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SENZA UMILTÀ LA PREGHIERA DEGENERA IN PRESUNZIONE – LECTIO DIVINA PER LA XXX DOMENICA DEL T.O.

http://www.zenit.org/it/articles/senza-umilta-la-preghiera-degenera-in-presunzione

SENZA UMILTÀ LA PREGHIERA DEGENERA IN PRESUNZIONE

LECTIO DIVINA DI MONSIGNOR FRANCESCO FOLLO PER LA XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

ROMA, 24 OTTOBRE 2013 (ZENIT.ORG) FRANCESCO FOLLO

Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la XXX.ma domenica del Tempo Ordinario – Anno C.
Come di consueto, il presule propone anche una lettura spirituale.
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Senza umiltà la preghiera degenera in presunzione

Rito romano
XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 27 ottobre 2013

Sir 35, 15-17.20-22; Sal 33; 2 Tm 4,6-8.16-18; Lc 18, 9-14

Rito ambrosiano
I Domenica dopo la Dedicazione del Duomo di Milano,
At 13,1-5a; Sal 95; Rm 15,15-20; Mt 28,16-20

            1) LA PREGHIERA DEVE ESSERE UMILE.

            La Liturgia della Parola di Domenica scorsa ci ha insegnato che la preghiera per essere vera deve essere pura, fiduciosa, vigilante e costante. Oggi la stessa Liturgia completa l’insegnamento, sottolineando che la preghiera è vera quando è umile.
            Nell’introduzione al commento del Padre Nostro, San Tommaso d’Aquino scrive: “La preghiera deve essere umile perché Dio “si volge alla preghiera dell’umile e non disprezza la sua supplica” (Sal 102,18). Vedi anche la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,10 14) e la preghiera di Giuditta: “Tu sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti” (Gdt 9,11). ?E questa umiltà è osservata nel Padre nostro. Infatti, si ha vera umiltà quando uno non presume assolutamente nelle proprie forze, ma aspetta tutto dalla potenza divina alla quale si rivolge supplichevole”.
            Per pregare in verità occorre l’umiltà che rende contrito il cuore e avvicina Dio all’uomo, come dice il Salmo: “Dio è vicino a chi ha il cuore spezzato, salva gli spiriti affranti, riscatta la vita dei suoi servi; non condanna chi in lui si rifugia » (Sal 33/34, 19 e 23). Questo salmo ci può anche aiutare a capire bene la parabola evangelica del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-11), che ci è proposta in questa Domenica e che ci parla della preghiera umile. Un’umiltà espressa non solo dalle parole usate dal pubblicano ma anche dall’atteggiamento di quest’uomo, che si riconosce peccatore. Quando preghiamo, non conta solamente quello che diciamo al Signore, ma come Glielo diciamo. E’ in gioco “il come” viviamo il nostro rapporto con Dio.
            Di conseguenza, ciò che va corretto o migliorato nella nostra preghiera non sono le parole che diciamo, ma il modo di vivere la nostra relazione con Dio, magari iniziando il nostro momento di raccoglimento dicendo: “Signore, prima di parlare con me, perdonami” (Antequam discutias mecum, Domine, miserere mei -Antifona ambrosiana).
            Esaminiamo ora brevemente i due protagonisti di questo racconto evangelico.
            Iniziamo dal fariseo, che dalla mentalità corrente è considerato il vero praticante. Quest’uomo osserva scrupolosamente le pratiche della sua religione e ha molto spirito di sacrificio. Non si accontenta dello stretto necessario, ma fa di più. Non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come prescriveva la legge, ma due.
            Però Cristo dice che costui non è giustificato, non è salvato. Perché? Egli osserva tutte le prescrizioni della legge e non può essere accusato di essere ipocrita, ma commette l’errore di essere sicuro della propria giustizia. Si ritiene in credito presso Dio: non attende la Sua misericordia, non attende la salvezza come un dono gratuito, immeritato, ma piuttosto come una ricompensa dovuta per il dovere compiuto. Dice: «O Dio, ti ringrazio» e Gli fa l’elenco di quanto lui sa fare nella sua vita di praticante, facendo in tal modo presente a Dio la propria giustizia. Ma ha di fatto perduto l’originaria e gratuita dipendenza da Dio che ci è Padre perché ci ama e non perché “deve” ripagarci di quanto abbiamo fatto. Tanto è vero che questo fariseo a parte quel «ti ringrazio» detto all’inizio non prega: non guarda a Dio, non si confronta con Lui, non attende nulla da Lui, né gli chiede nulla. Si concentra su di sé e si confronta con gli altri, giudicandoli duramente. In questo suo atteggiamento non c’è nulla della preghiera. Non chiede nulla, e Dio non gli dà nulla.
            Passiamo ora al secondo personaggio della parabola: un pubblicano che sale al tempio a pregare, e il cui atteggiamento è esattamente l’opposto di quello del fariseo. Si ferma a distanza, si batte il petto e dice: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»[1] (Lc 18, 13). Riconoscendosi peccatore dice la verità: è al soldo dei romani invasori e pagani, ed è esoso nell’esigere le tasse. E’ certamente un peccatore, ma è consapevole di esserlo peccatore, si sente bisognoso di cambiamento e, soprattutto, sa di non poter pretendere nulla da Dio. Non ha nulla da vantare, non ha nulla da pretendere. Può solo chiedere. Conta su Dio, non su se stesso. Quest’uomo ha il capo chinato ma il cuore è proteso verso l’Alto, da cui attende la misericordia.
            La conclusione è chiara e semplice: l’unico modo corretto di mettersi di fronte a Dio nella preghiera e, ancor prima, nella vita è quello di sentirsi costantemente bisognosi del Suo perdono e del Suo amore. Le opere buone dobbiamo farle, ma non è il caso di vantarle. Come pure non è il caso di fare confronti con gli altri.

            2) IL PERDONO RICREA
            Dunque, il pubblicano “tornò a casa sua giustificato”. Fu perdonato non perché migliore o più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l’umiltà), ma perché si aprì – come una porta che si socchiude al sole – a un Dio più grande del suo peccato, a un Dio che non si merita, ma si accoglie, a un Dio che con il perdono ricrea e rende il cuore del pubblicano innocente come quello di un bambino.
            Come Dio ha reso “giusto” il pubblicano peccatore, egli è “propizio” a noi quali peccatori sinceramente pentito, e saremo resi “giusti”, cioè riammessi nella divina amicizia, resi santi, purificati, restituiti alla vita di fede.
            Il fariseo è condannato. Perché? Perché disse “non sono rapace, ingiusto, adultero come il resto degli uomini” – e fin qui la genericità non offende nessuno – ma proseguì “o anche come questo Pubblicano” (Lc 18, 11). Così si mise contro il suo prossimo, lontano e vicino, nell’ingiustizia versi di esso e, quindi, verso Dio, che aveva detto: “Misericordia voglio più che sacrificio” (Os 6,6, ) e lo aveva confermato per bocca del Suo Figlio: “Andate e imparate che significa. Misericordia voglio, più che sacrificio” (Mt 9,13) e insistito: “Se voi aveste compreso che significa: Misericordia voglio più che sacrificio allora non avreste condannato gli innocenti” (Mt 12,7). Il peccato del fariseo formalmente sta nella condanna del fratello, ma soprattutto nella causa di questa condanna: “Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarò esaltato (Lc 18, 14). E la stessa frase già usata per gli invitati presuntuosi che volevano occupare i posti migliori al banchetto (cfr. Lc 14, 11).
            Imitiamo Cristo che non esaltò se stesso anzi si “svuotò” la sua Divinità nella più abbietta umiliazione quella della croce. Per questo Dio l’ha esaltato sopra ogni altro nome (cfr. Fil 2.)
            Le Vergini consacrate sono chiamate a vivere in modo speciale quest’umiltà di Cristo nella preghiera e nella vita. Queste donne hanno accolto in modo particolare l’invito del Salvatore: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo alle anime vostre» (Mt 11, 29). “E se vuoi conoscere il nome di questa virtù, cioè come essa è chiamata dai filosofi, sappi che l’umiltà su cui Dio rivolge il suo sguardo è quella stessa virtù che i filosofi chiamano atyphía oppure metriótês. Noi possiamo peraltro definirla con una perifrasi: l’umiltà è lo stato di un uomo che non si gonfia, ma si abbassa. Chi infatti si gonfia, cade, come dice l’Apostolo, «nella condotta del diavolo» – il quale appunto ha cominciato col gonfiarsi di superbia -; l’Apostolo dice: «Per non incappare, gonfiato d’orgoglio, nella condanna del diavolo» (I Tm 3, 6).«Ha guardato l’umiltà della sua ancella»: Dio mi ha guardato dice Maria – perché sono umile e perché ricerco la virtù della mitezza e del nascondimento”. (Origene, Omelie sul Vangelo di Luca, VIII, 5-6). Questa umiltà le rende spiritualmente feconde. Esse vivono il modo particolare lo spirito della Vergine Maria e “se secondo la carne, una sola fu la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo: ognuna infatti accogli in sé il Verbo di Dio” (Sant’Ambrogio di Milano, Esposizione del Vangelo secondo Luca, 2, 26-27). Nella preghiera di invio il Vescovo prega su di loro: “Gesù nostro Signore, fedele sposo di quelle che a Lui sono consacrate, vi doni, con la sua Parola, una vita felice e feconda” (Rituale di Consacrazione delle Vergini, n. 77). In tal modo, invita loro, e con il loro esempio invita ciascuno di noi, a fare in modo che nel nostro cuore, nella nostra vita il Signore trovi la sua dimora. Ma non solo dobbiamo portarlo nel cuore, dobbiamo “generarlo” e portarlo nel nostro tempo e nel mondo intero.
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LETTURA SPIRITUALE
CARD. JOHN-HENRI NEWMAN
UMILTÀ DI SPIRITO E SANTITÀ
Le parole del pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me che sono peccatore » (Lc, 18, 13) ci danno quella che potremmo chiamare la nota caratteristica della religione cristiana, la nota che la distingue dalle altre forme di culto e scuole religiose diffuse sulla terra nell’antichità e in epoche più recenti. Si tratta di una confessione del peccato e di una implorazione di grazia. I concetti di trasgressione e di perdono non furono certo introdotti dal cristianesimo né rimasero ignorati al di fuori della sua influenza. È facile anzi osservare che simboli della colpa e dell’impurità come pure riti di riparazione e di espiazione sono, più o meno, comuni a ogni religione. Ma la particolare caratteristica della nostra fede, e, prima ancora, della fede ebraica, consiste in questo: il riconoscimento del peccato si connette all’idea stessa della più eccelsa santità, e i credenti esemplari, come anche gli eroi della storia della Chiesa, sono ed altro non possono essere che creature redente, peccatori riconquistati alla grazia. Il ricordo eterno di quello che sono stati è caro ai loro cuori ed essi ne portano con sé anche in cielo l’estatica, aperta confessione.
È una confessione che non esce unicamente dalle labbra dei catecumeni o di chi è caduto; non è neppure esclusiva proprietà della gente comune, sempre alle prese con ogni sorta di tentazione nel vasto mondo. Anche i santi, per quanto avanzati siano nelle vie dello spirito, non sollevano mai il capo dalla loro posizione di supplica né mai cessano di battersi il petto nel tentativo di allontanare da sé il peccato, nei giorni dell’esistenza terrena. Gli stessi beati delle schiere celesti, che «hanno imbiancato le loro vesti nel san­gue dell’Agnello (Ap., 7, 14), mai non dimenticano la propria origine; si confessano, tutti e ciascuno, figli di Adamo e della stessa natura dei loro fratelli, pieni di debolezze per quanto grande sia stata la grazia loro concessa e la generosità con cui le hanno corrisposto. Gli altri potranno guardarli con ammirazione, ma essi guardano a Dio; gli altri potranno lodarne i meriti, ma essi continuano a par­lare solo delle proprie infedeltà. I giovani senza macchia come i vecchi pieni di esperienza, colui che meno ha peccato come colui che più sinceramente si è pentito, i freschi volti innocenti come le fronti canute, si uniscono nell’unica supplica: « O Dio, sii propizio a me peccatore! ».
Questa profonda umiltà è l’insegna e il pegno più caratteristico dei servi di Cristo, come il Signore stesso, che disse: «Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori » (Mt., 9, 13), lo riconosce e lo conferma concludendo la sua parabola: « Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato » (Lc, 18, 14).
Siamo, lo si vede, molto lontani dal riconoscimento puramente generale della colpevolezza dell’uomo e del bisogno di espiazione proprio delle antiche religioni, popolari in altri tempi e ancor oggi esistenti nel mondo. Per esse la colpa è un peso che incombe sull’individuo singolo, su determinati paesi, sulla condotta di un popolo, sugli stati o sui loro governanti: i colpevoli sono tenuti ad espiare. In taluni casi l’espiazione ha carattere cultuale, e cioè un rito di chi si avvicina per esempio al sacrificio o viene introdotto ad una funzione sacra, più che un atto veramente personale. Si tratta senza alcun dubbio di antichi avanzi della vera religione, di testimonianze in favore di essa, non prive di utilità in sé e in quello che sottintendono. Ma non si elevano certo al grado di chiarezza e di perfezione pro­prio dell’insegnamento cristiano: «Non vi è alcun giusto, neppure uno » (Rom., 3, 10) – « Tutti hanno peccato e rimangono lontani dalla gloria di Dio (Rom., 3, 23) – « Egli ci salvò non per opere di giustizia fatte da noi ma secondo la sua misericordia » (Tt., 3, 5) – insegna san Paolo. Gli aderenti ad altre religioni e filosofie hanno pensato e pensano che, se numerosi sono i cattivi, ci sono anche dei buoni, sia pure in piccolo numero. Gli spiriti più eletti poi, elaborando i concetti della massa ignorante e illusa, e lasciando addirittura da parte il concetto di colpa, sono assurti ad una concezione dell’uomo fatta di verità e di sapienza, perfetta e immutabile. Le loro descrizioni di personaggi religiosamente perfetti sono spesso ammirevoli e si prestano ad essere interpretate in modo assai istruttivo: hanno però un grave difetto, di non fare cioè alcun accenno al peccato e di non annoverare il pentimento e l’umiliazione tra le qualità dell’uomo virtuoso.
(Estratto dal Sermone: The Religion of the Pharisee, the Religion of Mankind, 1856 SVO, 2, 15-29)
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NOTE

