittime sopra il tuo altare.

SALMO 103 (102)
Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tanti suoi benefici.
Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie;
salva dalla fossa la tua vita, ti corona di grazia e di misericordia;
egli sazia di beni i tuoi giorni e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza.
Il Signore agisce con giustizia e con diritto verso tutti gli oppressi.
Ha rivelato a Mosè le sue vie, ai figli d’Israele le sue opere.
Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore.
Egli non continua a contestare e non conserva per sempre il suo sdegno.
Non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe.
Come il cielo è alto sulla terra, così è grande la sua misericordia su quanti lo temono;
come dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe.
Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono.
Perché egli sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere.
Come l’erba sono i giorni dell’uomo, come il fiore del campo, così egli fiorisce.
Lo investe il vento e più non esiste e il suo posto non lo riconosce.
Ma la grazia del Signore è da sempre, dura in eterno per quanti lo temono;
la sua giustizia per i figli dei figli, per quanti custodiscono la sua alleanza
e ricordano di osservare i suoi precetti.
Il Signore ha stabilito nel cielo il suo trono e il suo regno abbraccia l’universo.
Benedite il Signore, voi tutti suoi angeli, potenti esecutori dei suoi comandi,
pronti alla voce della sua parola.
Benedite il Signore, voi tutte, sue schiere, suoi ministri, che fate il suo volere.
Benedite il Signore, voi tutte opere sue,in ogni luogo del suo dominio.
Benedici il Signore, anima mia.

SALMO 130 (129)
Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti alla voce della mia preghiera.
Se consideri le colpe, Signore,Signore, chi potrà sussistere?
Ma presso di te è il perdono, perciò avremo il tuo timore.
Io spero nel Signore, l’anima mia spera nella tua parola.
L’anima mia attende il Signore, più che le sentinelle l’aurora.
Israele attenda il Signore, perché presso il Signore è la Misericordia,
grande è presso di lui la redenzione; egli redimerà Israele da tutte le sue colpe.

SALMO 143 (142)
Signore, ascolta la mia preghiera, porgi l’orecchio alla mia supplica,
tu che sei fedele, e per la tua giustizia rispondimi.
Non chiamare in giudizio il tuo servo, nessun vivente davanti a te è giusto.
il nemico mi perseguita, capesta a terra la mia vita,
mi ha relegato nelle tenebre, come i morti da gran tempo.
In me languisce il mio spirito, si agghiaccia il mio cuore.
Ricordo i giorni antichi, ripenso a tutte le tue opere,
medito i tuoi prodigi. A te protendo la mie mani.
Rispodimi presto, Signore, viene meno il mio spirito.
Non nascondermi il tuo volto, perchè non sia come chi scende nella fossa.
Al mattino fammi sentire la tua grazia, poichè in te confido.
Fammi conoscere la strada da percorrere, poichè a te si innalza l’anima mia.
Salvami dai miei nemici, Signore, a te mi affido.
Per il tuo nome, Signore, fammi vivere, liberami dall’angoscia, per la tua giustizia.
Per la tua fedeltà disperdi i miei nemici,
fa’ perire chi mi opprime, poichè io sono tuo servo.

IL MIRACOLO DELLA SANTITÀ – LECTIO DIVINA DELLA 1ª LETTERA AI TESSALONICESI

http://www.sacrafamigliamonza.it/public/Il-miracolo-della-santita.pdf

IL MIRACOLO DELLA SANTITÀ (PDF)

LECTIO DIVINA DELLA 1ª LETTERA AI TESSALONICESI

INTRODUZIONE

1. L’inizio. “Inizio del Nuovo Testamento”: questo potrebbe essere il titolo della Prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi, dal momento che essa è il primo testo giunto dalla Chiesa primitiva, lo scritto completo più antico del NT. Siamo nell’anno 50 o 51, dunque 20/21 anni dopo l’ascensione di Gesù. Guardando invece al contenuto della prima parte della lettera, si potrebbe intitolarla “L’eucaristia [= ringraziamento] di Paolo, Silvano e Timoteo”. Anzi – fatto anomalo – i rendimenti di grazie sono due: 1,2-10 e 2,13-16.
2. Gli antefatti. Paolo giunge a Tessalonica nell’anno 50, in compagnia di Silvano e forse di Timoteo (che è poco più che adolescente). Predica per tre sabati nella sinagoga (At 17,1-2), converte alcuni ebrei e molti pagani. Questo successo suscita la gelosia dei giudei, che gli organizzano contro una sommossa (At 17,5; 1Tess 2,14-16). Ma i due vengono aiutati a fuggire e partono per Berea. Gli studiosi ritengono che Paolo sia rimasto a Tessalonica non meno di tre settimane e non più di tre mesi.
Tessalonica era stata fondata nel 315 a.C. da Cassandro, che le aveva dato il nome della moglie, sorellastra di Alessandro Magno, di cui egli era ufficiale. Al tempo di Paolo la città era capitale della provincia senatoria della Macedonia (dal 44 d.C.). Dotata di un porto sul Mar Egeo, era situata sulla via Egnazia, che collegava le due parti (orientale e occidentale) dell’impero romano. Dal punto di vista sociologico, accanto a uomini d’affari c’erano impiegati amministrativi e soprattutto scaricatori di porto, schiavi ed ex schiavi. Il livello culturale medio, come quello morale, era molto basso. Sotto il profilo religioso vi erano politeisti, aderenti alle religioni misteriche provenienti dall’Egitto e dall’Asia Minore e una comunità giudaica con una propria sinagoga.
3.L’occasione. Preoccupato per la sorte della giovane comunità che è stato costretto a lasciare, da Atene
-dove si trova – Paolo manda Timoteo a Tessalonica, per avere notizie sullo stato di salute spirituale della comunità cristiana. Il resoconto lusinghiero fattogli da Timoteo costituisce l’occasione prossima della stesura della lettera, che l’apostolo invia durante il viaggio da Atene a Corinto.
4.I valori emergenti. Nella Lettera emergono un po’ dappertutto alcuni temi notevoli e piuttosto atipici rispetto alle altre Lettere paoline.
a)La collegialità. – Il mittente è una équipe pastorale di tre persone, Paolo Silvano e Timoteo. La lettera
quindi dovrebbe portare come titolo “Prima lettera di Paolo, Silvano e Timoteo ai Tessalonicesi”. La cosa è rilevante, se si pensa alla gelosia di Paolo per la propria autorità.
I tre appaiono senza titoli: unica eccezione è 2,7 dove son detti apostoli di Cristo. Prevale nettamente la prima persona plurale.
Insomma, abbiamo a che fare con un team ben affiatato e univocamente determinato.
b) L’individualità. Essa emerge, con il soggetto e la voce verbale in prima singolare, in 2,18 ; 3,5; e in 5,27. Tutto fa pensare che a dettare la lettera a nome dei tre sia stato Paolo, consapevole della superiorità della propria autorità su quella di Silvano e di Timoteo. Tanto più che nelle lettere successive (ad esempio 1Cor e 2Cor) Paolo rimarcherà fortemente tale autorità di fronte alle contestazioni mossegli dai destinatari.
c) L’amicizia. È espressa con i pronomi personali usati in modo esorbitante: voi si legge 84 volte, noi 47 volte; del tutto assente , invece, il pronome tu.
d) L’ecclesialità. Appare dal fatto che i destinatari sono denominati “Chiesa”. Il termine condensa in sé vari significati: 1. raduno di persone chiamate da luoghi diversi (cfr. Ez 36,24; Rom 9,24): ek + kaléo; 2. raduno di persone scelte fra tante: parentela con ek + légomai; 3. raduno di persone chiamate/scelte da Dio: ek = hypò: ek + kaléo / ek + légomai. L’ecclesialità emerge anche dal fatto che la lettera è destinata a una lettura assembleare (5,27), da farsi probabilmente durante una celebrazione liturgica, forse eucaristica (cfr. 1Cor11), o quanto meno nel corso di un incontro di catechesi.
e) La parola di Dio. Siamo di fronte a una concezione sorprendentemente elaborata e profonda della parola di Dio (1,5 e 2,13), concezione che non apparirà mai più in tutto il NT così nitida e precisa1
f) Le professioni di fede. Sono due: una (4,14) proviene dall’ambiente giudeo-cristiano, l’altra dalla catechesi sinagogale (1,9-10). Quest’ultima sarà ampliata da Luca nel discorso che Paolo terrà all’areopago di Atene (At 1,22-31).
g) Le virtù “teologali”. Le esortazioni morali sono sintetizzabili in atteggiamenti interiori e comportamen- ti esteriori di fede – carità – speranza (1,3), in cui consiste la santificazione (4,3) di ogni credente in Cristo.
5.La struttura.
* Indirizzo e saluto iniziale (1,1).
* Prima parte (1,2 – 3,13): i rapporti, in Dio e in Cristo, tra gli evangelizzatori, i tessalonicesi e gli altri
a)rendimento di grazie a Dio per i tessalonicesi (1,2 – 2,16)
b)la missione di Timoteo, il cui esito suscita rendimento di grazie a Dio (2,17 – 3,10)
c)augurio conclusivo della prima parte (3,11-13).
*Seconda parte (4,1 – 5,24): paraclesi apostolica nel Signore Gesù
a)due aspetti fondamentali di vita cristiana: la castità e la carità (4,1-12)
b)alcuni aspetti dell’attesa escatologica (4,13 – 5,11)
c)direttive per una vita cristiana (5,12-22)
d)augurio conclusivo della seconda parte (5,23-24).
*Raccomandazioni e saluto finale (5,25-28).
6.La parte del leone. Il sostantivo più ricorrente (36 volte) è il nome Theòs (= Dio).ò

UNA COMUNITÀ ESEMPLARE NATA DAL VANGELO
(1 Tessalonicesi 1,1-10)
[1]Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace.
[2]Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere
[3]e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro.
[4]Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui.
[5]Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione: ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene.
[6]E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo,
[7]così da diventare modello per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia.
[8]Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acaia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne.
[9]Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero
[10]e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene.
A) LECTIO
Naturalmente tralasciamo gli aspetti già visti sopra.
1.Struttura. I. Indirizzo e saluto (1,1)
II.Rendimento di grazie a Dio per i tessalonicesi, in quanto:
-uomini di fede, carità e speranza (vv. 2-3)
-scelti da Dio per essere evangelizzati (4-5)
-che hanno accolto la Parola pur nelle difficoltà (6)
-sono diventati modello per tutti (7),2
-sono divenuti, a loro volta, evangelizzatori (8)
-si sono convertiti a Dio, lo servono e attendono l’ultima venuta di Gesù (9-10).
2.Termini importanti. Chiesa dei Tessalonicesi; rendere grazie; ricordare; fede, carità, speranza; gioia; prove; Spirito santo; risuonare; modello; convertirsi; servire Dio; attendere il Figlio Gesù.
3.Analisi.
* V. 1. Grande audacia nell’uso delle parole. a) C’è un’assemblea di uomini in Dio, la quale è costituita da pagani. b) In Dio è diverso da presso Dio (At 4,10), ed è anche diverso da davanti a Dio (Dt 4,10): “Dio è il luogo naturale dell’uomo” (Fausti, 26). c) La traduzione esatta è Chiesa di Tessalonicesi (non: dei Tessalonicesi), cioè composta unicamente di quegli abitanti della città che sono credenti in Cristo. d) Dio e Gesù sono messi sullo stesso piano, a livello di parità. e) Il titolo Signore, prima attribuito al solo Padre (Kyrios, quando è senza articolo, è la traduzione greca abituale di Jhwh), viene ora attribuito a Gesù. Tant’è vero che Paolo, per distinguere le due Persone, è indotto a chiamare Dio Padre: Dio cioè Padre, Signore cioè Gesù. Quanto al termine Cristo, qui appare già come secondo nome di Gesù. f) Paolo saluta non le singole persone, ma una comunità di persone in quanto tale. g) Grazia è la benevolenza gratuita del Padre, donata e manifestata agli uomini da e in Gesù. Ricordiamo che i Greci si salutavano augurandosi la gioia (chàire, chàirete). h) Pace (cfr. Rom 5,1-2) è tutto il bene possibile; gli Ebrei si salutavano augurandosi la pace (shalòm). i) I due termini, uniti insieme, sono un saluto schiettamente liturgico: Rom 1,7; 1Cor 1,3; Filem 3; Gal 1,3; Ef 1,2; Fil 1,2; Col 1,2; 2Tess 1,2; Tt 1,2; 1Pt 1,2; 2Pt 1,2, 2Gv 3; Ap 1,4. Forse il loro ordine costante (prima grazia, poi pace) dice che la grazia è causa della pace (Morris, 51): grazia è la salvezza donata, pace la salvezza accolta.
* V. 2. a) Nelle lettere paoline, la prima parola dopo l’indirizzo e il saluto è, di norma, “io rendo grazie”. La novità sta qui nella prima plurale: rendiamo grazie. b) Il ringraziamento deriva sempre da un ricordare, da
un riportare al cuore. c) È importante rilevare che oggetto del ringraziamento è Dio, non i tessalonicesi; in altri termini, ringraziare Dio è il modo giusto per ricevere la chàris (grazia) e la eirène (pace) che vengono appunto da Dio e perciò è un ringraziare gli uomini come meglio non si potrebbe. d) Ringraziare Dio è una virtù del cristiano, non ringraziarlo è un vizio del pagano (Rom 1,21); cristiano = una persona che ringrazia Dio.
*V. 3. È la prima volta che le tre virtù teologali vengono associate. Dire cristiano è lo stesso che dire uomo di fede, carità e speranza, le quali – tutte e tre insieme – corrispondono al termine ebraico “giustizia” quale componente essenziale dell’alleanza (cfr. Trimaille, 188). Alla lettera: la “opera della vostra fede e la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza”. Interpreto i tre genitivi come genitivi soggettivi: l’opera che è la vostra fede ecc. Si tenga presente che nei vangeli non compaiono mai le tre virtù associate tra loro, è del tutto assente il termine “speranza” e il verbo “sperare” ricorre solo cinque volte; se ne “può evincere che probabilmente la trattazione unitaria della fede, della speranza e della carità sia stata opera di Paolo stesso” (Manzi, 1052).
* V. 4. Cristiano = un fratello amato da Dio (l’espressione è presente anche in 2Tess 2,13).
*V. 5. Gli evangelizzatori sono come strumenti che lo Spirito santo rende adatti, in tutto e per tutto, a svolgere il loro compito di annunciare “l’unico nome al mondo dato agli uomini, nel quale dobbiamo essere salvati” (At 4,12).
*V. 6. Anche i tessalonicesi si sono lasciati “fare”, cioè guidare dallo Spirito: imitando i loro evangelizzatori, finiscono con l’imitare il Signore Gesù. In particolare, hanno accolto la parola con gioia (cfr. Mt 13,20; Lc 8,13), nonostante le prove o tribolazioni.
* Vv. 7-8. Imitati da altri, i cristiani di Tessalonica diventano a loro volta modello; e così il vangelo rimbalza, risuona (si tratta di una vera e propria preghiera di risonanza), riecheggia dappertutto. Mi sembra che il verbo italiano “riecheggia” (stessa radice di “eco”, di “cat-ech-esi”), – presente nella traduzione CEI del 1984 e sostituito, ahimè, dalla nuova del 2008 con “risuona” – abbia il pregio di conservare l’assonanza con il verbo greco exèchetai: “i tessalonicesi sono stati come la parete rocciosa che rimanda la parola di Dio abbattutasi [si ricordino le persecuzioni cui i cristiani di Tessalonica sono stati sottoposti: v. 6] contro di essa” (Trimaille, 191).
*Vv. 9-10. Cristiano: a) un uomo che serve il Dio vivo e vero; b) un uomo che attende dai cieli il suo Figlio Gesù. Si noti l’espressione Gesù che ci libera dall’ira che viene: troviamo lo stesso verbo (ryomai) nella redazione matteana del Padre Nostro; ma qui – novità assoluta – si afferma che il liberatore (= redentore, salvatore) è (anche) Gesù, e non (solo) il Padre.