[1] Il testo greco dice: “O Dio, sii propizio a me, peccatore.”: La formula viene anche dai Salmi (50,1; 78,9). Sono parole che escono dal cuore contrito e umiliato. Il pubblicano non sa dire di più, perché davanti alla Presenza santa le parole mancano dolorosamente. Inoltre lui sa che le parole non a nulla servirebbero. Si rimette semplicemente al suo Dio, nella trepida fiducia, sapendo che Lui scruta i cuori e i reni degli uomini, tutto comprende e, se vuole, tutto perdona: tutti riconcilia. 

Publié dans:LA PREGHIERA (SULLA), LECTIO DIVINA |on 25 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

BRANO BIBLICO SCELTO: 2 TIMOTEO 4,6-8.16-18

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=2%20Timoteo%204,6-8.16-18

BRANO BIBLICO SCELTO: 2 TIMOTEO 4,6-8.16-18

Carissimo, 6 il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. 7 Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.
8 Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione.
16 Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto di loro. 17 Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone.
 18 Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

COMMENTO
2 Timoteo 4,6-8.16-18
La corona di giustizia
La lettera si apre con il prescritto e il ringraziamento epistolare, nel quale l’autore ricorda la fede di Timoteo, ricevuta dalla madre e dalla nonna (1,1-5). Viene poi il corpo della lettera in cui sono svolti i seguenti temi: A. Il vero pastore (1,6-18); B. Il comportamento di  Timoteo (2,1-26); C. Gli ultimi tempi (3,1-17); D) Il testamento di Paolo (4,1-18). Il testo liturgico riprende la seconda parte del testamento di Paolo, dove l’Apostolo fa una sintesi del suo apostolato (vv. 6-8) e dà a Timoteo le sue ultime istruzioni (vv. 16-18). Vengono omessi i vv. 9-15 che contengono l’indicazione di alcuni compiti specifici affidati a Timoteo.
Paolo rivolge anzitutto lo sguardo al passato: «Io infatti sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (vv. 6-7). Paolo è ormai alla vigilia del martirio o dell’esecuzione capitale e  dà una visione retrospettiva della sua attività. Il modello qui adottato è quello dei discorsi di addio, che viene utilizzato per esempio nel saluto di Paolo ai presbiteri di Mileto, dove ricorre la stessa immagine della corsa (cfr. At 20,24). Da questo genere letterario deriva il tono elogiativo con cui si presenta la vita passata dell’Apostolo. La prospettiva della morte imminente è evocata con le immagini del sacrificio e della partenza, mutuate dalla lettera ai Filippesi (cfr. Fil 1,23; 2,17). La morte dell’apostolo è presentata come un sacrificio: nella tradizione giudeo-ellenistica e, più tardi, in quella rabbinica, la morte del martire è interpretata come un sacrificio in quanto riconcilia il popolo con Dio. Essa è anche l’approdo alla meta definitiva. Riguardo al passato, la vita apostolica di Paolo è descritta come una battaglia e come una competizione sportiva. Il linguaggio è quello adottato da Paolo stesso, che paragona l’impegno e il rischio della sua missione apostolica alle gare nello stadio (cfr. 1Cor 9,24-27). Lo stesso linguaggio è adottato anche altrove nella Pastorali (cfr. 1Tm 6,12;  2Tm 2,5). Secondo una formula fissa, in uso nei pubblici riconoscimenti, si afferma che Paolo ha «tenuto fede» agli impegni di apostolo, missionario e maestro. Anche questo motivo della fedeltà o pieno compimento della missione rientra nel linguaggio dei discorsi di addio (cfr. At 20,20.27; Gv 17,4.6). Egli diventa così il modello o prototipo dei pastori e di tutti i credenti non solo nella sua vita e attività, ma anche nella sua morte.
 Lo sguardo si rivolge poi al futuro, con il ricorso nuovamente alle immagini delle gare sportive o della lotta: «Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione» (v. 8). Al vincitore spetta l’incoronazione con il serto di alloro o con rami di sempreverde. Il simbolo della corona per l’ambiente greco-ellenistico è carico di connotazioni come onore, gioia, immortalità e trionfo. La corona viene qualificata con il genitivo «di giustizia»: non si tratta dunque di un riconoscimento umano, ma di quello che viene da Dio, basato sull’acquisizione della giustizia in quanto rapporto pieno con lui. Questa corona verrà conferita nel contesto escatologico dal Signore, che allora si manifesterà come «giusto giudice», che non delude quelli che per lui si sono impegnati senza riserve. La sorte di Paolo è un pegno per tutti i credenti che sono solidali con il suo destino (cfr. 1Ts 2,19). Essi sono definiti come quelli che vivono nell’attesa della gloriosa manifestazione del Signore. È scomparsa la componente di impazienza che deriva dalla credenza in un imminente ritorno del Signore, lasciando il posto all’impegno quotidiano per vivere secondo gli insegnamenti e l’esempio di Gesù.
Nei versetti omessi dalla liturgia, Paolo esorta Timoteo a raggiungerlo comunicandogli che i suoi compagni Dema, Crescente e Tito lo hanno lasciato solo. Con lui c’è solo Luca. A Timoteo dice ancora di portare con sé Marco e accenna all’invio di Tichico a Efeso. E aggiunge di portargli il mantello e le pergamene che ha lasciato a Troade e infine lo mette in guardia nei confronti di Alessandro. Questi accenni, che dovrebbero essere le prove dell’autenticità della lettera, sono invece chiaramente artificiosi e si riferiscono a situazioni non controllabili, anzi a volte inverosimili, soprattutto nel caso di uno che sta per essere giustiziato.
Nella seconda parte del brano si ritorna sulla situazione attuale dell’Apostolo: «Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto» (v. 16). In questo sfogo si sente il rammarico per l’abbandono da parte dei suoi. Verso di loro Paolo ha parole di perdono. È difficile sapere se si tratta di un ricordo storico o del semplice motivo del giusto abbandonato dai suoi amici, come era stato per Gesù. La solitudine di Paolo è riempita dalla vicinanza del Signore: «Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone» (v. 17). Paolo è consapevole che solo con la grazia di Dio ha potuto portare a termine la sua missione. Questo risultato è espresso con l’immagine della lotta vittoriosa dei gladiatori contro i leoni nel circo. Non si tratta però di una vittoria umana, bensì del successo dell’opera di evangelizzazione, che può benissimo coesistere con l’imminente martirio.
L’esperienza del conforto che gli viene dal Signore apre infine il cuore alla speranza: «Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen» (v. 18). La liberazione a cui tende l’Apostolo non è più quella che si attua in questo mondo ma quella che consiste nell’ingresso nel regno, che appare ormai come una realtà che ha sede nei cieli. Alla visione del regno come trasformazione di questo mondo si è ormai sostituita quella di una nuova situazione che si raggiunge dopo la morte, quando l’anima si ricongiunge definitivamente con Dio.

Linee interpretative
In questo brano si tende ad avvalorare l’autenticità paolina della lettera, mentre invece esso ne dimostra chiaramente l’origine tardiva, pur situandosi nell’alveo della tradizione paolina. La figura idealizzata di Paolo, il martire fedele e coraggioso, viene riproposta plasticamente ai cristiani grazie ad alcuni dati biografici ripresi e rielaborati dalle fonti tradizionali paoline, lettere e Atti degli Apostoli. In tal modo l’insegnamento dell’apostolo assume un valore permanente e la sua vicenda diventa paradigmatica per tutti i cristiani. Quello che si sottolinea maggiormente è la sua fedeltà fino alla fine nel compimento della missione a lui affidata di annunziatore del vangelo.
Questa rilettura idealizzata di Paolo, il prigioniero del Signore e il testimone fedele, si ispira al modello biblico del giusto abbandonato dagli amici e vicini, attaccato dai suoi nemici, il quale ripone la sua fiducia solo in Dio che lo protegge e lo libera e così alla fine può rendere grazie a Dio. Sullo sfondo di questo schema letterario diventa perfettamente plausibile la contrapposizione tra l’abbandono di tutti e la presenza del Signore che dà all’apostolo la forza per la testimonianza evangelica e alla fine lo salva in modo definitivo, conferendogli una vita nuova nel suo regno. Questa presentazione deve servire come incoraggiamento ai cristiani che come lui testimoniano il vangelo in mezzo alle sofferenze e alle contraddizioni di questo mondo.

27 OTTOBRE 2013 – 30A DOMENICA : « DUE UOMINI SALIRONO AL TEMPIO A PREGARE »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/05-Ordinario/Omelie/30-Domenica-2013-C/30-Domenica-2013_C-SC.html

27  OTTOBRE 2013  | 30A DOMENICA – T. ORDINARIO C  |  APPUNTI ESEGESITICO-SPIRITUALI

« DUE UOMINI SALIRONO AL TEMPIO A PREGARE »

C’è una certa continuità fra le letture della passata Domenica e quelle di oggi: è ancora il tema della preghiera, infatti, che ritorna con insistenza, sia pure da un particolare angolo visuale, che è quello della speciale attenzione che Dio rivolge alla preghiera dell’umile e del « povero ».
È quanto si ricava dalla prima lettura, ripresa dal Siracide, in cui l’autore, Ben Sira (II sec. a.C.), ammonisce i suoi lettori a non lasciarsi ingannare da un certo ritualismo liturgico, quasi che offrire a Dio sacrifici più ricchi, frutti forse di ingiustizia o di oppressione, renda accetti davanti a lui. Al contrario, egli si china di preferenza sulla preghiera del povero, della vedova e dell’oppresso, proprio perché fatta con sincerità e semplicità. Dio, che è giusto « giudice », guarda infatti alle vere intenzioni del cuore e non può lasciarsi « corrompere » dai doni di chi è più ricco!
« Non cercare di corromperlo con doni, non accetterà…, perché il Signore è giudice e non v’è presso di lui preferenza di persone. Non è parziale con nessuno contro il povero, anzi ascolta proprio la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano né della vedova, quando si sfoga nel lamento… La preghiera dell’umile penetra le nubi, finché non sia arrivata non si contenta… » (Sir 35,11-14.17-18).
Si noti come la preghiera viene qui personificata: è una forza penetrante, che attraversa perfino le « nubi » e non si arrende fino a che Dio non abbia « reso soddisfazione » ai « poveri » che l’invocano. Una preghiera « disarmata » quella dei poveri, ma onnipotente presso Dio!

« Gesù disse una parabola per alcuni
che presumevano di essere giusti »
Qualcosa di simile ritroviamo nella efficacissima parabola lucana del fariseo e del pubblicano: anche qui la preghiera del povero, non tanto in senso materiale quanto in senso spirituale, religioso e sociale (il pubblicano), viene accolta da Dio, mentre viene respinta quella di chi si riteneva ricco di meriti e di opere buone (il fariseo).
Però il significato della parabola non si esaurisce qui: esso è molto più vasto, sia per quanto riguarda il tema specifico della preghiera, sia per una intuizione teologica più profonda che dà senso alla stessa preghiera, come vedremo subito.
« Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri: « Due uomini salirono al tempio a pregare: uno dei due era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano… Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altra, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato »" (Lc 18,9-14).
Stando alle indicazioni più ovvie del testo, sembra che tutta la forza della parabola consista nella denuncia di un atteggiamento di « autosufficienza » e di « autogiustificazione » dell’uomo davanti a Dio. Infatti, proprio all’inizio, l’Evangelista sottolinea che Gesù disse questa parabola « per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri » (v. 9).
Chi siano questi pretesi « giusti » non è detto in maniera esplicita, ma si tratta certamente dei farisei: la parabola che segue ce ne delinea uno che esprime in maniera perfetta il tipo di « giustizia » che essi rivendica vano per se stessi. Del resto, non molto prima Gesù aveva lanciato contro i farisei quest’accusa: « Voi vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio » (Lc 16,15). La conclusione della parabola, poi, in forma anche più esplicita condanna questo senso di autosufficienza del fariseo davanti a Dio: « Io vi dico: questi tornò a casa giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato » (Lc 18,14).
Anche nella terminologia (« giustificare ») Luca si avvicina al suo grande maestro, S. Paolo, che ha posto al centro della propria riflessione teologica la « giustificazione » per la fede senza le opere della Legge: « Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio… giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia… Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù » (Rm 3,22-26).
Il dato fondamentale dunque della fede, per Paolo, è che « tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio » (v. 23); se una « giustizia » pertanto può avere l’uomo, non potrà mai essere la sua, ma quella che Dio gli dona gratuitamente, salvandolo in Cristo.
Una « giustizia » proveniente dall’uomo, oltre che essere smentita dall’esperienza della storia sia d’Israele che del mondo pagano, come Paolo dimostra in forma drammatica nella già citata lettera ai Romani (1,18-3,20), di fatto ridurrebbe Dio a un semplice « contabile » dei meriti dell’uomo: peggio ancora, a un essere inutile e ingombrante. Infatti, se l’uomo riesce a salvarsi da sé, che bisogno c’è ancora di Dio? E che senso avrebbe, in una ipotesi del genere, la figura stessa di Cristo? Certo, una luce in più nel quadro della nostra storia, ma non sarebbe il punto « nodale » della salvezza di tutti, e perciò neppure Qualcuno che trascende la storia stessa.
Basta aver accennato a questi problemi teologici, che tormentavano Paolo, per sentirne tutta l’urgenza e l’attualità: l’uomo moderno più che mai è tentato di cercare la salvezza in se stesso, di crearsi una propria « giustizia » facendo a meno di Dio e di Cristo.
Praticamente, potremmo dire che il fariseo della parabola, a prescindere dallo strano rivestimento religioso del suo atteggiamento, è il prototipo dell’uomo « secolare » di questo nostro tempo. Infatti egli non ha nulla da chiedere a Dio nella sua preghiera: soltanto ha da « vantarsi » delle numerose opere di bene compiute: « O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo » (Lc 18,11-12). Egli non solo osserva la Legge (non ruba, non è adultero, ecc.), ma fa più di quello che essa impone: digiuna due volte la settimana, lunedì e giovedì, mentre la Legge esigeva il digiuno solo una volta all’anno, nel giorno della Espiazione; inoltre, paga le decime di tutto ciò che acquista, anche se per le compere di grano, mosto e olio non esisteva tale obbligo che gravava unicamente sui produttori.
Ma c’è di più! Guardandosi attorno, egli si accorge di essere l’unico, o fra i pochissimi, a compiere le opere di « giustizia » che lo dovrebbero accreditare presso Dio: « O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri e neppure come questo pubblicano » (v. 11).
Tutto proteso alla esaltazione di se stesso, gli « altri » diventano solo un elemento di confronto per un suo maggiore autocompiacimento; non lo stimolano per niente a un servizio di benevolenza e di aiuto, per sottrarli alle loro ingiustizie e cattiverie, qualora davvero ci siano, come lui ritiene. Anzi, egli ha tutto l’interesse a denunciare il male degli altri, per affermare meglio la propria « giustizia ». Come si vede, Dio diventa solo un pretesto per glorificare se stesso e umiliare i fratelli!

Il pubblicano « non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo »
La figura del fariseo diventa anche più nauseante se messa in contrapposizione con quella umile e semplice del pubblicano, che non sa assumere neppure l’atteggiamento normale dell’Ebreo orante, che è appunto quello di stare in piedi e di stendere le braccia al cielo: egli, infatti, « non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore » (v. 13).
Questa confessione umile e semplice di colpa, che si ispira certamente all’inizio del salmo Miserere, non vuol per niente dire che il pubblicano fosse davvero un « gran » peccatore, come normalmente la gente riteneva che fossero questi appaltatori di imposte. Può anche darsi! Quello che importa, però, è che egli si ritiene in debito con Dio, si confessa « peccatore » davanti a lui e implora la sua misericordia. Non ha nessuna « giustizia » da far valere, aspetta solo che Dio gli conceda la sua benevolenza: se egli alla fine avrà qualcosa, sarà solo l’amore che Dio gli avrà rinnovato perdonandogli tutte le sue colpe. In altre parole, tutto sarà « grazia », tutto « dono » in lui. È quanto Gesù afferma solennemente, concludendo: « Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro » (v. 14).
Nell’atteggiamento del pubblicano Dio è ritornato a essere l’espressione massima dell’amore e del perdono, Colui senza del quale l’uomo non potrebbe vivere: non il Dio che umilia l’uomo rinfacciandogli la colpa, ma Colui che l’esalta riscattandolo gratuitamente dal male e da tutte le chiusure egoistiche della sua esistenza. Il Dio « vivo e vero », perciò, non il dio che è « opera delle mani dell’uomo » (Sal 115,4), espressione e giustificazione della propria autosufficienza, come era appunto quello del fariseo.
È proprio qui che si può cogliere il senso profondo della « preghiera »: soltanto l’uomo che, secondo l’insegnamento di Paolo, sa che la sua « giustizia » viene da Dio e perciò lui solamente può salvarlo, è capace di « pregare ». È questa la preghiera dei « poveri », sempre umile come quella del pubblicano, che Dio ascolta sempre perché in essa si manifesta la sua grazia. L’uomo moderno, invece, e talvolta anche il cristiano, che crede troppo nella capacità di « autosalvezza » del mondo mediante la così detta riforma delle « strutture » e la azione politica, oppure mediante il progresso tecnico-scientifico, non sente il bisogno di pregare, oppure, se prega, mette tutti gli altri sotto accusa, come il fariseo della parabola.
Il fariseo perciò non è soltanto il simbolo della falsità e dell’ipocrisia, uno che si ritiene buono e invece è « detestabile davanti a Dio », ma soprattutto il simbolo della presuntuosità di chi pensa che basti la « giustizia » operata dagli uomini a « giustificarci » davanti a Dio. La sua capacità « rappresentativa » di situazioni umane e religiose aberranti è perciò molto più estesa di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Stranamente, il fariseo della parabola può incarnarsi anche in tutti coloro che denunciano ferocemente il « fariseismo » dei propri fratelli di fede e della stessa Chiesa: Dio e il Vangelo non possono servire di strumento per l’autoesaltazione di nessuno!

« Ho combattuto la buona battaglia »
La seconda lettura, tratta da quello che è forse l’ultimo scritto di Paolo e perciò come il suo « testamento spirituale », sta a dirci quale deve essere l’atteggiamento vero del cristiano che si sente salvato da Dio e nello stesso tempo impegnato a « collaborare » alla propria salvezza: « Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione » (2 Tm 4,7-8).

       Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola

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« UN TEMPO PER NASCERE, UN TEMPO PER MORIRE » NEI VANGELI E NELLE LETTERE DI PAOLO – II – Giuseppe Barbaglio

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=79

Incontri di « Fine Settimana »
percorsi su fede e cultura
anno 34° – 2012/2013

Annunciare e testimoniare oggi la buona notizia

« UN TEMPO PER NASCERE, UN TEMPO PER MORIRE » NEI VANGELI E NELLE LETTERE DI PAOLO

(DIVIDO IN DUE, VANGELI E PAOLO)

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio

Verbania Pallanza, 13-14 febbraio 1993

VANGELI

Il tema nascere-vivere-morire è legato alla riflessione sapienziale, uno dei filoni dell’Antico Testamento; gli israeliti si sono interrogati razionalmente e sperimentalmente sul senso dell’esistenza umana e questo campo di riflessione, che ha prodotto la letteratura sapienziale, era ciò che li accomunava agli altri popoli e costituiva una base per il dialogo. Mentre l’esperienza narrata nei libri storici come pure gli scritti della letteratura profetica erano solo di Israele, la riflessione sul vivere ed il morire accomuna tutti gli uomini. Nel Nuovo Testamento non esiste un filone sapienziale e bisogna perciò cogliere, là dove emergono, alcuni riflessi di questo discorso. Il tema del vivere e del morire non è assunto in proprio dal Nuovo Testamento in senso diretto, tutto centrato a porre l’attenzione sulla novità di Gesù.
Gesù però ha alcuni aspetti sapienziali: non è stato solo un profeta o per certi versi un apocalittico, ma è stato anche un saggio. Nella testimonianza evangelica cogliamo due momenti: 1°, il vissuto di Gesù, cioè come lui affronta l’esperienza umana nel suo animo; 2° come Gesù parla, sente, vive l’esperienza di ogni uomo.
1. IL VISSUTO DI GESÙ
Una grande parte della tradizione sottolinea la particolarità che Gesù ha vissuto nella consapevolezza di avere ricevuto da Dio una missione da compiere.
che gli uomini smarriti non vadano perduti
Un esempio si ha nella parabola della pecora smarrita che troviamo nella versione di Luca 15 e in quella di Matteo 18. Il racconto di Gesù è incentrato sul pastore che è protagonista. Il pastore ha cento pecore e una di queste si è smarrita. La narrazione è costruita anzitutto sul contrasto fra una e novantanove, su quanto poco conta oggettivamente una pecora su cento, e poi sul contrasto del pastore che lascia le novantanove e va alla ricerca dell’una, non perché sia più preziosa delle altre, ma perché è smarrita. Psicologicamente è più importante uno rispetto a novantanove a causa della situazione concreta. Nella versione del Vangelo apocrifo di Tommaso, un vangelo molto antico di poco successivo a quello di Giovanni, il significato è capovolto rispetto al racconto di Gesù perché si dice che la pecora era la più grassa e quindi aveva un valore oggettivo. Invece nel racconto di Gesù ciò che conta non è il valore, ma la situazione della pecora: il pastore non vuole che lo smarrimento sia una perdita definitiva.
Nelle parabole che racconta, molto spesso Gesù riflette se stesso. Infatti nella versione di Luca si precisa che Gesù era circondato da peccatori e pubblicani e che i ben pensanti mormoravano contro di lui. Dunque la parabola è la giustificazione del suo comportamento, del suo modo di vivere, di come vive la missione. Gesù non può sopportare (e neppure il suo Dio lo sopporta), che la pecora smarrita vada perduta. Noi usiamo indistintamente perdersi e smarrirsi invece nella versione di Matteo si evidenzia la differenza: la pecora si è smarrita, quindi si tratta di una perdita momentanea. Dio non vuole che la perdita diventi definitiva e Gesù nel suo comportamento manifesta questa volontà di Dio: Gesù è impegnato affinché gli uomini smarriti non vadano perduti.
eunuco a causa della sua missione
Sul tema di come Gesù abbia vissuto la sua missione c’è un particolare significativo in Matteo 19,12. Gesù enuncia tre categorie di eunuchi: ci sono gli eunuchi per nascita, gli eunuchi che vengono castrati dagli uomini (presso le corti orientali erano coloro che vivevano a contatto con il gineceo) e ci sono gli eunuchi per la causa del regno di Dio. Queste parole di Gesù suppongono un vissuto preciso, e cioè che Gesù non era sposato. Nel mondo ebraico di allora era una cosa sorprendente pur con eccezioni, come a Qumran. Probabilmente gli avversari di Gesù dicevano in modo spregiativo che fosse un castrato. Nella tradizione ebraica gli eunuchi erano sottoposti a delle limitazioni, per esempio non potevano entrare nel tempio. Di fronte ad un motteggio di cui era la vittima, Gesù precisa di essere un eunuco a causa della sua missione. Per la sua situazione di predicatore itinerante Gesù non ha formato una famiglia, anzi è entrato in un rapporto di rottura con la sua famiglia di origine. Gesù ha vissuto la missione come esperienza di svincolamento dai legami umani più sacri e genuini. Nel racconto di Marco, il più vicino alla realtà (in Luca e Matteo vi fu un processo di autocensura) Gesù appare così dedito alla sua missione, era talmente assorbito dalla sua disponibilità all’incontro con le persone, da non mangiare, da saltare i pasti. I suoi famigliari, preoccupatissimi, dicevano che era matto, che era uscito di senno. Marco 3,20-21: « Allora i suoi, udito questo (che non mangiava) uscirono per catturarlo perché dicevano: è fuori di sé ».
la nuova famiglia di Gesù
Marco, Matteo e Luca concordano invece nell’altro momento della missione: mentre Gesù stava in casa vengono i suoi famigliari (Marco 3,31-34) che non riescono ad entrare. Saputo della loro presenza Gesù ha una risposta impressionante: « chi è mia madre, chi sono i miei fratelli e le mie sorelle? » E rivolto a coloro che stavano accanto a lui: « questi sono mia madre, i miei fratelli, le mie sorelle ». Gesù ha troncato i rapporti con la sua famiglia ed ha costituito una nuova famiglia. Non ha vissuto solo e disincarnato, senza rapporti, ma ha rotto con la famiglia naturale e ne ha creata una nuova; non è più un rapporto costruito sui vincoli del sangue, della parentela, ma sui vincoli spirituali di chi fa la volontà del Padre.
Questa rottura appare ancora più chiara in Marco 6,1-4 quando Gesù, che aveva abbandonato il paese di origine, Nazareth, ritorna ormai ripudiato dalla patria, dal parentado nel senso allargato di villaggio e dalla famiglia che comprende la madre, i fratelli e le sorelle. Nel verso 6,4 Gesù dice: un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, dai suoi parenti e dalla sua famiglia. Si tratta di un vissuto di Gesù molto impressionante a tal punto che già Matteo e Luca, che pure avevano come fonte Marco, hanno tolto la prima parte quella relativa al matto da sequestrare ed hanno edulcorato quest’altro passo tralasciando la famiglia. Gesù si è sganciato dalla famiglia ed ha costituito nuovi legami su base spirituale per entrare nell’orizzonte del fare la volontà del Padre.
Gesù è consapevole di essere chiamato all’annuncio
Un’altra caratteristica, la terza, della missione di Gesù si può cogliere al vivo in una pagina di Marco che è il più vicino alla fonte e il più fedele e genuino, in 1,35 ss. ove si narra una giornata tipo di Gesù: « Gesù si alzò quando era ancora buio ed uscì in un luogo appartato e là si metteva a pregare »; questa annotazione non è frequente nella tradizione evangelica, poi si svegliano Simone e gli altri e dopo averlo cercato lo trovano e gli dicono: « Tutti ti cercano » e Gesù risponde: « Andiamo ovunque nei villaggi affinché anche là io possa fare il proclama perché per questo io sono uscito da Dio ». Qui cogliamo la coscienza del vissuto di Gesù. Gesù è l’araldo, colui che proclama con voce forte e sottolinea che per questo vive, esiste. Noi non possiamo stabilire come e quando Gesù ha maturato questa coscienza della missione perché le fonti non sono abbastanza ricche. Lo cogliamo dove emerge, anche se purtroppo non possiamo averne la genesi. « Venne a proclamare nelle loro sinagoghe in tutta la Galilea ». C’è la coscienza chiara di essere chiamato e Gesù dedica la sua vita a questo. La giornata va avanti fino alla sera.
messo alla prova
Sulla missione possiamo cogliere altri elementi: in Luca, in Matteo e anche in Marco c’è il motivo di Gesù tentato. In Marco c’è solo l’annotazione: dopo il battesimo, lo Spirito Santo sospinge Gesù nel deserto e là viene tentato da Satana dopo aver digiunato quaranta giorni e notti (sono simbolismi del Vecchio Testamento). Matteo e Luca hanno un’altra tradizione che ha elaborato, in modo narrativo, le tre tentazioni. Resta, dal punto di vista storico, che Gesù è stato messo alla prova; Satana è un nome funzionale, è il tentatore. Nell’espletamento della sua missione non tutto era semplice e liscio, non è vero che il suo cammino sia avvenuto senza tentennamenti e crisi. Il fatto che Gesù è stato tentato vuol dire che sentiva un’attrazione per percorrere una via diversa, cioè di compiere la missione in termini trionfalistici, con esibizione di potenza di Dio. La tentazione non è stata di non compiere la missione, ma di compierla dimostrandosi un vero figlio di Dio forte, vincente. Gesù era diviso dentro di sé. C’era una parte interna che lo spingeva a realizzare la missione in questo modo.
Al tempo di Gesù esisteva il movimento zelota che proclamava che solo Dio era re, che la dominazione romana era illegittima e che bisognava ribellarsi al potere romano. Più tardi nel 66 gli zeloti scatenarono la guerra contro Roma con conseguenze tragiche. Tra i dodici c’era anche uno zelota, Giacomo e questo dimostra che Gesù era a contatto con questa visione molto ideologica, massimalistica dell’annuncio del regno di Dio, cioè con una interpretazione di tipo politico trionfalista. La tentazione era aderire alla parte di sé che inclinava in questa direzione. I tentatori erano coloro che gli stavano attorno e lo spingevano in questo senso, erano le attese popolari, la sensibilità del tempo. Gesù ha resistito faticosamente capendo che questa era una tentazione diabolica. Non si è accorto subito dell’errore: la diffusa mentalità propendeva per l’attesa di un profeta forte, di un Messia politico trionfatore dotato della potenza di Dio, una potenza che ridonda a beneficio del popolo di Dio.
Sono congetture quelle che noi possiamo fare sul vissuto di Gesù, sul suo tormento interiore per giungere alla consapevolezza della propria missione in chiave di un Messia povero di potenza divina, di un Messia uomo qualunque, di un Messia debole. E’ una missione e una fedeltà verso Dio da decifrare, che comporta una scelta controcorrente. Da questo punto di vista c’è un testo presente in Luca 4,18; Gesù inaugura la sua missione nella sinagoga e si ricollega alla figura del profeta di Isaia 61 la cui missione era di essere l’evangelista dei poveri, di portare la lieta notizia ai diseredati, a quelli che hanno il cuore affranto, che sono nei ceppi, agli indebitati. Gesù ha scoperto il significato del suo vivere, il suo senso profondo, alla luce delle Scritture del suo popolo. Gesù va nella sinagoga, prende il testo e lo legge  » »lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione, mi ha mandato ad annunziare ai poveri un lieto messaggio, a proclamare la liberazione a quelli che stanno nei ceppi, a proclamare il ritorno alla vista per i ciechi, per rimettere in libertà gli oppressi e proclamare un anno di grazia del Signore »??. L’anno sabbatico era l’anno della remissione dei debiti, della reintegrazione nella proprietà. Gesù assume questo testo e capisce per suo tramite la propria missione. Dio non ha spiattellato davanti a Gesù la sua missione, ma è stato Gesù che ha cercato il senso della sua vita. Gesù ha scoperto che la sua esistenza doveva essere messa a servizio del progetto di Dio e per questa missione ha speso la sua vita.