B) MEDITATIO
Assumiamo come filo conduttore della lectio il titolo, chiedendoci: che cosa deve fare, o meglio, su quali valori deve puntare una comunità cristiana come quella parrocchiale per esprimere e nutrire la consapevolezza di affondare le proprie radici nel vangelo di Gesù?
1. Una comunità nata dal vangelo punta all’essenziale, al fondamento, a ciò che è comune ai credenti in Cristo. Nel nostro caso, i tre (Paolo, Silvano e Timoteo) sono cristiani e per ciò stesso evangelizzatori. Il resto (che Paolo sia evangelizzatore in forza di una chiamata specialissima da parte del Risorto sulla via di Damasco; che gli altri due, invece, no) è relativo, subordinato, derivato. Di conseguenza, in una comunità che voglia essere veramente cristiana deve regnare una fondamentale uguaglianza. Per questa prima lettera di Paolo si può veramente parlare di “egualitarismo” in senso accentuato.
* In parrocchia ci stimiamo per chi siamo o per quello che facciamo? Per ciò che Dio – Padre e Gesù e Spirito santo – fa per noi, o per quanto noi facciamo per lui o per noi stessi o per gli altri? È ovvio che ciascuno di questi aspetti non esclude gli altri: ma il problema è dove cade l’accento. L’uguaglianza di cui s’è detto relativizza ogni altra distinzione (preti, laici, religiosi; sposati, singles; bambini, giovani, adulti, anziani, membri del Consiglio pastorale, non membri di esso,…) o l’assolutizza? In un tempo come il nostro in cui la non specializzazione è considerata quasi segno di anormalità, noi cristiani abbiamo il coraggio di sostenere che nessuna specializzazione potrà mai mettere in ombra il fatto che ogni persona umana è figlio di Dio. Per me, ogni persona è ugualmente importante?
2. Una comunità nata dal vangelo mette al centro Gesù. Il Signore, ormai, è lui! Non che il Padre abbia cessato di esserlo o che lo Spirito santo non lo sia più; ma dall’Incarnazione Dio lo si accoglie accogliendo Gesù, lo si raggiunge raggiungendo Gesù, se ne fa memoria facendo memoria di Gesù, lo si segue seguendo Gesù, lo si attende attendendo Gesù. Lui, il Dio fatto uomo, è il crocevia di tutte le fedi, il punto d’incontro di ogni religione, la meta di qualsiasi aspirazione. Il suo volto di uomo rivela il Padre e lo Spirito, che sono Dio ma non hanno un volto umano. Ruggenini (Il Dio assente, Mondadori, Milano 1997, p. 209) ha potuto scrivere della “verità finita dell’incarnazione, vale a dire la necessità per Dio di essere soltanto un Dio finito, dal momento in cui decide di rivelarsi a esistenze finite”.
*Qual è lo stato della mia conoscenza di Gesù? E quello della mia amicizia con lui: buono, discreto, sufficiente, scarso? Un malinteso dialogo interreligioso mi induce forse, se non a rinunciare alla mia fede in Cristo, quanto meno a metterla in parentesi? L’eventuale scoperta di altri “mondi” nell’universo può forse problematizzare la verità di fede della creazione di tutti e tutto in Cristo (Col 1,15-17), della unicità della redenzione attuata da Cristo (At 4,12 ecc.), del giudizio finale ad opera di Cristo (Mt 25)?
3.Una comunità nata dal vangelo ringrazia continuamente Dio per i fratelli di fede. Dire grazie a Dio ed essere cristiani sono due facce della stessa medaglia; dire grazie a Dio ed essere Chiesa che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo sono l’identica realtà. Quando c’è da ringraziare qualcuno, Dio è sempre di mezzo, deve essere sempre tirato in ballo, va sempre ringraziato, perché egli è sempre il primo a voler bene anche a fondo perso.
*Il grazie mi fiorisce spesso e volentieri sulle labbra o lo mugolo a fatica tra i denti? Il verbo eucharistèin (=
ringraziare) è tanto importante da essere diventato un termine tecnico del sacrificio di Gesù ripresentato nella Messa. So fare di ogni cosa, in qualunque circostanza e per qualsiasi persona un’eucaristia a Dio , oppure sono in grado di celebrarla a puntino nel rito liturgico e a stento capace di vivacchiarla nell’esistenza quotidiana? La mia parrocchia potrebbe essere con verità definita una comunità in cui tutti dicono grazie a Dio? Di che parrocchia sei? Risposta: di quella parrocchia dove ognuno ringrazia Dio per il bene fatto dagli altri fratelli di fede.
4. Una comunità nata dal vangelo vive di fede, di carità e di speranza. Si ricordi che Paolo parla di opera della fede (la prima cosa da fare è … non fare niente ma lasciar fare a Dio), fatica della carità (un amore facile non è un vero amore, in ogni caso non è l’amore di un discepolo di Gesù: cfr. Mt 5,46-47; Gal 5,6; sul senso pregnante di questa traduzione si veda Penna, “La carità edifica”…, 576-578), di pazienza o fermezza della speranza (una speranza irrequieta, agitata, scalpitante non è speranza cristiana).
* La mia fede è tale da porsi per sé stessa come modalità concreta di annuncio del vangelo? La mia carità vive consapevolmente le sue fatiche? La mia speranza tiene duro o va e viene, c’è e non c’è?
5. Una comunità nata dal vangelo è mimetica, avanza per imitazione. Ciascuno segue Gesù così da vicino (cfr. per antitesi Mt 26,58; Lc 23,49) che chiunque altro, imitando lui, finisce con l’imitare Gesù. Attenzione, il discorso va preso con le pinze: Paolo non ha dubbi sul dovere di copiare Gesù senza alcuna mediazione (Gv 21,19.22: “Tu segui me!”), ma vuole marcare sia il dovere – per chi annuncia Gesù – di vivere come lui, sia la forza persuasiva di chi si comporta così (se riesce lui, posso farcela anch’io!). In effetti, Paolo, Silvano e Timoteo persuadono i tessalonicesi a imitare Gesù; i tessalonicesi persuadono quelli dell’Acaia e della Macedonia; costoro persuadono altri, e così via. Si forma una vera e propria catena mimetica, cui si aggiungono nuovi anelli, e altri ancora, tendenzialmente all’infinito: un vero e proprio dinamismo di evangelizzazione “per contagio” (Martini, Alzati, va’ a Ninive…, Centro Ambrosiano, Milano 1991, p. 9). Evangelizzati da Cristo, ci si fa evangelizzatori. Questi diventano typos, cioè persone che colpiscono, marchiano, perché si sono lasciate colpire-marchiare-sigillare-coniare da Gesù (cfr. ad esempio Fil 3,12 [“Sono stato conquistato da Cristo Gesù”] e Gal 2,20 [“Non vivo più io, ma Cristo vive in me”]: da quel Cristo che è l’ archétypos, il sigillo del Padre (Eb 1,3), in quanto interamente coniato-scolpito-sigillato- marchiato dal Padre. Interessante è notare che la comunità come tale, non tanto i suoi membri isolatamente considerati, risulta typos (infatti è usato il singolare, non il plurale): una testimonianza comunitaria è molto più evangelica e convincente.
*Ebbene, a questa catena che giunge ininterrotta fino a me io aggiungo il mio anello o, non sapendo che farne, me la palleggio tra le mani?
6.Una comunità nata dal vangelo è davvero tale quando i suoi membri sono gioiosi, pur in mezzo a grandi prove. Contenti, gioiosi: non spensierati, infantilmente ingenui, stupidamente allegri. Ovvio che la gioia non possa venire dalla sofferenza (masochismo), né dalla sola forza di volontà (volontarismo), ma è un dono mirato dello Spirito a chi annuncia Gesù (Gv 16,23): l’evangelizzatore ha ipso facto la grazia di vivere nella gioia; e dunque, per converso, chi non vive nella gioia non è evangelizzatore, non riesce ad annunciare Gesù.
*La mia faccia è spesso “da funerale” o “da cane da guardia”? In chi incontrasse per la prima volta la mia comunità parrocchiale potrebbe forse sorgere il dubbio di avere a che fare con un’agenzia funebre o con un tribunale implacabile? Ma lasciamo stare la parrocchia: la mia famiglia, a che cosa assomiglia? E lasciamo stare la famiglia: io, che immagine do di me stesso agli altri?
7.Una comunità nata dal vangelo serve Dio e attende Gesù. Dove i due termini sono sinonimi, in corrispondenza biunivoca: servire Dio è attendere Gesù, attendere Gesù è servire Dio.
*Qual è il mio “stato di servizio” nei confronti di Dio? E lo stato di servizio della mia parrocchia? Quanto alta è la tensione, la differenza di potenziale, la corrente della mia attesa e di quella della mia parrocchia incontro a Gesù, che verrà nel suo ultimo rendersi presente alla fine della storia?

C) ORATIO
-Dio Padre, ti ringraziamo in continuazione.
-Santo Spirito, ti accogliamo con gioia.
-Signore Gesù Cristo, ti attendiamo con speranza.
I MISSIONARI DI CRISTO E LA LORO TESTIMONIANZA
(1 Tessalonicesi 2,1-12)
[1]Voi stessi infatti, fratelli, sapete bene che la nostra venuta in mezzo a voi non è stata inutile.
[2]Ma, dopo avere sofferto e subìto oltraggi a Filippi, come sapete, abbiamo trovato nel nostro Dio il coraggio di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte.
[3]E il nostro invito alla fede non nasce da menzogna, né da disoneste intenzioni e neppure da inganno;
[4]ma, come Dio ci ha trovati degni di affidarci il Vangelo così noi lo annunciamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori.
[5]Mai infatti abbiamo usato parole di adulazione, come sapete, né abbiamo avuto intenzioni di cupidigia: Dio ne è testimone.
[6]E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri,
[7]pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli.
[8]Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari.
[9]Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio.
[10]Voi siete testimoni, e lo è anche Dio, che il nostro comportamento verso di voi, che credete, è stato santo, giusto e irreprensibile.
[11]Sapete pure che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi,
[12]vi abbiamo incoraggiato e scongiurato di comportarvi in maniera degna di Dio, che vi chiama al suo regno e alla sua gloria.
Come i missionari hanno annunciato il vangelo di Dio (2,2)? Quali ne sono stati i fini, le intenzioni, i sentimenti, i mezzi, lo stile? A questi e ad altri eventuali interrogativi analoghi vuol rispondere il brano che rendiamo oggetto di lectio divina. La risposta porterà ulteriore acqua al mulino dei motivi per cui rendere grazie a Dio, per “fare eucaristia” con la vita. In ogni caso, questa è “una delle più ricche descrizioni contenute nel NT dell’opera di un pastore cristiano” (Polston, citato in Morris, 62). L’occasione che induce Paolo a scrivere questo brano è da individuare, probabilmente, nel malcontento suscitato dalla sua partenza improvvisa: Paolo è forse anche lui uno dei tanti predicatori ambulanti attenti al messaggio da trasmettere ma insensibili ai loro destinatari?
A)LECTIO
1.Struttura. È di una semplicità elementare, in perfetto equilibrio quantitativo (sei versetti per ciascuna delle due parti): a) I no degli evangelizzatori ovvero la dimensione “verticale” dell’evangelizzazione (vv. 1- 6)
b)I sì degli evangelizzatori ovvero la dimensione “orizzontale” dell’evangelizzazione (vv. 7-
12).
2.Particolari significativi.
a)Paolo non riesce a non parlare di sé e dei suoi colleghi: è fatto così…
b)A Paolo, Silvano e Timoteo sta a cuore non la propria reputazione, bensì la fede dei cristiani di Tessalonica.
c)Nelle affermazioni che fa, Paolo chiama come testimonio Dio stesso.
d)Quel voler essere dolce e tenero come una madre e determinato e forte come un padre è un incanto di rara bellezza.
e)Continua alternanza dei pronomi personali noi e voi.
3.Parole chiave. Fratelli; soffrire; subire oltraggi; trovare coraggio; vangelo di Dio; madre; padre.
4.Analisi
* V. 1. La nostra venuta in mezzo a voi: propriamente è “entrata”, “ingresso” (éisodos); in altri termini, evangelizzare è entrare nel mondo dell’altro con accoglienza e discrezione, “portando dentro” di lui una parola che viene da Dio, non dall’evangelizzatore.
* V. 2. a) Il vangelo viene annunciato sempre con fatica. b) La libertà, la franchezza, il coraggio e l’audacia di “dire tutto” (parresìa = pan + èiro = dico tutto) quanto va detto, vengono da Dio, precisamente dallo Spirito santo (cfr. 1,6). c) L’espressione vangelo di Dio, tipicamente paolina (Rom 1,1.16; 2Cor 11,7), ricorre ben tre volte in questo brano (vv. 2.8.9); altrove ricorre solo in Mc 1,14 e in 1Pt 4,17. Essa connota in maniera inequivocabile sia l’origine del messaggio da proclamare sia colui che invia i messaggeri.
* V. 3. L’evangelizzatore non può avere secondi fini, né usare mezzi illeciti per conseguire fini buoni.
* V. 4. Bisogna piacere sia a Dio che agli uomini (Rom 15,2; 1Cor 10,33); ma in caso di contrasto questo va risolto a favore del piacere a Dio (2Tim 2,4), in quanto egli vuole sempre il vero bene dell’uomo. La prima, fondamentale forma di carità è dire e fare la verità (Ef 4,15).
*V. 5. L’evangelizzatore non ricorre all’adulazione (l’adulazione è finalizzata a me, la lode è finalizzata all’altro); né sfrutta arraffando.
*V. 6. Come il v. 4. Gloria che viene dagli uomini o gloria data da Dio? Avere la gloria umana non è un male, soltanto se almeno indirettamente essa viene da Dio, quando cioè è voluta da Dio (Gv 5,44; Rom 2,7.10.29; 1Cor 4,5; Mt 6,1; 23,5.27-28). A buon conto – a parte Rom 2,29 – Dio dà la sua gloria in paradiso, non prima.
* Vv. 7-8. a) Gli evangelizzatori hanno diritto di far valere la propria autorità, ma vi hanno generosamente rinunciato (1Cor 9,4-18; 1Tess 2,9; Lc 22,26). b) La fedeltà a Dio non comporta mai indifferenza, anzi innesca e alimenta attenzione e sentimenti molto caldi e cordiali: come quelli di una madre che per le sue creature è disposta a sacrificare la sua stessa vita (Gal 4,19; Is 66,11-13; Ef 5,29). c) I missionari dosano il nutrimento del vangelo con affetto materno (1Pt 2,2; 1Cor 3,2; Eb 5,12): un cibo – lo si noti – che non viene da loro, ma che è un regalo di Dio. Si rilevi la singolare affinità dei vv. 5-8 con At 20,17-35.
*V. 9. Ancora duro lavoro e fatica. Riguardo al lavoro di Paolo cfr. 2Tess 3,8-9.
* Vv. 10-12. a) L’evangelizzatore si sente anche padre: cfr. 1Cor 4,14; Flm 10; 3Gv 4. Se l’immagine materna rimarca la tenerezza e l’oblatività, quella paterna mette in rilievo la responsabilità educativa. b) Esortare, incoraggiare, scongiurare: tutti i registri vengono usati nella melodia paterna dell’educazione dei figli; e si adopera l’uno o l’altro in funzione delle esigenze obiettive di ciascun figlio (v. 11), perciò in un rapporto a tu per tu con ognuno di essi.

B)MEDITATIO
Quali caratteri evidenzia l’essere e l’agire di un autentico missionario del vangelo?
1. Il missionario di Cristo dice tutto quanto è bene si dica ai fini dell’evangelizzazione. I significati di parresìa sono numerosi (vedi Spicq, o.c.): dire in modo chiaro (Mc 8,32; Gv 11,14; 10,24); dire con libertà e con audacia (Gv 7,4.26; 11,54); dire con convinzione personale e con sicurezza (At 2,29.31; 4,31; 9,27-28; 14,3; 19,8; 13,46; 26,26; 18,26; 28,31); dire con coraggio e con tutta la vita (1Tess 2,2 [è il presente testo]; Fil 1,20; 2Cor 3,12); dire con la certezza che il proprio parlare è dono di Dio (2Cor 3,12; 1Tim 3,13) da chiedere nella preghiera (Ef 6,19; Fm 8; Col 2,15); dire con fiducia e speranza in Dio (Eb 3,6; 4,16); dire con la certezza di essere ascoltati (1Gv 5,14) e ricompensati da Dio (Eb 10,35; 1Gv 2,28; 3,21). Sottolineo, in particolare, due accezioni: a) la grande libertà del dire, che esclude paure di qualsiasi natura e condizionamenti negativi di qualunque origine; b) l’estrema trasparenza della vita di chi dice rispetto al messaggio detto.
* So dire le parole giuste al momento giusto? Che cosa, nella mia parrocchia, favorisce il dire (serenità, fiducia, magnanimità,…) e che cosa, invece, lo ostacola (sospetto, paura di essere giudicato dagli altri, pregiudizi inveterati, sciocca emulazione,…)? Sono uno che dice o manda a dire? dice in faccia o sussurra alle spalle? dice all’interessato o mormora con gli altri? dice “la cosa” o le gira intorno? Mi riesce di vivere il “dialogo come pòlemos, capace di sostenere la contrapposizione e la sfida delle differenze” (Ruggenini, 248)? C’è in me l’impegno di corrispondenza tra il messaggio che annuncio e la mia vita, oppure ricorro con frequenza patologica al meccanismo di difesa della “formazione reattiva” (= la lingua batte dove il dente duole: meno vivo un valore, più lo pretendo dagli altri)?
2. Il missionario di Cristo è madre. Come una madre che allatta (trépho) e scalda di affetto (thàlpo) il proprio figlio. Lo stesso verbo thàlpo troviamo in Ef 5,29 (riferito a Cristo nei riguardi della Chiesa), in Dt 22,6 (alla madre che cova gli uccellini e le uova), in 1Re 1,2.4 (alla donna che ama Davide), in Gb 39,1-4 (al sole che scalda le uova); cfr. Is 49,14-15. E, come una madre, il missionario esprime un amore tenero, dolce, delicato e, nello stesso tempo, viscerale, oblativo, prorompente, incontenibile (“un bambino per la donna è tutto il mondo”: Dobraczynki, L’ombra del Padre. Il racconto di Giuseppe, Morcelliana, Brescia 1991, p. 145): che cosa non fa una madre per ciascuno dei propri figli? L’evangelizzatore ha un cuore caldo, un animo vibrante, dei sentimenti vivissimi. La fedeltà a Dio – mette conto di ribadirlo –, lungi dall’inibire la sensibilità, la scatena a 360 gradi. Se ciò vale già per l’AT, figuriamoci nel NT: penso a Gesù che piange per Gerusalemme; che si commuove e scoppia in lacrime davanti a Lazzaro morto; che accarezza i bimbi; chefreme di compassione di fronte ai malati e ai peccatori; che grida di gioia alla presenza dei poveri evangelizzati.
*Voglio bene, anche nel suo risvolto sentimentale, alle persone che sono chiamato a evangelizzare? Il mio è un cuore vivo, con pulsazioni valide e ritmiche, o un cuore languente, con pulsazioni deboli, aritmiche, extrasistoliche? Non sono stato sottoposto fin dal battesimo a quel famoso trapianto cardiaco grazie al quale lo Spirito santo ha sostituito il mio cuore di pietra con un cuore di carne (Ez 36,26)? A quando risale la mia ultima sindrome di rigetto? Non mi sembra che l’attivismo, purtroppo anche pastorale, ci renda talora apatici, glaciali, funzionalisti, efficientisti, “computerizzati”, a tal segno che il coltivare dei rapporti interpersonali ci sembra tempo perso? Chiediamo al Signore la grazia di non lasciarci soffocare dalla rete aggrovigliatissima e asfissiante dei nostri frenetici, maledetti attivismi di qualunque natura.
3.Il missionario di Cristo è padre. Cfr. 1Cor 4,14-17; 2Cor 6,12-13; 12,14-15. L’amore del missionario sa essere anche forte, responsabile, preoccupato della crescita del proprio figlio sotto ogni aspetto. In particolare è capace di esortare, consolare, incoraggiare, testimoniare, scongiurare e rimproverare. Né concede tutto, né non concede nulla: ciò che fa è ispirato unicamente dall’amore per il figlio, che egli vuole libero, in grado di stare in piedi da solo e di camminare con le proprie gambe.
*Voglio bene come un padre alle persone cui annuncio il vangelo? Mi occupo della loro educazione cristiana quando esse sono nell’età evolutiva, e creo le condizioni della loro autoformazione se sono persone adulte? Ma sì… sfoghiamoci! C’è ancora tra noi – in questo mondo nel quale sembrano non esserci né padri né figli – qualcuno che esorti con parole cariche di benevolenza? Esiste tuttora – su questo nostro desolato pianeta – qualcuno buono a pronunciare parole di consolazione, che ti rincuorano con delicatezza senza pretendere riconoscenza sempiterna? Si trova in giro qualcuno – in questa società apparentemente abbandonata a sé stessa – chi sappia scuoterti dalla pigrizia e dal torpore in cui sei immerso? C’è ancora chi crede ai rapporti a tu per tu, e non solo ai rapporti di gruppo, visto che il vangelo deve concernerti personalmente, essere una parola “per te” (cfr. At 20,20)? Si danno ancora – di grazia – autentici accompagnatori spirituali che siano immuni dal “complesso della propria creatura”? Si trova ancora chi sappia attuare la correzione fraterna (“Fratelli, se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi, che avete lo Spirito, correggetelo con spirito di dolcezza…” [Gal 6,1-5])?
4.Il missionario di Cristo non cerca la gloria umana. Non la cerca per la buona ragione che Gesù non l’ha cercata: “Io non ricevo gloria dagli uomini” (Gv 5,41); “chi parla da sé stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che lo ha mandato è veritiero, e in lui non c’è ingiustizia” (Gv 7,18). L’evangelizzatore cerca la gloria che viene da Dio: “e come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5,44).
*a) Io cerco la gloria di Dio, cioè manifesto agli altri il suo amore incondizionato? La mia comunità parrocchiale cerca la gloria di Dio, ossia fa vedere il suo amore che si è rivelato in Gesù crocifisso? Delle strutture esorbitanti e inutilizzate ai fini dell’evangelizzazione, possono esprimere la ricerca della gloria di Dio? b) Io cerco la gloria da Dio, cioè lascio che sia Dio, in paradiso, a rendermi partecipe della gloria di Gesù risorto (Rom 2,7.10; 1Cor 4,5)? Non devo dimenticare che la risurrezione di Gesù ha comportato una condizione di gloria per lui in cielo, ma non una condizione di gloria per noi su questa terra: per noi la gloria sarà soltanto dopo la morte, come del resto è stato per lui. Il fatto di lavorare da volontario per la mia comunità lo considero ricompensa a sé stesso? La mia parrocchia cerca la gloria da Dio o dai preti?