Un altro elemento significativo, anche se più esterno, di costume, si trova in Marco 2,16 ss. quando Gesù chiama alla sequela un certo Levi. Levi era un pubblicano, un esattore delle tasse, categoria odiatissima, perché essi agivano da strozzini, frodatori. Gesù non solo chiama questo disprezzato, ma quando costui fa una grande festa con la sua combriccola, va a mangiare a casa sua, un gesto che veniva considerato di totale solidarietà. Era uno scandalo per i farisei, una minoranza costituita in piccole fraternità. E’ un aspetto del costume di Gesù che non è estrinseco alla sua missione di andare alla ricerca dello smarrito perché non si perda. E’ un costume che lo conduce anche ad assumere atteggiamenti sociali controcorrente.
confronto col Battista
Gesù si differenziava nel modo di vivere dal Battista. Il Battista si era separato dalla società, viveva sulle rive del fiume Giordano, lontano dagli abitati e la gente per incontrarlo doveva andare da lui; inoltre mangiava solo miele selvatico, cavallette, vestiva con pelli ed era perciò un disadattato. Gesù all’inizio è stato un discepolo del Battista e ha ricevuto il battesimo di penitenza, ma poi si è staccato, ha preso una sua strada. Il Battista ed altri come lui, ad esempio i qumraniti, stanchi della corruzione dell’ambiente religioso di Gerusalemme si ritiravano ai margini e vivevano una vita di grande tensione morale. Gesù è stato molto attratto da questa esperienza ed è entrato nei movimenti di riforma spirituale del suo tempo però poi si è staccato ed ha vissuto tra la gente. Un elemento di differenza è che Gesù mangiava e beveva normalmente, al punto da venire motteggiato come mangione e beone. Rientra tutto questo nel suo modo di intendere l’esistenza come missione al servizio di Dio e degli altri.
araldo in dimensioni umane
Un altro elemento interessante si rileva da due reazioni; una è raccontata da Luca: durante il viaggio dalla Galilea a Gerusalemme per la festa della Pasqua si doveva transitare per la Transgiordania nella regione dei samaritani con cui vi erano rapporti di odio. Gesù con la sua compagnia è entrato in un villaggio samaritano chiedendo ospitalità. Allora per i pellegrini che si recavano a Gerusalemme l’ospitalità era sacra. In Luca 9,54¬-55 si legge che l’ospitalità venne loro rifiutata; due focosi del gruppo detti infatti « figli del tuono » dicono a Gesù: « Vuoi che invochiamo dal cielo il fuoco distruttore contro questi? ». Gesù li rimproverò duramente e disse « andiamo in un altro villaggio a pernottare ». E’ una reazione molto significativa di Gesù che non si sente un inviato potente di Dio, ma intende la sua missione come araldo del Dio altissimo, ma in dimensioni umane.
L’altra reazione significativa è nella tradizione di Giovanni al cap. 8,1-11 nell’episodio dell’adultera. Mentre tutti sono pronti a lapidare la donna trovata in flagrante adulterio, Gesù reagisce dicendo « chi è senza colpa scagli la prima pietra » e poi resta solo con la donna. Gesù domanda « nessuno ti ha condannato? » « nessuno » « e neanch’io ti condanno, va e non peccare più ». E’ una reazione di umanità e di speranza: tu hai capacità nuove, puoi riscattarti, non sei chiusa dentro la tua colpa, puoi cambiare, ricostruirti un’altra vita.
Nel cap. 8 di Matteo, Gesù, rifacendosi alle scritture dell’Antico Testamento parla del servo di Dio che non grida nella piazza; la sua missione non è quella di spegnere il lucignolo incerto, ma di ravvivarlo.
rifiutato dai potenti e accolto dai piccoli
Un altro elemento interessante è l’emozione che Gesù prova; Matteo 11,25 (testo parallelo di Luca 9,54-55) riporta una delle preghiere formali di Gesù « ti benedico Padre perché hai nascosto queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli; così è piaciuto a te ». Il testo di Luca aggiunge che Gesù ha avuto un sussulto di gioia. Gesù, probabilmente dopo lunga riflessione, rilegge la sua vicenda alla luce di Isaia; Isaia non veniva ascoltato ed era in preda al dubbio di non essere il profeta di Dio, perché non è possibile che la parola di Dio venga rifiutata. Però meditando lungamente, Isaia capì che la sua missione era proprio di dire una parola di Dio che poteva non essere ascoltata, a causa del rifiuto dell’uomo.
Gesù ha fatto un’esperienza analoga con una variante. Il giudaismo ufficiale nei suoi rappresentanti lo aveva rifiutato. In Giovanni si dice al cap. 7 che uno dei motivi per cui i capi del giudaismo negavano che Gesù fosse profeta, il Messia, è che nessuno dei capi ha creduto in lui. Il secondo motivo è che ha creduto in lui soltanto la gentaglia che non conosce la legge. Gesù, a differenza di Isaia, ha avuto un settore che ha creduto in lui ed erano gli analfabeti che non conoscevano le prescrizioni. La grande scoperta di Gesù è stata che il fallimento presso gli esponenti ufficiali ed il successo presso i piccoli era la prova dell’essere l’inviato di Dio. Ha capito che nella sua vicenda contrastata, la contraddittorietà significava che era il profeta di questo Dio misterioso che si rivela, fa l’apocalisse, agli esclusi.
uno di noi
L’altra emozione molto forte di Gesù è descritta in Giovanni 11,38 quando viene a sapere che l’amico Lazzaro è morto: « fu profondamente commosso in se stesso ».
Quando ci accostiamo alla figura di Gesù dobbiamo prestare attenzione alle sue parole, alla sua morte e resurrezione, ma anche allo spessore del suo vissuto umano. Il suo vissuto è per certi versi anche il nostro vissuto; le sue difficoltà, i suoi dubbi, la sua ricerca dicono l’originalità e l’individualità del suo vissuto che noi dobbiamo meditare perché ha grandi somiglianze col nostro vissuto; cogliamo una persona viva, uno di questo mondo che è nato, vissuto, fa il suo cammino e dà un senso alla sua vita.
nessun anelito al martirio
Nella vita di Gesù, come in quella di ognuno, c’è il momento topico, quello in cui il cammino storico si conclude. Anche in questo momento vi sono elementi molto interessanti presenti nella tradizione evangelica.
Il momento della verità in cui si confronta con la morte tragica, violenta è da lui vissuto psicologicamente nel suo apice nella scena del Getzemani, Marco 14,32 ss., e i paralleli. Vi è un elemento impressionante riportato da Marco, attenuato in Matteo e Luca: Gesù in compagnia di Giacomo, Giovanni e Pietro cominciò ad essere preso dal panico; è una esperienza di un vivere drammatico. La parola di Gesù ai suoi accompagnatori è quasi identica in tutti: « la mia anima è avvolta dalla tristezza », sono assediato dalla tristezza « fino a morire ». In Gesù non c’è un anelito al martirio, elemento che apparirà più tardi nel cristianesimo; ad esempio Ignazio, vescovo di Antiochia nel 110, quando fu condotto prigioniero a Roma per essere dato in pasto alle belve, scriveva durante il viaggio lettere alle comunità presso cui passava, esprimendo l’anelito al martirio, diceva che la sua esistenza è come il grano che deve essere triturato per poter formare il pane. Gesù invece é preso dal panico e dice ai suoi: rimanete qui e vegliate con me. Prosegue il testo « andato leggermente avanti cadde con la faccia a terra e pregava: se è possibile passi da me quest’ora »; Gesù desidera non avere l’incontro con questa morte tragica e prega Dio che lo liberi, e diceva: « Abbà, tutto a te è possibile, passi da me questo calice, ma non quello che voglio io, bensì quello che vuoi tu ». Gesù prega Dio che lo liberi però gli viene il sospetto che Dio non è colui che gli risparmia la morte. E’ un momento di verità per lui, una scoperta; da un lato c’è la credenza tradizionale della potenza di Dio che lo libererà e dall’altra parte questa sensibilità nuova nell’avvertire che probabilmente questo Dio non gli risparmia la morte tragica. E’ per Gesù una verità crudele perché vuol dire che è lasciato a se stesso, che gli manca la protezione, nel momento cruciale, di questo Dio protettore che la tradizione ebraica celebrava con l’immagine della roccia, della rupe, il fondamento sicuro. Gesù scopre che Dio non risparmia nulla al suo inviato, al suo araldo. Poi c’è anche l’amarezza per i suoi che si addormentano « i loro occhi erano appesantiti dal sonno ». Matteo nella sua versione dice « io potrei invocare la legione degli angeli a combattere » era il sogno coltivato attraverso i secoli della guerra santa, di un Dio battagliero che interviene a liberare i suoi contro i nemici. Gesù arriva a scoprire che Dio non ha le legioni celesti, non interviene nella storia sia pure a liberare suo figlio.
l’araldo di Dio come maledetto
Il secondo elemento che riguarda il modo in cui Gesù si rapporta al suo morire tragico si trova più avanti, quando è messo in croce. Gesù era figlio del suo tempo, con le credenze di allora, con le evidenze culturali e religioniste e vede venir meno tutte le attese del Dio che interviene a salvare in extremis il suo inviato. La croce era pena terribile non solo dal punto di vista sociale essendo riservata agli schiavi e ai terroristi, ma anche dal punto di vista religioso perché si diceva che chi pende cadavere dal legno è un maledetto da Dio. Gesù, l’araldo, l’evangelista di Dio, finisce come il maledetto. I suoi avversari lo motteggiano mentre è sulla croce; Marco 15,27-32 « se sei figlio di Dio scendi dalla croce » gli chiedono la prova e Gesù non riesce a dare questa prova. « Ha salvato gli altri, ma non può salvare se stesso ». Gesù a questo punto deve convincersi di essere impotente a salvare se stesso e che neppure Dio può farlo. Il terzo elemento è in Marco 15,34, ripetuto poi da Matteo ove c’è la preghiera del Salmo 22, una delle voci più desolate del salterio. Il protagonista di questo salmo che si confronta con una tragedia sua di oppressione e di odio da parte dei nemici, nonostante tutto conserva la fiducia in Dio. « Eli, Eli, Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? », c’è l’abbandono da parte di Dio, però questa preghiera è intessuta di fiducia. Gesù si sente un abbandonato dal Dio forte, interventista, però non è un abbandono totale: l’ha lasciato un certo Dio che era il Dio della sua tradizione ed educazione, della sua sensibilità e cultura. Con sé ha un Dio che sale anche lui sulle croce. Il quarto elemento è in Marco 15,37, con cui concorda Matteo « e lui gridò con voce forte e spirò ». Invece nella tradizione lucana c’è un elemento molto bello, forse non storicamente del tutto fedele però è importante per cogliere come l’esperienza di Gesù è stata rivissuta nella fede, nel ricordo. In Luca 23,46 c’è un’altra preghiera di Gesù « nelle tue mani deposito la mia vita »; Gesù non è passivo, la vita gli è strappata dai nemici, ma egli prende questa sua vita e la affida a Dio. C’è da notare che in questo non vi è la certezza della risurrezione, i testi in cui Gesù dice che il terzo giorno risusciterà sono stati riconosciuti dalla critica evangelica come testi successivi. Se Gesù avesse avuto la certezza di risorgere, la sua morte, per quanto drammatica, sarebbe stata temporanea, molto circoscritta. Gesù non è morto nella coscienza dello sfacelo generale, definitivo, ma ha un gesto di fiducia in Dio, vedrà Dio cosa fare della sua vita.
Nella nostra tradizione catechistica abbiamo sempre avuto l’immagine di Gesù come di un superuomo, invece da queste testimonianze emerge come Gesù ha sentito il peso dell’esistere ed ha avvertito il dramma di un morire tragico. L’esistere ed il morire di Gesù è molto vicino a noi, agli uomini che fanno esperienze drammatiche in questo mondo.