C) ORATIO
-Dio nostro, donaci il coraggio di annunciare il tuo vangelo pur in mezzo a sofferenze, oltraggi e lotte.
-Santo Spirito, rendici amorevoli come delle madri e responsabili come dei padri.
-Signore Gesù, fa’ che desideriamo soltanto la gloria che viene da Dio. Amen.

LA CHIESA COME LUOGO DI SANTIFICAZIONE
(1 Tessalonicesi 4,1-12)
[1]Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più.
[2]Voi conoscete quali regole di vira vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.
[3]Questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall’impurità,
[4]che ciascuno di voi sappia trattare il proprio corpo con santità e rispetto,
[5]senza lasciarsi dominare dalla passione, come i pagani che non conoscono Dio;
[6]che nessuno in questo campo offenda o inganni il proprio fratello, perché il Signore punisce tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e ribadito.
[7]Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione.
[8]Perciò chi disprezza queste cose non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo santo Spirito.
[9]Riguardo all’amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva; voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri,
[10]e questo lo fate verso tutti i fratelli dell’intera Macedonia. Ma vi esortiamo, fratelli, a progredire ancora di più
[11]e a fare tutto il possibile per vivere in pace, occuparvi delle vostre cose e lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ordinato,
[12]e così condurre una vita decorosa di fronte agli estranei e non avere bisogno di nessuno.
Con questo brano inizia la seconda parte, che abbiamo intitolato “Paraclesi apostolica nel Signore Gesù”. Infatti sostengono gli esperti – ad esempio Vanhoye, Schlier e Schnackenburg – che è più corretto dire paraclesi che non parenesi, perché il primo è un termine tecnico cristiano in quanto contiene il verbo kaléo e quindi allude alla vocazione che Dio dà a ciascuno: un appello vibrante. Come diventare santi nella concreta comunità cristiana in cui si vive? Nel rispondere a questo interrogativo, Paolo non enuncia ovviamente tutte le condizioni alle quali la Chiesa risulta luogo effettivo di santificazione: si limita a delinearne alcune, presumibilmente quelle riguardanti i valori cristiani che presso i tessalonicesi, pur esemplari sotto molti punti di vista, trovavano qualche difficoltà di realizzazione.

A)LECTIO
1.Struttura. È molto semplice:
a)Norma generale: comportarsi (letteralmente camminare) in modo da piacere a Dio in base agli insegnamenti di Gesù (vv. 1-2).
b)Primo caso particolare: l’impurità (vv. 3-8).
c)Secondo caso particolare: l’amore reciproco (vv. 9-11a).
d)Terzo caso particolare: la tranquillità e il lavoro (vv. 11b-12).
2.Particolari significativi. a) Due ricorrenze del termine fratelli (vv. 1.10): è la famosa radicale uguaglianza di cui s’è detto. b) Enfasi sui verbi pregare e supplicare (v. 1); anzi, il verbo supplicare in greco
èparakaléo (da cui “Paraclito”, riferito al Padre in 2Cor 3-4, a Gesù in Gv 14,26 e allo Spirito santo in Gv 14,16.26; 15,26; 16,7), che è un composto di kaléo = chiamo, do la vocazione. Il che significa che quanto Paolo sta per dire corrisponde alla chiamata che Dio rivolge a ciascun cristiano di Tessalonica. c) Dio è presentato come colui che dona lo Spirito santo (v. 8). d) L’amore dei tessalonicesi deve essere vicendevole (v. 9). e) Insistenza sul dovere di lavorare (v. 11). f) Gesù è presentato come colui che dà delle regole (v. 2). g) Enfasi sull’avverbio di più (màllon): due volte (vv. 1.10).
3.Parole principali. Fratelli; supplicare; piacere a Dio; ancora di più; volontà di Dio; santificazione; impurità; amore fraterno; vivere in pace; lavorare.
4.Analisi
*Vv. 1-2. Ormai piacere a Dio coincide esattamente col mettere in pratica le regole date da Gesù. Si noti come il non procedere sulla via insegnata dai missionari del vangelo venga considerato – a dispetto della logica – come un recedere, il non andare avanti come un andare indietro: “se i tessalonicesi si fermassero nel loro cammino teso al compiacimento di Dio, in qualche modo già arretrerebbero (cfr. Gal 3,4; e anche Mt 12,45, parallelo a Lc 11,26)” (Manzi, 1108).
* V. 3a. Dio vuole che ci santifichiamo. La volontà di Dio è sì legge, ma anzitutto grazia, dono, forza, aiuto: ci ha chiamati nella (en) santificazione (v. 7). Lui è santo, noi diventiamo santi: santità esprime un possesso, santificazione un processo, un dono da accogliere e far fruttare con senso di responsabilità (cfr. Lev 11,44; 19,2; 20,7; Rom 6,19.22; 1Cor 1,30; 1Tm 2,15; Eb 12,14; 1Pt 1,15). “La nostra somiglianza con Dio è voluta da lui (Gen 1,26-27). L’errore consiste nel far diventare lui come noi. Allora povero Dio; e poveri noi!” (Fausti, 77).
* Vv. 3b-8. Quattro le affermazioni fondamentali: a) impurità è vivere un rapporto scorretto con il proprio (e altrui) corpo – che esprime la persona nella sua unitotalità – come oggetto di passione e di libidine, anziché con santità e rispetto; b) essere impuri fa a pugni con l’appartenenza al Signore (il Signore punisce tutte queste cose, vale a dire egli lascia che le conseguenze negative dell’impurità ricadano sul peccatore; cfr. Sal 94,1; 99,8), è vivere da pagani che non conoscono Dio; c) non si può diventare santi finché si è impuri (Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione); d) essere impuri è disprezzare il Padre e lo Spirito santo (v. 8), oltre che disobbedire a Gesù (v. 2). Cfr. 1Cor 5,1; 6,13.18; 7,2; 2Cor 12,21; Gal 5,19; Ef 5,3; Col 3,5.
*Vv. 9-10. a) Philadelphìa nel greco laico definisce l’amore tra fratelli di sangue, mentre nel NT l’amore
tra persone di fede cristiana (cfr. ad esempio Rom 12,10; Eb 13,1; 1Pt 1,22; 2Pt 1,7). b) Tale amore è reciproco, perché così Dio stesso ci ha insegnato (theodìdaktoi: cfr. Ger 31,34; Is 54,13; Gv 6,45; Rom 5,5). c) L’amore reciproco non ha misura: ognuno può sempre fare ancora di più; “chi avesse la sensazione di aver già fatto abbastanza, avrebbe di certo fatto troppo poco, non avrebbe sentimenti di amore”(von Balthasar, 48): “dopo il male il bene, dopo il bene il meglio, dopo il meglio gli orizzonti sconfinati della perfezione cristiana” (Buzy, citato in Rossano, 93). Cfr. Gv 10,10, dove si attesta che Gesù è venuto affinché abbiamo la vita, la più abbondante possibile.
*V. 11. Bisogna provvedere onestamente al proprio sostentamento. Paolo non raccomanda il lavoro manuale; ma la sua affermazione fornisce, pur senza volerlo, notizie sullo status sociale dei primi cristiani e registra l’ozio di alcuni tessalonicesi. Ognuno compia il proprio dovere quotidiano, secondo il suo stato di vita, non vivendo sulle spalle di nessuno.
*V. 12. Gli estranei sono i non appartenenti alla comunità cristiana, pagani o giudei.

B)MEDITATIO
Perché la Chiesa risulti effettivamente luogo di santificazione, occorre che si verifichino – in ogni singolo cristiano – talune condizioni.
1. Avere la lucida consapevolezza di potere e dover diventare santo (Lev 19,2; 1Pt 1,16). a) Posso diventarlo, perché il Padre e Gesù me ne rendono capace donandomi il loro Respiro, lo Spirito santo. Respirando come loro, mi è possibile vivere come loro, diventando perfetto come il Padre (Mt 5,48) e avendo lo stesso modo di sentire di Gesù (Fil 2,5), “il Santo di Dio” (Mc 1,24). b) Devo diventarlo, perché così vuole Dio (questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione). È il solito importantissimo gioco di grazia e libertà, dono e compito, indicativo e imperativo: gioco in cui Dio fa soltanto la sua parte, senza mai costringermi o sostituirmi. Chiedendo in prestito a Carlo Sini (Il silenzio e la parola. Luoghi e confini del sapere per un uomo planetario, Marietti, Genova 1989, p. 83), potremmo dire che l’avventura della santità è un “avere-da avendo-già”, un “avere-già per avere-da”. Infatti “un Dio terminale rimarrà soltanto un Dio sussidiario, un Dio supplemento” (Ruggenini, 99.101).
* Io sto a questo “gioco”? So fare il mio gioco? Il mio gioco, non quello di Dio nel senso di pretendere di sostituirmi a Dio (del resto, chi riuscirebbe a fare quello che fa Dio)? Il mio gioco, non quello di un altro fratello di fede, che avrà pure il suo gioco (Gv 21,19.22). Mi considero un camminatore (il verbo camminare ricorre ben due volte al v. 1, tradotto in buon italiano con comportarsi) o un arrivato?
2. Essere lucidamente consapevole di aver bisogno, finché sono su questa terra, anche di norme con contenuti precisi. Non mi basta avere Dio come maestro, essere theodìdaktos, discepolo di Dio. La paraclesi del Paraclito, lo Spirito santo, il Maestro interiore, è sempre e comunque necessaria, ma non è sufficiente:
l’interiore, lungi dal renderlo superfluo, esige e rende efficace l’esteriore (leggi, precetti, consuetudini,…), considerato che sono un uomo spazialmente e temporalmente situato. Del resto, l’apostolo dice ai tessalonicesi che non hanno bisogno di raccomandazioni sull’amore fraterno (v. 9), ma poi dà raccomandazioni pratiche proprio sull’amore fraterno (v. 10; 5,12-15). Noi, con la nostra logica esclusiva, avremmo detto: se tocca a Dio dare delle regole, allora non tocca agli uomini; Paolo invece adotta la logica inversa, inclusiva: se Dio dà delle regole, anche gli uomini dovranno darsi delle regole che attualizzino quelle di Dio. Cfr. 1Gv 2,27 e le parti paracletiche delle sue tre lettere.
*Nel mio procedere sulla strada della santità, cerco di conoscere le regole di Dio, le mozioni interiori dello Spirito santo (preghiera, ascolto della parola di Dio scritta, sacramenti)? So far tesoro anche degli insegnamenti del Magistero ecclesiastico e delle esortazioni dei fratelli di fede, per discernere che cosa il Signore vuole da me? Non mi sottraggo al dovere – tipico del cristiano adulto – della paraclesi? E, prima ancora, conosco la paraclesi biblica (in concreto, leggo la Bibbia) e la paraclesi del Magistero (in concreto, leggo integralmente i principali documenti magisteriali)? Come intendo concretamente superare le eventuali difficoltà nel procurarmi tali conoscenze?
3.Avere la lucida consapevolezza di dover trattare con santità e rispetto il corpo che mi appartiene. Le ragioni di tale dovere sono delineate con precisione dallo stesso Paolo in 1Cor 6,12-20. Le riassumo. Il corpo: a) è per il Signore, ossia per rivelare Gesù Cristo, per rinviare a lui; b) è risuscitato da Dio, in quanto sarò risuscitato io, che sono (anche) il mio corpo; c) è tempio dello Spirito santo; d) ha uno scopo liturgico, perché è fatto per glorificare (= annunciare e manifestare) l’amore di Dio.
*Anziché formulare domande per la verifica, invito alla meditazione di 1Cor 6,12-20 che, a quanto so, è il brano neotestamentario più completo sull’argomento.
4.Avere la lucida consapevolezza del dovere di amarci vicendevolmente. Dove la reciprocità, ed essa sola, è la differenza specifica rispetto a ogni altro amore. Bastino un paio di citazioni. Merton (Nessun uomo è un’isola, 181) scrive: “Siamo obbligati ad amarci scambievolmente. Non siamo strettamente tenuti a
piacerci l’un l’altro. L’amore governa la volontà: il piacersi è soltanto questione di sensi e di sensibilità. Però, se amiamo davvero gli altri, non sarà troppo difficile aver simpatia per loro. Se aspettiamo che certe persone ci diventino gradite o attraenti prima di cominciare ad amarle, non cominceremo mai”. E Sequeri (“Ma che cos’è questo per tanta gente?”, 75): “Nei confronti di ognuno l’esigenza di farsi prossimo è un dovere incondizionato: liberamente assunto nell’obbedienza della fede da parte del discepolo del Signore. Ma nei confronti del mio fratello [di fede] è un diritto attendermi la reciprocità di tale condivisione della carità evangelica e della cura della Chiesa”.
*Succede esattamente questo nella mia parrocchia? Se no, come rimboccarmi le maniche perché succeda?
5.Avere la lucida consapevolezza di dover lavorare. Prescindendo dalla condizione di chi è senza lavoro (argomento troppo importante e grave per essere qui liquidato con due parole), mi concentro su chi lavora. So troppo bene che il lavoro non è conseguenza del peccato originale, per cui non posso maledire né Eva né Adamo : il lavoro è stato voluto dal Creatore fin dall’inizio, prima che l’uomo commettesse il peccato d’origine.
*Dunque, mi appassiono al mio lavoro o lo vivo solo come un peso, di cui purtroppo – maledizione! – non mi è possibile fare a meno? Faccio bene il mio lavoro? Mi creo una competenza sempre più grande su di esso? Esistono ancora persone tanto coinvolte nella professione che tu, incontrandole, immediatamente intuisci la loro professione (non può fare che il medico; scommetto che fa l’insegnante; sono sicurissimo che fa il meccanico; non c’è dubbio che faccia il postino, si capisce subito che fa la casalinga…)? Se sono pensionato, spendo il tempo anche per gli altri, facendo tesoro delle mie competenze acquisite nell’attività lavorativa, oppure… ammazzo il tempo? Sono convinto che tempo libero non è affatto sinonimo di tempo vuoto? Viceversa, so trovare il tempo per la mia famiglia, la mia parrocchia, la società in genere, oppure il lavoro polarizza tutte le mie energie e requisisce tutto il mio tempo? Jan Dobraczynski (L’ombra del Padre. Il romanzo di Giuseppe, 220) fa dire a Giuseppe: “L’Altissimo ordina e permette che l’uomo con le capacità
che possiede nutra coloro di cui si prende cura. Se così non fosse, perché mi avrebbe imposto di prendermi cura di voi [Gesù e Maria]? Questo è il mio compito”. Mette conto di aggiungere che Giuseppe, sposo di Maria e custode di Gesù, è sempre stato venerato come il modello del lavoratore, dunque come colui che realizza alla perfezione i vv. 11-12 della Prima lettera ai Tessalonicesi.
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6. Avere la lucida consapevolezza di dover condurre una vita tranquilla. Non nel senso dell’inerzia piccolo o grande borghese, o di chi supinamente si accontenta dello status quo; ma nel senso di chi – appunto
– compie il proprio dovere quotidiano nella propria concreta situazione e secondo le sue reali, circostanziate possibilità. Chissà perché, quando leggo la frase Vi esortiamo a fare tutto il possibile per vivere in pace, mi viene sempre in mente l’esatto contrario vissuto nell’attuale società italiana: litigare per litigare, fare il bastian contrario per sport, diffondere notizie false con l’intento di creare sfiducia e sospetto, pescare nel torbido, e così via. Sicché non riesco a capire se sono io ad essere diventato matto o se sono tanti altri ad essere piombati nella follia…
* Di contro a questo clima maledetto e malefico, io vivo una vita tranquilla, pacificata con Dio, con me stesso, con gli altri, con la natura? Sono una persona “incatenata”, “scatenata” o “libera”? San Giuseppe avrebbe qualcosa da insegnarmi in proposito…

C) ORATIO
-Dio Padre, continua tenacemente a volere la mia santificazione.
-Gesù Signore, non smettere mai di farmi da maestro.
-Santo Spirito, fammi respirare come te. Amen.
UNO SGUARDO DI SPERANZA OLTRE LA MORTE
(1 Tessalonicesi 4,13-18)
[13]Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza.
[14]Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti.
[15]Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti.
[16]Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo;
[17]quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore.
[18]Confortatevi dunque a vicenda con queste parole.
L’ignoranza del “dopo morte” genera tristezza; la tristezza, mancanza di speranza; la mancanza di speranza, sconforto e desolazione. Il credente in Cristo non può mai arrivare a tanto: sperimenterà senza dubbio il dolore della separazione dai propri cari, ma mai e poi mai risulterà inconsolabile. “Ogni volta che un credente muore con la sua speranza – scrive Quinzio (o.c., 722) – la sua morte rimbomba come un masso caduto nell’abisso dell’assenza di Dio, risuona nel vuoto come una smentita della promessa, una smentita della fedeltà di Dio, una smentita di Dio”. Se Paolo è costretto a fare affermazioni come quelle contenute nel brano proposto, vuol dire che la “di-sperazione” circa la vita dopo la morte era per i Tessalonicesi una tentazione tutt’altro che ipotetica. Di qui la catechesi supplementare che egli fa sull’argomento.

A) LECTIO
1.Struttura. a) Premessa: bando alla tristezza, tipica dei non cristiani (v. 13)
b)Tesi: poiché Cristo è risorto, i cristiani risorgeranno (v. 14)
c)Dimostrazione:- lo afferma il Signore (v. 15)
-lo confermo io con parole mie (vv. 16-17)
d)Conclusione: confortatevi a vicenda! (v. 18).
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2. Particolari significativi. a) La mancanza di speranza riguarda non la sorte futura dei tessalonicesi ancora in vita, bensì la sorte futura dei tessalonicesi già defunti: “che ne è dei miei morti?” b) Crediamo che Gesù è morto e risorto. È una formula sintetica di professione della fede cristologica: il cristiano è precisamente uno che crede che Gesù è morto e risorto. c) Morire come essere radunati con Gesù da parte di Dio e come essere con il Signore. d) Il rendersi presente di Gesù alla fine del mondo vien detto parusìa, che così diventa – o è già – un termine tecnico della teologia cristiana. e) Il dovere di consolare è presentato come vicendevole, reciproco, scambievole (allèlus). f) Ultimo ma non meno importante, il brano “riflette la più antica catechesi giudaico-cristiana sulla risurrezione dei morti” (Trimaille, 209).
3. Termini importanti. Essere triste; non avere speranza; credere; morire e risorgere; radunare con Gesù; parusia; essere con il Signore; confortarsi a vicenda.
4. Analisi.
*V. 13. Alcuni cristiani di Tessalonica pensano che quanti sono morti prima della venuta del Signore si troveranno svantaggiati rispetto ai cristiani ancora in vita.
*V. 14. Quello che è capitato a Gesù, il crocifisso, non può non coinvolgere coloro che sono morti da credenti in lui. Gesù e i cristiani hanno lo stesso destino. Non c’è pentimento nel Dio amante e datore di vita: egli è buono soltanto a dare vita e assolutamente incapace di dare morte. Credendo in ciò che è già successo nel passato, automaticamente si crede in quel che succederà nel futuro. Cfr. 1Cor 15,20-22. È importante rilevare che solo qui in tutto il Nuovo Testamento Gesù viene presentato concisamente, senza perifrasi, come colui che è morto e risorto: “Paolo, significativamente, non parla di Gesù che dorme, ma dice che morì. Cristo sopportò tutto l’orrore di quella morte e quindi trasformò la morte in sonno per i suoi. Nel Nuovo Testamento non viene mai detto: i cristiani muoiono; essi si addormentano. Ma non è mai detto: Cristo si addormenta; egli morì per noi” (Morris, 116-117).
* V. 15-17. I simboli usati sono di ascendenza veterotestamentaria (cfr. Es 19,16-19; Dan 7,9-14) e, opportunamente adattati, costituiscono un tentativo di inculturazione della fede. Infatti il termine parusìa (Mt 24,3.27.37.39; 1Cor 15,23; 2Tess 2,1.8; Giac 5,7.8; 2Pt 1,16; 3,4.12; 1Gv 2,28) indicava, all’epoca di Paolo, la visita ufficiale dell’imperatore, di un suo legato o del re; tale visita comportava solenni celebrazioni, amnistie di prigionieri ed esenzioni fiscali. Ne segue che devono non essere presi alla lettera. Verremo rapiti: commenta stupendamente Fausti (o.c., 97): “La salvezza è un atto rapace di Dio che, tornato ad essere aquila, ci ghermisce dal male e dalla morte. Lui è il forte che vince il male. Ma lo vince con la forza dell’amore, che è la debolezza della croce. La forza dell’aquila è in realtà la tenerezza della gallina (Lc 13,34)”.
*V. 18. Il conforto tra i cristiani deve essere basato su quanto essi credono ed essere vicendevole.

B) MEDITATIO
Quali caratteri evidenzia, in questo brano, la speranza oltre la morte?
1. La speranza cristiana è consapevole: “Fratelli, non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza”. La speranza dei credenti in Cristo sa, conosce, è informata, si procura le nozioni necessarie perché sia effettivamente un atto di libertà. Certo, essere nella speranza (o avere la speranza) è in primo luogo un regalo che Dio fa al cristiano; ma esso, come ogni dono, implica un riceverlo, un accoglierlo, un farlo fruttare. È sempre la logica della libertà umana che deve oscillare in concordanza di fase con la grazia divina, perché si dia salvezza per questo uomo che sono io, che è ciascuno di noi. Un atto non libero, che ti capita addosso senza che tu non possa farci niente, senza che tu sappia dire di che si tratta, non è un atto umano e perciò neppure un atto cristiano: è caso, fatalità, succede e basta. Dobbiamo rivedere – io credo – certi nostri atteggiamenti che, per evitare l’intellettualismo, finiscono col diventare privi di senso oggettivo e comunicabile. La fede – e con essa la speranza che vi si fonda – possiede un ineludibile aspetto conoscitivo che urge rivisitare e continuamente approfondire.
* La mia speranza è forse arbitraria, volontaristica, sentimentalistica, umorale, viscerale? Oppure – come dovrebbe essere – è non negligente sotto il profilo del sapere, in quanto non abdica a capire fin dove è possibile? O Dio mi ha dotato dell’encefalo come di un soprammobile e la capacità di usarlo come un optional più o meno confortevole? Che cosa “so” della vita futura? Più a monte, so qualcosa della vita futura? Sperare vuol forse dire fingere di sapere, illudermi, consolarmi (senza crederci) con un aldilà vago, evanescente, per non cadere in depressione? Si fa ancora catechesi sui cosiddetti Novissimi? So coniugare felicemente, nella mia esperienza di fede, l’ ”urgenza dell’aderire” con la “pazienza del domandare” (Ruggenini, 205), tenendo fermo che “la domanda sapiente non è quella avida di risposte, ma quella capace di meraviglia” (Ibidem, 171)?
2. La speranza cristiana è certa, sicura, salda, perché certa sicura e salda è la fede cristiana in cui affonda le sue radici. Gesù morì ed è risorto: i cristiani moriranno e risorgeranno grazie a lui e come lui. Che sarebbe la vita se, dopo essermi impegnato a viverla seguendo Gesù, non potessi mai incontrarlo “così come egli è”(1Gv 3,2), “faccia a faccia” (1Cor 13,12), ma dovessi sempre “cercarlo tastando qua e là come un cieco” (At 17,27)? Amare uno senza mai poterlo vedere, senza poter stare con lui! Si noti: a) il discorso di Paolo è rivolto ai cristiani, ma riguarda tutti gli uomini; b) né per gli uni né per gli altri è automatico, dovendo fare i conti con quella benedetta libertà di cui sopra; c) più che dire finché c’è vita, c’è speranza, dovremmo affermare con convinzione: “Finché c’è speranza, c’è vita” (Fausti, 93).
*La mia speranza riguardo alla vita eterna è certa o dubbiosa? salda o vacillante? costante o variabile? Sono persuaso che una speranza dubbiosa, vacillante o variabile non sarebbe che la registrazione fedele di una fede con questi stessi caratteri negativi? Essendo radicata nella fede, la speranza viene curata non direttamente, ma curando la fede: solo così la terapia è eziologica e non superficialmente sindromica. Ma – ecco il punto – “il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8).
3.La speranza cristiana non discrimina tra vivi e morti. Questi ultimi non risultano necessariamente, in quanto defunti, svantaggiati rispetto a coloro che sono ancora in vita. Infatti il Dio-Uomo ha relativizzato qualsiasi distinzione: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Le conseguenze? Ad esempio, un morto… in paradiso è avvantaggiato nei confronti di un vivo in peccato grave; e un vivo che accoglie responsabilmente la grazia del Signore risulta in netto vantaggio rispetto a un morto… all’inferno. “La comunità di Cristo è una comunità di vivi e di morti, e di morti che in lui vivono insieme ai viventi” (Moltmann, 2004).
*Prego per i “miei” morti? Parlo con loro nella preghiera? Chiedo nella preghiera il loro aiuto? Faccio celebrare delle sante Messe per loro? Non mi viene il dubbio che nella festa di Ognissanti potrei, senza saperlo, venerare come santo anche qualche mio parente? Queste domande valgono soprattutto per i giovani. Ma ce ne sono anche per gli adulti più anziani. Una ad esempio: le mie preghiere sono tutte e solo per i morti? Così facendo, non do forse l’idea del cristianesimo come religione funebre e – quel che è peggio – di un dio soltanto dei morti?
4.La speranza cristiana va spiegata, ma non banalizzata. Mi riferisco ai vv. 16-17, dove si parla di trombe, nubi, alto e voce di arcangeli. Il tentativo di Paolo è encomiabile, perché fa ricorso a immagini, simboli e metafore comprensibili ai cristiani del suo tempo: compie – come si è detto – un’opera di transculturazione della fede cristiana, ritenendo di conferire in tal modo lucidità e consapevolezza alla speranza. Ne consegue che noi pure dobbiamo: a) evitare di confondere il contenuto del messaggio (tutti, vivi e morti, risorgeremo grazie a Cristo e con Cristo) con la sua forma espressiva; il primo va accolto, la seconda lasciata cadere; b) trovare immagini adatte al nostro tempo per rendere la fede significativa per noi.
*Mi accontento di quel che la Bibbia sobriamente afferma sull’aldilà, o preferisco lanciare la mia curiosità morbosa nella lussureggiante vegetazione delle “rivelazioni private” e delle più sfrenate parapsicologie? Se Dio mi fornisce scarse informazioni sull’aldilà, vuol dire che va bene così. Ma è davvero “poco” sapere che ogni uomo di ogni tempo ha la possibilità reale di accogliere come dono la vita eterna in compagnia di Gesù? È fin… troppo, visto che ci è voluta una rivelazione divina per saperlo! Quanto ai simboli adatti a transculturare questa verità di fede, è meglio tacere: lascio volentieri il compito al Magistero ecclesiastico (che, di norma, fa bene il suo mestiere) e ai teologi santi.
5.La speranza cristiana ha come traguardo l’essere per sempre con Gesù risorto. Adesso sono in
Gesù, dopo la morte sarò –appunto lo spero – con Gesù. L’essere con Gesù è condizione necessaria e sufficiente dell’essere con Gesù. Essere “in”, per essere “con”.
*Domanda unica: il mio essere “in” gode di buona salute? Se non lo fosse, saprei approntare in base al bisogno terapie adeguate alla gravità della malattia?
6. La speranza cristiana abilita al conforto vicendevole. Non basta vivere la speranza: occorre parlarne, incoraggiare, consolare, confortare. E a vicenda, l’un l’altro, reciprocamente.
Quando una persona è colpita da un lutto, divento improvvisamente afasico, muto? Mi limito a dire: “mi dispiace” o “poveretto!”? Attenzione: si devono dire parole di conforto specificamente cristiane, non ci si può accontentare delle espressioni cosiddette di circostanza. E vanno pronunciate nei momenti opportuni, con garbo, delicatezza, “compassione”; giacché potrebbe succedermi di riversare sull’altro un profluvio di chiacchiere insensate, che non soltanto non consolano, ma deprimono maggiormente chi è già depresso. In simili frangenti, che Dio mi liberi dalle persone senza parole; ma mi liberi ancor più dagli individui incontenibilmente logorroici.