2. COME GESÙ HA PERCEPITO IL VIVERE UMANO IN GENERALE.
Gesù è stato dentro la società del suo tempo, si rapportava agli altri e perciò sappiamo, dalle testimonianze, come sentiva il vivere umano in generale.
un mondo governato bene dal Creatore
C’è un testo di Matteo 6,25, ripreso da Luca « non affannatevi per la vostra vita, che cosa mangiare, che cosa bere, come vestirsi, forse che la vostra vita non è di più del cibo e il vostro corpo non è di più del vestito che si mette addosso? Guardate gli uccelli del cielo, essi non seminano e non mietono e non raccolgono nei granai, eppure il Padre vostro celeste li nutre. Ora voi non siete di più di loro? Chi di voi affannandosi può aggiungere un giorno all’età o uno spazio alla sua statura? E del vestito perché affannarsi? Guardate i gigli del campo come crescono e non si affaticano nel lavoro né filano, eppure vi dico che neppure Salomone in tutto il suo splendore si è avvolto di vestiti come uno di questi. Se l’erba del campo che oggi è e domani viene tagliata e buttata nel fuoco, Dio così la riveste, quanto più voi, gente di poca fiducia. Dunque non affannatevi dicendo che cosa mangeremo, che cosa berremo, di che cosa ci vestiremo? Tutte queste cose le ricercano i pagani, sa infatti il Padre vostro celeste che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate innanzi tutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutto questo vi sarà dato ». E’ un testo citato dalla storiografia marxista. Ad esempio Kautsky nel suo scritto del 1911 « Le origini del cristianesimo » dice: ecco come Gesù era un « comunista di consumo » nel senso di consumare tutti insieme quello che c’è, contro il lavoro duro.
In particolare in queste espressioni si rileva la sensibilità che Gesù ha del Dio creatore; Gesù vede l’esistenza umana in un mondo governato bene dal creatore. Noi oggi abbiamo la sensibilità di un mondo crudele, scisso, in cui una minoranza ha rapinato i beni a discapito della maggioranza. Gesù mostra una sorta di romanticismo, di semplicità; è uno squarcio di vita al di fuori del dramma di situazioni mondane di frattura enorme, di ingiustizia violenta.
Il secondo testo è in Matteo 10,39 e 16,25, Marco 8, 35, un testo dove Gesù gioca al paradosso sul significato della vita; si rivolge ai suoi discepoli, ma lo sguardo è molto più universale sull’esistere umano. « Infatti se uno vuole salvare la propria vita la perderà » sottointendendo che la vita che si perde è diversa da quella che si salva, c’è una vita che va perduta per poter salvare un’altra vita. L’uomo è chiamato a scegliere fra due tipi di vita. Anche nella cultura del tempo c’era distinzione tra il vivere « bios » come dato oggettivo e la vita alta, piena. Anche gli stoici, i filosofi hanno fatto distinzione tra una vita autentica, che noi chiamiamo la qualità della vita, e una vita fatta solo di conforts, di comodità. Per Gesù l’applicazione è sulla vita autentica che si realizza nella fede con l’adesione a lui e al Vangelo. Per arrivare alla vita autentica ci sono prezzi di vita da pagare.
alla ricerca di ciò che vale nella vita
Un altro testo è la parabola di Gesù in Matteo 13,44-45, in cui si dice che un contadino ha in affitto un podere e arandolo trova un tesoro sepolto. Il contadino vende tutto quello che ha, compra il campo e acquisisce il tesoro. L’altra parabola narra di uno che commercia in pietre preziose e, girando per i mercati, scopre una perla di valore inestimabile, allora vende tutto quello che ha per poterla acquistare. Gesù intende dire che si deve essere disposti a dare tutto per il tesoro, che c’è qualcosa di grande nella vita per cui vale la pena di perdere tutto il resto. Per raggiungere il tesoro bisogna fare delle scelte, non pretendere di avere tutto, quello che vale e in più la « pleonexia ». La vita è ricerca di ciò che vale ed una volta scoperto si deve perdere tutto il resto.
bene e male sgorgano dal cuore dell’uomo
Gesù vede minacciata l’esistenza umana; nel testo degli uccelli e dei gigli del campo ha uno sguardo di freschezza sulla creazione, ma non per questo si è nascosto la drammaticità dell’esistenza umana. Nella cultura del tempo di Gesù l’esistenza umana era percepita come un campo di lotta tra le forze della vita e quelle della morte. Le forze della morte poi erano, in un certo senso, cosificate, pensate in cose esterne. Ad esempio gli ebrei non volevano avere rapporti con i cadaveri perché ritenevano che il contatto con le forze della morte racchiuse nei cadaveri contaminasse e si rimanesse da queste investiti. Anche la carne di porco, il sangue mestruale erano ritenuti sede delle forze della morte. Per contrastare queste forze sono sorti i riti di purificazione e la religione aveva la funzione di liberare gli uomini dall’assalto delle forze della morte. Il rito conduceva l’uomo nella sfera dove agiscono le forze della vita. Gesù si confronta con questo problema in Marco 7,15 ss. « non sono le cose che entrano in noi a gettarci nelle braccia delle forze della morte »: la percezione nuova di Gesù è che le forze della morte che contaminano l’uomo non provengono dall’esterno, ma dall’interno. Gesù interpreta il dentro come ciò che viene dal cuore, cioè dal centro decisionale dell’uomo. In questo senso la concezione di Gesù è molto più drammatica e dice: dal cuore dell’uomo escono le malvagità. L’esistere nostro per Gesù è confrontato con le forze della morte e le forze della vita e la sede di entrambe è dentro il cuore. Gli accampamenti del nemico sono dentro di noi. L’esistere autentico, dice Gesù, è fare emergere da noi le forze della vita e non le forze della morte.
il problema della ricchezza
Un altro tema che Gesù ha affrontato diverse volte riguardo il vivere è il problema della ricchezza, degli averi, delle cose. In Matteo 19,24 vi è il detto che il cammello non può entrare nella cruna di un ago, e così un ricco non può entrare nel regno di Dio. In Luca 12,15 Gesù ha un diverbio con i farisei e c’è un’annotazione assolutamente originale in quanto i farisei vengono detti ‘filarguroi’, amanti del denaro: « Disse loro: guardatevi da ogni pleonexia, volontà di accumulamento ». Un terzo detto – Luca 16,1 ss. – si trova nella parabola di Gesù sull’amministratore dei beni che viene destituito e questi astutamente si reca dai debitori e pratica decurtazioni agli importi. Quando deve lasciare l’incarico fa valere le sue benemerenze e coloro cui ha condonato parte del dovuto lo accolgono in casa loro e lo mantengono. La parabola di Gesù sottolinea questo comportamento come avveduto perché l’amministratore ha saputo assicurarsi il futuro. L’applicazione circa il vivere è che le ricchezze vengano date in elemosina. La stranezza della parabola consiste nel fatto che Gesù loda un truffatore, però l’accento non è posto sul comportamento truffaldino, ma sulla avvedutezza. Altro testo importante sull’argomento si trova nel Discorso della montagna « non potete servire a due padroni, Dio e Mammona, Dio e il denaro ». Gesù contrappone un altro tipo di vita rispetto a quello dominato dalla ricchezza, percepita come una realtà capace di fare da padrone nella vita. La saggezza del vivere è sfuggire al padronato dell’accumulo.
Un tema importante è la fiducia, un altro è quello del vecchio e del nuovo, ove Gesù dice che non possiamo vivere il nuovo come una riedizione del vecchio; e parla di toppa nel vestito, degli otri; in Marco 2,27 parla del sabato e in Luca 11,28 dice « Beati coloro che ascoltano la parola ». Il tema dell’esistenza minacciata si trova in Luca 12,4-5 « Non temete quelli che possono uccidere il corpo, ma quelli che mandano tutto l’uomo nella Geenna ».
Un testo sul nascere è in Giovanni nel dialogo a Nicodemo; tutta la concezione di Giovanni è dualistica, vi è la realtà dell’alto (anà) e del basso (katà), la realtà di Dio e del mondo. Distingue il nascere dal basso ed il nascere dall’alto. « Rinascere » non rende l’idea qualitativa, Giovanni invece parla di « nascere dall’alto » e dice: nascere dall’acqua (che sarebbe il battesimo) e dallo spirito. Per Giovanni la qualità della vita dipende dal principio e quindi nascere nel segno dello spirito. E’ una panoramica sia del vivere come Gesù ha vissuto, sia del vivere umano come Gesù l’ha percepito entrando in contatto con gli uomini.
Precisazioni e approfondimenti nel dibattito
A proposto dell’accumulo dei beni in Gesù c’è la percezione dell’accumulo della ricchezza come ingiusto. Analizzando la parabola dobbiamo chiederci cosa Gesù vuol dire, il suo scopo è sottolineare l’avvedutezza del ricco che consiste nei disfarsi dei beni. La parabola non analizza il comportamento truffaldino, ma come l’amministratore è riuscito a salvarsi in una situazione disperata. Chi è nella ricchezza è in una situazione disperata e vi è un’unica possibilità di salvarsi. Non ogni elemento della parabola è importante, vi è una « punta » ed in questo caso è che un uomo, preso alla gola, è riuscito a salvarsi. Il ricco è preso alla gola dalla rovina eterna. La metodologia richiede che non si prenda la parabola come se fosse un’allegoria: è un racconto fatto per dire una cosa sola.
Gesù dicendo « beati i poveri » si riferisce ai beneficiari della giustizia. Per la comunità cristiana primitiva i poveri sono i cristiani; per Luca sono i poveri cristiani oppressi in questa vita; per Matteo sono gli umili. Gesù vuol dire che Dio viene a liberare i poveri in senso molto vasto. Non c’è un valore morale o teologico del povero. Il povero è beato perché beneficiario della liberazione del Dio re che è il simbolo della giustizia.
Gesù abbina il non affannarsi al guardare al Padre celeste, non condanna il darsi da fare ma lo colloca nella fiducia. La contrapposizione è con i gentili, quelli che non conoscono Dio: é un situarsi nel mondo e affrontare il problema elementare del vivere in una prospettiva di radicale fiducia nel Dio creatore. In questa pagina non emerge il dramma della fame, dello sfruttamento, ma vi è uno sguardo esistenziale, non certo di valenza sociale, dell’uomo come si colloca nel mondo, o in una fondamentale fiducia nel Dio creatore oppure nell’affanno perché non ha prospettive. C’è un vissuto molto religioso, di tipo francescano, che in altri testi non appare. Dietro l’affanno c’è la mancanza di qualsiasi prospettiva di speranza nell’esistere. Gesù distingue tra vivere il mondo nella consapevolezza della creatura di Dio o come una realtà in sé sussistente. La prospettiva del Dio creatore impegna con una fondamentale fiducia. Chi non l’ha è preso dall’affanno e si aggrappa all’avere, ma sentendo di non avere mai abbastanza. Se vi è rapporto di fede si vive il mondo in una conciliazione con Dio, se si vive in modo avulso, si vive nell’insicurezza per cui si accaparra, però l’accaparramento non estingue l’affanno. Il rapporto di ogni persona con il mondo dipende dal rapporto che si ha con Dio. Gesù non manifesta coscienza del dramma della fame e si rifà all’esperienza personale della sua vita peregrinante, di chi non ha un’occupazione lavorativa; questo dimostra come la sensibilità dipenda dallo stato sociale che uno ha scelto. Gesù ha scelto uno stato sociale del tipo « figli dei fiori » in cui giocava un ruolo fondamentale la dimensione del sentirsi figlio di Dio.
Nella parabola dei vignaioli il comportamento del padrone è certo antisindacale. Infatti il padrone dice all’amministratore di incominciare a pagare quelli che avevano lavorato tutto il giorno, i quali pigliano il loro denaro pattuito; poi quelli che hanno lavorato meno pigliano la stessa paga e così via fino a quelli che hanno lavorato soltanto un’ora e ricevono anch’essi un denaro. Scatta l’accusa dei primi: tu sei ingiusto perché ci hai equiparati a questi. Il padrone replica: voi avete l’occhio cattivo cioé siete invidiosi. L’invidia è un sentimento distruttivo perché non tollera che l’altro abbia del bene. La parabola di Gesù vuole dire che questo Dio di grazia ha mandato il figlio suo in un mondo che è tanto diviso: vi sono i buoni, moralmente ineccepibili, poi ci sono i ladroni, gli atei, i pagani. Si pensava a Dio come a un buon ragioniere che dà a ognuno secondo i meriti, invece Dio dà grazia a tutti, ai buoni e ai cattivi. Non si può esigere da Dio che la grazia sia un possesso esclusivo. Nell’Antico Testamento Dio era giudice giusto, imparziale. Paolo, che è un teologo straordinario, sposta il tema del giudizio e dice: Dio è imparziale di grazia. Uno degli schemi fondamentali proiettati in Dio è il Dio giudice. Il giudice dà « unicuique suum », a ciascuno il suo. E’ uno schema meritocratico, invece Dio è diverso, sfugge, dà indiscriminatamente a tutti, fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sul campo del giusto e dell’ingiusto. All’interno di un condizionamento culturale molto forte è un’acquisizione straordinaria che vi sia e nell’Antico Testamento e nel Nuovo il filone che cerca di uscire dall’immagine di Dio catturata dentro agli schemi nostri.