C) ORATIO
-Dio Padre, dopo la nostra morte radunaci con Gesù.
-Signore Gesù, dopo la nostra morte donaci di stare sempre con te.
-Santo Spirito, consolatore perfetto, fa’ che ci consoliamo a vicenda con le parole da te ispirate. Amen.
I SEGNI DELLA SANTITÀ CHE VIENE DALLO SPIRITO
(1 Tessalonicesi 5,12-28)
[12]Vi preghiamo, fratelli, di aver riguardo per quelli che faticano tra voi, che vi fanno da guida nel Signore e vi ammoniscono;
[13]trattateli con molto rispetto e amore, a motivo del loro lavoro. Vivete in pace tra voi.
[14]Vi esortiamo, fratelli: ammonite chi è indisciplinato, fate coraggio a chi è scoraggiato, sostenete chi è debole, siate magnanimi con tutti.
[15]Badate che nessuno renda male per male ad alcuno, ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti.
[16]State sempre lieti,
[17]pregate ininterrottamente,
[18]in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.
[19]Non spegnete lo Spirito,
[20]non disprezzate le profezie.
[21]Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono.
[22]Astenetevi da ogni specie di male.
[23]Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo.
[24]Degno di fede è colui che vi chiama: egli farà tutto questo!
[25]Fratelli, pregate anche per noi.
[26]Salutate tutti i fratelli con il bacio santo.
[27]Vi scongiuro, per il Signore, che questa lettera sia letta a tutti i fratelli.
[28]La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con voi.
La santità consiste nell’essere perfetti come il Padre nostro che è nei cieli (Mt 5,48), cioè nel seguire Gesù (Gv 21,19.22; Fil 2,5) sotto la guida dello Spirito santo (Gv 14,15-17.26;16,7-11.13-15; Rom 8,2.14; 2 Cor 3,18; Gal 4,6; ). Ma come faccio a sapere se sto percorrendo la strada della mia santificazione? Nel concludere la sua prima lettera ai Tessalonicesi, Paolo risponde alla domanda dando direttive e delineando raccomandazioni relative alla vita intraecclesiale. È il vademecum della comunità cristiana, imbastito con ben sedici frizzanti imperativi, che peraltro vogliono essere dei caldi inviti più che dei comandi perentori.

A)LECTIO
1.Struttura. a) Paraclesi analitico-esemplificativa per la vita di una comunità cristiana (vv. 12-22)
b)paraclesi sintetico-discorsiva (vv. 23-24)
c)richiesta di preghiera (v. 25)
d)saluti (v. 26)
e)raccomandazione di una lettura pubblica della lettera (v. 27)
f)augurio finale (v. 28).
2.Particolari significativi. a) Importanza data ai rapporti tra i credenti in genere e quei credenti che hanno responsabilità specifiche; b) enfasi sul dovere di farsi carico dei più poveri (indisciplinati, scoraggiati, deboli); c) rilievo centrale accordato al comando: Non spegnete lo Spirito!; d) nomi delle tre Persone divine ai vv. 18-19 (Dio, Cristo Gesù, Spirito); e) affermazione che la santificazione è primariamente opera del Dio fedele; f) raccomandazione di leggere la presente missiva in un’assemblea di cristiani.
3.Espressioni importanti. Quelli che vi fanno da guida; vivere in pace; non rendere male per male; stare lieti; non spegnere lo Spirito; vagliare ogni cosa; il Dio della pace; degno di fede è colui che vi chiama; pregate anche per noi; bacio santo.
4.Analisi. Questi versetti sono notevoli soprattutto perché costituiscono “il più antico documento sulla struttura gerarchica delle comunità cristiane in terra pagana” (Rossano, 117).
* Vv. 12-13. I responsabili della comunità sono definiti: a) persone che faticano per ciascuno e per la comunità (cfr. 1,3; 2,9; 3,5; 1Cor 15,10; Gal 4,11; Fil 2,16; Col 1,29; 1Tim 4,10); b) persone che fanno da guida nel Signore (cfr. 1Tim 3,4.5.12; 5,17; Rom 12,8), cioè credenti che stanno davanti, precedono nel cammino dietro a Gesù, per suo incarico (nel Signore). Ma il verbo greco proìstamai significa anche “prendersi cura”, “proteggere”, e questa è la traduzione probabilmente migliore nel contesto, come ritiene Trimaille, che la giustifica col fatto che le sette occorrenze dello stesso verbo nella versione greca dell’AT hanno questo significato (“Fondare una comunità cristiana, va bene; però non la si può abbandonare a se stessa, senza che alcuni dei suoi membri accettino di prolungare la presenza del fondatore, prendendosi cura dei loro fratelli”: o.c., 217-218); c) persone che ammoniscono, cioè rammentano e ricordano le parole di Gesù (cfr. 1Cor 4,14ss.; 2Tess 3,15; Col 1,28; 3,16). Si esorta a trattarli con molto rispetto e amore, a motivo del loro lavoro, ossia in quanto esercitano la loro specifica funzione.
* V. 14. Indisciplinati: quelli che non sanno trovare il proprio posto perché non hanno ancora ritrovato sé stessi. Scoraggiati: coloro che si deprimono perché preoccupati unicamente della propria santificazione. Deboli: quelli che facilmente cedono al fascino della tentazione. Siate magnanimi con tutti: solo chi è di animo grande, nobile e generoso riesce ad assumere l’atteggiamento giusto nei confronti degli indisciplinati,
degli scoraggiati e dei deboli (cfr. Mt 18,23-35; Lc 6,36-38; Mt 7,2).
*V. 15. Cfr. Rom 12,17.21.
*V. 16. Cfr. 1Tess 1,6; 2Cor 7,4; Col 3,12.
* V. 17. Pregare ininterrottamente è possibile soltanto perché “lo Spirito stesso intercede con gemiti
inesprimibili” (Rom 8,26; cfr. Ef 6,18), vale a dire io respiro con il Respiro di Gesù, “inspirando ed espirando” lo Spirito santo. In concreto l’esortazione è a una preghiera regolare, cioè secondo una regola stabilita da ognuno per sé, secondo un ritmo costante (cfr. Trimaille, 219).
*V. 18. Cfr. Ef 5,20.
* V. 19-22. “Lo Spirito è fiamma che vuole divampare nella Chiesa e in ognuno di noi. Per questo ha bisogno di aria e di miccia: la nostra anima” (von Balthasar, 65). La metafora dello spegnere deriva dal fatto che lo Spirito è sovente assimilato al fuoco (At 2,3; 18,15; Rom 12,11). Probabilmente i tessalonicesi tendevano a sottovalutare i doni dello Spirito santo, in particolare la profezia: posizione diametralmente opposta a quella dei Corinzi, che viceversa li sopravvalutavano. Annota argutamente Marxen (o.c., 92): “Anche l’entusiasmo ha i suoi diritti, però va analizzato criticamente”.
* V. 23. Si noti: a) chi santifica è Dio; b) quell’interamente suppone che non si è mai santificati abbastanza (Fil 3,12); Paolo stesso dirà in Ef 4,13 che bisogna arrivare “fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo”; c) lo sforzo di santificazione è in funzione dell’incontro definitivo con Gesù nel suo paradiso.
* V. 24. Dio: a) chiama, b) è degno di fede, c) agisce salvando. È un grido di gioia vittoriosa, “la fine e il vertice della lettera” (Rossano, 134). Cfr. Rom 8,29-30; 1Cor 1,9; 2Tess 3,3.
*V. 25. Cfr. 1Tess 3,6; Rom 15,31.
* V. 26. Così ci si salutava dopo il banchetto eucaristico (1Cor 16,20; 2Cor 13,12; Rom 16,16; 1Pt 5,14). Baciare significa anche, “ad-orare”, avvicinare alla bocca per venerazione, comunione, affetto, amore.
16
Questa prassi – attestata da Giustino, Clemente di Alessandria, Origene, Tertulliano e Cipriano – andrà in disususo a motivo degli inconvenienti morali cui poteva dare adito.
* V. 27. Affermazione importantissima: questa lettera non è una missiva privata, ma è destinata a tutta la comunità cristiana di Tessalonica. Dovunque si annuncerà Gesù Cristo, lì si leggerà anche questa lettera. Annota Rossano (o.c., 125): “Tale lettura pubblica nelle assemblee diventerà un coefficiente importante storicamente per l’inserzione delle lettere dell’Apostolo tra i libri sacri, accanto agli scritti dell’Antico Testamento (cfr. 2Pt 2,15-16)”.
* V. 28. Come sappiamo, la grazia è la benevolenza gratuita del Padre manifestata agli uomini da e in Gesù. Il termine Amen con il quale alcuni codici concludono questa Lettera (cfr. Ap 1, 4-8) segnalerebbe la risposta dell’assemblea cristiana alla sua lettura.
“Si conclude così il primo scritto del NT: una missiva che per calore affettivo e per immediatezza comunicativa porta indelebile il marchio di Paolo missionario, padre e madre della comunità di Tessalonica” (Manzi, 1137).

B) MEDITATIO
Quali i segni della santità che viene dallo Spirito santo? Formuliamo meglio la domanda: in base a quali segni posso sapere di essere sulla strada (in greco, hodòs) di Gesù (= che è Gesù: Gv 14,6: “Io sono la via…”) sotto la guida dello Spirito santo, la guida (hodegòs)?
1. Un primo segno è costituito dal rispetto verso coloro che esercitano responsabilità particolari nella comunità cristiana. Paolo allude a quelli che noi chiamiamo vescovi, preti e diaconi, che però allora non erano “gerarchizzati” e “istituzionalizzati” come oggi; ma che comunque restavano pur sempre coloro che si prendevano cura della comunità cristiana come tale, oltre che dei singoli cristiani. Tutti contribuiscono alla crescita qualitativa e quantitativa della Chiesa, ma vi sono alcuni che devono presiedere a tale crescita. Già a quel tempo c’erano dei problemi in merito: diversamente, non si giustificherebbe il richiamo di Paolo. * Come sono i rapporti tra laici, preti e religiosi nella mia parrocchia? Quali gli aspetti più problematici? Come affrontarli e risolverli con stile e mezzi evangelici? E per me prete: mi affatico sia per i singoli che per la comunità nel suo insieme? So fare il capo “nel Signore”? Esercito l’autorità come servizio o, viceversa, facendo da padrone (1Pt 5,1-4)?
2. Un secondo segno di santità che viene dallo Spirito è da individuare nell’ammonire chi è indisciplinato, nel fare coraggio a chi è scoraggiato, nel sostenere chi è debole e nell’essere magnanimo con tutti.
-Di solito uno si agita perché non ha ancora ritrovato sé stesso. Lo aiuto in questo oppure mi oppongo a lui in una lotta corpo a corpo?
-Di solito uno è scoraggiato perché chiuso in sé stesso. Lo incoraggio o lo rimprovero?
-Di solito uno è debole perché…i perché possono essere numerosi: educazione inadeguata, insufficiente esercizio della volontà, temperamento fragile… Ebbene, sono persuaso che i più forti esistono per aiutare i più deboli, e che i deboli saranno sempre la maggioranza? Nella mia parrocchia (gruppo, movimento, associazione) i deboli vengono aiutati o criticati?
-Di solito uno è impaziente perché, sebbene anagraficamente adulto, adulto umanamente non lo è affatto. Io sono adulto o ancora giovane o adolescente? Se fortunatamente mi ritrovo adulto, sono fiero di esserlo o nostalgicamente rimpiango la giovinezza? La mia parrocchia è fatta anzitutto di adulti, o di persone in perenne età infantile, adolescenziale, giovanile? Cito il Magistero: “La Chiesa può dare ragione della sua speranza in proporzione alla maturità della fede degli adulti” (Il rinnovamento della catechesi, 124).
3.Un terzo segno di santificazione cristiana è costituito dal cercare sempre il bene, invece che rendere male per male. So perdonare? Sono capace di non ricattare? La mia parrocchia è specializzata in perdono o in ricatto? Vi serpeggia il sospetto o circola l’accoglienza? la critica o l’accettazione? la cattiveria o la bontà? l’alba che annuncia un giorno nuovo o il tramonto di un giorno che si spegne irrimediabilmente? il sole allo zenit o la tenebra che tutto inghiotte?
4.Quarto segno: la gioia. Sorvolo, perché abbiamo meditato a lungo su questo punto analizzando sia la lettera ai Filippesi che questa ai Tessalonicesi.
5. Quinto segno: la preghiera incessante, in particolare quella di ringraziamento. Unico telegrafico spunto di verifica: imparo sempre più a pregare… pregando?
6. Sesto segno: valutare correttamente e adeguatamente i doni dello Spirito santo. Sottovaluto l’azione e i doni dello Spirito? Intanto ne conosco almeno i nomi: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timore di Dio? In particolare, so valorizzare i consigli delle persone che hanno una grande capacità di individuare hic et nunc la volontà di Dio (= profeti)? Una sottovalutazione dei doni dello Spirito è quella di fare perché “si è sempre fatto così”, oppure di scegliere in ogni caso le tinte sfumate, di non decidere mai, di avere sempre da ridire… Sottostimare i doni dello Spirito equivale ad affermare, almeno tendenzialmente, che la Chiesa è tutta istituzione e niente carisma.
Ma è in agguato anche l’errore opposto, quello di chi sostiene che la Chiesa è tutta carisma e niente istituzione. È la sopravvalutazione dei doni dello Spirito; la voglia di fare sempre diverso, senza regole; la smania del nuovo, dell’inedito a qualunque costo; l’imprendibilità anguillare; l’esotismo e la stramberia teorizzati ed eretti a sistema; il desiderio incoercibile di far colpo e… chi più ne ha più ne metta! A me capita forse di sovradeterminare i doni dello Spirito santo?
7. Settimo segno: credere alla fedeltà di Dio e viverla. Per quanto dipende da lui, Dio non demorde da ciò che ha iniziato. Vengono in mente le consolantissime parole del Discepolo amato: “Davanti a lui [= Dio] rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3,19-20). Né c’è pericolo che, credendo alla fedeltà di Dio, io ne approfitti in senso deteriore: l’approfittarne equivarrebbe al fraintendimento di tale fedeltà. Lo diceva già Dante: “Amore ch’ a nullo amato amar perdona”. Sono convinto di tutto questo e cerco di metterlo in pratica?
8.Ottavo segno: pregare per gli evangelizzatori. Tutti i cristiani sono evangelizzatori. Ma qui Paolo pensa agli apostoli. E noi dobbiamo pensare al papa, ai vescovi, ai preti, ai diaconi. È così per me, per noi, per la nostra parrocchia? Giova ricordare che, in talune circostanze, il solo aiuto che si può dare ai preti è di pregare per loro…
9.Nono, e ultimo, segno: la lettura pubblica della parola di Dio scritta. Come viene letta la Bibbia nella nostra parrocchia? Quando viene letta? Anche in circostanze diverse (liturgie della parola, liturgie penitenziali, viae crucis…) da quelle strettamente obbligatorie?
C)ORATIO
-Dio Padre, non stancarti di essere fedele alle tue promesse.
-Signore Gesù, sii sempre in noi con la tua grazia.
-Santo Spirito, riscalda i nostri cuori tiepidi. Amen.
Conclusione
“Vi scongiuro, per il Signore, che questa lettera sia letta a tutti i fratelli”. Ecco, abbiamo dato a Paolo, Silvano e Timoteo la nostra obbedienza leggendo materialmente e interpretando questa loro Prima lettera ai cristiani di Tessalonica.
Il Signore Dio – Padre e Gesù e Spirito santo – ci dia il coraggio e la costanza di obbedire mettendo in pratica quanto gli autori sacri, a suo nome, ci hanno detto. Abbiamo terminato di leggerla: è ora di cominciare, o di continuare, a viverla. Così davvero sia per ciascuno di noi e per la nostra comunità parrocchiale, che come preti, religiosi o laici siamo onorati di servire.

6 ottobre: San Bruno di Colonia

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http://it.wikipedia.org/wiki/Bruno_di_Colonia

Publié dans:immagini sacre |on 8 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

ALLA VIGILIA DEL KIPPÙR – IL GIORNO DELL’ESPIAZIONE (14 SETTEMBRE, QUEST’ANNO) – DI RICCARDO DI SEGNI

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2008/235q01b1.html

ALLA VIGILIA DEL KIPPÙR – IL GIORNO DELL’ESPIAZIONE

(quest’anno era il 14 di settembre)

DI RICCARDO DI SEGNI

RABBINO CAPO DI ROMA

Nel calendario liturgico ebraico il giorno dell’Espiazione – Kippùr o Yom Kippùr o Yom haKippurìm – è il più importante dell’anno; in aramaico è yomà, « il giorno » per eccellenza che dà il titolo al trattato della Mishnà che ne espone le regole. « Il giorno » cade il 10 di Tishri, primo mese autunnale, quest’anno corrispondente alla sera dell’8 e al giorno del 9 ottobre 2008.
Di questo giorno parla in più occasioni la Bibbia e la fonte principale è il capitolo 16 del Levitico. Qui si descrive un complesso ordine cerimoniale affidato al Gran Sacerdote, che deve scegliere estraendo a sorte tra due capretti; uno, dedicato al Signore, viene offerto in sacrificio; l’altro riceve con un gesto simbolico il carico delle colpe di tutta la collettività e viene quindi inviato a morire nel deserto. Di qui l’espressione e il concetto di « capro espiatorio ». Lo stesso brano biblico si conclude spiegando che in quel giorno è d’obbligo affliggere la propria persona e non lavorare, perché « in questo giorno espierà per voi purificandovi da tutte le vostre colpe, vi purificherete davanti al Signore » (versetto 30).
Dai tempi della sua istituzione biblica Kippùr è il giorno dell’anno in cui le colpe vengono cancellate e il destino futuro di ogni uomo viene stabilito, dopo il giudizio cui è stato sottoposto nei giorni precedenti del Capodanno. La tradizione rabbinica si è dilungata a spiegare quali colpe possano essere cancellate del tutto o in parte, o sospese, in base alla loro gravità. La forza espiatrice del Kippùr si misura con l’obbligo principale dell’uomo nei giorni che lo precedono:  la tesciuvà; letteralmente è il « ritorno » ed è il termine con il quale si indica il pentimento, nel senso di ritorno alla retta via. Questo ritorno comporta la consapevolezza di avere sbagliato, l’intenzione di non commettere nuovamente l’errore, la confessione pubblica e collettiva. Tutto questo si basa necessariamente sulla fede in un Dio misericordioso e clemente che viene incontro a chi ha sbagliato. In ogni caso la cancellazione delle colpe si riferisce a quelle commesse nei rapporti dell’uomo con il Signore; le colpe tra uomini vengono cancellate solo dagli uomini. Per questi motivi la vigilia del Kippùr è dovere per ognuno andare a chiedere scusa alle persone che sono state da lui offese.
Per tutto il periodo di esistenza del Tempio di Gerusalemme le cerimonie del giorno di Kippùr rappresentavano il complesso liturgico più complesso e solenne. Solo in quel giorno era consentito al Gran Sacerdote accedere al Santo dei Santi. Il rispetto dei dettagli prescritti era essenziale, richiedeva una preparazione prolungata e minuziosa, e un’esecuzione attenta su cui vigilava con ansia l’intera collettività raccolta nel Tempio. Di tutto questo dopo la distruzione del Tempio è rimasto solo il ricordo nostalgico, che nella liturgia del Kippùr avviene con la lettura, al mattino, del brano del Levitico e nel primo pomeriggio con una lunga evocazione poetica del cerimoniale.
La liturgia sinagogale tocca in questo giorno il vertice dell’impegno; lunghe e solenni preghiere la sera d’inizio, e una seduta praticamente ininterrotta dal mattino successivo fino al comparire delle stelle. Sono momenti speciali quelli della lettura di brani di suppliche, la lettura al mattino di Isaia 57, che descrive come vero digiuno la pratica della giustizia, e al pomeriggio il libro di Giona, che è una grandiosa rappresentazione della misericordia divina. La presenza del pubblico nelle sinagoghe raggiunge il massimo annuale in questo giorno, specialmente nei momenti più solenni di apertura e chiusura.
Essenziale nel Kippùr è il coinvolgimento personale, soprattutto con un digiuno totale senza bere né mangiare per circa 25 ore – dal quale sono esenti i malati – insieme ad altre forme di astensione (lavarsi, usare creme profumate, indossare scarpe di cuoio, evitare i rapporti sessuali). Poi c’è la dimensione familiare e sociale, nei pasti che precedono e seguono il digiuno e nelle riunioni delle famiglie in Sinagoga per ricevere la benedizione sacerdotale, impartita dai Cohanim, i discendenti di Aharon.
Malgrado l’austerità, la solennità e le forme imposte di afflizione fisica il Kippùr è vissuto collettivamente con serenità e gioia nella consapevolezza che comunque non verrà meno la misericordia divina.
A conclusione di queste brevi note esplicative, considerando la sede autorevole e certamente non abituale dove vengono pubblicate, può essere interessante proporre una riflessione sul senso che il Kippùr ha avuto, e può avere oggi, nel confronto ebraico-cristiano. Questo perché nella formazione del calendario liturgico cristiano le origini ebraiche hanno avuto un ruolo decisivo, come modello da riprendere e trasformare con nuovi significati:  il giorno di riposo settimanale passato dal sabato alla domenica, la Pasqua e la Pentecoste. In alcuni casi la Chiesa ha persino festeggiato il ricordo dell’osservanza di precetti biblici tipicamente ebraici (la festa della Purificazione del 2 febbraio; un tempo l’1 gennaio quella della Circoncisione). Ma l’intero ciclo autunnale, di cui Kippùr è il giorno più importante, è come se fosse stato cancellato. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che i simboli del Kippùr riguardano alcune differenze inconciliabili tra i due mondi. I temi del gran sacerdozio, del Tempio, del sacrificio, del capro espiatorio, della cancellazione delle colpe che nella tradizione ebraica si unificano nel Kippùr sono stati rielaborati dalla Chiesa, ma fuori dall’unità originaria. Semplificando le posizioni contrapposte:  un cristiano, in base ai principi della sua fede, non ha più bisogno del Kippùr, così come un ebreo che ha il Kippùr non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla fede cristiana.