« UN TEMPO PER NASCERE, UN TEMPO PER MORIRE » NEI VANGELI E NELLE LETTERE DI PAOLO – Giuseppe Barbaglio

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=79

Incontri di « Fine Settimana »
percorsi su fede e cultura
anno 34° – 2012/2013

Annunciare e testimoniare oggi la buona notizia

« UN TEMPO PER NASCERE, UN TEMPO PER MORIRE » NEI VANGELI E NELLE LETTERE DI PAOLO

(DIVIDO IN DUE, VANGELI E PAOLO)

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio

Verbania Pallanza, 13-14 febbraio 1993

3. PAOLO
Rifletteremo ora su come Paolo ha vissuto la sua esistenza particolare qualificata dalla missione apostolica e su come ha interpretato il senso profondo dell’esistere nella precisa angolatura dell’esistere cristiano.
un rapporto personale con i Tessalonicesi
La personalità di Paolo appare nelle sue lettere in cui affronta problemi ecclesiastici, teologici, causati dalle situazioni concrete delle sue comunità o in cui parla di sé. Al di là dello sviluppo teologico del suo pensiero emerge il soggetto, lo spessore umano di Paolo, che viveva in modo molto unitario la sua esperienza umana e apostolica.
Seguiamo le lettere nell’ordine cronologico partendo dalla 1 Tessalonicesi che ha scritto da Corinto a cavallo dell’anno 50. E’ il primo scritto della Bibbia cristiana, circa 20 anni dopo la morte di Gesù. In questo scritto le connotazioni più personali sono esplicite; i primi tre capitoli sono una rievocazione dell’incontro che ha avuto con i Tessalonicesi. Non era rimasto a lungo a Tessalonica, da cui era dovuto fuggire inseguito dalla inimicizia dei giudei della sua stirpe; fece sosta ad Atene e giunse a Corinto. Paolo era molto preoccupato che la comunità potesse estinguersi poiché la sua opera non era stata completata. Tessalonica era la capitale della provincia romana di Macedonia e Corinto la capitale di Acaia. Paolo scrive rievocando l’incontro con i Tessalonicesi e, in 2,8 dice: « voi c’eravate talmente cari che a noi piaceva comunicare a voi non solo il Vangelo di Dio, ma anche le nostre stesse vite ». Il « noi » include i suoi collaboratori Timoteo e Sila. Paolo intende il suo esistere come una realtà da comunicare. Giunto ad Atene inviò Timoteo a raccogliere informazioni e questi lo raggiunse poi a Corinto con buone notizie sulla comunità che resisteva e che, dice Paolo ha « un buon ricordo di me ». In 3,8 dice « abbiamo ricevuto questa notizia, ora sì vediamo che voi state saldi nel Signore ». Il rapporto di Paolo come apostolo nella sua comunità non è solo funzionale, ma è personale, una comunione interpersonale.