Osservatore Romano 8 ottobre 2008

PAPA BENEDETTO: LA MORTE DI SAN PAOLO (20)

http://duomosandona.netsons.org/index.php?option=com_content&task=view&id=677&Itemid=144

(di San Paolo ho già messo molto e, forse, ripetuto, mi è capitata, quasi per caso davanti  la catechesi di Papa Benedetto sulla morte di Paolo, ve la ripropongo)

SAN PAOLO (20): LA MORTE DI SAN PAOLO 

SABATO 07 FEBBRAIO 2009 16:18

UDIENZA GENERALE DI MERCOLEDÌ, 4 FEBBRAIO 2009

Cari fratelli e sorelle,

la serie delle nostre catechesi sulla figura di san Paolo è arrivata alla sua conclusione: vogliamo parlare oggi del termine della sua vita terrena. L’antica tradizione cristiana testimonia unanimemente che la morte di Paolo avvenne in conseguenza del martirio subito qui a Roma. Gli scritti del Nuovo Testamento non ci riportano il fatto. Gli Atti degli Apostoli terminano il loro racconto accennando alla condizione di prigionia dell’Apostolo, che poteva tuttavia accogliere tutti quelli che andavano da lui (cfr At 28,30-31). Solo nella seconda Lettera a Timoteo troviamo queste sue parole premonitrici: « Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele » (2 Tm 4,6; cfr Fil 2,17). Si usano qui due immagini, quella cultuale del sacrificio, che Paolo aveva usato già nella Lettera ai Filippesi interpretando il martirio come parte del sacrificio di Cristo, e quella marinaresca del mollare gli ormeggi: due immagini che insieme alludono discretamente all’evento della morte e di una morte cruenta.
La prima testimonianza esplicita sulla fine di san Paolo ci viene dalla metà degli anni 90 del secolo I, quindi poco più di tre decenni dopo la sua morte effettiva. Si tratta precisamente della Lettera che la Chiesa di Roma, con il suo Vescovo Clemente I, scrisse alla Chiesa di Corinto. In quel testo epistolare si invita a tenere davanti agli occhi l’esempio degli Apostoli, e, subito dopo aver menzionato il martirio di Pietro, si legge così: « Per la gelosia e la discordia Paolo fu obbligato a mostrarci come si consegue il premio della pazienza. Arrestato sette volte, esiliato, lapidato, fu l’araldo di Cristo nell’Oriente e nell’Occidente, e per la sua fede si acquistò una gloria pura. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, e dopo essere giunto fino all’estremità dell’occidente, sostenne il martirio davanti ai governanti; così partì da questo mondo e raggiunse il luogo santo, divenuto con ciò il più grande modello di pazienza » (1 Clem 5,2). La pazienza di cui il testo parla è espressione della comunione di Paolo alla passione di Cristo, della generosità e costanza con la quale ha accettato un lungo cammino di sofferenza, così da poter dire: «Io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo» (Gal 6,17). Abbiamo sentito nel testo di san Clemente che Paolo sarebbe arrivato fino all’«estremità dell’occidente». Si discute se questo sia un accenno a un viaggio in Spagna che san Paolo avrebbe fatto. Non esiste certezza su questo, ma è vero che san Paolo nella sua Lettera ai Romani esprime la sua intenzione di andare in Spagna (cfr Rm 15,24).
Molto interessante invece è nella lettera di Clemente il succedersi dei due nomi di Pietro e di Paolo, anche se essi verranno invertiti nella testimonianza di Eusebio di Cesarea del secolo IV, che parlando dell’imperatore Nerone scriverà: « Durante il suo regno Paolo fu decapitato proprio a Roma e Pietro vi fu crocifisso. Il racconto è confermato dal nome di Pietro e di Paolo, che è ancor oggi conservato sui loro sepolcri in quella città » (Hist. eccl. 2,25,5). Eusebio poi continua riportando l’antecedente dichiarazione di un presbitero romano di nome Gaio, risalente agli inizi del secolo II: « Io ti posso mostrare i trofei degli apostoli: se andrai al Vaticano o sulla Via Ostiense, vi troverai i trofei dei fondatori della Chiesa » (ibid. 2,25,6-7). I « trofei » sono i monumenti sepolcrali, e si tratta delle stesse sepolture di Pietro e di Paolo, che ancora oggi noi veneriamo dopo due millenni negli stessi luoghi: sia qui in Vaticano per quanto riguarda san Pietro, sia nella Basilica di San Paolo fuori le Mura sulla Via Ostiense per quanto riguarda l’Apostolo delle genti.
È interessante rilevare che i due grandi Apostoli sono menzionati insieme. Anche se nessuna fonte antica parla di un loro contemporaneo ministero a Roma, la successiva coscienza cristiana, sulla base del loro comune seppellimento nella capitale dell’impero, li assocerà anche come fondatori della Chiesa di Roma. Così infatti si legge in Ireneo di Lione, verso la fine del II secolo, a proposito della successione apostolica nelle varie Chiese: « Poiché sarebbe troppo lungo enumerare le successioni di tutte le Chiese, prenderemo la Chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la Chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo » (Adv. haer. 3,3,2).
Lasciamo però da parte adesso la figura di Pietro e concentriamoci su quella di Paolo. Il suo martirio viene raccontato per la prima volta dagli Atti di Paolo, scritti verso la fine del II secolo. Essi riferiscono che Nerone lo condannò a morte per decapitazione, eseguita subito dopo (cfr 9,5). La data della morte varia già nelle fonti antiche, che la pongono tra la persecuzione scatenata da Nerone stesso dopo l’incendio di Roma nel luglio del 64 e l’ultimo anno del suo regno, cioè il 68 (cfr Gerolamo, De viris ill. 5,8). Il calcolo dipende molto dalla cronologia dell’arrivo di Paolo a Roma, una discussione nella quale non possiamo qui entrare. Tradizioni successive preciseranno due altri elementi. L’uno, il più leggendario, è che il martirio avvenne alle Aquae Salviae, sulla Via Laurentina, con un triplice rimbalzo della testa, ognuno dei quali causò l’uscita di un fiotto d’acqua, per cui il luogo fu detto fino ad oggi « Tre Fontane » (Atti di Pietro e Paolo dello Pseudo Marcello, del secolo V). L’altro, in consonanza con l’antica testimonianza, già menzionata, del presbitero Gaio, è che la sua sepoltura avvenne non solo « fuori della città… al secondo miglio sulla Via Ostiense », ma più precisamente « nel podere di Lucina », che era una matrona cristiana (Passione di Paolo dello Pseudo Abdia, del secolo VI). Qui, nel secolo IV, l’imperatore Costantino eresse una prima chiesa, poi grandemente ampliata tra il secolo IV e V dagli imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio. Dopo l’incendio del luglio 1823, fu qui eretta l’attuale basilica di San Paolo fuori le Mura.
In ogni caso, la figura di san Paolo grandeggia ben al di là della sua vita terrena e della sua morte; egli infatti ha lasciato una straordinaria eredità spirituale. Anch’egli, come vero discepolo di Gesù, divenne segno di contraddizione. Mentre tra i cosiddetti « ebioniti » – una corrente giudeo-cristiana – era considerato come apostata dalla legge mosaica, già nel libro degli Atti degli Apostoli appare una grande venerazione verso l’Apostolo Paolo. Vorrei prescindere ora dalla letteratura apocrifa, come gli Atti di Paolo e Tecla e un epistolario apocrifo tra l’Apostolo Paolo e il filosofo Seneca. Importante è constatare soprattutto che ben presto le Lettere di san Paolo entrano nella liturgia, dove la struttura profeta-apostolo-Vangelo è determinante per la forma della liturgia della Parola. Così, grazie a questa « presenza » nelle celebrazioni liturgiche della Chiesa, il pensiero dell’Apostolo diventa da subito nutrimento spirituale dei fedeli di tutti i tempi.
E’ ovvio che i Padri della Chiesa e poi tutti i teologi si siano nutriti delle Lettere di san Paolo e della sua spiritualità. Egli è così rimasto nei secoli, fino ad oggi, il vero maestro e apostolo delle genti. Il primo commento patristico, a noi pervenuto, su uno scritto del Nuovo Testamento è quello del grande teologo alessandrino Origene, che commenta la Lettera di Paolo ai Romani. Tale commento purtroppo è conservato solo in parte. San Giovanni Crisostomo, oltre a commentare le sue Lettere, ha scritto di lui sette Panegirici memorabili. Sant’Agostino dovrà a lui il passo decisivo della propria conversione, e a Paolo egli ritornerà durante tutta la sua vita. Da questo dialogo permanente con l’Apostolo deriva la sua grande teologia della grazia, che è rimasta fondamentale per la teologia cattolica e anche per quella protestante di tutti i tempi. San Tommaso d’Aquino ci ha lasciato un bel commento alle Lettere paoline, che rappresenta il frutto più maturo dell’esegesi medioevale. Una vera svolta si verificò nel secolo XVI con la Riforma protestante. Il momento decisivo nella vita di Lutero, fu il cosiddetto «Turmerlebnis» (forse 1517), nel quale in un attimo egli trovò una nuova interpretazione della dottrina paolina della giustificazione. Una interpretazione che lo liberò dagli scrupoli e dalle ansie della sua vita precedente e gli diede una nuova, radicale fiducia nella bontà di Dio che perdona tutto senza condizione. Da quel momento Lutero identificò il legalismo giudeo-cristiano, condannato dall’Apostolo, con l’ordine di vita della Chiesa cattolica. E la Chiesa gli apparve quindi come espressione della schiavitù della legge alla quale oppose la libertà del Vangelo. Il Concilio di Trento (1545 – 1563) interpretò in modo profondo la questione della giustificazione e trovò nella linea di tutta la tradizione cattolica la vera sintesi tra Legge e Vangelo, in conformità col messaggio della Sacra Scrittura letta nella sua totalità e unità.
Il secolo XIX, raccogliendo l’eredità migliore dell’Illuminismo, conobbe una nuova reviviscenza del paolinismo soprattutto sul piano del lavoro scientifico sviluppato dall’interpretazione storico-critica della Sacra Scrittura. Prescindiamo qui dal fatto che anche in quel secolo, come poi nel secolo ventesimo, emerse una vera e propria denigrazione di san Paolo. Penso soprattutto a Nietzsche che derideva la teologia dell’umiltà di san Paolo, opponendo ad essa la sua filosofia dell’uomo forte e potente: il superuomo. Prescindiamo da questo e vediamo la corrente essenziale della nuova interpretazione scientifica della Sacra Scrittura e del nuovo paolinismo del secolo XX. Qui è stato sottolineato soprattutto come centrale nel pensiero paolino il concetto di libertà: in esso è stato visto il cuore del pensiero paolino, come del resto aveva già intuito Lutero. Ora però il concetto di libertà veniva reinterpretato nel contesto del liberalismo moderno. E poi è sottolineata fortemente la differenziazione tra l’annuncio di san Paolo e l’annuncio di Gesù. E san Paolo appare quasi come un nuovo fondatore del cristianesimo. Vero è che in san Paolo la centralità del Regno di Dio, determinante per l’annuncio di Gesù, viene trasformata nella centralità della cristologia, il cui punto determinante è il mistero pasquale. E dal mistero pasquale risultano i Sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia, come presenza permanente di questo mistero, dal quale cresce il Corpo di Cristo, si costruisce la Chiesa. Ma direi, senza entrare adesso in dettagli, che proprio nella nuova centralità della cristologia e del mistero pasquale si realizza il Regno di Dio, diventa concreto, presente, operante l’annuncio autentico di Gesù. Abbiamo visto nelle catechesi precedenti che proprio questa novità paolina è la fedeltà più profonda all’annuncio di Gesù. Nel progresso dell’esegesi, soprattutto negli ultimi duecento anni, crescono anche le convergenze tra esegesi cattolica ed esegesi protestante realizzando così un notevole consenso proprio nel punto che fu all’origine del massimo dissenso storico: la giustificazione. Emerge così una grande speranza per la causa dell’ecumenismo, così centrale per il Concilio Vaticano II.
Brevemente vorrei alla fine ancora accennare ai vari movimenti religiosi, sorti in età moderna all’interno della Chiesa cattolica, che si rifanno al nome di san Paolo. Così è avvenuto nel secolo XVI con la « Congregazione di san Paolo » detta dei Barnabiti, nel secolo XIX con i « Missionari di san Paolo » o Paulisti, e nel secolo XX con la poliedrica « Famiglia Paolina » fondata dal Beato Giacomo Alberione, per non dire dell’Istituto Secolare della « Compagnia di san Paolo ». In buona sostanza, resta luminosa davanti a noi la figura di un apostolo e di un pensatore cristiano estremamente fecondo e profondo, dal cui accostamento ciascuno può trarre giovamento. In uno dei suoi panegirici, San Giovanni Crisostomo instaura un originale paragone tra Paolo e Noè, esprimendosi così: Paolo « non mise insieme delle assi per fabbricare un’arca; piuttosto, invece di unire delle tavole di legno, compose delle lettere e così strappò di mezzo ai flutti, non due, tre o cinque membri della propria famiglia, ma l’intera ecumene che era sul punto di perire » (Paneg. 1,5). Proprio questo può ancora e sempre fare l’apostolo Paolo. Attingere a lui, tanto al suo esempio apostolico quanto alla sua dottrina, sarà quindi uno stimolo, se non una garanzia, per il consolidamento dell’identità cristiana di ciascuno di noi e per il ringiovanimento dell’intera Chiesa.

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