Paolo assume il volto del Vangelo
Paolo costituì poi una comunità a Corinto di nuovo tipo perché era formata da incirconcisi in un ambiente greco. Corinto era una grossa metropoli che contava mezzo milione di abitanti, era centro culturale (Atene viveva allora un momento di eclisse) e commerciale. Il rapporto di Paolo con questa sua comunità, in cui era rimasto due anni e mezzo, è stato molto controverso, perché, dopo la sua partenza, erano subentrati altri predicatori di orientamento diverso che avevano ottenuto il consenso della comunità mettendola contro Paolo.
In 1 Corinti 2,1-5, Paolo parla della sua venuta. La comunità di Corinto era un po’ tronfia, piena di sé per la nuova esperienza, e con atteggiamenti trionfalistici. Paolo reagisce e dice: « anch’io fratelli quando venni da voi non ero portatore di una sapienza eccellente o di capacità retorica » – logos, abilità nel parlare e sophia, pensiero penetrante -. Il pensiero greco era incentrato, dal punto di vista culturale, sulla sapienza e sulla eleuteria, la libertà personale e politica. Paolo dice: non sono venuto facendomi scudo di parola retorica e di pensiero penetrante « sono venuto ad annunciarvi il mistero di Dio ed ho ritenuto bene, in mezzo a voi, di annunciarvi solamente Gesù Cristo e costui crocifisso ». Il crocifisso era la contraddizione più palese nei confronti di un mondo molto orgoglioso, molto superbo della propria saggezza umana. La croce aveva origine barbara, persiana, era riservata ai paria, ai ribelli e la sensibilità greca, molto raffinata, la rifiutava. Paolo si presentava sulla scena di Corinto in antitesi alla cultura dell’ambiente; « io venni in mezzo a voi nella debolezza – en asteneia – nel timore e in grande tremore » nella pochezza umana dell’annunciatore Il mio annuncio, il mio kerigma non venne in mezzo a voi con parole persuasive di sapienza ma con la manifestazione dello spirito della sua potenza affinché la vostra fede non sia basata sulla sapienza umana, ma sulla forza di Dio ».
In questo testo possiamo notare come la forma del Vangelo di Paolo incentrato sul Cristo crocifisso diventa la forma della sua vita. Non è il rifiuto del pensiero e della riflessione, ma il rifiuto di un pensiero che si erge a metro della realtà. C’è l’identificazione tra l’esistere di Paolo e il Vangelo di cui è portatore. Non è un funzionario del Vangelo, non lo vende sul mercato come se fosse un prodotto, ma Paolo assume il volto del Vangelo. Paolo è l’apostolo crocifisso non nel senso della sofferenza, ma della debolezza: il crocifisso è il segno della debolezza del figlio di Dio e della debolezza di Dio nella storia.
A Corinto la comunità si era suddivisa in gruppuscoli ed ognuno di essi aveva come sua bandiera un grande esperto; c’era il gruppo di Paolo, di Apollo, un predicatore cristiano di Alessandria formatosi secondo i canoni della paideia greca, dotato quindi di logos splendente e di sophia, c’era il gruppo di Cefa e il gruppo di Cristo. Vi era una personalizzazione dell’esperienza cristiana e Paolo reagisce dicendo che l’esperienza cristiana dipende da Cristo e non dal predicatore « forse che Paolo è stato crocifisso per noi? Forse che siete stati battezzati nel nome di Paolo? ». In 3,5 dice: « Chi è Paolo? Chi è Apollo? Sono soltanto amministratori (oiconomoi) », L’oiconomos era uno schiavo o un liberto che nella casa dei ricchi aveva compito di amministratore dei beni. Poiché costoro dicevano: io sono di Cefa, io sono di Apollo, Paolo rovescia il rapporto « tutto appartiene a voi, noi siamo vostri, ma voi siete di Cristo ».
Paolo modello di esistenza cristiana attenta ai deboli
L’esistere di Paolo come amministratore della casa emerge soprattutto al cap. 9 della 1 Corinti dove si presenta come modello, esempio di una esperienza cristiana attenta ai deboli nella comunità. Nella comunità di Corinto c’erano i forti ed i deboli che avevano molti scrupoli riguardo le carni immolate agli idoli. Nelle città greche e romane del tempo la maggioranza delle macellerie vendeva carne che era stata immolata al tempio. La carne infatti veniva in parte destinata ai sacerdoti, in parte bruciata, in parte data ai devoti e quella che eccedeva veniva venduta nelle macellerie. Alcuni cristiani avevano problemi di coscienza nel mangiarla mentre altri addirittura si sedevano nei ristoranti collegati al tempio in luoghi in cui si consumava il banchetto sacro da parte di colui che aveva offerto i sacrifici e dei suoi amici. Il capo ristorante, il macellaio e il sacerdote chiamato « magheiros » erano la stessa persona. C’era un intrico di significati sociali, sacri ed anche idolatrici. I forti esibivano la loro libertà interna, l’eleuteria, ostentandola ed i deboli erano scandalizzati.
Paolo dice che si deve fare attenzione ai deboli per i quali lui è il fratello, per i quali Cristo è morto. Il simbolo religioso diventa la ragione di un comportamento di attenzione al fratello debole: si deve rinunciare alla libertà quando questa si traduce in uno svantaggio per il fratello debole. Paolo dice: « Guardate a me. Non sono forse io libero, non sono forse apostolo? »
In quanto apostolo Paolo aveva diritto di essere mantenuto dalla comunità che era orgogliosa di farlo, invece ha rinunciato ed ha lavorato con le sue mani per mantenersi. La comunità era rimasta molto scossa ed aveva dato interpretazioni negative come se Paolo non si sentisse un vero apostolo, dicendo che i veri apostoli come Cefa e come i fratelli di Gesù, si erano dati alla missione e si facevano mantenere. Paolo rivendica il diritto e dice al v.12 « ma noi non ci siamo avvalsi di questo diritto bensì tutto sopportiamo per non creare un qualsiasi ostacolo al Vangelo di Gesù ». Paolo non ha voluto farsi mantenere perché non si potesse sospettare un suo interesse privato nell’annuncio del Vangelo. Nel mondo greco lavorare con le mani era compito di ceti molto bassi, popolari e veniva disprezzato; l’ideale greco e romano era l’otium, la contemplazione, la riflessione filosofica, la lettura. Paolo annunciando il Vangelo gratuitamente si sottraeva al sospetto di interesse privato, ma, lavorando manualmente come artigiano, si esponeva al disprezzo della società-bene del tempo. Negli ambienti stoici e cinici invece il fatto di lavorare personalmente era ritenuto un’espressione di libertà.
A quel tempo vi erano predicatori propagandisti religiosi e filosofici il cui problema di mantenimento era risolto in quattro modi: c’era chi entrava nella casa del re oppure in casa di personaggi importanti come precettore (ad es. Aristotele era istitutore dei figli di Filippo) ma il rischio era di perdere la libertà di giudizio; c’era chi si faceva dare un salario per l’insegnamento; c’era chi mendicava come i cinici; c’era infine chi lavorava personalmente per salvare la propria libertà. Il grande modello del mondo stoico di chi lavorava per essere libero era Socrate. Paolo ha scelto questa strada e dice, 9, 19-23: « Essendo io libero da tutto mi sono fatto schiavo di tutto affinché io possa guadagnare parecchie persone e sono diventato per i giudei come un giudeo perché potessi guadagnare i giudei, per quelli che sono sotto la legge mi sono fatto come uno sotto la legge pur non essendo io sotto la legge affinché io potessi guadagnare quelli che sono sotto la legge; per quelli che sono senza legge io mi sono fatto come uno senza legge pur non essendo io un fuorilegge nei confronti di Dio, ma sono dentro la legge di Cristo affinché potessi guadagnare quelli che sono senza legge. Mi sono fatto a favore dei deboli come uno che è debole affinché io potessi guadagnare il debole; io mi sono fatto tutto a tutti per guadagnare in ogni modo alcuni. Tutto io faccio per amore del Vangelo affinché io sia compartecipe con voi del Vangelo ». La parola tutto « panta » ritorna continuamente: come plurale neutro, come dativo (pasin), per tutte le persone, per rendere un linguaggio di totalità che riflette la totalità della dedizione di Paolo. L’esistenza di Paolo è intesa come dedizione totale assumendo i costumi altrui; non è il nostro problema dell’inculturazione del Vangelo, ma dell’evangelista.
La sua adattabilità ha però un punto fisso ed é l’amore del Vangelo. Nei versi 24-27 Paolo prosegue usando l’immagine dello sport, molto sentita dal mondo greco. I giochi di Corinto erano secondi solo ai giochi di Olimpia; l’atleta che vinceva la corsa non riceveva denaro, ma la corona che a Corinto era di rami di pino intrecciati, diventando così celebre. « Non sapete che quelli che corrono nello stadio, tutti corrono, ma uno solo prende il premio? Così voi correte per prenderlo. Chiunque lotta nell’agone sportivo si disciplina in tutto e quelli lo fanno per una corona corruttibile. Noi invece corriamo per ricevere una corona incorruttibile. Perciò io corro non come uno che corre senza una meta fissa, faccio pugilato non come un pugile che colpisce l’aria, bensì colpisco sotto l’occhio il mio corpo (era il pugno più offensivo), e lo riduco in schiavitù affinché non avvenga che, dopo aver fatto l’araldo agli altri, io stesso finisca squalificato ». Paolo non si sente un uomo sicuro, non è un « superman ». Da una parte ha una dedizione totale per salvare qualcuno, ma dall’altra permane il timore, per cui si sottopone a severissima autodisciplina.
fiducia e speranza in colui che dà la vita piena
Al cap. 15 della I Corinti Paolo ricorda il momento drammatico che ha vissuto a Efeso e si esprime in termini metaforici: ho combattuto con le fiere e l’ho fatto perché avevo la speranza nella resurrezione. Se ho messo la vita a repentaglio, dice, l’ho fatto nella speranza di ricevere da Dio una vita piena. Paolo sente che la sua vita è preziosa, ma è pronto a pagare questo prezzo alto, a vendere la sua vita, non per masochismo, ma per creare vita agli altri e a se stesso. Nella 2 Corinti ritorna sul pericolo mortale che ha corso ad Efeso. Dice in 1,8 « non vogliamo infatti che voi ignoriate come noi nell’Asia siamo stati assaliti da una tribolazione, siamo stati oberati al di là delle nostre forze a tal punto che abbiamo dubitato di potere vivere e noi abbiamo portato dentro di noi la sentenza di morte affinché non riponessimo la fiducia in noi stessi, ma in Dio il quale risuscita i morti. Ci ha riscattati da tale morte e ci riscatterà affinché noi riponessimo la nostra speranza anche per il favore della vostra preghiera ». Paolo ha avvertito enormemente il pericolo e dall’altra parte ha la sorpresa di essere stato risparmiato e questo, dice, mi ha dato una lezione. Paolo ha imparato da questa esperienza drammatica a riporre la fiducia e la speranza in colui che dà la vita ed aggiunge: questo ve lo dico perché impariate.
In 2 Corinti 7,2 dice a questa comunità che lo aveva fatto soffrire moltissimo perché aveva dato ragione ai suoi avversari, ripercorrendo la vicenda, « voi avete un grande posto nel mio cuore ». E al verso 5 « la mia vita all’esterno è avvolta da lotte e all’interno vi sono paure ».
il valore dell’annuncio
La lettera ai Filippesi viene scritta da Paolo mentre si trova in prigione nella prospettiva di una condanna capitale. Poi Paolo verrà liberato, ma sarà nuovamente arrestato a Gerusalemme, portato a Cesarea, quindi a Roma dove subirà la sentenza di morte. Paolo si trova dunque in catene, con probabilità a Efeso. Oltre al pericolo di essere condannato a morte, vive anche il disagio creato dagli avversari che avevano approfittato della sua disgrazia per succedergli nella comunità. La reazione di Paolo è in 1,18 « io godo perché, o per motivi sinceri o anche abbietti, Cristo è annunciato ». Paolo, che è stato accusato di avere identificato troppo se stesso con il Vangelo, in questa occasione separa se stesso dal Vangelo e sottolinea il valore dell’annuncio. La reazione di fronte alla sentenza capitale è di incertezza; Paolo non sa se desiderare la morte perché in tal modo si unirebbe a Cristo oppure l’assoluzione per continuare ad essere utile. « Sono ondeggiante », dice, ma dopo lungo pensare conclude che preferirebbe sopravvivere (Filippesi 1,21-22).
un esempio di autarchia
Un altro testo molto bello sul costume di Paolo è un esempio di autarchia. L’essere economicamente autosufficiente era un ideale dei cinici, chiamati cani perché vivevano nella povertà, nel distacco totale, come Diogene. I Filippesi, che amavano molto Paolo, gli avevano mandato aiuti mentre si trovava in prigione. I detenuti infatti non venivano mantenuti, e si nutrivano solo se parenti o amici provvedevano. Gli avevano anche mandato uno per compagnia, come si usava. Paolo ne è felice, però rimanda questi dicendo « ve ne ringrazio, però ho imparato nella vita ad essere autarchico, ho imparato a vivere nella ricchezza ed ho imparato a vivere nella povertà » (Filippesi 4,11 ss.)
un inno di trionfo sulla morte
In 1 Corinti cap.15,54-55 c’è un inno di trionfo sulla morte: « La morte è stata ingoiata nella vittoria. Dov’è o morte la tua vittoria? Dov’è il tuo pungiglione? », e prosegue al verso 57: « sia reso grazie a Dio il quale dà a noi la vittoria mediante il Signore nostro Gesù ». In 15, 26 la morte è definita « l’ultimo nemico dell’uomo ».
Paolo ha, in quanto erede della tradizione ebraica, una concezione altamente drammatica della morte e ritiene che la morte sia anche l’ultimo nemico di Cristo. La sua teologia è sempre caratterizzata dalla categoria della forza, della potenza. Confrontandosi con la domanda: chi ha il dominio del mondo? dice: la morte che tutti ci falcia. Però Cristo vuole essere il padrone del mondo, il Signore. Allora, dice Paolo, il nemico nostro è anche il nemico di Cristo; se noi crediamo alla signoria di Cristo speriamo che Lui vinca la morte in noi, per una causa sua. Cristo vince la morte in noi per sé perché si tratta della sua signoria. E’ un inno nella fede, nella speranza: che vinca Cristo! Non è una certezza, è una fiducia.
E’ un testo che viene ripreso nel cap. 8 di Romani dove Paolo dice che ci sono forze terribili di morte contro di noi. « Che cosa diremo? Se Dio è per noi, chi potrà essere contro di noi? Non ha risparmiato il figlio suo, anzi lo ha consegnato, a favore di tutti noi, alla morte. Se ha fatto questo, non ci farà dono, insieme con Cristo, di tutte queste cose? Chi ci accuserà? Chi accuserà gli eletti di Dio? Cristo è colui che è morto, anzi è risuscitato e siede alla destra di Dio ed intercede per noi ». L’azione di Cristo non è solo al passato, ma allo stato attuale intercede, è il nostro avvocato. « Chi mai potrà separarci dall’amore di Cristo? La tribolazione, l’angustia, la persecuzione, la fame, la nudità, i pericoli, la spada… ma in tutte queste traversie noi stravinciamo (ipernikomenon) a causa di colui che ci ha amati. Siamo persuasi che né morte né vita né angeli né principati né le cose presenti né le cose future né altezza né profondità né alcuna altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio che lui ha per noi in Cristo Gesù nostro Signore ». La fiducia è in questo amore indistruttibile che Dio ha per noi. Paolo vive la sua esistenza in questa fiducia radicale nell’amore di Dio e di Cristo.

The Holy Eucharist, Body, Blood, Soul and Divinity of Jesus Christ, Savior

The Holy Eucharist, Body, Blood, Soul and Divinity of Jesus Christ, Savior dans immagini sacre IMG_0395

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Publié dans:immagini sacre |on 23 octobre, 2013 |Pas de commentaires »
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